La derogabilita’ delle disposizioni normative da parte del contratto collettivo: l’art. 2, 2° comma del T.U. 165/2001

La derogabilita’ delle disposizioni normative da parte del contratto collettivo: l’art. 2, 2° comma del T.U. 165/2001 in RIP 2005,1, p.18

L’art. 2, 2° comma del T.U. 165/2001 stabilisce che “eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche o a categorie di essi possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi”.

Un Autore, commentando questa disposizione allorché era inserita nel D.lgs. n. 29/1993, ha osservato che “si è in presenza di un fenomeno che, senza alcuna enfasi, potrebbe essere definito rivoluzionario” (Valerio Speziale, L’abrogazione della legge da parte del contratto collettivo in Il lavoro nelle Pubbliche amministrazioni, Commentario diretto da F. Carinci, vol. I, p.124).

“La singolarità della disposizione” prosegue il predetto Autore “sta nel fatto che essa.. sembra introdurre un rapporto di successione nel tempo tra legge e contratto collettivo del tutto simile a quello esistente tra atti normativi dotati di pari forza individuando un meccanismo abrogativo simile a quello della legge successiva che elimina quella precedente”.

La portata rivoluzionaria della disposizione emerge anche dalla mancanza di precedenti nella normativa giuslavoristica riguardante i dipendenti pubblici. Si può solo ricordare che con legge (n. 56 del 1987) era stato attribuito all’autonomia collettiva il ben più limitato potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962 esclusivamente per le “ipotesi individuate nei contratti collettivi”, purché – secondo la giurisprudenza – “le nuove fattispecie fossero chiaramente ed esattamente determinate” (Cass. 07.08.2004, n.15331).

Se passiamo ad analizzare il testo della disposizione dell’art. 2, 2° comma, notiamo subito che l’espressione deroga appare impropriamente utilizzata: allorché sopravviene un contratto collettivo, le disposizioni di legge, statuto e regolamento vengono non solo derogate ma del tutto cancellate dalle disposizioni del contratto collettivo. Siamo quindi in presenza non tanto di una deroga, quanto di un meccanismo abrogativo delle disposizioni precedenti.

Ma, a ben vedere, siamo in presenza di un fenomeno ancor più radicale dell’abrogazione, in quanto l’art. 2, 2° comma non sembra neppure richiedere che la disposizione contrattuale si proponga in modo espresso di modificare la precedente disposizione legislativa e detti una disciplina di contenuto diverso: sembra infatti sufficiente la semplice approvazione di un contratto collettivo riguardante una determinata materia perché la legge preesistente che ha disciplinato la stessa materia sia automaticamente abrogata. In questo senso depone anche la precisazione contenuta nell’art. 2, 2° comma, secondo cui la deroga, o l’effetto abrogativo, non operano solo in caso di espressa esclusione della derogabilità da parte del testo normativo. Ragionevolmente, debbono però aggiungersi anche i casi in cui l’adozione delle disposizioni contrattuali faccia espressamente salve le precedenti disposizioni normative o ne costituisca dichiaratamente attuazione.

Questo meccanismo abrogativo automatico ha indotto alcuni autori a sollevare dubbi sulla legittimità costituzionale della disposizione in esame (U. Rescigno, Legge e contratto collettivo nel pubblico impiego. L’art. 2 bis del D.lgs. 29 del 1993 come modificato dal D.lgs. n.546 del 1993 in LD 1994, p.505).
La ratio di questa disposizione è stata comunque individuata da un lato nell’intenzione di impedire interventi del legislatore che, con interventi ad hoc volti a privilegiare specifici gruppi di lavoratori pubblici forti, introduca deroghe rispetto alla contrattazione collettiva, d’altro lato nella parallela intenzione di impedire tentativi impliciti o clandestini di rilegificazione (si veda per esempio L. Zoppoli, Il sistema delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro dopo la riforma: una prima ricognizione dei problemi in M. Rusciano – L. Zoppoli, L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Torino, p.13).

Fatte queste precisazioni che evidenziano il carattere del tutto eccezionale della disposizione nel nostro ordinamento, con tutte le conseguenze che da ciò derivano in materia di vincoli alla interpretazione della stessa, possiamo esaminarne ora i limiti di operatività.

Prima di tutto, e per ciò che riguarda lo strumento che produce l’effetto abrogativo, esso non può che essere un contratto o un accordo collettivo in senso proprio, stipulato quindi secondo le regole e le modalità poste dagli artt. 40 e seguenti del T.U. 165/2001. L’effetto abrogativo non può scaturire da contratti integrativi (anche perché essi non possono derogare alle disposizioni contenute nei contratti nazionali e quindi introdurre effetti abrogativi che in detti contratti non siano previsti), né, a maggior ragione, può scaturire da accordi intercorsi tra le parti collettive con finalità consultive o preparatorie dell’adozione di atti o regolamenti adottati dalla Pubblica Amministrazione (ed assorbiti quindi al’interno di questi atti). Infatti, se l’accordo venga trasfuso in un regolamento adottato con atto amministrativo a valenza generale, non può estendersi la previsione eccezionale dell’art. 2, 2° comma fino al punto da permettere una abrogazione di una fonte normativa mediante un atto amministrativo generale (ancorché adottato con riferimento ad un accordo collettivo).

Per ciò che riguarda l’oggetto della deroga, esso risulta delimitato dall’art. 2, 2° comma sotto vari profili.

In primo luogo, l’effetto derogativo può verificarsi solo se le disposizioni normative di statuto o di regolamento riguardino “discipline del rapporto di lavoro”: quindi un complesso di norme riguardanti il rapporto destinate a protrarre i loro effetti nel tempo. Ne segue che non possono essere abrogate dal contatto collettivo disposizioni normative che riguardano specifici aspetti del rapporto di lavoro pubblico, o eventi che non abbiano carattere di durata (è il caso, per esempio, del trasferimento di dipendenti da un’amministrazione a un’altra: esso, se disciplinato da una fonte normativa, non può essere successivamente disciplinato in modo difforme da una fonte contrattuale).
In secondo luogo, le discipline normative derogabili debbono riguardare o l’insieme dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche, o categorie di essi. Questa precisazione introduce una doppia delimitazione.

Da un lato, non sono derogabili disposizioni che disciplinano il rapporto di lavoro non solo dei dipendenti pubblici, ma anche di quelli privati.
D’altro lato, non sono derogabili dalla contrattazione collettiva le disposizioni normative che riguardano solo taluni dipendenti dell’amministrazione pubblica con riferimento alle specifiche caratteristiche del loro rapporto (per esempio, i lavoratori precari), ma non riconducibili alla nozione unitaria di categoria. Quest’ultimo termine è, in realtà, ambiguo. Secondo alcuni, si tratterebbe del termine utilizzato dall’art. 2095 c.c.: le categorie sarebbero quindi quelle ivi previste: operai, impiegati, quadri e dirigenti.

Secondo altri, il termine categorie dovrebbe impropriamente designare i vari comparti in cui è organizzata la contrattazione all’interno della pubblica amministrazione. Nel primo caso, sarebbero derogabili solo quelle disposizioni normative che disciplinano il rapporto di lavoro dell’insieme degli impiegati, o dei dirigenti (ma non di subcategorie di essi). Nel secondo caso, sarebbero derogabili solo quelle disposizioni normative che disciplinano interi comparti della pubblica amministrazione.

In conclusione, l’art. 2, 2° comma introduce un meccanismo abrogativo eccezionale, che permette, a determinate condizioni e entro certi limiti, la sostituzione della volontà delle parti collettive alla volontà del legislatore o dell’amministrazione espressa attraverso atti a valenza generale (statuti e regolamenti). Solo rispettando rigidamente condizioni e limiti, la disposizione, ancorché eccezionale, può evitare delicati problemi di legittimità costituzionale. Del resto, condizioni e limiti riflettono e confermano lo scopo perseguito dalla norma in esame, che è quello non di affidare alla contrattazione collettiva piena libertà di sostituirsi alle disposizioni normative, ma quella di impedire ritagli o microriforme di settore, introdotte sia dalla contrattazione sia da leggi adottate ad hoc per specifiche gruppi o subcategorie di dipendenti pubblici.