Contributo a una piccola guida alla privatizzazione…

Contributo a una piccola guida alla privatizzazione del pubblico impiego in DL 2000, p. 9.

Il punto di partenza è dato da disposizioni normative risalenti al 1923 in base alle quali il rapporto di lavoro del pubblico dipendente è stato affidato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Prima di questa data, il pubblico dipendente che intendeva proporre una azione nei confronti  dell’Amministrazione datrice di lavoro, doveva adire l’Autorità giudiziaria ordinaria, qualora la sua pretesa avesse avuto natura di diritto soggettivo, e il giudice amministrativo qualora la sua pretesa avesse avuto natura di interesse legittimo.

In larghissima approssimazione e in linea di principio, rientravano nella prima ipotesi le controversie riguardanti pretese di carattere economico, nella seconda pretese riguardanti la carriera e l’inquadramento. In pratica, erano affidate al giudice amministrativo tutte le pretese del dipendente che presupponevano la impugnazione di un atto amministrativo emesso dal datore di lavoro: quindi, anche le pretese di carattere economico che si fondassero sulla contestazione della legittimità di un atto del datore di lavoro.

La situazione di oggettiva confusione provocata dall’esistenza di due giurisdizioni concorrenti, con una linea di demarcazione assai labile fu risolta, appunto, dall’affidamento al giudice amministrativo (allora, una apposita Sezione del Consiglio di Stato) della giurisdizione esclusiva su tutte le controversie dei pubblici dipendenti, sia che riguardassero diritti soggettivi, sia che riguardassero interessi legittimi.

In concreto, questa soluzione ha offerto sul piano sostanziale consistenti vantaggi alla Pubblica Amministrazione, mettendole a disposizione un processo che pareva fatto su misura per il datore di lavoro pubblico: divieto di sentire le parti, divieto di assumere testimonianze, giudizio basato sugli atti emessi dalla Pubblica Amministrazione datrice di lavoro, termini di decadenza generalizzati e rigorosissimi anche i diritti soggettivi del lavoratore, di fatto tutti convertiti  in interessi legittimi allorché si fosse in presenza di atti amministrativi.

C’è solo da dire che il rigore della forma processuale è stato col tempo temperato dalla giurisprudenza dei Giudici amministrativi, che hanno offerto una tutela specializzata e attenta agli specifici problemi (anche corporativi) delle varie categorie (insegnanti, ospedalieri, statali, ecc.) e che – proprio per controbilanciare l’impossibilità di indagini sostanziali sui fatti e sul rapporto – hanno esasperato forme e garanzie che l’Amministrazione doveva rispettare, pena l’illegittimità degli atti.

Il bizzarro risultato di questo processo è stato questo: indipendentemente dalla realtà e da ciò che era effettivamente successo, le controversie erano decise dall’abilità e dalla diligenza con cui l’Amministrazione attuava le varie fasi del procedimento e motivava le proprie decisioni.

Nonostante questi motivi (o forse in parte anche proprio per questi motivi), la soluzione della giurisdizione esclusiva non solo è sopravvissuta al crollo del regime che la aveva ideata, ma è stata solidificata anche dalla Costituzione repubblicana, che ha attribuito al Consiglio di Stato la giurisdizione in materia di interessi legittimi e, in particolari materie, anche dei diritti soggettivi (art.103 Cost.), con ciò garantendo una copertura costituzionale alla giurisdizione esclusiva nel pubblico impiego; è poi rimasta non contestata, ed anzi ulteriormente incrementata in tutti i successivi tentativi più o meno attuati di riforma dell’organizzazione della Pubblica Amministrazione.

Anche allorché, negli anni Settanta si è sempre più seriamente posto un problema di omogeneizzazione del trattamento dei dipendenti pubblici e privati, a fronte dell’incremento della tutela dei diritti di questi ultimi determinato dall’acquisita forza contrattuale delle organizzazioni sindacali, e dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, la giurisdizione esclusiva ha resistito, sia pure con ritocchi portati dalla giurisprudenza pretoria soprattutto del Consiglio di Stato e da interventi della Corte costituzionale. Ha resistito quasi incredibilmente anche al confronto con il nuovo processo del lavoro per i dipendenti privati, il quale, con le sue caratteristiche di celerità, oralità, informalità, aveva messo a nudo il carattere farsesco delle regole processuali cui erano assoggettati i dipendenti pubblici.

Ed infatti, nonostante alcune voci di dissenso, allorché viene realizzata, dopo anni di tentativi e di proposte, una legge quadro per il pubblico impiego che, tra l’altro, lascia spazio alla contrattazione collettiva (L.29\3\1983 n.93), la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo viene confermata.

E solo all’inizio degli anni Novanta che si fa strada l’idea di ricondurre il rapporto di pubblico impiego alle regole del rapporto di lavoro privato anche sotto il profilo processuale.

Alla base di questo imprevedibile revirement di politica e ideologia processuale stanno vari elementi: il vento della privatizzazione e della riduzione delle posizioni di supremazia della Pubblica Amministrazione, la conseguente necessità di introdurre regole di competizione e di mercato anche all’interno dei settori prima integralmente controllati da quest’ultima, la necessità di ridurre il potere quasi-monopolistico acquisito dalle organizzazioni sindacali nel pubblico impiego (spesso rappresentate da dirigenti dell’Amministrazione, che così riuscivano a giocare contemporaneamente u due tableux), l’opportunità di liberare il datore di lavoro pubblico da lacci, lacciuoli e formalismi di un processo progettato per favorirlo, ma nel quale era rimasto gradualmente ingabbiato.

Quali erano a questo punto i percorsi di privatizzazione del rapporto del dipendente pubblico a disposizione del legislatore? Erano teoricamente tre.

La prima era quella di un futuro costruito come ritorno al passato: cancellazione della giurisdizione esclusiva e attribuzione di diritti soggettivi e interessi legittimi rispettivamente a Giudice ordinario e Giudice amministrativo.

Questo tipo di soluzione appariva effettivamente compatibile con il D.L.vo 29\1993 nella sua originaria stesura: l’art.68 nella sua iniziale formulazione nulla precisava in ordine ai poteri del giudice ordinario in merito ai rapporti di lavoro pubblico privatizzati. Pertanto, se si fosse ritenuto che tutti o alcuni degli atti con i quali l’Amministrazione gestisce il rapporto di lavoro avessero mantenuto la natura di atti amministrativi, al giudice ordinario sarebbero stati preclusi provvedimenti costitutivi, sostitutivi o di condanna, in virtù del disposto dell’art.4 dell’Allegato E della L.2248/1865.

In altri termini, si era creato un mostro costituito da un rapporto di lavoro privatizzato, ma pur sempre gestito in tutto o in parte da atti pubblicistici, tanto che il Consiglio di Stato aveva potuto criticare la riforma perché arretrava la tutela del pubblico dipendente rispetto all’Amministrazione (sul punto, si veda CECCHELLA, La riforma giurisdizionale nella riforma del pubblico impiego, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1995, p.1339 ss.; Cons.Stato, Adunanza Generale 31\8\1992 n.146 in Riv.it.dir.lav. 1993,III, p.43).

In concreto, sarebbe rimasto completamente affidato all’interprete – giudice ordinario o giudice amministrativo – l’attribuzione della qualità di atto amministrativo o di atto privato a qualsiasi atto posto in essere dall’Amministrazione all’interno di un rapporto di lavoro (con immaginabili conseguenze sul piano della certezza del diritto o meglio della confusione che ne sarebbe derivata, con incessanti scontri giudiziari sulla giurisdizione e innumerevoli problemi di conflitto.

Una seconda soluzione era quella di affidare al Giudice ordinario la tutela sia dei diritti soggettivi che degli interessi legittimi.

Era però una soluzione costituzionalmente rischiosa.

Infatti, l’orientamento prevalente ritiene che, mentre l’art.103 della Cost. attribuisce al Giudice amministrativo la giurisdizione in materia di interessi legittimi e permette, come si è visto, di attribuirgli la giurisdizione su diritti soggettivi in particolari materie, non vi è una analoga disposizione che preveda la possibilità di devolvere, se non in casi eccezionali, la cognizione di interessi legittimi insieme ai diritti soggettivi al Giudice ordinario (si vedano in proposito le approfondite considerazioni di M.MAZZAMUTO, Verso la giurisdizione esclusiva del giudice ordinario?, in Giurispr.Ital. 1999, 1223 ss.; per la tesi opposta, della attribuibilità al giudice ordinario della giurisdizione in materia di interessi legittimi cfr. MAZZAROLLI, Giustizia amministrativa, in MAZZAROLLI, PERICU, ROMANO, ROVERSI MONACO E SCOCA, Diritto amministrativo, Bologna 1993, II, p.1429; F.P. PANARIELLO).

Si è quindi imboccata con decisione l’unica strada ragionevolmente possibile, e cioè quella che nel rapporto di lavoro privatizzato dei dipendenti pubblici non vi erano più atti amministrativi: gli atti di gestione del rapporto da parte del datore di lavoro pubblico divengono, alla pari degli atti del datore di lavoro privato, atti privati che si inseriscono all’interno del rapporto contrattuale; la Pubblica amministrazione opera con le stese modalità e gli stessi vincoli del datore di lavoro privato: gli atti amministrativi possono essere solo atti presupposti al rapporto di lavoro, e quindi precedere anche la fase della sua costituzione.

In altri termini, la soluzione imboccata è stata quella di respingere gli atti e i provvedimenti amministrativi al di fuori dell’area del rapporto di lavoro: vi è stato, per converso, un prosciugamento dell’area autoritativa, che non copre più il predetto rapporto (sul punto cfr. RUSCIANO, Contributo alla lettura della riforma dell’impiego pubblico, in N.Rusciano e L.Zoppoli, L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Torino 1993).

Sugli atti che l’Amministrazione adotta per disciplinare o per intervenire nel rapporto di lavoro vi è quindi piena giurisdizione del giudice ordinario, non perché questi oggi può conoscere anche posizioni giuridiche aventi consistenza di interesse legittimo, ma perché vi sono solo diritti soggettivi. Di conseguenza, il giudice ordinario è espressamente dotato – come chiarisce il 2° comma dell’art.68 nella sua attuale formulazione (introdotta dal D.L.vo 80/1998), la cui mancanza consentiva, come si è detto, di ipotizzare anche soluzioni diverse –  degli stessi poteri che già ha per intervenire sugli atti emessi dal datore di lavoro privato: è quindi ammessa una tutela risarcitoria, di accertamento, di condanna e costitutiva, con le stesse modalità con cui è ammessa nei confronti dei datori di lavoro privati, mentre, alla pari di questi ultimi, la Pubblica amministrazione è assoggettata al rispetto delle disposizioni normative e contrattuali, oltreché dei principi di correttezza e buona fede (cfr. CORPACI, Nuova disciplina del pubblico impiego e tutela giurisdizionale, in Lav. Dir., 1994, p.9).

Altrettanto significativa deve essere considerata la riformulazione dell’art. 4, 1° comma del D.L.vo 29/1993: mentre la originaria formulazione stabiliva in modo non del tutto univoco che le pubbliche amministrazioni “operano con i poteri del privato datore di lavoro”, la disposizione modificata e attualmente vigente stabilisce che “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte… con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” (art.4, 2°comma).

Quindi non vi sono più atti amministrativi nel rapporto di lavoro, e non vi sono neppure più interessi legittimi. Non vi possono essere interessi legittimi, là ove sono previsti solo diritti: potranno esservi, al più, diritti contrapposti o collegati, che comportano l’eventuale esistenza di situazioni di litisconsorzio necessario (cfr. ZOLI, Amministrazione del rapporto e tutela delle posizioni soggettive dei dipendenti pubblici in Dir.Lav. Rel.Ind. 1993, p.633; CLARICH e IARIA, La riforma del pubblico impiego, Rimini 1993, p.314 ss.).

In conclusione, la riforma attuata con la privatizzazione appare sufficientemente chiara, e le disposizioni sono per lo più non equivoche. Questo non vuol dire che non sorgeranno problemi, e che la srtada della privatizzazione e soprattutto del trasferimento della giurisdizione al giudice ordinario non sarà priva di ostacoli. I principali tra questi verranno proprio da coloro che dovranno interpretare le norme: decideranno del successo o del fallimento della riforma da un lato la tradizionale ritrosia del giudice ordinario ad occuparsi di questioni concernenti la Pubblica Amministrazione da un lato, d’altro lato la naturale resistenza del giudice amministrativo ad abbandonare zone di giurisdizione (e quindi zone di influenza e di contatto con il potere politico e con la dirigenza amministrativa) affidategli da tre quarti di secolo – anche se l’abbandono è stato ampiamente compensato con l’affidamento di nuove zone di giurisdizione esclusiva, ritagliate per materie (secondo le indicazioni formulate dalla Commissione Bicamerale: cfr. gli artt.33-35 del D.L.vo 80\1998).

La lunga marcia della privatizzazione della sanità pubblica

La lunga marcia della privatizzazione della sanità pubblica, nota a sentenza in DL 2000, p. 183.

1

Pretura Genova est. Ravera, 27/10/99 (ord.), … c. Ospedale S.Martino.

Medici ospedalieri – Esercizio dell’opzione entro il termine fissato dall’art.15-quater del D.L.vo 229/1999 – Necessità.

L’art. 15-quater del D.L.vo 19\6\1999 n.229 ha collegato l’obbligo di opzione del dirigente del ruolo sanitario (medici ospedalieri) in servizio alla data del 31/12/1998 per il rapporto esclusivo al mero trascorrere di 90 giorni dall’entrata in vigore del D.L.vo stesso, escludendo quindi che la predetta opzione debba essere esercitata solo dopo l’attivazione da parte dell’ente datore di lavoro di mezzi e strutture per l’esercizio dell’attività professionale c.d. intramuraria. (*)

2

Pretura Genova, est. Barenghi, 25/10/99 (ord.), Guglielminetti e altro (…) c. Ospedale S.Martino.

Medici ospedalieri – Esercizio dell’opzione entro il termine fissato dall’art.15-quater del D.L.vo 229/1999 – Sospensione del termine da parte dell’AGO in sede cautelare – Impossibilità.

Non è consentito all’Autorità giudiziaria adita in sede cautelare di sospendere l’efficacia del termine di 90 giorni entro il quale i dirigenti del ruolo sanitario (medici ospedalieri) in servizio alla data del 31/12/1998 debbono optare per il rapporto esclusivo con l’ente datore di lavoro, essendo il termine previsto da  una disposizione avente forma di legge (art.15-quater del D.L.vo 19\6\1999 n.229).(*)

(*) La lunga marcia della privatizzazione della sanità pubblica.

L’art.15-quater del D.L.vo 229/1999 (c.d. “Bindi ter”) ha stabilito che “entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto tutti i dirigenti in servizio alla data del 31 dicembre 1998 sono tenuti a comunicare al direttore generale l’opzione in ordine al rapporto esclusivo. In assenza di comunicazione si presume che il dipendente abbia optato per il rapporto esclusivo”.

La disposizione impone quindi al medico ospedaliero una opzione incondizionata e irreversibile entro un termine prefissato.

In particolare, mentre l’art.1, 10° comma della L.662/1996 subordinava l’obbligo di opzione del medico all’esistenza di strutture all’interno dell’ente ospedaliero già attivate che consentissero di svolgere la attività libero professionale c.d. intramuraria, offrendo quindi al medico una concreta facoltà di scelta tra due possibilità (con la conseguenza che in molti casi era stato ritenuto illegittimo costringere un medico all’opzione qualora non fossero state in concreto predisposte le strutture delle quali il medico avrebbe potuto avvalersi pe svolgere la sua attività inframuraria: cfr. per esempio Pretura Milano, est.Martello, 3\6\1999 (ord.) Guastella c. Ospedale Maggiore di Milano), l’art.15-quater impone l’esercizio l’obbligo indipendentemente dall’esistenza o dall’attivazione di strutture ove il medico possa svolgere la sua attività libero professionale.

Poiché l’esercizio dell’attività professionale resta pur sempre un diritto del medico, anche se abbia optato per il rapporto esclusivo (si veda in proposito l’art.15-quinquies, 2° comma, lettera a del D.L.vo 229/1999), l’opzione prevista dall’art.15-quater è stata definita una opzione al buio, in quanto il medico è costretto entro il termine fissato dalla legge a scegliere senza sapere se e quando la scelta per il rapporto esclusivo gli permetterà in concreto l’esercizio del diritto.

Sotto questo profilo, potrebbero effettivamente porsi profili di legittimità costituzionale. Ma le ordinanze commentate ne escludono radicalmente la fondatezza, facendo entrambe espresso riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale n.330 del 20/7/1999 (in GURI, serie speciale, n.30 del 28\7\1999) che si è approfonditamente soffermata sull’evoluzione e le caratteristiche del rapporto di lavoro di medici ospedalieri. In particolare, la sentenza ha posto in evidenza il carattere fortemente innovativo della L. 30/12/1991 n.412, che ha stabilito (art.4, 7° comma) il principio dell’unicità del rapporto di lavoro dei medici ospedalieri con il servizio sanitario nazionale, in quanto finalizzato alla massima efficienza della rete sanitaria pubblica. Pienamente attuativi di questo principio erano da considerare, secondo la Corte, sia la aziendalizzazione del servizio sanitario nazionale sia la privatizzazione del rapporto di lavoro del personale dipendente (L.23/10/1992 n.421), sia nei Decreti legislativi che introducevano il ruolo unico dirigenziale del personale medico (D.L.vo 502/1992 modificato dal D.L.vo 517/1993 e D.L.vo 29/1993).

A questo punto però, fermo restando il diritto all’esercizio della libertà libero professionale da parte del medico, si poneva un evidente problema di impedire che quest’ultimo  svolgesse attività professionale per enti concorrenti o comunque in modo incompatibile o conflittuale con la propria posizione di dirigente di un servizio pubblico aziendalizzato, e quindi calato nel mercato e nella concorrenza. La  produzione normativa seguente ha quindi da un lato disincentivato l’attività professionale all’esterno dell’azienda (c.d. extramuraria), d’altro lato incentivato la possibilità di svolgere tale attività all’interno di essa (c.d. attività intramuraria): scelta questa che, secondo un’altra sentenza della Corte Costituzionale, era da ritenere pienamente legittima, in quanto permetteva alle aziende ospedaliere, dotate di autonomie finanziaria, di incrementare le proprie entrate (Corte Costit., sentenza 335/1993).

Il D.L.vo 229/1999 costituisce l’ultima tappa del processo di privatizzazione della sanità pubblica e prevede che solo il dirigente dell’azienda sanitaria che abbia optato per il rapporto esclusivo possa ricevere incarichi di direzione di struttura semplice o complessa (art.15 – quinquies, 5° comma); nel contempo, il diritto di svolgere anche attività libero professionale potrà esplicarsi in linea di principio esclusivamente in conformità alla programmazione aziendale. “D’altra parte” conclude la Corte “l’operatività delle molteplici disposizioni dirette, sulla base di diversi modelli organizzativi, a garantire – anche attraverso la previsione di specifici obblighi e di correlative responsabilità gravanti sui direttori generali delle aziende sanitarie – ai medici del servizio sanitario nazionale la concreta possibilità di esercitare la libera professione intramuraria non può essere vanificata da difficoltà attuative generalmente riconducibili ad inadempimenti delle aziende sanitarie locali”.

In particolare, l’attività professionale intramuraria deve svolgersi con le modalità e le tipologie individuate dal successivo art.15-quinquies.  Sono modalità e tipologie che presuppongono una complessa attività organizzativa e di pianificazione da parte dell’Azienda ospedaliera: si vedano le ipotesi previste dal 2° comma lettera a), che prevede l’esercizio dell’attività libero professionale “nell’ambito delle strutture aziendali individuate dal direttore generale d’intesa con il collegio di direzione strategica”, dal 2° coma lettera b), che prevede l’esercizio di attività libero professionale in équipes da organizzarsi all’interno delle strutture aziendali e dal 2° comma lettera d) che prevede la possibilità di “partecipare ai proventi di attività professionali richiesta a pagamento da terzi all’azienda”, purché consentano la riduzione dei tempi di attesa degli utenti e secondo programmi predisposti dall’azienda; o sono modalità che prevedono comunque la stipulazione di convenzioni tra strutture sanitarie esterne con l’Azienda: è l’ipotesi del 2° comma, lettera c), che introduce la possibilità di “partecipare i proventi di attività richiesta a pagamento da singoli utenti, e svolta individualmente o in équipe, in strutture di altra azienda del servizio sanitario nazionale o di  altra struttura sanitaria non accreditata, previa convenzione dell’azienda con le predette aziende e strutture”.

In conclusione, il medico dirigente dell’azienda ospedaliera che abbia optato per il rapporto esclusivo (con dichiarazione espressa o mediante silenzio, normativamente equiparato all’opzione) ottiene la possibilità di accedere agli incarichi dirigenziali più prestigiosi dell’azienda (preclusi al medico non optante), a fronte non di una rinuncia al diritto di esercitare l’attività libero professionale, ma dell’accettazione di esercitare tale attività all’interno di regole e di accordi che ne garantiscano la compatibilità con le attività e le strategie aziendali.

Tocca a me, no tocca a te. Parte Seconda

Tocca a me, no tocca a te. Parte seconda. La ripartizione della giurisdizione in base al D.L. 80 – 1998 – nota a sentenza in DL 2000, p. 243.

TAR Friuli Venezia Giulia 10\5\1999 n.601 pres. Bagarotto est Di Sciascio, S.G. (avv.Bruseschi Salmengo) c. Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Trieste (avv.Verbari) e altro (avv.Rosati).

Sanitario ASL – Dirigenti – Conferimento incarico di dirigente sanitario di secondo livello (ex Primario) – Procedimento analogo a quello del concorso pubblico – Giurisdizione amministrativa.

Sanitario ASL – Dirigente sanitario di secondo livello – Conferimento dell’incarico – Parere della Commissione sanitaria – Applicazione criteri fissati dalla circolare del Ministro della Sanità 1221\1996 – Necessità – Difetto di motivazione in sede di valutazione tecnica o in sede di individuazione del sanitario – Illegittimità del conferimento.

Il conferimento dell’incarico di dirigente sanitario di secondo livello, pur avvenendo tra medici del Servizio sanitario, si verifica dall’esterno, sicché la posizione dell’aspirante è quella di interesse legittimo; ne segue che tale conferimento, pur non derivando da un pubblico concorso, va ad esso assimilato, e ricade nella giurisdizione del giudice amministrativo.

Il conferimento dell’incarico di dirigente sanitario di secondo livello è illegittimo se esso non avvenga sulla base del parere della Commissione sanitaria che deve contenere una approfondita valutazione tecnica con riferimento a tutti i parametri indicati dalla circolare del Ministero della Sanità 10\5\1996 n.1221

II

Tribunale Milano, est. Chiavassa (ord.)

Sanitario ASL – Dirigenti – Conferimento incarico di dirigente sanitario di secondo livello (ex Primario) – Insussistenza di procedura concorsuale – Giurisdizione dell’AGO.

Sanitario ASL – Dirigente sanitario di secondo livello – Conferimento dell’incarico – Necessità di motivazione con riferimento alla struttura di destinazione e agli obiettivi gestionali – Valutabilità in sede di procedimento cautelare – Esclusione.

La controversia concernente il conferimento dell’incarico di dirigente sanitario di secondo livello, non derivando da un pubblico concorso, ricade nella giurisdizione del giudice ordinario.

La legittimità del conferimento dell’incarico di dirigente sanitario di secondo livello, dovendo essere motivato con riferimento alla struttura di destinazione e agli obiettivi gestionali, comporta una valutazione complessa che non può essere compiuta in sede di procedimento cautelare.

Tocca a me, no tocca a me, Parte Seconda: la ripartizione della giurisdizione in base al D.L.vo 80/1998 con riferimento al conferimento dell’incarico di Dirigente sanitario di 2° livello.

Come facilmente prevedibile, l’opposizione del giudice amministrativo alla privatizzazione del rapporto di impiego pubblico – già resa manifesta sin dal parere espresso dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato in data 31\8\1992 n. 146 (in Riv.it.dir.lav 1993,II, p.43 segg.) ove tale ostilità era stata giustificata non, come può sembrare ovvio, dalla eliminazione della posizione di privilegio goduta dal datore di lavoro pubblico, ma dalla riduzione della tutela per il pubblico dipendente – sta trovando le sue prime manifestazioni concrete.

Altrettanto prevedibilmente, uno dei punti salienti di questa opposizione è costituito dalle varie procedure selettive, ma non concorsuali, introdotte dal legislatore nel corso del procedimento di privatizzazione.

Una di queste è il conferimento dell’incarico di Dirigente di secondo livello – quindi, per usare un termine tradizionale, di Primario – all’interno di una Azienda sanitario che in base all’art.15 del D.L.vo 502\1992 e successive modificazioni avviene non più attraverso un concorso pubblico con comparazione dei vari candidati e formazione di una graduatoria, ma con atto di conferimento del Direttore generale della Azienda, previo parere tecnico di una apposita Commissione: il parere indica gli idonei a ricoprire il posto tra gli aspiranti, senza formulare una graduatoria, e il Direttore tra gli idonei sceglie, discrezionalmente e con apposita motivazione, il destinatario del posto.

Il fatto che tale procedura non integri un concorso pubblico è pacifico (e del resto riconosciuto dalla stessa sentenza del TAR qui commentata).

Infatti, il concorso pubblico deve essere fondato su una selezione imparziale n base al merito: deve cioè prevedere una selezione dei candidati più preparati sulla base di oggettive valutazioni di merito (così Virga, Il pubblico impiego, II ed., p.226 e nota 2); il pubblico concorso consiste in un “sistema basato su valutazioni tecniche e in grado di offrire adeguate garanzie <per> la scelta del personale selezionato, il più possibile indipendenti rispetto agli organi di governo dell’Amministrazione” (così Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, X, p.174); si ha pubblico concorso quando “la scelta tra più aspiranti.. avviene mediante esercizio di un potere non discrezionale, attraverso una valutazione delle diverse posizioni degli aspiranti puramente tecnica che si estrinseca nell’acclaramento di situazioni di fatto imputabili ai diversi aspiranti in base alle quali avviene la comparazione e quindi la scelta” (così Vincenzo Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo 1994, p.354); tale comparazione deve avvenire necessariamente mediante la redazione di una graduatoria (vedi Jannotta, Concorso a un pubblico impiego in Digesto discipline pubblicistiche, vol.III, p.340).

Esclude che il conferimento dell’incarico di Dirigente sanitario di secondo livello sia un concorso pubblico anche la giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto nel periodo ricompreso tra il 1992 e il luglio 1998 (quindi, con rapporto di pubblico impiego già privatizzato, ma non ancora trasferito alla giurisdizione dell’AGO): si veda in proposito TAR Abruzzo – Pescara 13\1\1999 n. 18 che espressamente evidenzia che la procedura di scelta ora in esame non impone alcuna comparazione tra i candidati idonei e quindi fuoriesce dallo schema concorsuale (cfr. doc. allegato); si veda anche TAR Molise, in base al quale “ai sensi dell’art. 15 comma 3 d.lg. 30 dicembre 1992 n. 502, nel testo modificato dall’art. 16 d.lg. 7 dicembre 1993 n. 517, per il conferimento degli incarichi quinquennali di dirigente medico di secondo livello, il direttore generale dell’azienda Usl, all’esito di procedura avviata con avviso pubblico, attribuisce l’incarico sulla base del parere di un’apposita commissione di esperti, che ha il compito di predisporre l’elenco degli idonei previo colloquio e valutazione del “curriculum” professionale degli interessati; pertanto, la detta commissione non formula uno scrutinio comparativo degli aspiranti all’incarico, ma si limita a predisporre un elenco all’interno del quale i candidati si distinguono esclusivamente per le note caratteristiche che da esso emergono, e non per graduazione delle rispettive collocazioni” (T.A.R. Molise 1\9\1998, n. 270, in Rass. T.A.R. 1998,I,4167).

Non essendo il conferimento dell’incarico un pubblico concorso, esso non “resta devoluto alla giurisdizione del giudice amministrativo” per effetto della disposizione contenuta nell’art.68, 4° comma, che costituisce, come correttamente evidenziato dal Tribunale di Milano nell’ordinanza commentata, una disposizione eccezionale, da interpretarsi quindi in modo restrittivo. Come se non bastasse, il legislatore ha espressamente modificato l’originario testo dell’art.68 D.L.vo 29\1993 al fine di precisare che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario anche le controversie riguardanti l’assunzione al lavoro e il conferimento degli incarichi dirigenziali.

Parrebbe sufficientemente chiaro e inequivoco.

Invece no. Disposizioni di legge e consolidati principi di ermeneutica non contano per il giudice amministrativo nella sentenza commentata che, con soave nonchalance, osserva che il conferimento dell’incarico avendo “carattere di procedura selettiva”, va assimilato al concorso pubblico.

Questa picconata all’intero assetto della riforma non è isolata. Infatti, secondo il TAR Friuli Venezia Giulia, l’altro aspetto che permette di escludere la giurisdizione dell’AGO è costituito dal fatto che prima dell’assunzione la posizione dell’aspirante è di interesse legittimo. Ma questa è null’altro che una viziatissima petizione di principio: sarebbe di interesse legittimo, se si fosse in presenza di un pubblico concorso. Non essendosi in presenza di un pubblico concorso, non vi sono interessi legittimi, e vale il principio generale del 1° comma dell’art.68 del D.L.vo 29\1993 (come da ultimo modificato) secondo cui sono devolute al giudice ordinario “le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali”.

È stato comunque riconosciuto da coloro che hanno esaminato i meccanismi della riforma che “non sono identificabili ragioni istituzionali a fondamento della decisione del legislatore <di mantenere la giurisdizione amministrativa in merito ai concorsi pubblici>: infatti la compatibilità di una procedura concorsuale con una qualificazione privatistica è stata dimostrata dalla giurisprudenza sui concorsi per le assunzioni da parte di enti pubblici economici “ (così Aldo Travi, La giurisdizione nelle controversie di pubblico impiego, conferenza ad un incontro di studio presso il Tribunale di Milano).

Del resto, anche i giudizi sui concorsi per l’accesso alle Ferrovie dello Stato e quelli per l’accesso all’Ente Poste sono stati affidati al giudice ordinario (rispettivamente dalla L.210\1985 e dal DL 487\1993 convertito in L. 71\1994), ie non pare che alcun dipendente si sia lamentato per un decremento di tutela, essendosi invece la sua posizione giuridica trasformata da interesse legittimo in diritto soggettivo.

Ovviamente, il vero conflitto non è di teoria del diritto, e non è la giurisdizione. È una questione ben più importante. L’orientamento (contra legem) secondo cui i conferimenti degli incarichi dirigenziali restano nella giurisdizione del giudice amministrativo ha un preciso effetto: quello di sottrarre di fatto al giudice – amministrativo o ordinario – la valutazione sulla legittimità di tali conferimenti da parte dei Direttori delle Aziende sanitarie.

Infatti, esclusa l’ammissibilità di un’azione cautelare da parte di candidati pretermessi (che, secondo una giurisprudenza consolidata del giudice amministrativo, non potrebbero trarre alcun beneficio dal “blocco” del conferimento”), nella maggior parte dei Tribunali amministrativi la sentenza di primo grado potrà essere emessa solo allorché la maggior parte del periodo dell’incarico (5 anni) sarà decorsa; la eventuale sentenza d’appello giungerà quasi certamente a incarico esaurito.

Tocca a me, no tocca a te. Parte Prima

Tocca a me, no tocca a te. Parte prima. La ripartizione della giurisdizione in base al D.L. 80-1998 – nota a sentenza in DL 2000, P. 243.

Pretura Milano est. Atanasio, 24/7/99, Greco (avv.Mangano e Fantaguzzi) c. Ministero Pubblica Istruzione (avv.Stato), Portioli (avv.Oltolin e Giacomini).

Impiego pubblico – Giurisdizione dell’AGO – Provvedimento adottato prima del 30/6/1998, ma efficace dopo – Giurisdizione AGO.

Impiego pubblico – Giurisdizione dell’AGO – Atti di carattere organizzatorio della P.A. – Irrilevanza.

Docenti – Formazione cattedre da parte del Provveditore agli Studi – Illegittimità.

Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in una controversia di un dipendente pubblico con l’Amministrazione datrice di lavoro se il provvedimento contestato, ancorché adottato prima del 30/6/1998, abbia prodotto effetti dopo tale data. (*)

Ai sensi dell’art.29 del D.L.vo 80/1998 è irrilevante che la controversia di un dipendente pubblico con l’Amministrazione datrice di lavoro abbia ad oggetto un atto di carattere organizzatorio.

È illegittima la formazione delle cattedre di educazione fisica presso l’ITCG Cattaneo operata dal Provveditore agli Studi di Milano, avendo leso il diritto della ricorrente senza perseguire il dichiarato obiettivo di assicurare l’unitarietà didattica.

(*) Tocca a te, no tocca a me, Parte Prima: la ripartizione della giurisdizione in base al D.L.vo 80/1998 con riferimento alla soglia temporale.

Il criterio di riparto della giurisdizione adottato dall’art.45, 17° comma del D.L.vo 31/3/1998 n.80 fa riferimento alle questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998.

Non conta, quindi, il momento in cui viene esercitata l’azione o viene adito il giudice, ma conta il momento in cui è sorta la pretesa sostanziale su cui l’azione si fonda (in questo senso vedi Cass.Sez.Un. 1\2\1999 n.14).

Si tratta di una evidente deroga al principio processuale tempus regit actum, in base al quale si applica la legge in vigore nel momento in cui si svolge il processo, anche se si prendano in considerazione questioni concernenti il periodo precedente all’entrata in vigore della legge.

Il principio tempus regit actum è stato invece rispettato dal medesimo D.L.vo 80/1998 per l’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle questioni in materia di pubblici servizi, in materia urbanistica e edilizia (cfr. art.33 e 34). Tali questioni quindi, ancorché verificatesi anteriormente all’entrata in vigore del D.L.vo, devono essere proposte, dopo l’entrata in vigore del D.L.vo, al giudice amministrativo.

Il diverso criterio adottato per la ripartizione temporale della giurisdizione in materia di pubblici dipendenti si conforma però al criterio in precedenza previsto per il caso di privatizzazione di enti pubblici (e quindi di mutamento normativo della natura del datore di lavoro da pubblica in privata): l’art.1 del D.L.6/5/1994 n.269 convertito in L. 4/7/1994 n.432 nel dettare le regole del regime transitorio ha conservato alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore alla trasformazione (sulle ragioni di tale criterio cfr. B.SASSANI, La giurisdizione sulle controversie in materia di diritto all’assunzione da parte dell’Ente Poste Italiane in Giurispr.It. 1995,I, 2, 253 ss.; ).

Un criterio analogo è stato previsto anche in occasione della privatizzazione dell’Amministrazione delle Poste Italiane: l’art.10 del D.L. 487\1993 ha infatti devoluto al giudice ordinario le controversie concernenti il rapporto di lavoro di diritto privato con l’Ente Poste per il periodo successivo alla privatizzazione del rapporto (cfr. sul punto Cass.Sez.Unite 18\12\1998 n.12711).

In realtà, se il criterio non è nuovo, ben diverse sono le realtà di riferimento: la normativa del 1994 e la normativa di privatizzazione dell’Ente Poste introducono la soglia temporale con riferimento al mutare della natura del rapporto di lavoro come conseguenza del mutare della natura del datore di lavoro da pubblica a privata (quindi: finché tale natura è pubblica, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, dopo spetta al giudice ordinario); il D.L.vo 80\1998 invece introduce la soglia temporale con riferimento a rapporti di lavoro che erano già privatizzati prima del 30 giugno 1998, ancorché le relative controversie fossero rimaste affidate al giudice amministrativo: pertanto, una applicazione coerente del criterio introdotto dal D.L. 269\1994 e dal D.L. 487\1993 avrebbe imposto che la soglia temporale fosse posta alla data di entrata in vigore del D.L.vo 29\1993, data in cui la privatizzazione da un punto d vista sostanziale (anche se non processuale) ha avuto luogo.

Questo criterio, che tende ad evitare che il giudice ordinario intervenga su controversie relative al periodo in cui il rapporto era sottoposto alla giurisdizione esclusiva (sulle quali era magari maturata la decadenza per la proposizione di eventuali ricorsi), provoca però consistenti problemi di diritto transitorio: sia allorché gli effetti di un atto adottato prima del 30 giugno si producano dopo tale data, oppure, pur producendosi immediatamente, mantengano i loro effetti anche dopo tale data, sia allorché il procedimento amministrativo per giungere all’emanazione del provvedimento sia stato avviato prima del 30 giugno, mentre si sia concluso dopo.

Per ciò che riguarda il primo gruppo di problemi, secondo Pret.Catanzaro 27/8/1998 (ord.) “per individuare a chi appartenga la giurisdizione, non si deve fare riferimento al momento in cui è sorto il diritto sul quale si controverte, ma al periodo lavorativo che risulta interessato dalla controversia: se la questione riguarda vertenze attinenti al rapporto lavorativo nel periodo successivo al 30 giugno 1998 la giurisdizione appartiene al giudice ordinario” (in Giustizia civile p.2444, 1998).

Per ciò che riguarda la seconda questione, la sentenza commentata si pone in linea con una sentenza della Corte di Cassazione emessa in una fattispecie riguardante le Ferrovie dello Stato, stabilendo che la giurisdizione in merito ad una controversia sulla deliberazione con la quale è stata rifiutata l’assunzione di un dipendente assunta dopo la privatizzazione dell’ente, ma sulla base di criteri fissati dal bando di concorso emanato prima della privatizzazione stessa spetti all’AGO (Cass.Sez.Un. 3/2/1996 n.915 in Gazz.giur. 1996,IV,37).

La derogabilita’ delle disposizioni normative da parte del contratto collettivo: l’art. 2, 2° comma del T.U. 165/2001

La derogabilita’ delle disposizioni normative da parte del contratto collettivo: l’art. 2, 2° comma del T.U. 165/2001 in RIP 2005,1, p.18

L’art. 2, 2° comma del T.U. 165/2001 stabilisce che “eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche o a categorie di essi possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi”.

Un Autore, commentando questa disposizione allorché era inserita nel D.lgs. n. 29/1993, ha osservato che “si è in presenza di un fenomeno che, senza alcuna enfasi, potrebbe essere definito rivoluzionario” (Valerio Speziale, L’abrogazione della legge da parte del contratto collettivo in Il lavoro nelle Pubbliche amministrazioni, Commentario diretto da F. Carinci, vol. I, p.124).

“La singolarità della disposizione” prosegue il predetto Autore “sta nel fatto che essa.. sembra introdurre un rapporto di successione nel tempo tra legge e contratto collettivo del tutto simile a quello esistente tra atti normativi dotati di pari forza individuando un meccanismo abrogativo simile a quello della legge successiva che elimina quella precedente”.

La portata rivoluzionaria della disposizione emerge anche dalla mancanza di precedenti nella normativa giuslavoristica riguardante i dipendenti pubblici. Si può solo ricordare che con legge (n. 56 del 1987) era stato attribuito all’autonomia collettiva il ben più limitato potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962 esclusivamente per le “ipotesi individuate nei contratti collettivi”, purché – secondo la giurisprudenza – “le nuove fattispecie fossero chiaramente ed esattamente determinate” (Cass. 07.08.2004, n.15331).

Se passiamo ad analizzare il testo della disposizione dell’art. 2, 2° comma, notiamo subito che l’espressione deroga appare impropriamente utilizzata: allorché sopravviene un contratto collettivo, le disposizioni di legge, statuto e regolamento vengono non solo derogate ma del tutto cancellate dalle disposizioni del contratto collettivo. Siamo quindi in presenza non tanto di una deroga, quanto di un meccanismo abrogativo delle disposizioni precedenti.

Ma, a ben vedere, siamo in presenza di un fenomeno ancor più radicale dell’abrogazione, in quanto l’art. 2, 2° comma non sembra neppure richiedere che la disposizione contrattuale si proponga in modo espresso di modificare la precedente disposizione legislativa e detti una disciplina di contenuto diverso: sembra infatti sufficiente la semplice approvazione di un contratto collettivo riguardante una determinata materia perché la legge preesistente che ha disciplinato la stessa materia sia automaticamente abrogata. In questo senso depone anche la precisazione contenuta nell’art. 2, 2° comma, secondo cui la deroga, o l’effetto abrogativo, non operano solo in caso di espressa esclusione della derogabilità da parte del testo normativo. Ragionevolmente, debbono però aggiungersi anche i casi in cui l’adozione delle disposizioni contrattuali faccia espressamente salve le precedenti disposizioni normative o ne costituisca dichiaratamente attuazione.

Questo meccanismo abrogativo automatico ha indotto alcuni autori a sollevare dubbi sulla legittimità costituzionale della disposizione in esame (U. Rescigno, Legge e contratto collettivo nel pubblico impiego. L’art. 2 bis del D.lgs. 29 del 1993 come modificato dal D.lgs. n.546 del 1993 in LD 1994, p.505).
La ratio di questa disposizione è stata comunque individuata da un lato nell’intenzione di impedire interventi del legislatore che, con interventi ad hoc volti a privilegiare specifici gruppi di lavoratori pubblici forti, introduca deroghe rispetto alla contrattazione collettiva, d’altro lato nella parallela intenzione di impedire tentativi impliciti o clandestini di rilegificazione (si veda per esempio L. Zoppoli, Il sistema delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro dopo la riforma: una prima ricognizione dei problemi in M. Rusciano – L. Zoppoli, L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Torino, p.13).

Fatte queste precisazioni che evidenziano il carattere del tutto eccezionale della disposizione nel nostro ordinamento, con tutte le conseguenze che da ciò derivano in materia di vincoli alla interpretazione della stessa, possiamo esaminarne ora i limiti di operatività.

Prima di tutto, e per ciò che riguarda lo strumento che produce l’effetto abrogativo, esso non può che essere un contratto o un accordo collettivo in senso proprio, stipulato quindi secondo le regole e le modalità poste dagli artt. 40 e seguenti del T.U. 165/2001. L’effetto abrogativo non può scaturire da contratti integrativi (anche perché essi non possono derogare alle disposizioni contenute nei contratti nazionali e quindi introdurre effetti abrogativi che in detti contratti non siano previsti), né, a maggior ragione, può scaturire da accordi intercorsi tra le parti collettive con finalità consultive o preparatorie dell’adozione di atti o regolamenti adottati dalla Pubblica Amministrazione (ed assorbiti quindi al’interno di questi atti). Infatti, se l’accordo venga trasfuso in un regolamento adottato con atto amministrativo a valenza generale, non può estendersi la previsione eccezionale dell’art. 2, 2° comma fino al punto da permettere una abrogazione di una fonte normativa mediante un atto amministrativo generale (ancorché adottato con riferimento ad un accordo collettivo).

Per ciò che riguarda l’oggetto della deroga, esso risulta delimitato dall’art. 2, 2° comma sotto vari profili.

In primo luogo, l’effetto derogativo può verificarsi solo se le disposizioni normative di statuto o di regolamento riguardino “discipline del rapporto di lavoro”: quindi un complesso di norme riguardanti il rapporto destinate a protrarre i loro effetti nel tempo. Ne segue che non possono essere abrogate dal contatto collettivo disposizioni normative che riguardano specifici aspetti del rapporto di lavoro pubblico, o eventi che non abbiano carattere di durata (è il caso, per esempio, del trasferimento di dipendenti da un’amministrazione a un’altra: esso, se disciplinato da una fonte normativa, non può essere successivamente disciplinato in modo difforme da una fonte contrattuale).
In secondo luogo, le discipline normative derogabili debbono riguardare o l’insieme dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche, o categorie di essi. Questa precisazione introduce una doppia delimitazione.

Da un lato, non sono derogabili disposizioni che disciplinano il rapporto di lavoro non solo dei dipendenti pubblici, ma anche di quelli privati.
D’altro lato, non sono derogabili dalla contrattazione collettiva le disposizioni normative che riguardano solo taluni dipendenti dell’amministrazione pubblica con riferimento alle specifiche caratteristiche del loro rapporto (per esempio, i lavoratori precari), ma non riconducibili alla nozione unitaria di categoria. Quest’ultimo termine è, in realtà, ambiguo. Secondo alcuni, si tratterebbe del termine utilizzato dall’art. 2095 c.c.: le categorie sarebbero quindi quelle ivi previste: operai, impiegati, quadri e dirigenti.

Secondo altri, il termine categorie dovrebbe impropriamente designare i vari comparti in cui è organizzata la contrattazione all’interno della pubblica amministrazione. Nel primo caso, sarebbero derogabili solo quelle disposizioni normative che disciplinano il rapporto di lavoro dell’insieme degli impiegati, o dei dirigenti (ma non di subcategorie di essi). Nel secondo caso, sarebbero derogabili solo quelle disposizioni normative che disciplinano interi comparti della pubblica amministrazione.

In conclusione, l’art. 2, 2° comma introduce un meccanismo abrogativo eccezionale, che permette, a determinate condizioni e entro certi limiti, la sostituzione della volontà delle parti collettive alla volontà del legislatore o dell’amministrazione espressa attraverso atti a valenza generale (statuti e regolamenti). Solo rispettando rigidamente condizioni e limiti, la disposizione, ancorché eccezionale, può evitare delicati problemi di legittimità costituzionale. Del resto, condizioni e limiti riflettono e confermano lo scopo perseguito dalla norma in esame, che è quello non di affidare alla contrattazione collettiva piena libertà di sostituirsi alle disposizioni normative, ma quella di impedire ritagli o microriforme di settore, introdotte sia dalla contrattazione sia da leggi adottate ad hoc per specifiche gruppi o subcategorie di dipendenti pubblici.

Il punto sui concorsi interni

Il punto sui concorsi interni, nota a sentenze, in RIP 2005, I, 110

1.1 Progressione verticale, progressione orizzontale, passaggi di area, pseudopassaggi di posizione economica, concorsi interni e pseudoconcorsi. I primi effetti della sentenza delle sezioni unite della corte di cassazione n. 15403 del 2003.
Era ampiamente prevedibile che la frattura determinata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 15403 del 2003 non si sarebbe limitata ad un riassetto del riparto di giurisdizione in materia di concorsi interni, ma avrebbe scosso dalle fondamenta il sistema di progressione di carriera all’interno del pubblico impiego. Con la sentenza citata la Corte di Cassazione, modificando il proprio precedente orientamento, ha attribuito alla giurisdizione del giudice amministrativo non solo i concorsi (pubblici) per l’accesso a posizione di pubblico impiego (secondo la piana interpretazione della disposizione dell’art. 63 del T.U. 165/2001), ma anche tutti i concorsi interni diretti a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore” (cosiddetta progressione verticale). In questo modo, la Corte ha abbandonato la impostazione strettamente privatistica cui aveva inizialmente aderito, sostenuta dalle organizzazioni sindacali dei dipendenti ed anche da gran parte della dottrina giuslavoristica: la progressione di carriera si riduceva a “sviluppo professionale”, sottratto al regime del concorso e all’art. 97 della Cost., ed affidato alle valutazioni delle parti sociali mediante contratti e accordi collettivi. La Corte di Cassazione ha scelto l’impostazione pubblicistica della privatizzazione dell’impiego pubblico, privilegiando non più la discrezionalità delle scelte di carattere manageriale, ma la tutela del buon andamento e dell’imparzialità delle scelte operate dalla pubblica amministrazione in sede di organizzazione del lavoro, oltreché la tutela del diritto all’accesso dei cittadini al lavoro presso la pubblica amministrazione.
Il mutamento di rotta è stato determinato da due cause concorrenti.
La prima, di carattere istituzionale-giuridico, costituita dalla pressione della Corte costituzionale che ha continuato a ribadire l’orientamento pubblicistico secondo cui il concorso pubblico resta lo strumento prioritario e più garantista per selezionare i dipendenti pubblici non solo nella fase dell’assunzione, ma anche nella fase della progressione di carriera, mentre il concorso interno resta un metodo residuale, ammissibile solo in circostanze delimitate e in modo contenuto.
La seconda, di carattere politico-gestionale, costituita dal disastroso fallimento di amministrazioni pubbliche e sindacati nello svolgimento del delicato compito di gestire in modo responsabile, nella prospettiva del raggiungimento di un obiettivo di maggiore efficienza dell’organizzazione, lo sviluppo di carriera dei dipendenti pubblici. La realtà è stata il dilagare di iniqui accordi spartitori tra organizzazioni sindacali dei dipendenti a livello decentrato e le amministrazioni, senza tenere in alcun conto i principi di efficienza e di imparzialità, il dilagare di aumenti economici, giustificati e connessi a passaggi di livello e di funzione; il dilagare di procedure di avanzamento di massa mascherate da pseudoconcorsi interni con percorsi di riqualificazione del tutto formali (ovviamente con grave pregiudizio sia per i nuovi assunti, che si sono ritrovati coperti tutti i posti cui avrebbero potuto accedere con concorsi anche interno ma svolti seriamente e con responsabilità, sia per il pubblico di coloro che aspirano all’assunzione in una amministrazione pubblica).
La sentenza della Corte, tuttavia, ha avuto riscontri tutt’altro che unanimi, sia da parte dell’Autorità giudiziaria ordinaria che da parte del giudice amministrativo.
In questo numero sono riportate decisioni del giudice ordinario che si adeguano all’interpretazione estensiva e “pubblicistica” dell’espressione assunzione utilizzata dal legislatore (si veda Trib. Milano, est. Punzo, 06.12.2004, in RIP, 1, 184), insieme a decisioni che motivatamente da essa si discostano (si veda Corte Appello Milano 13.12.2004 n. 834, in RIP, 1, 85). E’ riportata anche una decisione del giudice amministrativo che nega la propria giurisdizione in una controversia riguardante un concorso interno per un passaggio da un’area a quella superiore, contestando la tesi delle Corte di Cassazione (e della Corte Costituzionale) che riconduce al concetto di assunzione “il passaggio di dipendenti da una qualifica all’altra, poiché detto passaggio attiene ad una vicenda modificativa del rapporto di regola senza novazione del medesimo” (TAR Lazio, sez. III bis, 20.12.2004, n. 16664 in RIP, 1, 91) e discostandosi anche dall’orientamento del Consiglio di Stato che ha ribadito la sussistenza della giurisdizione amministrativa per il passaggio da area ad area (Cons. Stato, sez. IV 3/11/2004 n. 7107 in Dir. giust. 2004 con nota di DE GIORGI.
Già a questo primo livello, quindi, del semplice recepimento dell’orientamento espresso dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, la situazione si presenta tutt’altro che risolta.
Ma i problemi non si fermano qui. Infatti, una volta stabilito che i passaggi di qualifica e di funzione interni debbono intendersi come assunzioni, e rispettare quindi tutti i principi previsti per questo istituto, con assoggettamento alla giurisdizione del giudice amministrativo, si è aperta una nuova ampia tipologia di problemi.
Tra questi il più devastante è quello della valutabilità dei passaggi qualificati nei contratti collettivi come mere progressioni economiche “orizzontali” all’interno di un’area funzionale, ma in realtà comportanti una progressione di livello, in quanto connessi con un incremento di funzioni e di responsabilità.
In tutti questi casi – che sono quasi la normalità in tutta la contrattazione collettiva – ancorché formalmente qualificati come passaggi di posizione economica siamo in realtà in presenza, se si segue rigorosamente l’impostazione pubblicistica, di promozioni occulte e di passaggi di livello o di qualifica, con tutte le conseguenze previste per questi ultimi casi: da un lato, giurisdizione del giudice amministrativo, d’altro lato, necessità di accesso mediante concorsi pubblici e rispetto dei principi posti dall’art. 97 della Cost.
È questo il caso preso in esame e risolto dalla sentenza del TAR Lazio (TAR Lazio sez. I 04.11.2004, n. 12370 in RIP, 1, 94), con orientamento cui aderisce anche una sentenza del Tribunale di Milano (Trib. Milano, est. Peragallo, 02.12.2004, n. 3666 in RIP, 1, 92)

Secondo il TAR Lazio, le posizioni economiche C1, C2 e C3 in cui è suddivisa l’area C nel CCNL del Comparto Ministeri non rappresentano semplici passaggi economici, ma veri e propri passaggi di qualifica. La conseguenza è non solo che le controversie relative rientrano nell’ambito della giurisdizione amministrativa, ma anche che a questi passaggi si applicano le norme e i principi che disciplinano le procedure concorsuali. A questa conclusione il TAR perviene ritenendo ammissibile di fronte al giudice amministrativo l’impugnazione incidentale delle disposizioni dei contratti collettivi che prevedono passaggi interni e concorsi riservati, in quanto questione pregiudiziale rispetto a quella sottoposta all’esame del Giudice amministrativo.

1.2. La giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di legittimità dei concorsi interni in relazione ai principi di uguaglianza e parità di accesso ai pubblici uffici (3 e 51 Cost) e di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa (97 Cost.)

Corte Costituzionale, 04.01.1999, n.1 in Giorn. dir. amm. 1999, 536 con nota di V. TALAMO; in Giur. it. 2000, 238 con nota di Fontana secondo la quale “il concorso pubblico, quale meccanismo di selezione tecnica e naturale dei più capaci, resta il metodo migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare la loro funzione in maniera imparziale ed al servizio esclusivo della nazione” ed è posto a tutela non solo dell’interesse generale alla individuazione dei migliori, ma anche del diritto dei potenziali aspiranti esterni. La Corte precisa che il regime del concorso pubblico si applica anche per “il passaggio ad una fascia funzionale superiore, nel quadro di un sistema che non prevede le carriere o le prevede entro limiti ristretti” e che deroghe alla regole del concorso sono ammissibili “soltanto nei limiti segnati dall’esigenza di garantire il buon andamento dell’amministrazione o di attuare altri principi costituzionali”
In senso conforme:
Corte Costituzionale, 2002 n. 194 in Foro it. 2003, 1, 22; Giorn. dir. amm. 2002, 953 con nota di A.Zucaro; Foro amm., 2002,1,1991 con nota di R. Cavallo Perin, Giur. it. 2003, 1084 con nota di De Bernardin, Dir. lav. 2002, II, 533 con nota di Bolognino secondo la quale è incostituzionale la normativa (art. 3, commi 205, 206 e 207, L. 549/1995, come modificato dall’art. 22, comma 1, lett. a), b) e c), L. 133/1999) che prevede procedimenti interni, detti di riqualificazione, per la copertura del settanta per cento dei posti disponibili nelle dotazioni organiche dell’amministrazione finanziaria per i livelli dal quinto al nono.
Corte Costituzionale, 26.01.2004, n. 34 in Foro it. 2004, I, 1355, Giur. cost. 2004, Foro amm. CdS, 2004, 78 secondo cui è incostituzionale l’art. L.R. Calabria 4/2002, nella parte in cui autorizza l’azienda ospedaliera Ciaccio Pugliese a coprire l’aumento di organico di cinque posti di biologo e due posti di medico mediante un concorso riservato al solo personale che ha già operato con l’assegnazione di borse di studio nell’ambito di taluni progetti di ricerca
Corte Costituzionale, 23.05.2002, n. 218 in Giorn. dir. amm. 2002, 953 e in Giust. civ. 2003, I, 785, secondo cui è costituzionalmente illegittima la normativa (art. 12 L. 140/1999) che consente l’inquadramento nella qualifica dirigenziale, a semplice domanda, dei dipendenti delle camere di commercio che rivestano la qualifica di capo servizio.
Corte Costituzionale, 23.07.2002, n. 373 in Giur. it. 2003, 420 con nota di Olivieri, Lav. nelle p.a. 2002, 571 con nota di Montini e in Foro amm. CdS, 2002, 1989, secondo cui è incostituzionale la normativa regionale (art. 32, comma 10, L.R. Puglia 7/1997 e art. 39 L.R. Puglia 26/1984) che riserva la copertura del cento per cento dei posti messi a concorso al personale interno.

1.3. La giurisprudenza della Corte di Cassazione sul riparto della giurisdizione delle controversie sulle procedure selettive nel pubblico impiego.

Corte di Cassazione, S.U., 15.10.2003, n. 15403 in Lav. nella p.a., 2003, 910 con nota di L. Sgarbi, Gior. dir. amm. con nota di Corpaci, Lav nella giur., 2004, 362 con nota di Lovo, 1024, Giust. civ., 2004, I, 69 con nota di Pallini, in Foro amm. CdS 2003, 2868, 3282 con note di Lasalvia, Schlitzer E Gallo, in Mass. giur. lav. 2004, 112 con nota di Giovagnoli.
Spetta al giudice amministrativo la giurisdizione nella controversie concernenti non solo “le procedure concorsuali strumentali alla costituzione per la prima volta del rapporto di lavoro”, ma anche i concorsi interni e “le prove selettive dirette a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore”.
Quindi vi è assunzione e non sviluppo professionale di carriera, tutte le volte che si accede ad una posizione di inquadramento superiore.
In:
Corte di Cassazione, S.U., 10.12.2003, n. 18886 in Foro amm. CdS, 2004, 721 nota di Gagliardi, D.L. Riv. critica dir. lav., 2004, 193 Giur. it. 2004, 1064 con nota di Caranta, secondo cui la modificazione di un rapporto di lavoro con un’amministrazione pubblica mediante svolgimento di un concorso interno, è attribuita all’autorità giudiziaria ordinaria, in considerazione del fatto che il bando di concorso riservato al personale interno ed il conseguente svolgimento della procedura selettiva rappresentano atti di gestione del rapporto di lavoro, espressione della capacità di esercizio dei poteri del privato datore di lavoro, ex art. 4, D.lgs. n. 29/1993, sostituito dall’art. 4, D.lgs. 80/1998, ora art. 5 comma 2, D.lgs. 165/2001, sempre che non si tratti di prove selettive dirette a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore (nella specie, la Cassazione ha rilevato che non vi era alcuna novazione oggettiva del rapporto di lavoro, trattandosi di semplice passaggio di livello, senza variazione di area o di categoria).
Corte di Cassazione, S.U., 26.02.2004, n. 3948 in Foro amm., 2004, 1321 con nota di B. Gagliardi, Foro it., 2004, I, 1755 secondo cui la destinazione alla copertura di posti vacanti e non l’immissione nella Pubblica amministrazione di soggetti ad essa anteriormente estranei integra un’assunzione ed è quindi l’elemento che determina la giurisdizione del giudice amministrativo (La Corte esamina una procedura selettiva interna per il passaggio, nell’area funzionale C del Comparto Ministeri, dalla posizione C2 alla posizione C3.
Pertanto secondo la Corte risultano quattro possibilità:
a) controversie relative a concorsi per soli esterni: giudice amministrativo
b) controversie relative a concorsi misti (candidati esterni e interni): giudice amministrativo
c) concorsi interni che comportano il passaggio da un’area all’altra: giudice amministrativo, ferma restando la verifica della legittimità costituzionale che precludono la partecipazione a candidati esterni
d) concorsi interni che comportino passaggio da una qualifica ad un’altra, nell’ambito della stessa fascia: autorità giudiziaria ordinaria.

Specialità del rapporto di lavoro degli autoferrotranviari: è la fine di un mito?

Introdotto nell’ordinamento giuslavoristico italiano all’inizio degli anni Trenta, non scalfito dai successivi profondi mutamenti costituzionali e istituzionali; intoccato dai profondi mutamenti intervenuti nel diritto del lavoro prima con il vento garantista degli anni Settanta, poi con il vento della liberalizzazione degli anni Novanta del secolo scorso, il principio della specialità del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri dipendenti da datori di lavoro in regime di concessione non aveva incredibilmente subito contraccolpi neppure a seguito della privatizzazione del rapporto dei “fratelli maggiori”, i dipendenti delle Ferrovie dello Stato, né, poi, a seguito della più generale privatizzazione del rapporti di pubblico impiego, con la connessa scomparsa della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Poi, in modo del tutto inaspettato, questo inossidabile relitto del passato, che ha giustificato il sopravvivere di situazioni di discriminazione assurde e paradossali, sembra prossimo ad estinguersi per effetto della sentenza in esame della Corte di Cassazione.
Il principio di specialità che trova la sua fonte nel RD 148\1931 e in particolare nell’Allegato A (“Coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tramvie e linee di navigazione interna in regime di concessione”) ha fatto sì che gli autoferrotranvieri siano sempre rimasti a metà strada, né lavoratori privati, né lavoratori pubblici, in quanto destinatari di una normativa, appunto, speciale, giustificata, secondo formule utilizzate in modo sempre più ripetitivo e meccanico da tutti gli organi giurisdizionali che degli autoferrotranviari si sono occupati, dalla “peculiarità delle scelte organizzative nelle aziende di trasporto” e dall’”interesse pubblico al buon funzionamento ed efficienza del servizio pubblico”.
Sono così sopravvissuti nel rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri istituti di sapore settecentesco, quali l’opinamento del direttore dell’azienda sul comportamento del dipendente, e sanzioni disciplinari di tipo paramilitare quali la retrocessione nel grado e nello stipendio, la proroga dell’aumento dello stipendio, e, addirittura, il trasloco punitivo del dipendente, quale pena accessoria alla sanzione disciplinare (art.44 dell’Allegato A al RD 148\1931).
In nome della specialità del rapporto è inoltre sopravvissuto – ed è l’oggetto specifico della sentenza commentata – un curioso sistema di doppia giurisdizione: l’art.58 dell’Allegato A al RD 8\1\1931 n.148 attribuisce infatti al giudice amministrativo – anziché al giudice ordinario – la giurisdizione in materia di impugnazione delle decisioni del Consiglio di disciplina (da intendersi estesa a tutte le controversie disciplinari, anche in assenza di pronuncia del Consiglio di disciplina secondo Cass. Sez.Un. 21\4\1989 n.1906 in …), mantenendo la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le altre controversie di lavoro, comprese quelle concernenti i provvedimenti espulsivi, di carattere non disciplinare.
Come si è detto, la privatizzazione del rapporto di impiego dei dipendenti delle Ferrovie dello Stato avvenuta con L. 17\5\1985 n.210 (ben prima della trasformazione dell’ente in società per azioni) non ha posto fine a questa situazione, nonostante che la giustificazione della attribuzione della giurisdizione sui provvedimenti disciplinari al giudice amministrativo fosse ormai priva di ragionevolezza, tenuto conto che l’interesse al buon funzionamento del servizio pubblico di trasporto non aveva impedito di affidare al giudice ordinario le stesse controversie riguardanti i ferrovieri. Con sentenza 27\4\1988 n.500 (in Giur. it. 1989, I,1,769; in Cons. Stato 1988, II,799; in Giur. cost. 1988, I,2239; in Dir. lav. 1988, II,223), la Corte costituzionale si era infatti limitata ad evidenziare la necessità di tenere conto di questa nuova situazione, e ad invitare il legislatore ad adottare sollecite misure per una riforma del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri. Il legislatore però, con la L.12\6\1988 n. 270 ha solo delegificato le fonti di disciplina del rapporto, attribuendo alla contrattazione collettiva anche la possibilità di derogare alla disciplina posta dall’Allegato A, senza però intervenire sulla giurisdizione, rimasta quindi attribuita al giudice amministrativo (in questo senso Corte Cass. Sez.Un. 9\3\1995 n.2740 e 22\3\1995 n.3319, rispettivamente in … ; e Cons.Stato, sez.VI, 5\5\1995 n.403 in …; sulla L.270\1988 si veda MARIANI, La delegificazione del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri in Riv.it.dir.lav. 1989,I,202)
Poi, la successiva privatizzazione del rapporto di impiego pubblico sembrava dover porre finalmente fine alla giurisdizione del giudice amministrativo sulle decisioni di carattere disciplinare: essendo anche i rapporti dei lavoratori pubblici, compresi gli aspetti di carattere disciplinare, devoluti alla giurisdizione del giudice ordinario, non vi era più nulla che giustificasse la sottrazione al giudice ordinario delle controversie disciplinari degli autoferrotranvieri (il cui rapporto non era certo “più speciale” o di maggiore interesse pubblico di quello del medico o dell’insegnante, categorie per le quali il legislatore non aveva ritento di riservare la materia disciplinare al giudice amministrativo).
Invece no.
L’art 58 del RD è stato infatti ripetutamente ritenuto, in ogni sede giurisdizionale, da un lato costituzionalmente legittimo, d’altro lato non intaccato dalla riforma.
Così, la Corte Costituzionale, anche dopo l’intervenuta privatizzazione, si è ripetutamente pronunciata per la manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale dell’art.58 del RD 148\1931: si vedano la sentenza di non fondatezza 8\3\1996 n. 62 (in Foro it. 1996, I,1121 con nota; in Giust. civ. 1996,1231; in Giur. cost. 1996, 623 e in Mass. giur. lav. 1996, 496); l’ordinanza di manifesta infondatezza 7\5\2002 n. 161 (in Giur. cost. 2002, 136; D.L. Riv. critica dir. lav. 2002, 581 con nota di PAGANUZZI e in Giust. civ. 2003, I,1119) e, infine, la sentenza di manifesta infondatezza 7\11\2002 n.439 (in Giur. Cost., …)..
Nelle suddette sentenze la Corte costituzionale ha ritenuto non irragionevole la scelta del legislatore di non intervenire sulla specifica regolamentazione delle sanzioni disciplinari dei dipendenti delle aziende pubbliche di trasporto in concessione mantenendo la ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo (in generale, sulla discrezionalità del legislatore in tema di riparto di giurisdizione si veda anche la sentenza n.275 del 2001 in … sul tema della privatizzazione dell’impiego pubblico e l’ordinanza n. 414 del 2001 in … in tema di soggiorno degli stranieri in Italia); ha inoltre ritenuto non meno vantaggiosa, in linea di principio, la tutela offerta davanti al giudice amministrativo rispetto a quella offerta dal giudice del lavoro. Per ciò che riguarda quest’ultimo punto, vi è, nello stesso senso, una giurisprudenza consolidata, con riferimento però alla giurisdizione esclusiva (si vedano per esempio la sentenza n.140 del 1980, la sentenza n.47 del 1976 e la sentenza n.43 del 1977, rispettivamente in ….); la Corte sembra però aver dimenticato che nel caso dell’art.58 dell’Allegato al RD non siamo in presenza di una giurisdizione esclusiva, ma di una giurisdizione generale di legittimità, quindi riguardante meri interessi legittimi, sicché la tesi dell’equipollenza è, in questo caso, difficilmente sostenibile (sul punto, si veda, a commento delle sentenze n.208 del 1984 e 240 del 1984 della Corte costituzionale concernenti questo aspetto la nota di A.BIANCHI, La Corte costituzionale sancisce che gli aaa non hanno diritti in materia disciplinare, in Lavoro 80, 1984, pag.83 e segg.).
D’altro canto, i giudici amministrativi – conformandosi alla giurisprudenza elle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – hanno costantentemente ritenuto vigente l’art.58 del RD, in quanto norma speciale, non abrogata, né esplicitamente né implicitamente, dalla legislazione sulla privatizzazione dell’impiego pubblico, con conseguente mantenimento della devoluzione alla cognizione del giudice amministrativo il contenzioso disciplinare degli autoferrotranvieri, qualsiasi organo abbia espresso il provvedimento punitivo e quale che sia il rapporto di lavoro, con un ente pubblico o con un privato concessionario del servizio di trasporto (si vedano: Consiglio di Stato, sez. VI, 1 dicembre 2003, n. 7857 in …) sia vari Tribunali amministrativi (si vedano T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 1 marzo 2004, n. 799 in …;T.A.R. Sicilia Palermo, sez. I, 2 gennaio 2004, n. 41). Queste decisioni si sono sostanzialmente adeguate all’orientamento ribadito dalla Corte di Cassazione secondo cui “l’entrata in vigore del d.lg. n. 80 del 1998 – con la conseguente devoluzione delle controversie del pubblico impiego al giudice ordinario “salvo tassative eccezioni” – non ha determinato l’abrogazione, nè espressa nè implicita, dell’art. 58 del r.d. n. 148 del 1931, all. A), con la conseguenza che, a tenore di tale norma, restano devolute alla cognizione del giudice amministrativo le controversie relative all’irrogazione di sanzioni disciplinari a carico dei lavoratori autoferrotramvieri” (così Cass. Sez.un. 27\1\2004 n.1413; vedi anche, tra le molte, Cass.Sez.Un. 10\7\2003 n.10900; 2\4\2003 n.5073).
Tuue le sentenze citate non hanno tenuto conto neppure della modifica introdotta dall’art.102 della L.31\3\1998 n.112 che ha soppresso le funzioni amministrative relative alla nomina dei consigli di disciplina, affidando le costituzione degli stessi alle imprese di trasporto (è quindi rimasto inascoltato il parere dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato reso in data 19\4\2000 secondo il quale questa soppressione comportava l’abrogazione implicita dell’art.58 dell’Allegato A del RD 148\1931.
Giungiamo così alla sentenza in esame che meditatamente modifica il proprio orientamento, compiendo un approfondito excursus storico-normativo. La conclusione è che l’art.58 deve ritenersi implicitamente abrogato, non tanto per effetto di una specifica normativa sopravvenuta, ma a seguito di una sua “progressiva devitalizzazione”, avviatasi addirittura con la L.22\9\1960 n.1054 che aveva ricondotto nel contesto privatistico il regime disciplinare dei dipendenti di aziende di trasporto di modeste dimensioni (è bene però ricordare che questa riforma è stata attuata non per sottrarre gli autoferotranvieri ad un regime anacronistico e discriminatorio, ma per agevolare le imprese di trasporto minori, sgravandole dei costi della costituzione e del mantenimento del regime di disciplina…).
L’elemento indicato come decisivo per completare la devitalizzazione della norma è stato costituito – secondo la sentenza – dalla decisione della Corte Costituzionale n.204 del 2004. Questa sentenza, resa in materia di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sui servizi pubblici, ha evidenziato che in base all’art.103, 1° comma della Cost. il legislatore ordinario non possiede una assoluta discrezionalità nell’attribuire materie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma può solo individuare particolari materie nelle quali la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe anche posizioni di diritto soggettivo. Tra queste materie non può certo includersi l’estrazione delle controversie disciplinari degli autoferrrotranvieri dalla generale giurisdizione del giudice ordinario in materia di rapporto di lavoro degli stessi.
Sembra proprio che per il principio di specialità della disciplina del rapporto degli autoferrotranviari si stia approssimando la fine.

Specialità del rapporto di lavoro degli autoferrotramvieri: è la fine di un mito?” nota a Cass. Sez.Un. 13-1-2005 n.460 in RIP n.2, 2005, p. 23