Internet e la Legge – Capitolo 1

Capitolo 1
Internet: storia, dati e previsioni

1945-1946
La prima idea di una rete mondiale di computer risale a Vannevar Bush, un matematico consigliere del Governo degli Stati Uniti: Bush ha immaginato una rete planetaria di macchine per immagazzinare tutto il sapere umano e ha proposto di chiamare questa rete “Web”.
L’idea di Vannevar Bush è straordinaria, se si tiene conto che in questo periodo è realizzato il primo computer, con una memoria di non più di venti parole.
1953
James Watson e Francis Crick scoprono la struttura del DNA e pongono così le basi per lo sviluppo della genetica. Si avvia così quasi contemporaneamente il percorso dell’informazione genetica che assieme all’informatica costituisce uno dei pilastri su cui si basa la moderna società dell’informazione .

1960-1963In questo periodo Doug Engelbart progetta la posta elettronica, l’ipertesto e il browsing. Inventa anche il mouse per poter realizzare il suo progetto.
La parola ipertesto (Hypertext) è inventata da Ted Nelson nell’edizione della rivista Literary Machine nel 1965.
È l’epoca della guerra fredda e della costruzione di immensi apparati nucleari, offensivi e difensivi, da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Rand Corporation, una società che opera nel settore dell’informatica, riceve l’incarico dal Ministero della difesa degli Stati Uniti, di progettare un sistema di comunicazione militare che continui a funzionare in caso di attacco nucleare.
Questa, almeno, è la versione più diffusa. Invece, secondo Bob Taylor, allora dirigente dei progetti di ricerca informatica del Ministero, l’incarico aveva lo scopo, del tutto pacifico, di collegare i laboratori scientifici del paese.
J.C.R. Licklider of MIT, primo dirigente del DARPA dall’ottobre del 1962, descrive le interazioni economiche e sociali che possono scaturire da un networking su scala mondiale nel suo progetto denominato “Galactic Network”. Licklider immagina un sistema interconnesso di computer con il quale ciascuno può accedere a dati e informazioni ovunque si trovi.

1964
Rand propone la creazione di una rete di computer il cui funzionamento non dipenda da un unico o da pochi individuabili centri di raccolta e distribuzione dei dati, al fine di evitare il blocco delle comunicazioni se fossero stati distrutti. Ciascun computer di questa rete avrebbe dovuto, inoltre, essere equivalente agli altri ed essere in grado di ricevere e inviare messaggi a ogni altro computer. I messaggi emessi da un computer avrebbero dovuto essere smembrati e organizzati in pacchetti, in modo da giungere a destinazione anche separatamente e indipendentemente dal percorso seguito: così, se una rotta fosse stata disabilitata da eventi bellici (ovviamente, secondo la versione più accreditata), il messaggio avrebbe potuto percorrerne automaticamente un’altra, passando attraverso i cosiddetti routers.
Questi principi, pur avendo perso importanza gli scopi militari e difensivi, sono tutt’oggi alla base di Internet.

1965
Un’agenzia del governo statunitense che si occupa di ricerca militare nel campo informatico, chiamata Advanced Research Project Agency (ARPA#), realizza un prototipo di rete mettendo in comunicazione un computer del Massachusetts con uno situato in California: per la prima volta due computer, sebbene fisicamente lontani, sono messi in grado di comunicare e condividere dati e applicazioni.

1966-1968
In questi anni gli sforzi si concentrano nella creazione di ARPANET#, la rete che per un lungo periodo ha rappresentato il cuore di Internet.

1969
I computer collegati ad ARPANET# divengono quattro: tre si trovano in California, a Los Angeles, Stanford e Santa Barbara, il quarto nello Utah.

1970-1971
Il software necessario al funzionamento del network è reso accessibile al pubblico: si tratta però ancora di un pubblico assai ristretto, costituito da ricercatori e studiosi nei settori scientifici e accademici.
In questi anni viene inventato il microprocessore, che, permetterà in pochi anni di diffondere il PC come strumento di uso quotidiano per lavoro, informazione, studio e svago, e offrirà così le base per l’affermazione di Internet

1972È messo a punto il primo programma di posta elettronica a opera di Ray Tomlinson: in questo modo gli utenti collegati al network hanno a disposizione un nuovo strumento di comunicazione. Per oltre un decennio la posta elettronica resta la fonte pressoché esclusiva del traffico su Internet.

1973
Viene realizzato il primo collegamento internazionale: Internet si estende dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna e alla Norvegia.

1974
Alcuni ricercatori americani (Vint Cerf e Bob Kahn) avviano lo studio di un metodo per trasmettere e ricevere dati indipendentemente dalla specifica rete cui il computer è collegato; il progetto è chiamato “Internetting Project” (progetto di interconnessione).

1980
Berners-Lee, uno scienziato in attività presso il CERN, in Svizzera, sviluppa un programma denominato Enquire che sfrutta le possibilità dell’ipertesto per collegare tra loro documenti sparsi nei vari computer dell’ente. È l’antenato del World Wide Web.

1981
IBM inventa il PC e ne avvia la diffusione nelle case, negli uffici, nelle scuole.

1981 – 1982
Il numero di PC in uso passa in un anno da 2 milioni nel 1981 a 5,5 milioni nel 1982.
Dieci anni dopo, nel 1992, ci sono 65 milioni di PC.
Si colloca in questo periodo uno dei più clamorosi errori di strategia commerciale della recente storia economica. IBM#, società che ha ideato il PC# e per lungo tempo ha dominato il mercato in modo incontrastato, rinuncia a sviluppare autonomamente un linguaggio per il nuovo prodotto e affida questo compito a una sconosciuta società: Microsoft. Quest’ultima in breve tempo costituisce un impero informatico e distrugge nel contempo quello di IBM#, sviluppando prima il linguaggio MS-DOS#, poi il linguaggio Windows, utilizzabili non solo da IBM#, ma da ogni PC# IBM#-compatibile.
In questo modo Microsoft crea anche il vasto mercato su cui si fonda la diffusione di Internet.
Internet, infatti, prima necessariamente ristretto ad ambienti accademici o a organizzazioni governative e di ricerca per la dimensione e il costo degli apparecchi collegati, è proiettato dalla diffusione del PC# come strumento di uso generalizzato e quotidiano verso una crescita che tuttora continua senza sosta: nel 1981 solo 213 computer sono abilitati a offrire accessi ad altri computer e ad altri network di computer; nel 1984 i computer abilitati superano quota 1000; nel 1989 divengono 80.000 con circa 500 network collegati; nell’ottobre del 1990, sono 313.000 e i network collegati sono oltre 2300.

1983
Il primo gennaio è per Internet una data storica: tutti i computer di ARPANET# passano simultaneamente a utilizzare il protocollo di rete TCP/IP# tuttora in uso, studiato per assicurare la massima accessibilità a tutte le reti: Internet si avvia a diventare il mezzo quotidiano per comunicazione a mezzo di computer.
Viene istituito l’Internet Activities Board (IAB) per guidare lo sviluppo del protocollo TCP/IP e per offrire assistenza tecnica alla comunità di Internet.

1984
Gli indirizzi numerici, utilizzati per identificare in modo univoco i computer collegati in rete, sono sostituiti da nomi più facili da memorizzare: sorge il Domain Name System, cioè il meccanismo per attribuire a ciascun utente un nome – Domain Name, in breve DS – tale da individuarlo in modo univoco su scala mondiale.
La progettazione del sistema, la messa a punto dei criteri di distribuzione e l’organizzazione in concreto dell’apparato per distribuire i Domain Names risalgono ad una persona, uno dei più importanti creatori di Internet, Jon Postel. Questi svolge la sua attività prima da solo, poi come direttore di un apposito istituto, IANA, che opera in base a un contratto con una agenzia del Governo federale degli Stati Uniti, DARPA.

1985
Molte agenzie governative statunitensi, fra cui la NASA, avviano la realizzazione di network che utilizzano il protocollo TCP/IP.

1986
Un’agenzia del Governo federale, National Science Foundation (NSF) mette a punto un proprio network, denominato NSFNET, che collega tutti i computer dell’agenzia. Lentamente, questo network si sostituisce a ARPANET.

1990
Il network di NSF sostituisce integralmente ARPANET. NSF stabilisce il divieto di attività commerciali o a scopo di lucro sul suo network.

1991
NSF riceve l’incarico di dirigere il coordinamento e il finanziamento della parte non militare della infrastruttura di Internet, ed inoltre anche della gestione della distribuzione dei DN. È il primo passo verso la autonomia del Cyberspazio. Resta in vigore il divieto di utilizzazione del network a scopo di lucro.
Per sfuggire a questo divieto, alcuni ISP Provider costituiscono il Commercial Internet Exchange (CIX), che organizza un proprio router e diviene operativo nel 1992.
Nasce il WWW#, realizzato nei laboratori di Ginevra del Comitato Europeo per la Ricerca Nucleare (CERN#) a opera di Tim Berners-Lee. Il WWW# consente lo scambio di informazioni con tecnologia ipertestuale, utilizzando il linguaggio HTML# (Hyper Text Markup Language).
Con il Web, Internet compie un salto di qualità: dalla semplice trasmissione di informazioni testuali si passa alla trasmissione di informazioni multimediali e quindi di messaggi testuali, visivi e sonori, resa possibile anche dalla maggiore potenza dei computer.

1992
Nel dicembre del 1992 NSF affida a Network Solutions, Inc. (NSI) l’appalto di alcuni servizi, tra cui la registrazione dei DN. Da allora e fino al 1999 NSI è l’unico titolare del potere di erogare DN e di organizzarne la distribuzione su scala mondiale.

1993
È realizzato il primo browser concepito per un pubblico di utenti indifferenziato, cioè il primo programma per perlustrare il WWW# interpretando il linguaggio HTML#, finalizzato a una larga diffusione: è denominato Mosaic, divenuto successivamente Netscape.
Nell’aprile il CERN# annuncia di non voler sfruttare la invenzione del WWW# per scopi commerciali (rinunciando anche a royalties per il suo utilizzo) al fine di favorire le possibilità di uno sviluppo della tecnologia europea in questo settore.
Lo sviluppo del World Wide Web e la diffusione generalizzata di Mosaic sono i fattori che determinano in pochi anni l’affermazione su scala mondiale di Internet.
È pubblicato il documento di Clinton e Gore “Technology for America’s Economic Growth: A New Direction to Build Economic Strength”: compare l’idea delle autostrade dell’informazione.
Il governo degli Stati Uniti affida a IANA, che subdelega a un consorzio di imprese appositamente costituito nel 1993, denominato Inter-Nic il compito di registrazione dei numeri IP# e dei DN#.
Internet diviene sempre più globale, ma il suo controllo resta ancora saldamente in mano di agenzie americane.
Le imprese che costituiscono InterNic sono tre: AT&T#, General Atomics e Network Solutions, Inc. (NSI#), tutte prescelte da NSF a seguito di una selezione pubblica.
Ciascuna delle imprese prescelte stipula con NSF un accordo di collaborazione della durata di cinque anni.
In base agli accordi AT&T# avrebbe dovuto gestire la InterNic Directory e i Database Services Project; NSI# avrebbe dovuto gestire tutte le procedure di registrazione, e quindi l’assegnazione dei numeri IP# e dei DN#, mentre General Atomics avrebbe dovuto occuparsi dei servizi di informazione.
L’accordo con General Atomics e con AT&T è risolto dopo due anni, nel 1995.
Dal 1993 e fino al 1998 NSI, unica superstite dell’originario consorzio, ha quindi da sola la responsabilità a livello mondiale dell’assegnazione del DNS.
Il compito assegnato a NSI# ha comportato fino al 1995 la registrazione di circa 200 DN# al mese: nel periodo 1997-1998 i DN# registrati erano più di 125.000 al mese. Complessivamente, NSI# ha assegnato oltre tre milioni di domain names.
NSF toglie il divieto di utilizzazione commerciale del Cyberspazio. È il primo passo verso Internet come mondo virtuale globale.

1994-1995
Si organizza come istituzione stabile il 3W Consortium, (@) ospitato prima a Ginevra, poi al Massachusetts Institute of Technology (MIT#) di Cambridge, infine dal 1995 dislocato anche in Francia, a seguito di un ac-cordo con l’Istituto nazionale francese di ricerca sull’informatica e l’infor-mazione (INRIA#), e in Giappone alla Keio University. Finalità del Consorzio è ottenere il rispetto degli standard del WWW# da parte dei produttori.
Il CERN, insieme alla Commissione dell’Unione Europea, lancia il Webcore Project per lo sviluppo della tecnologia WWW# in Europa.
Viene fondata a Graz la Web Society: alla fondazione partecipano il Politecnico di Graz, l’Università di Minnesota e INRIA#.
È pubblicato dall’Unione Europea il c.d. rapporto Bangemann (dal nome del Commissario dell’Unione Europea): è il piano della Commissione dell’Unione europea sulla autostrada dell’informazione.
Internet è uno dei temi principali del meeting dei G7 tenutosi a Bruxelles presso la Commissione dell’Unione Europea.
Alla fine del 1995 circa 5 milioni di computer sono direttamente o indirettamente collegati a Internet (erano 376.000 nel 1991), costituito da più di 50.000 network, collocati in 90 diversi paesi. La posta elettronica, il servizio più semplice offerto da Internet, raggiunge 160 paesi.

1996
Il costo del computer processing power, cioè della potenza nella gestione di informazioni, misurato come costo per singola istruzione per secondo, è calato del 99.9999% nel corso di 30 anni (quindi, ad una media del 35% all’anno). Nello stesso periodo di tempo, la “global computing power” è aumentata di un miliardo di volte.
Nel contempo le innovazioni tecnologiche e il processo di liberalizzazione e privatizzazione verificatisi nel settore delle telecomunicazioni e della telefonia pongono alla portata di chiunque l’uso del telefono: una telefonata di tre minuti tra Londra e New York costa – a valore costante del dollaro – oggi 20 centesimi di dollaro; costava 300$ negli anni Trenta e ancora 50 dollari nel 1960.
L’insieme di questi due elementi produce la nascita dell’industria Internet: circa un milione di addetti nel mondo sono occupati direttamente al suo sviluppo o nell’indotto.
Jon Postel, rendendosi conto che il sistema dei DN è inadatto allo sviluppo assunto da Internet, propone l’adozione di un nuovo DNS, che preveda anche la cessazione della posizione di monopolio di NSI nel settore, e la formazione di un regime competitivo per l’erogazione dei DN
Nasce il Palm Pilot, il computer tascabile con schermo palmare.

1997-1998
L’utilizzazione commerciale di Internet prende il sopravvento sull’utilizzazione culturale e accademica: Internet si appresta a divenire il mercato globale, il luogo di incontro per produttori e consumatori di ogni parte del mondo.
Microsoft tenta di estendere il proprio controllo sul sistema Internet, inserendo direttamente in Windows un proprio browser: Explorer. Il progetto è di indirizzare tutti gli utenti di PC che utilizzano Windows ad utilizzare il browser di Microsoft per navigare nel Cyberspazio. Microsoft ha successo, Netscape è sostanzialmente eliminata e Explorer si impadronisce del mercato. Ciò però determina una complessa vicenda giudiziaria per violazione della normativa Antitrust, da cui Microsoft esce perdente .
Una commissione istituita da IANA, denominata IAHC (International ad hoc Committee) nel febbraio 1997, emette un rapporto in cui ritiene che i DN siano una risorsa collettiva, e lo sviluppo e l’uso dello spazio di internet sia una questione di politica internazionale.
Nel contempo, si comincia a parlare di una seconda generazione di Internet, con nuove regole per la gestione della rete che tengano conto della nuova realtà. Università, enti di ricerca, organizzazioni no-profit nazionali e internazionali sono sempre più insofferenti di fronte al predominio acquisito dalle componenti commerciali di Internet: si diffonde l’idea di una secessione e della creazione di un nuovo Internet, destinato a scopi esclusivamente culturali.

1998
Scade il contratto in base al quale NSI ha gestito e assegnato i DN su Internet.
Nel gennaio una Agenzia del Dipartimento del Commercio del Governo degli Stati Uniti preposta al settore delle telecomunicazioni pubblica il c.d. Green Paper, contenente la proposta di costituire una società, con sede in USA, che amministri l’erogazione dei DNS.
L’Unione europea si oppone all’idea di un organo sotto il diretto controllo degli Stati Uniti e nel febbraio propone la costituzione di organismo internazionale da istituire con un accordo internazionale che ne definisca i poteri e le responsabilità .
Nel giugno il Governo degli Stati Uniti pubblica un documento, c.d. White Paper (White Paper Management of Internet Names and Addresses), ribadendo la volontà di mantenere il controllo amministrativo, politico e giurisdizionale degli Stati Uniti sull’organismo preposto all’erogazione dei DNS .
Senza tenere conto delle considerazioni provenienti dall’Unione europea, e senza d’altro canto trovare troppa resistenza, nell’ottobre viene costituita una società denominata Internet Corporation for Assigned Number and Names – ICANN, società privata non profit soggetta al diritto dello stato di California.
A ICANN viene affidata la responsabilità non solo del controllo del DNS, ma anche dello sviluppo di nuovi standard per i protocolli di internet: quindi i compiti di ICANN si estendono anche alla struttura e ai codici tecnologici in base ai quali Internet opera.
1999
ICANN comincia ad operare con un Consiglio provvisorio, a capo del quale è Esther Dyson. Quest’ultima dichiara che la società opera per realizzare il mandato affidato dal Governo di porre fine alla situazione di monopolio esistente per la registrazione dei DN. Molti protestano ed osservano che il Consiglio provvisorio eccede dai limiti dei proprio poteri e evita di porre in essere un sistema di gestione trasparente e democratico. Scrive uno dei più quotati commentatori di problemi di Cyberspazio del New York Times, a proposito dei componenti del Consiglio provvisorio: “Sono stati nominati in modo misterioso, si riuniscono clandestinamente e tengono verbali assai approssimativi. Però, cominciano ad assumere decisioni e a delineare programmi che potranno incidere su chiunque usi Internet”

2000
Si svolgono le elezioni per nominare i rappresentanti della comunità di Internet nel Consiglio di ICANN. La procedura, che coinvolge tutti i continenti, è stata definita il primo grande esercizio di cyberdemocrazia. Oltre 300 milioni di utenti possono partecipare al voto, assolvendo all’onere di previa registrazione. In realtà, la partecipazione è deludente, anche per gli articoli tecnici e le difficoltà della procedura prevista: si iscrivono al voto solo 76504 utenti. All’Europa sono assegnati due posti, e si iscrivono al voto 23519 (quasi la metà del numero globale degli utenti registrati).
Tra il 1 e il 10 ottobre, si svolgono le elezioni. L’Europa sceglie i proprio rappresentanti in seno alla direzione di ICANN: Andy Mueller-Maguhn, studente fuori corso all’Università libera di Berlino, esponente di spicco di Chaos Computer Club, con sede a Amburgo e 1600 membri sparsi in tutto il mondo, il cui progetto è “libertà illimitata in rete, circolazione delle informazioni senza alcuna censura” e Jeannette Hofmann, ricercatrice di scienze sociali a Strasburgo.
Continua lo sviluppo di Internet: rilevazioni del giugno indicano che 350 milioni di persone nel mondo utilizzano Internet. In quattro anni, potranno essere un miliardo.
Si tratta di dati e di ritmi impressionanti. Ma attenzione: quegli stessi dati indicano anche che gli utenti sono solo il 6% della popolazione mondiale ha accesso ad Internet (e solo il 35% della popolazione dei paesi più sviluppati) . Il fenomeno Internet è quindi solo agli inizi e gli elementi su cui basare le previsioni sono esigui. Tutto ciò che si scrive sugli effetti che Internet è destinato a provocare sull’assetto della società in un futuro più o meno prossimo, ha un valore di previsione assai limitato.
Novembre – dicembre
ICANN decide di aggiungere 7 nuovi Top Level Domain Names a quelli in funzione fin dall’origine: .biz, .info, .name, .pro, .aero, .coop, e .museum

Natale 2000
Si passa dai 20 milioni di acquirenti del Natale ’99 a 35 milioni. La spesa online cresce dai 15.000 miliardi del Natale 1999 a 25.000 miliardi (in lire). Cioè più 66%: nessun altro settore ha un aumento così forte. Amazon nell’anno 2000 ha raggiunto 6.000 miliardi di e-commerce fra libri, cd ed elettronica. La vendita di biglietti aerei via Internet ha avuto così successo che Priceline.com è ormai una delle dieci maggiori agenzie di viaggio negli Usa.

2001
Gennaio
Sono 377 milioni gli utenti che navigano regolarmente su Internet, utilizzando circa 100 milioni di PC.
Di questi 105 milioni sono in Europa, 161 negli Stati Uniti e in Canada. Solo 3 in Africa dove i costi sono ancora assai elevati e le infrastrutture inadeguate.
Per la prima volta dalla creazione del Cyberspazio, i navigatori negli Stati Uniti sono meno della metà del totale mondiale.
Anche gli utenti di lingua madre non inglese hanno superato gli utenti di linguamadre inglese: i primi sono 211 milioni, i secondi 192 milioni; secondo recenti stime, saranno rispettivamente 560 e 230 milioni nel 2003. In Europa, il più alto numero di utenti è nel Regno Unito (20 milioni), seguito da Germania (18 milioni), Italia (12 milioni) e Francia (9 milioni) .
I DN assegnati sono oltre 34.771.000 (poco più di 400.000 in Italia, oltre 1 milione in Germania). Di questi, oltre 21 milioni sono nel Top Level Domain .com. Tra gli Stati, i Top Level più usati sono quelli di Gran Bretagna e Germania: .uk, seguito da .de
Le pagine presenti sul Web sono circa 500 miliardi: è un universo del quale solo una minima parte – tra il 10 e il 20% – è conoscibile; il resto sfugge ai motori di ricerca ed è quindi introvabile, a meno di non conoscerne l’esatto indirizzo .
In quattro anni sono stati venduti oltre 10 milioni di computer palmari. Accanto all’originario Palm Pilot, sono sul mercato diecine di varietà.
Il commercio elettronico in Rete continua la sua espansione. Attualmente negli Stati Uniti si acquista in Rete per oltre 4.000 miliardi di lire al mese.

Internet e la Legge – Indice

S. Nespor, Ada Lucia de Cesaris
INTERNET E LA LEGGE
La persona, la proprietà intellettuale, il commercio elettronico, gli aspetti penalisitici, 2a ed., 2001, Milano, Hoepli.
Indice del libro

Introduzione alla seconda edizione

PARTE GENERALE
1. Internet: storia, dati e previsioni
2. Internet e la globalizzazione
3. Le organizzazioni di Internet
4. Le regole del network
5. Le regole di internet
6. Le basi della società dell’informazione: informazioni e telecomunicazioni

LA PRIVACY
7. Identificabilità e anonimato
8. La privacy
9. La posta elettronica
10. Usenet

LA PROPRIETA’ INTELLETTUALE
11. La proprietà intellettuale
12. Il diritto d’autore
13. I Domain Name
14. I Links
15. Il mercato del divertimento
16. La musica digitale
17. I libri digitali

IL DOCUMENTO ELETTRONICO, IL COMMERCIO E LE ATTIVITA’ PRODUTTIVE
18. Il documento elettronico
19. La legge, la pubblica amministrazione e la giustizia
20. Il commercio elettronico
21. I pagamenti elettronici
22. I Provider e gli operatori di Internet
23. I consumatori
24. La pubblicità
25. Il commercio elettronico e il regime fiscale
26. Il Cyberlavoro

INTERNET E ASPETTI PENALISTICI
27. Diritto penale ed Internet
28. I minori ed Internet

INDIRIZZARIO INTERNET

Prefazione a Giuseppe Vaciago (a cura di) “Internet e responsabilità giuridiche”, La Tribuna, 2002

Allorchè si affronta il tema delle responsabilità giuridiche che si determinano utilizzando Internet (la responsabilità di Internet, secondo il titolo di questo volume, ma anche e soprattutto la responsabilità in Internet), è inevitabile la domanda: siamo di fronte a un fenomeno davvero nuovo, a nuove figure giuridiche di responsabilità, non disciplinati nell’ordinamento giuridico esistente (perché non previsti), che richiedono quindi appositi interventi normativi su scala internazionale e nazionale, oppure hanno ragione coloro che scetticamente ritengono che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole, e che sia sufficiente adattare con saggezza la normativa esistente alla nuova realtà?
Si schierano con questi ultimi Carl Saphiro e Hal Varian che, in un volume di successo purtroppo non tradotto in italiano (Information rules, Harvard Business School Press, 1998) possono farsi previsioni su quello che succede con la diffusione di Internet, e specificatamente possono farsi previsioni sugli sviluppi giuridici e normativi della responsabilità in Internet semplicemente studiando quello che è successo molti decenni orsono con la diffusione del telefono o, pochi anni fa, con la diffusione del telefax; si schiera invece con i sostenitori della versione “apocalittica” Kevin Kelly che sostiene (New Rules for the New Economy, Viking Penguin, 1998) che il mutamento introdotto da Internet è così vasto e così pervasivo da produrre effetti indipendenti dal sistema economico, sociale e giuridico esistente e, soprattutto da produrre da solo le proprie regole, nuove rispetto a quelle passate.
Questa radicale contrapposizione coinvolge anche valutazioni di più ampia portata, che influenzano gli stessi presupposti con i quali viene concepita e disegnata la responsabilità in Internet.
Vi sono alcuni che sono convinti che l’intero assetto della comunità internazionale – basato sul principio dell’autonomia e della sovranità dello stato- è stato cancellato dal nuovo ordine giuridico e economico determinato dal cambiamento tecnologico (è la tesi brillantemente sostenuta da Susan Strange in The Retreat of the State: The Diffusion of Power in the World Economy, in Cambridge Uni Press, Cambridge USA, 1998).
Per converso, secondo altri è invece impossibile ipotizzare che sia stato il cambiamento tecnologico a produrre modifiche nell’assetto internazionale (principale esponente di questa linea di pensiero è STEPHEN KRASNER, Sovereignty: Organised Hypocrisy, Princeton Uni Press, Princeton New Jersey, 1999).
Se l’introduzione di questo volume fosse stata scritta qualche anno fa, le tesi apocalittiche sarebbero state nettamente prevalenti: Internet ha creato un mondo retto da regole nuove e da nuove forme di responsabilità.
Oggi gli scettici hanno acquisito il sopravvento. Pochi anni sono passati – era il 1995 – da quando John Perry Barlow ha lanciato il suo proclama, la Dichiarazione di indipendenza del Cyberspazio: “Governi del mondo industriale, eravate giganti di carne e di acciaio, io vengo dal Cyberspazio. Su incarico del futuro, vi chiedo di lasciarci stare. Voi non avete alcun potere e alcuna sovranità sul luogo dove noi ci ritroviamo”.
A fronte di questa immagine quasi mitologica di un mondo virtuale anarchico, o comunque in grado di autodeterminarsi in base alla comune volontà degli utenti, in pochi anni abbiamo a che fare con una realtà ben diversa: nel Cyberspazio si applicano e si intersecano regole giuridiche di varia provenienza e di varia natura, ma tutte poste dagli ordinamenti statali e dalla comunità internazionale. Gli utenti del mondo virtuale appartengono al mondo reale, e gli scambi di informazioni e di messaggi non si limitano a muoversi nel cyberspazio: interagiscono e provocano effetti reali, nella realtà.
È quindi ovvio che ai comportamenti tenuti dagli utenti di Internet ciascuno stato applichi o pretenda di applicare le regole previste dal proprio ordinamento giuridico soprattutto allorché tali comportamenti incidano sulle posizioni giuridiche, sui diritti e sulle aspettative non solo di coloro che partecipano allo scambio, ma di soggetti a esso estranei. E infatti, la casistica di interventi giudiziari per questioni attinenti alla responsabilità, come questo volume illustra con i suoi numerosi esempi tratti dalla giurisprudenza più recente, è ormai assai nutrita e tende ad aumentare in modo consistente.
Certo, è in pratica difficile individuare quali specifiche regole di quale Stato si applichino a determinate situazioni, è difficile comprendere come farne applicazione in caso di violazione, ma certamente questo volume illustra che i comportamenti tenuti su Internet sono soggetti alle regole che li disciplinano e li puniscono nel mondo reale.
Ed allora, per chi si occupi professionalmente di questioni di responsabilità, o per chi semplicemente, come utente di Internet, voglia avere un orientamento su come comportarsi e quali rischi corre navigando in Rete, gli autori di questo volume hanno predisposto una guida che offre, oltreché una scorrevole lettura, elementi per orrizontarsi nei principali settori in cui problemi di responsabilità possono profilarsi: dal diritto d’autore e dalla proprietà intellettuale, al sistema dei domain names, alle varie ipotesi di reato informatico e telematico, alla privacy e alla responsabilità della Pubblica amministrazione.
Concludendo la lettura del libro, si saranno certamente apprese molte stimolanti cose sul tema della responsabilità in Internet; ma si sarà anche compreso che – con l’unica eccezione della proprietà intellettuale – l’idea, o il sogno, di creare con Internet un mondo a parte, possono dirsi tramontate anche per effetto della necessità di affrontare e risolvere le questioni che proprio i profli giuridici della responsabilità hanno posto.

La rinascita dei dinosauri

1.
Da qualche anno, la giustizia amministrativa compare sempre più frequentemente sulle prime pagine dei giornali: il traffico urbano e autostradale e la delimitazione delle zone pedonali, le tariffe telefoniche, il prezzo del pane o del latte, le liquidazioni degli impiegati statali, gli orari di chiusura delle discoteche al sabato sera, lo svolgimento delle competizioni elettorali e anche la partecipazione ai campionati di calcio sono state tutte materie oggetto di decisioni dei giudici amministrativi che hanno avuto vasta risonanza nell’opinione pubblica.
Si tratta di un fenomeno sorprendente per almeno due motivi.
In primo luogo, pochissimi sanno davvero che cosa siano, come funzionano e, soprattutto, perché esistono, i Tribunali Amministrativi Regionali (i TAR) e il Consiglio di Stato, cioè gli organi dai quali il sistema della giustizia amministrativa è composto (e infatti, gli strafalcioni in proposito sui giornali sono innumerevoli). Pochissimi lo sanno, anche perché, nel nostro paese, nessuno si è mai preoccupato di spiegare che cosa sia la giustizia amministrativa a coloro che quel sistema dovrebbe tutelare e per i quali è stato inventato, e cioé i cittadini, i lavoratori del settore pubblico, gli utenti dei servizi pubblici (in Francia, per esempio, il Governo ha predisposto un opuscoletto, che viene periodicamente aggiornato, che spiega “come far valere i vostri diritti in caso di conflitto con l’Amministrazione”).
Ma si tratta di un fenomeno sorprendente anche per un altro motivo, e cioé perché si verifica dopo un lungo periodo, nel quale la giustizia amministrativa è sopravvissuta come una creatura proveniente da un’altra era, misteriosamente sfuggita all’estinzione, oggetto di curiosità e di dibattiti accademici, ma senza alcun contatto con la realtà circostante.
Ma, come dice Ian Malcolm, il matematico esperto di teoria del caos in Jurassic Park (il libro, non il film, dove Spielberg lo trasforma in un’idiota che farfuglia luoghi comuni), nessuno può prevedere come reagisce un dinosauro estratto dal suo tempo e calato in un ambiente del tutto diverso ed è utopistico pensare di poterne controllare le reazioni, una volta che si sono messe in moto.
Ed è proprio ciò che è accaduto alla giustizia amministrativa.

2.
Progettata agli inizi del secolo scorso, dapprima in Francia e poi in alcuni paesi europei, per la risoluzione dei conflitti tra individuo e Stato, la giustizia amministrativa è sempre stata caratterizzata da alcune specificità:
– di essere una giustizia nata come sostitutiva di rapporti di forza, di potere o di sovranità tra cittadini e sovrano o cittadini e Stato, sottratti in quanto tali alla verifica di un giudice;
– di essere, proprio per questo, una giustizia anomala, perchè consente a un organo giudiziario, e quindi formalmente indipendente, di invalidare atti dell’Amministrazione, introducendo una breccia nel mitico principio della divisione dei poteri su cui è costruita la teoria dello Stato liberale;
– di essere una giustizia ineguale: da un lato il cittadino, portatore di interessi particolari, a cui viene riconosciuta una tutela giudiziaria, cioè da parte di un organo terzo rispetto ai litiganti, dall’altro lo Stato, portatore dell’interesse generale e quindi in posizione superiore e incomparabile con quella del cittadino;
– di essere una giustizia speciale rispetto a quella offerta dai giudici ordinari, perché le regole applicate tenevano conto della diseguaglianza dei soggetti in conflitto, e della priorità dell’interesse generale sull’interesse del singolo;
– di essere una giustizia amministrata da giudici speciali, abbastanza imparziali rispetto alle parti in conflitto da poter fare i giudici, ma non così imparziali da essere davvero indipendenti: si tratta di giudici scelti in modo da garantire il rispetto dell’ineguaglianza dei contendenti, sia pure secondo criteri di giustizia.
Sulla base di questi presupposti, la giustizia amministrativa, vista di volta in volta come la maschera del potere oppure come il baluardo del cittadino contro i soprusi dell’Amministrazione, ha costituito una delle più ambigue espressioni dell’ideologia liberal-borghese: formalmente finalizzata a riconoscere e tutelare il diritto dell’individuo singolo anche nei confronti dello Stato, raccordandolo però con l’interesse superiore di cui quest’ultimo è istituzionalmente portatore, sostanzialmente diretta a proteggere, con un giudice particolare, gli interessi reali, economici, politici, finanziari che lo Stato perseguiva.
E non casualmente, infatti, questo compito è stato generalmente affidato ad organi già esistenti – i Consigli di Stato francese, belga, italiano – con la funzione di consigliare il sovrano nelle materie dell’amministrazione pubblica: organi, quindi, strettamente collegati con l’Amministrazione e con il potere politico e non certo sospettabili di troppa imparzialità.

3.
E’ facile comprendere l’inattualità di questa istituzione, allorché calata nella realtà contemporanea, ove sia lo Stato che il singolo cittadino hanno perso la loro individualità.
Infatti, a seguito dell’espansione dell’intervento pubblico nell’economia e nella società, si è frantumato l’interesse generale dello Stato – una volta, almeno teoricamente, unitario – in una moltitudine di interessi pubblici di difficile coordinazione e spesso confliggenti: per esempio, c’è l’interesse pubblico allo sviluppo dell’impresa e quello alla tutela del lavoro, c’è l’interesse pubblico dell’ agricoltura e l’interesse pubblico dell’industria, c’è l’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente e quello allo sviluppo dell’urbanizzazione, e così via.
Nel contempo, si sono ricomposti i diritti del singolo – una volta, almeno teoricamente, altrettanto unitari – in una moltitudine di centri di aggregazione sociale, politica, economica, tutti rappresentativi di bisogni e esigenze diffuse, collettive e, quindi, in qualche modo, pubbliche.

4.
Di fronte a questa realtà, ovviamente non solo italiana, la risposta non è stata, nei paesi in cui c’era la giustizia amministrativa, quella di eliminarla e di seguire l’esempio dei paesi anglosassoni (Gran Bretagna, Stati Uniti) in cui c’è una sola giurisdizione, un solo giudice, che si occupa di tutto: dei conflitti tra cittadini e dei conflitti tra cittadini e Pubblica amministrazione.
Anzi, nell’unico paese in cui questo tentativo è stato fatto verso la fine dell’Ottocento, il Giappone, il giudice amministrativo è stato ben presto ricostituito.
La risposta è stata di segno diverso: i paesi senza giustizia amministrativa (e cioè, Gran Bretagna e Stati Uniti) hanno introdotto lentamente, ma in modo sempre più accentuato, nel proprio ordinamento organismi speciali, preposti a giudicare i conflitti insorgenti nelle aree di commistione tra pubblico e privato; nel contempo, i paesi forniti di una giustizia amministrativa hanno mantenuto il loro sistema, omogeneizzando il modo di giudicare dei giudici amministrativi a quello dei giudici ordinari, e tendendo così ad attenuare le diversità originarie.

5.
In Italia, questo processo ha avuto alcune peculiarità.
All’atto dell’entrata in vigore della Costituzione, e per i vent’anni che sono seguiti, in violazione della disposizione costituzionale che prevedeva l’istituzione di tribunali amministrativi regionali, unico organo della giustizia amministrativa è rimasto il Consiglio di Stato.
C’era, così, una sola legge, quella dello Stato, un solo organo incaricato di controllare e dirigere la pubblica amministrazione a livello periferico, il Prefetto, e un solo giudice che, nei conflitti tra interesse pubblico e interesse privato, era preposto alla sua interpretazione, appunto il Consiglio di Stato.
All’inizio degli anni settanta, si verifica nel nostro paese una rivoluzione.
Sono istituite le regioni a statuto ordinario, ai Prefetti si sostituiscono i comitati di controllo regionali, e sono istituiti i TAR.
Così all’improvviso, e quasi contemporaneamente, passano da uno a venti gli enti che possono fare leggi, il controllo sull’applicazione delle leggi passa da un organo singolo centrale a organi collegiali regionali (ovviamente ben più sensibili a logiche clientelari, elettorali e di potere partitico) e si moltiplicano i giudici preposti alla loro interpretazione.
Nel contempo, a seguito delle vicende sociali, politiche, sindacali culturali che in pochi anni mutano il volto dell’Italia, subisce una vistosa accelerazione – anche a livello territoriale – quel processo di decomposizione dell’interesse generale in frammentari interessi pubblici e di riaggregazione degli interessi dei singoli in nuovi interessi collettivi e diffusi di cui si è detto.
Cala, così, in un paese divenuto completamente diverso, il dinosauro della giustizia amministrativa. Cala una giustizia fatta per un mondo diverso e ormai scomparso, e costretta a rispettare e far valere le regole di un processo inventato per quel mondo, in un mondo nuovo. Che succede?

6.
Succede che Ian Malcolm ha ragione.
Il dinosauro non si estingue, ma si adatta e, dopo un certo tempo, smentendo tutte le previsioni, addirittura rifiorisce.
Ma, e questo è l’aspetto più singolare, non certo per merito delle nuove creature, cioè dei TAR.
Se facciamo un paragone con un’altra struttura giudiziaria istituita più o meno nello stesso periodo, l’inizio degli anni Settanta, e cioè il Pretore del lavoro, la differenza salta immediatamente agli occhi.
Quest’ultimo, istituito nel 1973, si afferma immediatamente come il polo di riferimento della conflittualità nel mondo del lavoro e nelle fabbriche: e questo accade perché offre risposte rapide, concrete e puntuali a bisogni emergenti che dilagavano nella società; offre, soprattutto una reale alternativa istituzionale allo scontro di piazza e alla polarizzazione del conflitto sociale. In pochi anni, così, e nonostante marginali eccessi e intemperanze iniziali, il Pretore del lavoro cambia il panorama delle relazioni industriali e sindacali, inserendovi per la prima volta il rispetto di regole di civiltà, di confronto e di buon senso. Questo successo è stato consentito soprattutto dall’entusiasmo e dalla dedizione con il quale la gran parte dei Pretori si è lanciata in quest’impresa, affrontando la sfida e la responsabilità di questo nuovo ruolo.
Aspettative analoghe, se c’erano allorché sono stati introdotti i TAR, sono state immediatamente deluse.
Le materie che i TAR si trovano a dover affrontare – per oltre l’80% dei casi, concernono la gestione del territorio e l’urbanistica, il commercio e il pubblico impiego – erano altrettanto esplosive di quelle concernenti il mondo del lavoro: erano materie dove il bisogno di giustizia era potenzialmente immenso, a fronte del dilagare della corruzione, delle spartizioni partitico-clientelari, dell’inefficienza gestionale.
Ebbene, i TAR si dimostrano subito sordi alle istanze di rinnovamento e alle richiesta di giustizia che arrivano dalla società e si dimostrano incapaci di comprendere, oltre che riluttanti ad affrontare, le immense possibilità di incidere su stratificate strutture di potere e di clientela.
I giudici del TAR dimostrano subito, per dirla chiaramente, di concepire il loro lavoro come una comoda e lucrosa carriera, e non come un importante impegno civile.
Così, le udienze per discutere le cause sono, se tutto va bene, non più di un paio al mese (il Pretore del lavoro degli anni Settanta tiene udienza tutti i giorni, mattina e pomeriggio, e spesso anche il sabato); in quei due giorni di udienza mensili vengono ammassate diecine se non centinaia di cause; e, ciò che è ancor più grave, solo in quei giorni d’udienza la maggior parte dei giudici fa la sua occasionale comparsa nei locali del Tribunale: per il resto vive altrove, spesso in tutt’altre faccende affacendata, rinunciando così ad ogni contatto con la realtà nella quale dovrebbe amministrare la giustizia; le sentenze vengono pubblicate a mesi, talvolta anni di distanza, quando ormai la loro utilità concreta è pressochè nulla.

7.
C’è poi, un elemento determinante, che non deve essere sottovalutato, il processo, cioè le regole in base alle quali la giustizia viene erogata.
Il successo del Pretore del lavoro è stato agevolato dalla introduzione, nel 1973, di un processo rapido, semplice, essenziale, e privo delle diecine di possibilità di sotterfugi dilatori che contraddistinguono l’erogazione della giustizia nel nostro paese e che fanno da sempre la pacchia di avvocati e giudici.
Al contrario, l’istituzione dei TAR non è stata accompagnata dalla predisposizione di un adeguato processo amministrativo: i TAR si sono così trovati a far fronte al loro compito con strumenti processuali arcaici, coniati all’inizio del secolo e rimasti sostanzialmente immutati.
Il raffronto tra il processo di cui dispone il lavoratore privato e quello di cui dispone il lavoratore pubblico per far valere i propri diritti è particolarmente significativo.
A differenza di quanto accade di fronte al Pretore del lavoro, le regole del processo che si svolge davanti al giudice amministrativo infatti vietano di sentire e di interrogare le parti in causa; vietano l’acquisizione di testimonianze sui fatti; impongono di decidere solo sulla base degli atti e dei documenti precostituiti dall’Amministrazione: vietano, in altri termini, al giudice di conoscere in modo indipendente i fatti delle cause di cui deve decidere.
Succede così che, invece di creare un processo adatto ai bisogni esistenti, vengono creati giudici adatti al processo: indifferenti alla realtà, sensibili solo agli atti e ai documenti dei quali devono verificare “la legittimità”, non ai fatti che quegli atti non fanno apparire, o vogliono tenere nascosti.
Per fare un solo esempio: praticamente tutti gli appalti (per costruire stadi, carceri, aeroporti) e i concorsi pubblici (per nominare indifferentemente primari, professori universitari, vigili e vespilloni) sono stati più o meno truccati, nel nostro paese, negli ultimi quindici anni (e probabilmente anche prima). Quelli che sono risultati truccati negli ultimi due anni, saltando fuori dall’inesauribile cilindro di Tangentopoli, sono solo una microscopica, anche se significativa, entità. Ebbene: il giudice amministrativo non si è accorto di nulla e non ha voluto accorgersi di nulla. Non era suo compito.
Succede così che le peggiori nefandezze commesse dall’Amministrazione restano impunite, se coperte da atti elaborati in modo corretto e inattaccabile; succede, viceversa, che atti malamente formulati impongano al giudice di annullare decisioni dell’Amministrazioni più che giustificate sulla base dei fatti così come si sono svolti.
Se a ciò si aggiunge che nessuno sforzo viene compiuto per innovare la tradizionale giurisprudenza del Consiglio di stato, elaborata nei primi decenni del secolo è facile comprendere che il disegno costituzionale di portare anche la giustizia amministrativa a contatto con i cittadini si rivela un sostanziale fallimento.
Naturalmente, il processo amministrativo che non funziona (non diversamente dal mercato che non funziona), non è senza vantaggi e senza premi per taluni: è un premio per gli Amministratori pubblici che possono impunemente gestire finanza pubblica, concorsi pubblici, dipendenti, licenze edilizie e di commercio, appalti; è un premio anche per le organizzazioni sindacali, che possono gestire o cogestire clientelarmente la massa degli impiegati pubblici.
Da questo punto di vista il processo, che a molti sembra una pura forma irrilevante, costituisce uno dei moltiplicatori del dissesto e del malcostume pubblico, e il sonnolento e indifferente giudice amministrativo dei TAR costituisce uno dei meccanismi di propulsione del diffondersi della corruzione e dell’inefficienza.

8.
Poi, a un certo punto, nella seconda metà degli anni Ottanta, qualcosa comincia a cambiare.
Non per merito dei TAR, si è detto. E’ infatti il Consiglio di Stato che inizia una lenta opera di revisione di dogmi e di regole processuali che avevano retto l’erogazione della giustizia amministrativa nel passato, e che la rendevano un luogo ormai separato anni luce non solo dai vigenti principi costituzionali, ma anche dalla società civile.
Così, viene ammessa – in alcuni casi – la possibilità di sentire i testimoni; vengono adottate decisioni che tendono a omogeneizzare il trattamento del lavoratore pubblico a quello del lavoratore privato, vengono abbandonati costosi formalismi; soprattutto, viene esteso il potere di intervento d’urgenza: e su ciò torneremo presto.
Non bisogna naturalmente pensare che il Consiglio di Stato sia stato mosso solo da un sincero desiderio di rinnovamento.
Molti dei suoi membri erano nella posizione istituzionale di trarre diretti o indiretti benefici, più o meno legali (e, anche se legali, non sempre corretti da un punto di vista etico-deontologico), dall’inefficienza, dalla corruzione presenti in ogni livello dell’Amministrazione pubblica e dalla fitta trama di connivenze e di scambi tra amministrazione e politica.
Se a ciò si aggiunge che parte dei Consiglieri di Stato sono direttamente nominati dal potere politico, e quindi raggiungono questa prestigiosa carica per merito di “padrini” politici non certo poco esigenti, non si può dubitare che anche il Consiglio di Stato potrebbe offrire qualche cosa di interessante per i giudici di Mani Pulite.
Il Consiglio di Stato si è mosso spinto soprattutto da un istinto di autolegittimazione e di autoconservazione: in breve, da un istinto di sopravvivenza. Un giudice le cui decisioni non servono, e delle quali nessuno si occupa, è un giudice destinato a scomparire. E pochi, fino alla prima metà degli anni Ottanta, avrebbero visto questa scomparsa con rimpianto.

9.
L’attività riformatrice del Consiglio di Stato, per quanto apprezzabile, non sarebbe servita a nulla, se non fosse stata accompagnata da un’intuizione decisiva: quella di ampliare gli immensi spazi di potere e discrezionalità offerti da uno strumento sino ad allora trascurato e sottosviluppato: i provvedimenti d’urgenza, la cosiddetta “sospensiva”.
Concepita come un provvedimento eccezionale del giudice amministrativo per paralizzare temporaneamente gli effetti di un atto della Pubblica amministrazione che, nell’attesa del lungo decorso del giudizio, avrebbe provocato danni irreparabili al destinatario, deve essere utilizzato con estrema parsimonia per rispettare il principio della divisione dei poteri e evitare intrusioni del giudice nell’esercizio del potere amministrativo, in pochi anni la sospensiva è divenuta il momento centrale e totalizzante dell’intero processo amministrativo. Lì, nella maggior parte dei casi, tutto si decide e tutto si risolve: ciò che accade dopo la pronuncia d’urgenza, e cioè la vera definizione del giudizio, che giunge ad anni di distanza, è, nella maggior parte dei casi, irrilevante.
Così, oggi, qualsiasi atto amministrativo del Governo, dei singoli Ministri, del Sindaco, può essere in poche settimane bloccato dall’intervento dei TAR, con efficacia che può estendersi su tutto il territorio nazionale; e in pochi mesi questa decisione può essere vagliata, e quindi confermata o annullata, da un secondo grado di giudizio, in sede di appello di fronte al Consiglio di Stato.

10.
Di fronte alla incivile lentezza e alla desolante inutilità dei giudizi civili (salvo quelli di cui si è detto davanti al giudice del lavoro) e penali, la giustizia amministrativa ha quindi dato una risposta efficacissima e dirompente a un bisogno primario della collettività: quello della rapidità del giudizio.
Ma, attenzione, il prezzo pagato per ottenere il beneficio della rapidità non è poco gravoso e inquietante.
Prima di tutto, perché deve sempre essere visto con grande sospetto ogni uso anomalo e deviante di uno strumento processuale: e tale è l’uso attuale delle sospensive e quindi dei provvedimenti di urgenza, utilizzati come mezzo sostitutivo della decisione definitiva e istituzionale,
Poi, perché oggi i TAR e il Consiglio di Stato decidono a raffica, in una sola mattina, diecine, a volte centinaia di sospensive, tutte rigorosamente (salvo pochissime eccezioni) prive di motivazione.
E la motivazione è l’unico importantissimo mezzo che consente la trasparenza e la verifica, da parte non solo dei destinatari, ma anche dell’opinione pubblica, della correttezza della decisione del giudice, cioè di un organo non democraticamente eletto e non amovibile.
Dove non c’è motivazione, gli spazi lasciati all’arbitrio sono enormi,
Un giudice che non motiva le sue decisioni, alla pari di un giudice che non decide sollecitamente, non è un giudice che soddisfa il bisogno di giustizia, anche se può tamponarlo.
E, se si tiene conto che è soltanto l’estendersi e l’intensificarsi dell’utilizzazione della sospensiva non motivata che ha consentito al giudice amministrativo di arrivare alla ribalta, offrendogli la possibilità, con poco sforzo e con largo arbitrio, di recuperare potere e credibilità, e di esercitare, quindi, un ruolo decisivo nel nostro diroccato panorama istituzionale, è chiaro che sono più vhe giustificati i dubbi e le perplessità sui modi con i quali oggi la giustizia amministrativa viene esercitata.

Contributo a una piccola guida alla privatizzazione…

Contributo a una piccola guida alla privatizzazione del pubblico impiego in DL 2000, p. 9.

Il punto di partenza è dato da disposizioni normative risalenti al 1923 in base alle quali il rapporto di lavoro del pubblico dipendente è stato affidato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Prima di questa data, il pubblico dipendente che intendeva proporre una azione nei confronti  dell’Amministrazione datrice di lavoro, doveva adire l’Autorità giudiziaria ordinaria, qualora la sua pretesa avesse avuto natura di diritto soggettivo, e il giudice amministrativo qualora la sua pretesa avesse avuto natura di interesse legittimo.

In larghissima approssimazione e in linea di principio, rientravano nella prima ipotesi le controversie riguardanti pretese di carattere economico, nella seconda pretese riguardanti la carriera e l’inquadramento. In pratica, erano affidate al giudice amministrativo tutte le pretese del dipendente che presupponevano la impugnazione di un atto amministrativo emesso dal datore di lavoro: quindi, anche le pretese di carattere economico che si fondassero sulla contestazione della legittimità di un atto del datore di lavoro.

La situazione di oggettiva confusione provocata dall’esistenza di due giurisdizioni concorrenti, con una linea di demarcazione assai labile fu risolta, appunto, dall’affidamento al giudice amministrativo (allora, una apposita Sezione del Consiglio di Stato) della giurisdizione esclusiva su tutte le controversie dei pubblici dipendenti, sia che riguardassero diritti soggettivi, sia che riguardassero interessi legittimi.

In concreto, questa soluzione ha offerto sul piano sostanziale consistenti vantaggi alla Pubblica Amministrazione, mettendole a disposizione un processo che pareva fatto su misura per il datore di lavoro pubblico: divieto di sentire le parti, divieto di assumere testimonianze, giudizio basato sugli atti emessi dalla Pubblica Amministrazione datrice di lavoro, termini di decadenza generalizzati e rigorosissimi anche i diritti soggettivi del lavoratore, di fatto tutti convertiti  in interessi legittimi allorché si fosse in presenza di atti amministrativi.

C’è solo da dire che il rigore della forma processuale è stato col tempo temperato dalla giurisprudenza dei Giudici amministrativi, che hanno offerto una tutela specializzata e attenta agli specifici problemi (anche corporativi) delle varie categorie (insegnanti, ospedalieri, statali, ecc.) e che – proprio per controbilanciare l’impossibilità di indagini sostanziali sui fatti e sul rapporto – hanno esasperato forme e garanzie che l’Amministrazione doveva rispettare, pena l’illegittimità degli atti.

Il bizzarro risultato di questo processo è stato questo: indipendentemente dalla realtà e da ciò che era effettivamente successo, le controversie erano decise dall’abilità e dalla diligenza con cui l’Amministrazione attuava le varie fasi del procedimento e motivava le proprie decisioni.

Nonostante questi motivi (o forse in parte anche proprio per questi motivi), la soluzione della giurisdizione esclusiva non solo è sopravvissuta al crollo del regime che la aveva ideata, ma è stata solidificata anche dalla Costituzione repubblicana, che ha attribuito al Consiglio di Stato la giurisdizione in materia di interessi legittimi e, in particolari materie, anche dei diritti soggettivi (art.103 Cost.), con ciò garantendo una copertura costituzionale alla giurisdizione esclusiva nel pubblico impiego; è poi rimasta non contestata, ed anzi ulteriormente incrementata in tutti i successivi tentativi più o meno attuati di riforma dell’organizzazione della Pubblica Amministrazione.

Anche allorché, negli anni Settanta si è sempre più seriamente posto un problema di omogeneizzazione del trattamento dei dipendenti pubblici e privati, a fronte dell’incremento della tutela dei diritti di questi ultimi determinato dall’acquisita forza contrattuale delle organizzazioni sindacali, e dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, la giurisdizione esclusiva ha resistito, sia pure con ritocchi portati dalla giurisprudenza pretoria soprattutto del Consiglio di Stato e da interventi della Corte costituzionale. Ha resistito quasi incredibilmente anche al confronto con il nuovo processo del lavoro per i dipendenti privati, il quale, con le sue caratteristiche di celerità, oralità, informalità, aveva messo a nudo il carattere farsesco delle regole processuali cui erano assoggettati i dipendenti pubblici.

Ed infatti, nonostante alcune voci di dissenso, allorché viene realizzata, dopo anni di tentativi e di proposte, una legge quadro per il pubblico impiego che, tra l’altro, lascia spazio alla contrattazione collettiva (L.29\3\1983 n.93), la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo viene confermata.

E solo all’inizio degli anni Novanta che si fa strada l’idea di ricondurre il rapporto di pubblico impiego alle regole del rapporto di lavoro privato anche sotto il profilo processuale.

Alla base di questo imprevedibile revirement di politica e ideologia processuale stanno vari elementi: il vento della privatizzazione e della riduzione delle posizioni di supremazia della Pubblica Amministrazione, la conseguente necessità di introdurre regole di competizione e di mercato anche all’interno dei settori prima integralmente controllati da quest’ultima, la necessità di ridurre il potere quasi-monopolistico acquisito dalle organizzazioni sindacali nel pubblico impiego (spesso rappresentate da dirigenti dell’Amministrazione, che così riuscivano a giocare contemporaneamente u due tableux), l’opportunità di liberare il datore di lavoro pubblico da lacci, lacciuoli e formalismi di un processo progettato per favorirlo, ma nel quale era rimasto gradualmente ingabbiato.

Quali erano a questo punto i percorsi di privatizzazione del rapporto del dipendente pubblico a disposizione del legislatore? Erano teoricamente tre.

La prima era quella di un futuro costruito come ritorno al passato: cancellazione della giurisdizione esclusiva e attribuzione di diritti soggettivi e interessi legittimi rispettivamente a Giudice ordinario e Giudice amministrativo.

Questo tipo di soluzione appariva effettivamente compatibile con il D.L.vo 29\1993 nella sua originaria stesura: l’art.68 nella sua iniziale formulazione nulla precisava in ordine ai poteri del giudice ordinario in merito ai rapporti di lavoro pubblico privatizzati. Pertanto, se si fosse ritenuto che tutti o alcuni degli atti con i quali l’Amministrazione gestisce il rapporto di lavoro avessero mantenuto la natura di atti amministrativi, al giudice ordinario sarebbero stati preclusi provvedimenti costitutivi, sostitutivi o di condanna, in virtù del disposto dell’art.4 dell’Allegato E della L.2248/1865.

In altri termini, si era creato un mostro costituito da un rapporto di lavoro privatizzato, ma pur sempre gestito in tutto o in parte da atti pubblicistici, tanto che il Consiglio di Stato aveva potuto criticare la riforma perché arretrava la tutela del pubblico dipendente rispetto all’Amministrazione (sul punto, si veda CECCHELLA, La riforma giurisdizionale nella riforma del pubblico impiego, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1995, p.1339 ss.; Cons.Stato, Adunanza Generale 31\8\1992 n.146 in Riv.it.dir.lav. 1993,III, p.43).

In concreto, sarebbe rimasto completamente affidato all’interprete – giudice ordinario o giudice amministrativo – l’attribuzione della qualità di atto amministrativo o di atto privato a qualsiasi atto posto in essere dall’Amministrazione all’interno di un rapporto di lavoro (con immaginabili conseguenze sul piano della certezza del diritto o meglio della confusione che ne sarebbe derivata, con incessanti scontri giudiziari sulla giurisdizione e innumerevoli problemi di conflitto.

Una seconda soluzione era quella di affidare al Giudice ordinario la tutela sia dei diritti soggettivi che degli interessi legittimi.

Era però una soluzione costituzionalmente rischiosa.

Infatti, l’orientamento prevalente ritiene che, mentre l’art.103 della Cost. attribuisce al Giudice amministrativo la giurisdizione in materia di interessi legittimi e permette, come si è visto, di attribuirgli la giurisdizione su diritti soggettivi in particolari materie, non vi è una analoga disposizione che preveda la possibilità di devolvere, se non in casi eccezionali, la cognizione di interessi legittimi insieme ai diritti soggettivi al Giudice ordinario (si vedano in proposito le approfondite considerazioni di M.MAZZAMUTO, Verso la giurisdizione esclusiva del giudice ordinario?, in Giurispr.Ital. 1999, 1223 ss.; per la tesi opposta, della attribuibilità al giudice ordinario della giurisdizione in materia di interessi legittimi cfr. MAZZAROLLI, Giustizia amministrativa, in MAZZAROLLI, PERICU, ROMANO, ROVERSI MONACO E SCOCA, Diritto amministrativo, Bologna 1993, II, p.1429; F.P. PANARIELLO).

Si è quindi imboccata con decisione l’unica strada ragionevolmente possibile, e cioè quella che nel rapporto di lavoro privatizzato dei dipendenti pubblici non vi erano più atti amministrativi: gli atti di gestione del rapporto da parte del datore di lavoro pubblico divengono, alla pari degli atti del datore di lavoro privato, atti privati che si inseriscono all’interno del rapporto contrattuale; la Pubblica amministrazione opera con le stese modalità e gli stessi vincoli del datore di lavoro privato: gli atti amministrativi possono essere solo atti presupposti al rapporto di lavoro, e quindi precedere anche la fase della sua costituzione.

In altri termini, la soluzione imboccata è stata quella di respingere gli atti e i provvedimenti amministrativi al di fuori dell’area del rapporto di lavoro: vi è stato, per converso, un prosciugamento dell’area autoritativa, che non copre più il predetto rapporto (sul punto cfr. RUSCIANO, Contributo alla lettura della riforma dell’impiego pubblico, in N.Rusciano e L.Zoppoli, L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Torino 1993).

Sugli atti che l’Amministrazione adotta per disciplinare o per intervenire nel rapporto di lavoro vi è quindi piena giurisdizione del giudice ordinario, non perché questi oggi può conoscere anche posizioni giuridiche aventi consistenza di interesse legittimo, ma perché vi sono solo diritti soggettivi. Di conseguenza, il giudice ordinario è espressamente dotato – come chiarisce il 2° comma dell’art.68 nella sua attuale formulazione (introdotta dal D.L.vo 80/1998), la cui mancanza consentiva, come si è detto, di ipotizzare anche soluzioni diverse –  degli stessi poteri che già ha per intervenire sugli atti emessi dal datore di lavoro privato: è quindi ammessa una tutela risarcitoria, di accertamento, di condanna e costitutiva, con le stesse modalità con cui è ammessa nei confronti dei datori di lavoro privati, mentre, alla pari di questi ultimi, la Pubblica amministrazione è assoggettata al rispetto delle disposizioni normative e contrattuali, oltreché dei principi di correttezza e buona fede (cfr. CORPACI, Nuova disciplina del pubblico impiego e tutela giurisdizionale, in Lav. Dir., 1994, p.9).

Altrettanto significativa deve essere considerata la riformulazione dell’art. 4, 1° comma del D.L.vo 29/1993: mentre la originaria formulazione stabiliva in modo non del tutto univoco che le pubbliche amministrazioni “operano con i poteri del privato datore di lavoro”, la disposizione modificata e attualmente vigente stabilisce che “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte… con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” (art.4, 2°comma).

Quindi non vi sono più atti amministrativi nel rapporto di lavoro, e non vi sono neppure più interessi legittimi. Non vi possono essere interessi legittimi, là ove sono previsti solo diritti: potranno esservi, al più, diritti contrapposti o collegati, che comportano l’eventuale esistenza di situazioni di litisconsorzio necessario (cfr. ZOLI, Amministrazione del rapporto e tutela delle posizioni soggettive dei dipendenti pubblici in Dir.Lav. Rel.Ind. 1993, p.633; CLARICH e IARIA, La riforma del pubblico impiego, Rimini 1993, p.314 ss.).

In conclusione, la riforma attuata con la privatizzazione appare sufficientemente chiara, e le disposizioni sono per lo più non equivoche. Questo non vuol dire che non sorgeranno problemi, e che la srtada della privatizzazione e soprattutto del trasferimento della giurisdizione al giudice ordinario non sarà priva di ostacoli. I principali tra questi verranno proprio da coloro che dovranno interpretare le norme: decideranno del successo o del fallimento della riforma da un lato la tradizionale ritrosia del giudice ordinario ad occuparsi di questioni concernenti la Pubblica Amministrazione da un lato, d’altro lato la naturale resistenza del giudice amministrativo ad abbandonare zone di giurisdizione (e quindi zone di influenza e di contatto con il potere politico e con la dirigenza amministrativa) affidategli da tre quarti di secolo – anche se l’abbandono è stato ampiamente compensato con l’affidamento di nuove zone di giurisdizione esclusiva, ritagliate per materie (secondo le indicazioni formulate dalla Commissione Bicamerale: cfr. gli artt.33-35 del D.L.vo 80\1998).

La lunga marcia della privatizzazione della sanità pubblica

La lunga marcia della privatizzazione della sanità pubblica, nota a sentenza in DL 2000, p. 183.

1

Pretura Genova est. Ravera, 27/10/99 (ord.), … c. Ospedale S.Martino.

Medici ospedalieri – Esercizio dell’opzione entro il termine fissato dall’art.15-quater del D.L.vo 229/1999 – Necessità.

L’art. 15-quater del D.L.vo 19\6\1999 n.229 ha collegato l’obbligo di opzione del dirigente del ruolo sanitario (medici ospedalieri) in servizio alla data del 31/12/1998 per il rapporto esclusivo al mero trascorrere di 90 giorni dall’entrata in vigore del D.L.vo stesso, escludendo quindi che la predetta opzione debba essere esercitata solo dopo l’attivazione da parte dell’ente datore di lavoro di mezzi e strutture per l’esercizio dell’attività professionale c.d. intramuraria. (*)

2

Pretura Genova, est. Barenghi, 25/10/99 (ord.), Guglielminetti e altro (…) c. Ospedale S.Martino.

Medici ospedalieri – Esercizio dell’opzione entro il termine fissato dall’art.15-quater del D.L.vo 229/1999 – Sospensione del termine da parte dell’AGO in sede cautelare – Impossibilità.

Non è consentito all’Autorità giudiziaria adita in sede cautelare di sospendere l’efficacia del termine di 90 giorni entro il quale i dirigenti del ruolo sanitario (medici ospedalieri) in servizio alla data del 31/12/1998 debbono optare per il rapporto esclusivo con l’ente datore di lavoro, essendo il termine previsto da  una disposizione avente forma di legge (art.15-quater del D.L.vo 19\6\1999 n.229).(*)

(*) La lunga marcia della privatizzazione della sanità pubblica.

L’art.15-quater del D.L.vo 229/1999 (c.d. “Bindi ter”) ha stabilito che “entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto tutti i dirigenti in servizio alla data del 31 dicembre 1998 sono tenuti a comunicare al direttore generale l’opzione in ordine al rapporto esclusivo. In assenza di comunicazione si presume che il dipendente abbia optato per il rapporto esclusivo”.

La disposizione impone quindi al medico ospedaliero una opzione incondizionata e irreversibile entro un termine prefissato.

In particolare, mentre l’art.1, 10° comma della L.662/1996 subordinava l’obbligo di opzione del medico all’esistenza di strutture all’interno dell’ente ospedaliero già attivate che consentissero di svolgere la attività libero professionale c.d. intramuraria, offrendo quindi al medico una concreta facoltà di scelta tra due possibilità (con la conseguenza che in molti casi era stato ritenuto illegittimo costringere un medico all’opzione qualora non fossero state in concreto predisposte le strutture delle quali il medico avrebbe potuto avvalersi pe svolgere la sua attività inframuraria: cfr. per esempio Pretura Milano, est.Martello, 3\6\1999 (ord.) Guastella c. Ospedale Maggiore di Milano), l’art.15-quater impone l’esercizio l’obbligo indipendentemente dall’esistenza o dall’attivazione di strutture ove il medico possa svolgere la sua attività libero professionale.

Poiché l’esercizio dell’attività professionale resta pur sempre un diritto del medico, anche se abbia optato per il rapporto esclusivo (si veda in proposito l’art.15-quinquies, 2° comma, lettera a del D.L.vo 229/1999), l’opzione prevista dall’art.15-quater è stata definita una opzione al buio, in quanto il medico è costretto entro il termine fissato dalla legge a scegliere senza sapere se e quando la scelta per il rapporto esclusivo gli permetterà in concreto l’esercizio del diritto.

Sotto questo profilo, potrebbero effettivamente porsi profili di legittimità costituzionale. Ma le ordinanze commentate ne escludono radicalmente la fondatezza, facendo entrambe espresso riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale n.330 del 20/7/1999 (in GURI, serie speciale, n.30 del 28\7\1999) che si è approfonditamente soffermata sull’evoluzione e le caratteristiche del rapporto di lavoro di medici ospedalieri. In particolare, la sentenza ha posto in evidenza il carattere fortemente innovativo della L. 30/12/1991 n.412, che ha stabilito (art.4, 7° comma) il principio dell’unicità del rapporto di lavoro dei medici ospedalieri con il servizio sanitario nazionale, in quanto finalizzato alla massima efficienza della rete sanitaria pubblica. Pienamente attuativi di questo principio erano da considerare, secondo la Corte, sia la aziendalizzazione del servizio sanitario nazionale sia la privatizzazione del rapporto di lavoro del personale dipendente (L.23/10/1992 n.421), sia nei Decreti legislativi che introducevano il ruolo unico dirigenziale del personale medico (D.L.vo 502/1992 modificato dal D.L.vo 517/1993 e D.L.vo 29/1993).

A questo punto però, fermo restando il diritto all’esercizio della libertà libero professionale da parte del medico, si poneva un evidente problema di impedire che quest’ultimo  svolgesse attività professionale per enti concorrenti o comunque in modo incompatibile o conflittuale con la propria posizione di dirigente di un servizio pubblico aziendalizzato, e quindi calato nel mercato e nella concorrenza. La  produzione normativa seguente ha quindi da un lato disincentivato l’attività professionale all’esterno dell’azienda (c.d. extramuraria), d’altro lato incentivato la possibilità di svolgere tale attività all’interno di essa (c.d. attività intramuraria): scelta questa che, secondo un’altra sentenza della Corte Costituzionale, era da ritenere pienamente legittima, in quanto permetteva alle aziende ospedaliere, dotate di autonomie finanziaria, di incrementare le proprie entrate (Corte Costit., sentenza 335/1993).

Il D.L.vo 229/1999 costituisce l’ultima tappa del processo di privatizzazione della sanità pubblica e prevede che solo il dirigente dell’azienda sanitaria che abbia optato per il rapporto esclusivo possa ricevere incarichi di direzione di struttura semplice o complessa (art.15 – quinquies, 5° comma); nel contempo, il diritto di svolgere anche attività libero professionale potrà esplicarsi in linea di principio esclusivamente in conformità alla programmazione aziendale. “D’altra parte” conclude la Corte “l’operatività delle molteplici disposizioni dirette, sulla base di diversi modelli organizzativi, a garantire – anche attraverso la previsione di specifici obblighi e di correlative responsabilità gravanti sui direttori generali delle aziende sanitarie – ai medici del servizio sanitario nazionale la concreta possibilità di esercitare la libera professione intramuraria non può essere vanificata da difficoltà attuative generalmente riconducibili ad inadempimenti delle aziende sanitarie locali”.

In particolare, l’attività professionale intramuraria deve svolgersi con le modalità e le tipologie individuate dal successivo art.15-quinquies.  Sono modalità e tipologie che presuppongono una complessa attività organizzativa e di pianificazione da parte dell’Azienda ospedaliera: si vedano le ipotesi previste dal 2° comma lettera a), che prevede l’esercizio dell’attività libero professionale “nell’ambito delle strutture aziendali individuate dal direttore generale d’intesa con il collegio di direzione strategica”, dal 2° coma lettera b), che prevede l’esercizio di attività libero professionale in équipes da organizzarsi all’interno delle strutture aziendali e dal 2° comma lettera d) che prevede la possibilità di “partecipare ai proventi di attività professionali richiesta a pagamento da terzi all’azienda”, purché consentano la riduzione dei tempi di attesa degli utenti e secondo programmi predisposti dall’azienda; o sono modalità che prevedono comunque la stipulazione di convenzioni tra strutture sanitarie esterne con l’Azienda: è l’ipotesi del 2° comma, lettera c), che introduce la possibilità di “partecipare i proventi di attività richiesta a pagamento da singoli utenti, e svolta individualmente o in équipe, in strutture di altra azienda del servizio sanitario nazionale o di  altra struttura sanitaria non accreditata, previa convenzione dell’azienda con le predette aziende e strutture”.

In conclusione, il medico dirigente dell’azienda ospedaliera che abbia optato per il rapporto esclusivo (con dichiarazione espressa o mediante silenzio, normativamente equiparato all’opzione) ottiene la possibilità di accedere agli incarichi dirigenziali più prestigiosi dell’azienda (preclusi al medico non optante), a fronte non di una rinuncia al diritto di esercitare l’attività libero professionale, ma dell’accettazione di esercitare tale attività all’interno di regole e di accordi che ne garantiscano la compatibilità con le attività e le strategie aziendali.

Tocca a me, no tocca a te. Parte Seconda

Tocca a me, no tocca a te. Parte seconda. La ripartizione della giurisdizione in base al D.L. 80 – 1998 – nota a sentenza in DL 2000, p. 243.

TAR Friuli Venezia Giulia 10\5\1999 n.601 pres. Bagarotto est Di Sciascio, S.G. (avv.Bruseschi Salmengo) c. Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Trieste (avv.Verbari) e altro (avv.Rosati).

Sanitario ASL – Dirigenti – Conferimento incarico di dirigente sanitario di secondo livello (ex Primario) – Procedimento analogo a quello del concorso pubblico – Giurisdizione amministrativa.

Sanitario ASL – Dirigente sanitario di secondo livello – Conferimento dell’incarico – Parere della Commissione sanitaria – Applicazione criteri fissati dalla circolare del Ministro della Sanità 1221\1996 – Necessità – Difetto di motivazione in sede di valutazione tecnica o in sede di individuazione del sanitario – Illegittimità del conferimento.

Il conferimento dell’incarico di dirigente sanitario di secondo livello, pur avvenendo tra medici del Servizio sanitario, si verifica dall’esterno, sicché la posizione dell’aspirante è quella di interesse legittimo; ne segue che tale conferimento, pur non derivando da un pubblico concorso, va ad esso assimilato, e ricade nella giurisdizione del giudice amministrativo.

Il conferimento dell’incarico di dirigente sanitario di secondo livello è illegittimo se esso non avvenga sulla base del parere della Commissione sanitaria che deve contenere una approfondita valutazione tecnica con riferimento a tutti i parametri indicati dalla circolare del Ministero della Sanità 10\5\1996 n.1221

II

Tribunale Milano, est. Chiavassa (ord.)

Sanitario ASL – Dirigenti – Conferimento incarico di dirigente sanitario di secondo livello (ex Primario) – Insussistenza di procedura concorsuale – Giurisdizione dell’AGO.

Sanitario ASL – Dirigente sanitario di secondo livello – Conferimento dell’incarico – Necessità di motivazione con riferimento alla struttura di destinazione e agli obiettivi gestionali – Valutabilità in sede di procedimento cautelare – Esclusione.

La controversia concernente il conferimento dell’incarico di dirigente sanitario di secondo livello, non derivando da un pubblico concorso, ricade nella giurisdizione del giudice ordinario.

La legittimità del conferimento dell’incarico di dirigente sanitario di secondo livello, dovendo essere motivato con riferimento alla struttura di destinazione e agli obiettivi gestionali, comporta una valutazione complessa che non può essere compiuta in sede di procedimento cautelare.

Tocca a me, no tocca a me, Parte Seconda: la ripartizione della giurisdizione in base al D.L.vo 80/1998 con riferimento al conferimento dell’incarico di Dirigente sanitario di 2° livello.

Come facilmente prevedibile, l’opposizione del giudice amministrativo alla privatizzazione del rapporto di impiego pubblico – già resa manifesta sin dal parere espresso dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato in data 31\8\1992 n. 146 (in Riv.it.dir.lav 1993,II, p.43 segg.) ove tale ostilità era stata giustificata non, come può sembrare ovvio, dalla eliminazione della posizione di privilegio goduta dal datore di lavoro pubblico, ma dalla riduzione della tutela per il pubblico dipendente – sta trovando le sue prime manifestazioni concrete.

Altrettanto prevedibilmente, uno dei punti salienti di questa opposizione è costituito dalle varie procedure selettive, ma non concorsuali, introdotte dal legislatore nel corso del procedimento di privatizzazione.

Una di queste è il conferimento dell’incarico di Dirigente di secondo livello – quindi, per usare un termine tradizionale, di Primario – all’interno di una Azienda sanitario che in base all’art.15 del D.L.vo 502\1992 e successive modificazioni avviene non più attraverso un concorso pubblico con comparazione dei vari candidati e formazione di una graduatoria, ma con atto di conferimento del Direttore generale della Azienda, previo parere tecnico di una apposita Commissione: il parere indica gli idonei a ricoprire il posto tra gli aspiranti, senza formulare una graduatoria, e il Direttore tra gli idonei sceglie, discrezionalmente e con apposita motivazione, il destinatario del posto.

Il fatto che tale procedura non integri un concorso pubblico è pacifico (e del resto riconosciuto dalla stessa sentenza del TAR qui commentata).

Infatti, il concorso pubblico deve essere fondato su una selezione imparziale n base al merito: deve cioè prevedere una selezione dei candidati più preparati sulla base di oggettive valutazioni di merito (così Virga, Il pubblico impiego, II ed., p.226 e nota 2); il pubblico concorso consiste in un “sistema basato su valutazioni tecniche e in grado di offrire adeguate garanzie <per> la scelta del personale selezionato, il più possibile indipendenti rispetto agli organi di governo dell’Amministrazione” (così Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, X, p.174); si ha pubblico concorso quando “la scelta tra più aspiranti.. avviene mediante esercizio di un potere non discrezionale, attraverso una valutazione delle diverse posizioni degli aspiranti puramente tecnica che si estrinseca nell’acclaramento di situazioni di fatto imputabili ai diversi aspiranti in base alle quali avviene la comparazione e quindi la scelta” (così Vincenzo Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo 1994, p.354); tale comparazione deve avvenire necessariamente mediante la redazione di una graduatoria (vedi Jannotta, Concorso a un pubblico impiego in Digesto discipline pubblicistiche, vol.III, p.340).

Esclude che il conferimento dell’incarico di Dirigente sanitario di secondo livello sia un concorso pubblico anche la giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto nel periodo ricompreso tra il 1992 e il luglio 1998 (quindi, con rapporto di pubblico impiego già privatizzato, ma non ancora trasferito alla giurisdizione dell’AGO): si veda in proposito TAR Abruzzo – Pescara 13\1\1999 n. 18 che espressamente evidenzia che la procedura di scelta ora in esame non impone alcuna comparazione tra i candidati idonei e quindi fuoriesce dallo schema concorsuale (cfr. doc. allegato); si veda anche TAR Molise, in base al quale “ai sensi dell’art. 15 comma 3 d.lg. 30 dicembre 1992 n. 502, nel testo modificato dall’art. 16 d.lg. 7 dicembre 1993 n. 517, per il conferimento degli incarichi quinquennali di dirigente medico di secondo livello, il direttore generale dell’azienda Usl, all’esito di procedura avviata con avviso pubblico, attribuisce l’incarico sulla base del parere di un’apposita commissione di esperti, che ha il compito di predisporre l’elenco degli idonei previo colloquio e valutazione del “curriculum” professionale degli interessati; pertanto, la detta commissione non formula uno scrutinio comparativo degli aspiranti all’incarico, ma si limita a predisporre un elenco all’interno del quale i candidati si distinguono esclusivamente per le note caratteristiche che da esso emergono, e non per graduazione delle rispettive collocazioni” (T.A.R. Molise 1\9\1998, n. 270, in Rass. T.A.R. 1998,I,4167).

Non essendo il conferimento dell’incarico un pubblico concorso, esso non “resta devoluto alla giurisdizione del giudice amministrativo” per effetto della disposizione contenuta nell’art.68, 4° comma, che costituisce, come correttamente evidenziato dal Tribunale di Milano nell’ordinanza commentata, una disposizione eccezionale, da interpretarsi quindi in modo restrittivo. Come se non bastasse, il legislatore ha espressamente modificato l’originario testo dell’art.68 D.L.vo 29\1993 al fine di precisare che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario anche le controversie riguardanti l’assunzione al lavoro e il conferimento degli incarichi dirigenziali.

Parrebbe sufficientemente chiaro e inequivoco.

Invece no. Disposizioni di legge e consolidati principi di ermeneutica non contano per il giudice amministrativo nella sentenza commentata che, con soave nonchalance, osserva che il conferimento dell’incarico avendo “carattere di procedura selettiva”, va assimilato al concorso pubblico.

Questa picconata all’intero assetto della riforma non è isolata. Infatti, secondo il TAR Friuli Venezia Giulia, l’altro aspetto che permette di escludere la giurisdizione dell’AGO è costituito dal fatto che prima dell’assunzione la posizione dell’aspirante è di interesse legittimo. Ma questa è null’altro che una viziatissima petizione di principio: sarebbe di interesse legittimo, se si fosse in presenza di un pubblico concorso. Non essendosi in presenza di un pubblico concorso, non vi sono interessi legittimi, e vale il principio generale del 1° comma dell’art.68 del D.L.vo 29\1993 (come da ultimo modificato) secondo cui sono devolute al giudice ordinario “le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali”.

È stato comunque riconosciuto da coloro che hanno esaminato i meccanismi della riforma che “non sono identificabili ragioni istituzionali a fondamento della decisione del legislatore <di mantenere la giurisdizione amministrativa in merito ai concorsi pubblici>: infatti la compatibilità di una procedura concorsuale con una qualificazione privatistica è stata dimostrata dalla giurisprudenza sui concorsi per le assunzioni da parte di enti pubblici economici “ (così Aldo Travi, La giurisdizione nelle controversie di pubblico impiego, conferenza ad un incontro di studio presso il Tribunale di Milano).

Del resto, anche i giudizi sui concorsi per l’accesso alle Ferrovie dello Stato e quelli per l’accesso all’Ente Poste sono stati affidati al giudice ordinario (rispettivamente dalla L.210\1985 e dal DL 487\1993 convertito in L. 71\1994), ie non pare che alcun dipendente si sia lamentato per un decremento di tutela, essendosi invece la sua posizione giuridica trasformata da interesse legittimo in diritto soggettivo.

Ovviamente, il vero conflitto non è di teoria del diritto, e non è la giurisdizione. È una questione ben più importante. L’orientamento (contra legem) secondo cui i conferimenti degli incarichi dirigenziali restano nella giurisdizione del giudice amministrativo ha un preciso effetto: quello di sottrarre di fatto al giudice – amministrativo o ordinario – la valutazione sulla legittimità di tali conferimenti da parte dei Direttori delle Aziende sanitarie.

Infatti, esclusa l’ammissibilità di un’azione cautelare da parte di candidati pretermessi (che, secondo una giurisprudenza consolidata del giudice amministrativo, non potrebbero trarre alcun beneficio dal “blocco” del conferimento”), nella maggior parte dei Tribunali amministrativi la sentenza di primo grado potrà essere emessa solo allorché la maggior parte del periodo dell’incarico (5 anni) sarà decorsa; la eventuale sentenza d’appello giungerà quasi certamente a incarico esaurito.

Tocca a me, no tocca a te. Parte Prima

Tocca a me, no tocca a te. Parte prima. La ripartizione della giurisdizione in base al D.L. 80-1998 – nota a sentenza in DL 2000, P. 243.

Pretura Milano est. Atanasio, 24/7/99, Greco (avv.Mangano e Fantaguzzi) c. Ministero Pubblica Istruzione (avv.Stato), Portioli (avv.Oltolin e Giacomini).

Impiego pubblico – Giurisdizione dell’AGO – Provvedimento adottato prima del 30/6/1998, ma efficace dopo – Giurisdizione AGO.

Impiego pubblico – Giurisdizione dell’AGO – Atti di carattere organizzatorio della P.A. – Irrilevanza.

Docenti – Formazione cattedre da parte del Provveditore agli Studi – Illegittimità.

Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in una controversia di un dipendente pubblico con l’Amministrazione datrice di lavoro se il provvedimento contestato, ancorché adottato prima del 30/6/1998, abbia prodotto effetti dopo tale data. (*)

Ai sensi dell’art.29 del D.L.vo 80/1998 è irrilevante che la controversia di un dipendente pubblico con l’Amministrazione datrice di lavoro abbia ad oggetto un atto di carattere organizzatorio.

È illegittima la formazione delle cattedre di educazione fisica presso l’ITCG Cattaneo operata dal Provveditore agli Studi di Milano, avendo leso il diritto della ricorrente senza perseguire il dichiarato obiettivo di assicurare l’unitarietà didattica.

(*) Tocca a te, no tocca a me, Parte Prima: la ripartizione della giurisdizione in base al D.L.vo 80/1998 con riferimento alla soglia temporale.

Il criterio di riparto della giurisdizione adottato dall’art.45, 17° comma del D.L.vo 31/3/1998 n.80 fa riferimento alle questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998.

Non conta, quindi, il momento in cui viene esercitata l’azione o viene adito il giudice, ma conta il momento in cui è sorta la pretesa sostanziale su cui l’azione si fonda (in questo senso vedi Cass.Sez.Un. 1\2\1999 n.14).

Si tratta di una evidente deroga al principio processuale tempus regit actum, in base al quale si applica la legge in vigore nel momento in cui si svolge il processo, anche se si prendano in considerazione questioni concernenti il periodo precedente all’entrata in vigore della legge.

Il principio tempus regit actum è stato invece rispettato dal medesimo D.L.vo 80/1998 per l’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle questioni in materia di pubblici servizi, in materia urbanistica e edilizia (cfr. art.33 e 34). Tali questioni quindi, ancorché verificatesi anteriormente all’entrata in vigore del D.L.vo, devono essere proposte, dopo l’entrata in vigore del D.L.vo, al giudice amministrativo.

Il diverso criterio adottato per la ripartizione temporale della giurisdizione in materia di pubblici dipendenti si conforma però al criterio in precedenza previsto per il caso di privatizzazione di enti pubblici (e quindi di mutamento normativo della natura del datore di lavoro da pubblica in privata): l’art.1 del D.L.6/5/1994 n.269 convertito in L. 4/7/1994 n.432 nel dettare le regole del regime transitorio ha conservato alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore alla trasformazione (sulle ragioni di tale criterio cfr. B.SASSANI, La giurisdizione sulle controversie in materia di diritto all’assunzione da parte dell’Ente Poste Italiane in Giurispr.It. 1995,I, 2, 253 ss.; ).

Un criterio analogo è stato previsto anche in occasione della privatizzazione dell’Amministrazione delle Poste Italiane: l’art.10 del D.L. 487\1993 ha infatti devoluto al giudice ordinario le controversie concernenti il rapporto di lavoro di diritto privato con l’Ente Poste per il periodo successivo alla privatizzazione del rapporto (cfr. sul punto Cass.Sez.Unite 18\12\1998 n.12711).

In realtà, se il criterio non è nuovo, ben diverse sono le realtà di riferimento: la normativa del 1994 e la normativa di privatizzazione dell’Ente Poste introducono la soglia temporale con riferimento al mutare della natura del rapporto di lavoro come conseguenza del mutare della natura del datore di lavoro da pubblica a privata (quindi: finché tale natura è pubblica, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, dopo spetta al giudice ordinario); il D.L.vo 80\1998 invece introduce la soglia temporale con riferimento a rapporti di lavoro che erano già privatizzati prima del 30 giugno 1998, ancorché le relative controversie fossero rimaste affidate al giudice amministrativo: pertanto, una applicazione coerente del criterio introdotto dal D.L. 269\1994 e dal D.L. 487\1993 avrebbe imposto che la soglia temporale fosse posta alla data di entrata in vigore del D.L.vo 29\1993, data in cui la privatizzazione da un punto d vista sostanziale (anche se non processuale) ha avuto luogo.

Questo criterio, che tende ad evitare che il giudice ordinario intervenga su controversie relative al periodo in cui il rapporto era sottoposto alla giurisdizione esclusiva (sulle quali era magari maturata la decadenza per la proposizione di eventuali ricorsi), provoca però consistenti problemi di diritto transitorio: sia allorché gli effetti di un atto adottato prima del 30 giugno si producano dopo tale data, oppure, pur producendosi immediatamente, mantengano i loro effetti anche dopo tale data, sia allorché il procedimento amministrativo per giungere all’emanazione del provvedimento sia stato avviato prima del 30 giugno, mentre si sia concluso dopo.

Per ciò che riguarda il primo gruppo di problemi, secondo Pret.Catanzaro 27/8/1998 (ord.) “per individuare a chi appartenga la giurisdizione, non si deve fare riferimento al momento in cui è sorto il diritto sul quale si controverte, ma al periodo lavorativo che risulta interessato dalla controversia: se la questione riguarda vertenze attinenti al rapporto lavorativo nel periodo successivo al 30 giugno 1998 la giurisdizione appartiene al giudice ordinario” (in Giustizia civile p.2444, 1998).

Per ciò che riguarda la seconda questione, la sentenza commentata si pone in linea con una sentenza della Corte di Cassazione emessa in una fattispecie riguardante le Ferrovie dello Stato, stabilendo che la giurisdizione in merito ad una controversia sulla deliberazione con la quale è stata rifiutata l’assunzione di un dipendente assunta dopo la privatizzazione dell’ente, ma sulla base di criteri fissati dal bando di concorso emanato prima della privatizzazione stessa spetti all’AGO (Cass.Sez.Un. 3/2/1996 n.915 in Gazz.giur. 1996,IV,37).

La derogabilita’ delle disposizioni normative da parte del contratto collettivo: l’art. 2, 2° comma del T.U. 165/2001

La derogabilita’ delle disposizioni normative da parte del contratto collettivo: l’art. 2, 2° comma del T.U. 165/2001 in RIP 2005,1, p.18

L’art. 2, 2° comma del T.U. 165/2001 stabilisce che “eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche o a categorie di essi possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi”.

Un Autore, commentando questa disposizione allorché era inserita nel D.lgs. n. 29/1993, ha osservato che “si è in presenza di un fenomeno che, senza alcuna enfasi, potrebbe essere definito rivoluzionario” (Valerio Speziale, L’abrogazione della legge da parte del contratto collettivo in Il lavoro nelle Pubbliche amministrazioni, Commentario diretto da F. Carinci, vol. I, p.124).

“La singolarità della disposizione” prosegue il predetto Autore “sta nel fatto che essa.. sembra introdurre un rapporto di successione nel tempo tra legge e contratto collettivo del tutto simile a quello esistente tra atti normativi dotati di pari forza individuando un meccanismo abrogativo simile a quello della legge successiva che elimina quella precedente”.

La portata rivoluzionaria della disposizione emerge anche dalla mancanza di precedenti nella normativa giuslavoristica riguardante i dipendenti pubblici. Si può solo ricordare che con legge (n. 56 del 1987) era stato attribuito all’autonomia collettiva il ben più limitato potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962 esclusivamente per le “ipotesi individuate nei contratti collettivi”, purché – secondo la giurisprudenza – “le nuove fattispecie fossero chiaramente ed esattamente determinate” (Cass. 07.08.2004, n.15331).

Se passiamo ad analizzare il testo della disposizione dell’art. 2, 2° comma, notiamo subito che l’espressione deroga appare impropriamente utilizzata: allorché sopravviene un contratto collettivo, le disposizioni di legge, statuto e regolamento vengono non solo derogate ma del tutto cancellate dalle disposizioni del contratto collettivo. Siamo quindi in presenza non tanto di una deroga, quanto di un meccanismo abrogativo delle disposizioni precedenti.

Ma, a ben vedere, siamo in presenza di un fenomeno ancor più radicale dell’abrogazione, in quanto l’art. 2, 2° comma non sembra neppure richiedere che la disposizione contrattuale si proponga in modo espresso di modificare la precedente disposizione legislativa e detti una disciplina di contenuto diverso: sembra infatti sufficiente la semplice approvazione di un contratto collettivo riguardante una determinata materia perché la legge preesistente che ha disciplinato la stessa materia sia automaticamente abrogata. In questo senso depone anche la precisazione contenuta nell’art. 2, 2° comma, secondo cui la deroga, o l’effetto abrogativo, non operano solo in caso di espressa esclusione della derogabilità da parte del testo normativo. Ragionevolmente, debbono però aggiungersi anche i casi in cui l’adozione delle disposizioni contrattuali faccia espressamente salve le precedenti disposizioni normative o ne costituisca dichiaratamente attuazione.

Questo meccanismo abrogativo automatico ha indotto alcuni autori a sollevare dubbi sulla legittimità costituzionale della disposizione in esame (U. Rescigno, Legge e contratto collettivo nel pubblico impiego. L’art. 2 bis del D.lgs. 29 del 1993 come modificato dal D.lgs. n.546 del 1993 in LD 1994, p.505).
La ratio di questa disposizione è stata comunque individuata da un lato nell’intenzione di impedire interventi del legislatore che, con interventi ad hoc volti a privilegiare specifici gruppi di lavoratori pubblici forti, introduca deroghe rispetto alla contrattazione collettiva, d’altro lato nella parallela intenzione di impedire tentativi impliciti o clandestini di rilegificazione (si veda per esempio L. Zoppoli, Il sistema delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro dopo la riforma: una prima ricognizione dei problemi in M. Rusciano – L. Zoppoli, L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Torino, p.13).

Fatte queste precisazioni che evidenziano il carattere del tutto eccezionale della disposizione nel nostro ordinamento, con tutte le conseguenze che da ciò derivano in materia di vincoli alla interpretazione della stessa, possiamo esaminarne ora i limiti di operatività.

Prima di tutto, e per ciò che riguarda lo strumento che produce l’effetto abrogativo, esso non può che essere un contratto o un accordo collettivo in senso proprio, stipulato quindi secondo le regole e le modalità poste dagli artt. 40 e seguenti del T.U. 165/2001. L’effetto abrogativo non può scaturire da contratti integrativi (anche perché essi non possono derogare alle disposizioni contenute nei contratti nazionali e quindi introdurre effetti abrogativi che in detti contratti non siano previsti), né, a maggior ragione, può scaturire da accordi intercorsi tra le parti collettive con finalità consultive o preparatorie dell’adozione di atti o regolamenti adottati dalla Pubblica Amministrazione (ed assorbiti quindi al’interno di questi atti). Infatti, se l’accordo venga trasfuso in un regolamento adottato con atto amministrativo a valenza generale, non può estendersi la previsione eccezionale dell’art. 2, 2° comma fino al punto da permettere una abrogazione di una fonte normativa mediante un atto amministrativo generale (ancorché adottato con riferimento ad un accordo collettivo).

Per ciò che riguarda l’oggetto della deroga, esso risulta delimitato dall’art. 2, 2° comma sotto vari profili.

In primo luogo, l’effetto derogativo può verificarsi solo se le disposizioni normative di statuto o di regolamento riguardino “discipline del rapporto di lavoro”: quindi un complesso di norme riguardanti il rapporto destinate a protrarre i loro effetti nel tempo. Ne segue che non possono essere abrogate dal contatto collettivo disposizioni normative che riguardano specifici aspetti del rapporto di lavoro pubblico, o eventi che non abbiano carattere di durata (è il caso, per esempio, del trasferimento di dipendenti da un’amministrazione a un’altra: esso, se disciplinato da una fonte normativa, non può essere successivamente disciplinato in modo difforme da una fonte contrattuale).
In secondo luogo, le discipline normative derogabili debbono riguardare o l’insieme dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche, o categorie di essi. Questa precisazione introduce una doppia delimitazione.

Da un lato, non sono derogabili disposizioni che disciplinano il rapporto di lavoro non solo dei dipendenti pubblici, ma anche di quelli privati.
D’altro lato, non sono derogabili dalla contrattazione collettiva le disposizioni normative che riguardano solo taluni dipendenti dell’amministrazione pubblica con riferimento alle specifiche caratteristiche del loro rapporto (per esempio, i lavoratori precari), ma non riconducibili alla nozione unitaria di categoria. Quest’ultimo termine è, in realtà, ambiguo. Secondo alcuni, si tratterebbe del termine utilizzato dall’art. 2095 c.c.: le categorie sarebbero quindi quelle ivi previste: operai, impiegati, quadri e dirigenti.

Secondo altri, il termine categorie dovrebbe impropriamente designare i vari comparti in cui è organizzata la contrattazione all’interno della pubblica amministrazione. Nel primo caso, sarebbero derogabili solo quelle disposizioni normative che disciplinano il rapporto di lavoro dell’insieme degli impiegati, o dei dirigenti (ma non di subcategorie di essi). Nel secondo caso, sarebbero derogabili solo quelle disposizioni normative che disciplinano interi comparti della pubblica amministrazione.

In conclusione, l’art. 2, 2° comma introduce un meccanismo abrogativo eccezionale, che permette, a determinate condizioni e entro certi limiti, la sostituzione della volontà delle parti collettive alla volontà del legislatore o dell’amministrazione espressa attraverso atti a valenza generale (statuti e regolamenti). Solo rispettando rigidamente condizioni e limiti, la disposizione, ancorché eccezionale, può evitare delicati problemi di legittimità costituzionale. Del resto, condizioni e limiti riflettono e confermano lo scopo perseguito dalla norma in esame, che è quello non di affidare alla contrattazione collettiva piena libertà di sostituirsi alle disposizioni normative, ma quella di impedire ritagli o microriforme di settore, introdotte sia dalla contrattazione sia da leggi adottate ad hoc per specifiche gruppi o subcategorie di dipendenti pubblici.

Il punto sui concorsi interni

Il punto sui concorsi interni, nota a sentenze, in RIP 2005, I, 110

1.1 Progressione verticale, progressione orizzontale, passaggi di area, pseudopassaggi di posizione economica, concorsi interni e pseudoconcorsi. I primi effetti della sentenza delle sezioni unite della corte di cassazione n. 15403 del 2003.
Era ampiamente prevedibile che la frattura determinata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 15403 del 2003 non si sarebbe limitata ad un riassetto del riparto di giurisdizione in materia di concorsi interni, ma avrebbe scosso dalle fondamenta il sistema di progressione di carriera all’interno del pubblico impiego. Con la sentenza citata la Corte di Cassazione, modificando il proprio precedente orientamento, ha attribuito alla giurisdizione del giudice amministrativo non solo i concorsi (pubblici) per l’accesso a posizione di pubblico impiego (secondo la piana interpretazione della disposizione dell’art. 63 del T.U. 165/2001), ma anche tutti i concorsi interni diretti a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore” (cosiddetta progressione verticale). In questo modo, la Corte ha abbandonato la impostazione strettamente privatistica cui aveva inizialmente aderito, sostenuta dalle organizzazioni sindacali dei dipendenti ed anche da gran parte della dottrina giuslavoristica: la progressione di carriera si riduceva a “sviluppo professionale”, sottratto al regime del concorso e all’art. 97 della Cost., ed affidato alle valutazioni delle parti sociali mediante contratti e accordi collettivi. La Corte di Cassazione ha scelto l’impostazione pubblicistica della privatizzazione dell’impiego pubblico, privilegiando non più la discrezionalità delle scelte di carattere manageriale, ma la tutela del buon andamento e dell’imparzialità delle scelte operate dalla pubblica amministrazione in sede di organizzazione del lavoro, oltreché la tutela del diritto all’accesso dei cittadini al lavoro presso la pubblica amministrazione.
Il mutamento di rotta è stato determinato da due cause concorrenti.
La prima, di carattere istituzionale-giuridico, costituita dalla pressione della Corte costituzionale che ha continuato a ribadire l’orientamento pubblicistico secondo cui il concorso pubblico resta lo strumento prioritario e più garantista per selezionare i dipendenti pubblici non solo nella fase dell’assunzione, ma anche nella fase della progressione di carriera, mentre il concorso interno resta un metodo residuale, ammissibile solo in circostanze delimitate e in modo contenuto.
La seconda, di carattere politico-gestionale, costituita dal disastroso fallimento di amministrazioni pubbliche e sindacati nello svolgimento del delicato compito di gestire in modo responsabile, nella prospettiva del raggiungimento di un obiettivo di maggiore efficienza dell’organizzazione, lo sviluppo di carriera dei dipendenti pubblici. La realtà è stata il dilagare di iniqui accordi spartitori tra organizzazioni sindacali dei dipendenti a livello decentrato e le amministrazioni, senza tenere in alcun conto i principi di efficienza e di imparzialità, il dilagare di aumenti economici, giustificati e connessi a passaggi di livello e di funzione; il dilagare di procedure di avanzamento di massa mascherate da pseudoconcorsi interni con percorsi di riqualificazione del tutto formali (ovviamente con grave pregiudizio sia per i nuovi assunti, che si sono ritrovati coperti tutti i posti cui avrebbero potuto accedere con concorsi anche interno ma svolti seriamente e con responsabilità, sia per il pubblico di coloro che aspirano all’assunzione in una amministrazione pubblica).
La sentenza della Corte, tuttavia, ha avuto riscontri tutt’altro che unanimi, sia da parte dell’Autorità giudiziaria ordinaria che da parte del giudice amministrativo.
In questo numero sono riportate decisioni del giudice ordinario che si adeguano all’interpretazione estensiva e “pubblicistica” dell’espressione assunzione utilizzata dal legislatore (si veda Trib. Milano, est. Punzo, 06.12.2004, in RIP, 1, 184), insieme a decisioni che motivatamente da essa si discostano (si veda Corte Appello Milano 13.12.2004 n. 834, in RIP, 1, 85). E’ riportata anche una decisione del giudice amministrativo che nega la propria giurisdizione in una controversia riguardante un concorso interno per un passaggio da un’area a quella superiore, contestando la tesi delle Corte di Cassazione (e della Corte Costituzionale) che riconduce al concetto di assunzione “il passaggio di dipendenti da una qualifica all’altra, poiché detto passaggio attiene ad una vicenda modificativa del rapporto di regola senza novazione del medesimo” (TAR Lazio, sez. III bis, 20.12.2004, n. 16664 in RIP, 1, 91) e discostandosi anche dall’orientamento del Consiglio di Stato che ha ribadito la sussistenza della giurisdizione amministrativa per il passaggio da area ad area (Cons. Stato, sez. IV 3/11/2004 n. 7107 in Dir. giust. 2004 con nota di DE GIORGI.
Già a questo primo livello, quindi, del semplice recepimento dell’orientamento espresso dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, la situazione si presenta tutt’altro che risolta.
Ma i problemi non si fermano qui. Infatti, una volta stabilito che i passaggi di qualifica e di funzione interni debbono intendersi come assunzioni, e rispettare quindi tutti i principi previsti per questo istituto, con assoggettamento alla giurisdizione del giudice amministrativo, si è aperta una nuova ampia tipologia di problemi.
Tra questi il più devastante è quello della valutabilità dei passaggi qualificati nei contratti collettivi come mere progressioni economiche “orizzontali” all’interno di un’area funzionale, ma in realtà comportanti una progressione di livello, in quanto connessi con un incremento di funzioni e di responsabilità.
In tutti questi casi – che sono quasi la normalità in tutta la contrattazione collettiva – ancorché formalmente qualificati come passaggi di posizione economica siamo in realtà in presenza, se si segue rigorosamente l’impostazione pubblicistica, di promozioni occulte e di passaggi di livello o di qualifica, con tutte le conseguenze previste per questi ultimi casi: da un lato, giurisdizione del giudice amministrativo, d’altro lato, necessità di accesso mediante concorsi pubblici e rispetto dei principi posti dall’art. 97 della Cost.
È questo il caso preso in esame e risolto dalla sentenza del TAR Lazio (TAR Lazio sez. I 04.11.2004, n. 12370 in RIP, 1, 94), con orientamento cui aderisce anche una sentenza del Tribunale di Milano (Trib. Milano, est. Peragallo, 02.12.2004, n. 3666 in RIP, 1, 92)

Secondo il TAR Lazio, le posizioni economiche C1, C2 e C3 in cui è suddivisa l’area C nel CCNL del Comparto Ministeri non rappresentano semplici passaggi economici, ma veri e propri passaggi di qualifica. La conseguenza è non solo che le controversie relative rientrano nell’ambito della giurisdizione amministrativa, ma anche che a questi passaggi si applicano le norme e i principi che disciplinano le procedure concorsuali. A questa conclusione il TAR perviene ritenendo ammissibile di fronte al giudice amministrativo l’impugnazione incidentale delle disposizioni dei contratti collettivi che prevedono passaggi interni e concorsi riservati, in quanto questione pregiudiziale rispetto a quella sottoposta all’esame del Giudice amministrativo.

1.2. La giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di legittimità dei concorsi interni in relazione ai principi di uguaglianza e parità di accesso ai pubblici uffici (3 e 51 Cost) e di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa (97 Cost.)

Corte Costituzionale, 04.01.1999, n.1 in Giorn. dir. amm. 1999, 536 con nota di V. TALAMO; in Giur. it. 2000, 238 con nota di Fontana secondo la quale “il concorso pubblico, quale meccanismo di selezione tecnica e naturale dei più capaci, resta il metodo migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare la loro funzione in maniera imparziale ed al servizio esclusivo della nazione” ed è posto a tutela non solo dell’interesse generale alla individuazione dei migliori, ma anche del diritto dei potenziali aspiranti esterni. La Corte precisa che il regime del concorso pubblico si applica anche per “il passaggio ad una fascia funzionale superiore, nel quadro di un sistema che non prevede le carriere o le prevede entro limiti ristretti” e che deroghe alla regole del concorso sono ammissibili “soltanto nei limiti segnati dall’esigenza di garantire il buon andamento dell’amministrazione o di attuare altri principi costituzionali”
In senso conforme:
Corte Costituzionale, 2002 n. 194 in Foro it. 2003, 1, 22; Giorn. dir. amm. 2002, 953 con nota di A.Zucaro; Foro amm., 2002,1,1991 con nota di R. Cavallo Perin, Giur. it. 2003, 1084 con nota di De Bernardin, Dir. lav. 2002, II, 533 con nota di Bolognino secondo la quale è incostituzionale la normativa (art. 3, commi 205, 206 e 207, L. 549/1995, come modificato dall’art. 22, comma 1, lett. a), b) e c), L. 133/1999) che prevede procedimenti interni, detti di riqualificazione, per la copertura del settanta per cento dei posti disponibili nelle dotazioni organiche dell’amministrazione finanziaria per i livelli dal quinto al nono.
Corte Costituzionale, 26.01.2004, n. 34 in Foro it. 2004, I, 1355, Giur. cost. 2004, Foro amm. CdS, 2004, 78 secondo cui è incostituzionale l’art. L.R. Calabria 4/2002, nella parte in cui autorizza l’azienda ospedaliera Ciaccio Pugliese a coprire l’aumento di organico di cinque posti di biologo e due posti di medico mediante un concorso riservato al solo personale che ha già operato con l’assegnazione di borse di studio nell’ambito di taluni progetti di ricerca
Corte Costituzionale, 23.05.2002, n. 218 in Giorn. dir. amm. 2002, 953 e in Giust. civ. 2003, I, 785, secondo cui è costituzionalmente illegittima la normativa (art. 12 L. 140/1999) che consente l’inquadramento nella qualifica dirigenziale, a semplice domanda, dei dipendenti delle camere di commercio che rivestano la qualifica di capo servizio.
Corte Costituzionale, 23.07.2002, n. 373 in Giur. it. 2003, 420 con nota di Olivieri, Lav. nelle p.a. 2002, 571 con nota di Montini e in Foro amm. CdS, 2002, 1989, secondo cui è incostituzionale la normativa regionale (art. 32, comma 10, L.R. Puglia 7/1997 e art. 39 L.R. Puglia 26/1984) che riserva la copertura del cento per cento dei posti messi a concorso al personale interno.

1.3. La giurisprudenza della Corte di Cassazione sul riparto della giurisdizione delle controversie sulle procedure selettive nel pubblico impiego.

Corte di Cassazione, S.U., 15.10.2003, n. 15403 in Lav. nella p.a., 2003, 910 con nota di L. Sgarbi, Gior. dir. amm. con nota di Corpaci, Lav nella giur., 2004, 362 con nota di Lovo, 1024, Giust. civ., 2004, I, 69 con nota di Pallini, in Foro amm. CdS 2003, 2868, 3282 con note di Lasalvia, Schlitzer E Gallo, in Mass. giur. lav. 2004, 112 con nota di Giovagnoli.
Spetta al giudice amministrativo la giurisdizione nella controversie concernenti non solo “le procedure concorsuali strumentali alla costituzione per la prima volta del rapporto di lavoro”, ma anche i concorsi interni e “le prove selettive dirette a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore”.
Quindi vi è assunzione e non sviluppo professionale di carriera, tutte le volte che si accede ad una posizione di inquadramento superiore.
In:
Corte di Cassazione, S.U., 10.12.2003, n. 18886 in Foro amm. CdS, 2004, 721 nota di Gagliardi, D.L. Riv. critica dir. lav., 2004, 193 Giur. it. 2004, 1064 con nota di Caranta, secondo cui la modificazione di un rapporto di lavoro con un’amministrazione pubblica mediante svolgimento di un concorso interno, è attribuita all’autorità giudiziaria ordinaria, in considerazione del fatto che il bando di concorso riservato al personale interno ed il conseguente svolgimento della procedura selettiva rappresentano atti di gestione del rapporto di lavoro, espressione della capacità di esercizio dei poteri del privato datore di lavoro, ex art. 4, D.lgs. n. 29/1993, sostituito dall’art. 4, D.lgs. 80/1998, ora art. 5 comma 2, D.lgs. 165/2001, sempre che non si tratti di prove selettive dirette a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore (nella specie, la Cassazione ha rilevato che non vi era alcuna novazione oggettiva del rapporto di lavoro, trattandosi di semplice passaggio di livello, senza variazione di area o di categoria).
Corte di Cassazione, S.U., 26.02.2004, n. 3948 in Foro amm., 2004, 1321 con nota di B. Gagliardi, Foro it., 2004, I, 1755 secondo cui la destinazione alla copertura di posti vacanti e non l’immissione nella Pubblica amministrazione di soggetti ad essa anteriormente estranei integra un’assunzione ed è quindi l’elemento che determina la giurisdizione del giudice amministrativo (La Corte esamina una procedura selettiva interna per il passaggio, nell’area funzionale C del Comparto Ministeri, dalla posizione C2 alla posizione C3.
Pertanto secondo la Corte risultano quattro possibilità:
a) controversie relative a concorsi per soli esterni: giudice amministrativo
b) controversie relative a concorsi misti (candidati esterni e interni): giudice amministrativo
c) concorsi interni che comportano il passaggio da un’area all’altra: giudice amministrativo, ferma restando la verifica della legittimità costituzionale che precludono la partecipazione a candidati esterni
d) concorsi interni che comportino passaggio da una qualifica ad un’altra, nell’ambito della stessa fascia: autorità giudiziaria ordinaria.