Contributo a una piccola guida alla privatizzazione…

Contributo a una piccola guida alla privatizzazione del pubblico impiego in DL 2000, p. 9.

Il punto di partenza è dato da disposizioni normative risalenti al 1923 in base alle quali il rapporto di lavoro del pubblico dipendente è stato affidato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Prima di questa data, il pubblico dipendente che intendeva proporre una azione nei confronti  dell’Amministrazione datrice di lavoro, doveva adire l’Autorità giudiziaria ordinaria, qualora la sua pretesa avesse avuto natura di diritto soggettivo, e il giudice amministrativo qualora la sua pretesa avesse avuto natura di interesse legittimo.

In larghissima approssimazione e in linea di principio, rientravano nella prima ipotesi le controversie riguardanti pretese di carattere economico, nella seconda pretese riguardanti la carriera e l’inquadramento. In pratica, erano affidate al giudice amministrativo tutte le pretese del dipendente che presupponevano la impugnazione di un atto amministrativo emesso dal datore di lavoro: quindi, anche le pretese di carattere economico che si fondassero sulla contestazione della legittimità di un atto del datore di lavoro.

La situazione di oggettiva confusione provocata dall’esistenza di due giurisdizioni concorrenti, con una linea di demarcazione assai labile fu risolta, appunto, dall’affidamento al giudice amministrativo (allora, una apposita Sezione del Consiglio di Stato) della giurisdizione esclusiva su tutte le controversie dei pubblici dipendenti, sia che riguardassero diritti soggettivi, sia che riguardassero interessi legittimi.

In concreto, questa soluzione ha offerto sul piano sostanziale consistenti vantaggi alla Pubblica Amministrazione, mettendole a disposizione un processo che pareva fatto su misura per il datore di lavoro pubblico: divieto di sentire le parti, divieto di assumere testimonianze, giudizio basato sugli atti emessi dalla Pubblica Amministrazione datrice di lavoro, termini di decadenza generalizzati e rigorosissimi anche i diritti soggettivi del lavoratore, di fatto tutti convertiti  in interessi legittimi allorché si fosse in presenza di atti amministrativi.

C’è solo da dire che il rigore della forma processuale è stato col tempo temperato dalla giurisprudenza dei Giudici amministrativi, che hanno offerto una tutela specializzata e attenta agli specifici problemi (anche corporativi) delle varie categorie (insegnanti, ospedalieri, statali, ecc.) e che – proprio per controbilanciare l’impossibilità di indagini sostanziali sui fatti e sul rapporto – hanno esasperato forme e garanzie che l’Amministrazione doveva rispettare, pena l’illegittimità degli atti.

Il bizzarro risultato di questo processo è stato questo: indipendentemente dalla realtà e da ciò che era effettivamente successo, le controversie erano decise dall’abilità e dalla diligenza con cui l’Amministrazione attuava le varie fasi del procedimento e motivava le proprie decisioni.

Nonostante questi motivi (o forse in parte anche proprio per questi motivi), la soluzione della giurisdizione esclusiva non solo è sopravvissuta al crollo del regime che la aveva ideata, ma è stata solidificata anche dalla Costituzione repubblicana, che ha attribuito al Consiglio di Stato la giurisdizione in materia di interessi legittimi e, in particolari materie, anche dei diritti soggettivi (art.103 Cost.), con ciò garantendo una copertura costituzionale alla giurisdizione esclusiva nel pubblico impiego; è poi rimasta non contestata, ed anzi ulteriormente incrementata in tutti i successivi tentativi più o meno attuati di riforma dell’organizzazione della Pubblica Amministrazione.

Anche allorché, negli anni Settanta si è sempre più seriamente posto un problema di omogeneizzazione del trattamento dei dipendenti pubblici e privati, a fronte dell’incremento della tutela dei diritti di questi ultimi determinato dall’acquisita forza contrattuale delle organizzazioni sindacali, e dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, la giurisdizione esclusiva ha resistito, sia pure con ritocchi portati dalla giurisprudenza pretoria soprattutto del Consiglio di Stato e da interventi della Corte costituzionale. Ha resistito quasi incredibilmente anche al confronto con il nuovo processo del lavoro per i dipendenti privati, il quale, con le sue caratteristiche di celerità, oralità, informalità, aveva messo a nudo il carattere farsesco delle regole processuali cui erano assoggettati i dipendenti pubblici.

Ed infatti, nonostante alcune voci di dissenso, allorché viene realizzata, dopo anni di tentativi e di proposte, una legge quadro per il pubblico impiego che, tra l’altro, lascia spazio alla contrattazione collettiva (L.29\3\1983 n.93), la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo viene confermata.

E solo all’inizio degli anni Novanta che si fa strada l’idea di ricondurre il rapporto di pubblico impiego alle regole del rapporto di lavoro privato anche sotto il profilo processuale.

Alla base di questo imprevedibile revirement di politica e ideologia processuale stanno vari elementi: il vento della privatizzazione e della riduzione delle posizioni di supremazia della Pubblica Amministrazione, la conseguente necessità di introdurre regole di competizione e di mercato anche all’interno dei settori prima integralmente controllati da quest’ultima, la necessità di ridurre il potere quasi-monopolistico acquisito dalle organizzazioni sindacali nel pubblico impiego (spesso rappresentate da dirigenti dell’Amministrazione, che così riuscivano a giocare contemporaneamente u due tableux), l’opportunità di liberare il datore di lavoro pubblico da lacci, lacciuoli e formalismi di un processo progettato per favorirlo, ma nel quale era rimasto gradualmente ingabbiato.

Quali erano a questo punto i percorsi di privatizzazione del rapporto del dipendente pubblico a disposizione del legislatore? Erano teoricamente tre.

La prima era quella di un futuro costruito come ritorno al passato: cancellazione della giurisdizione esclusiva e attribuzione di diritti soggettivi e interessi legittimi rispettivamente a Giudice ordinario e Giudice amministrativo.

Questo tipo di soluzione appariva effettivamente compatibile con il D.L.vo 29\1993 nella sua originaria stesura: l’art.68 nella sua iniziale formulazione nulla precisava in ordine ai poteri del giudice ordinario in merito ai rapporti di lavoro pubblico privatizzati. Pertanto, se si fosse ritenuto che tutti o alcuni degli atti con i quali l’Amministrazione gestisce il rapporto di lavoro avessero mantenuto la natura di atti amministrativi, al giudice ordinario sarebbero stati preclusi provvedimenti costitutivi, sostitutivi o di condanna, in virtù del disposto dell’art.4 dell’Allegato E della L.2248/1865.

In altri termini, si era creato un mostro costituito da un rapporto di lavoro privatizzato, ma pur sempre gestito in tutto o in parte da atti pubblicistici, tanto che il Consiglio di Stato aveva potuto criticare la riforma perché arretrava la tutela del pubblico dipendente rispetto all’Amministrazione (sul punto, si veda CECCHELLA, La riforma giurisdizionale nella riforma del pubblico impiego, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1995, p.1339 ss.; Cons.Stato, Adunanza Generale 31\8\1992 n.146 in Riv.it.dir.lav. 1993,III, p.43).

In concreto, sarebbe rimasto completamente affidato all’interprete – giudice ordinario o giudice amministrativo – l’attribuzione della qualità di atto amministrativo o di atto privato a qualsiasi atto posto in essere dall’Amministrazione all’interno di un rapporto di lavoro (con immaginabili conseguenze sul piano della certezza del diritto o meglio della confusione che ne sarebbe derivata, con incessanti scontri giudiziari sulla giurisdizione e innumerevoli problemi di conflitto.

Una seconda soluzione era quella di affidare al Giudice ordinario la tutela sia dei diritti soggettivi che degli interessi legittimi.

Era però una soluzione costituzionalmente rischiosa.

Infatti, l’orientamento prevalente ritiene che, mentre l’art.103 della Cost. attribuisce al Giudice amministrativo la giurisdizione in materia di interessi legittimi e permette, come si è visto, di attribuirgli la giurisdizione su diritti soggettivi in particolari materie, non vi è una analoga disposizione che preveda la possibilità di devolvere, se non in casi eccezionali, la cognizione di interessi legittimi insieme ai diritti soggettivi al Giudice ordinario (si vedano in proposito le approfondite considerazioni di M.MAZZAMUTO, Verso la giurisdizione esclusiva del giudice ordinario?, in Giurispr.Ital. 1999, 1223 ss.; per la tesi opposta, della attribuibilità al giudice ordinario della giurisdizione in materia di interessi legittimi cfr. MAZZAROLLI, Giustizia amministrativa, in MAZZAROLLI, PERICU, ROMANO, ROVERSI MONACO E SCOCA, Diritto amministrativo, Bologna 1993, II, p.1429; F.P. PANARIELLO).

Si è quindi imboccata con decisione l’unica strada ragionevolmente possibile, e cioè quella che nel rapporto di lavoro privatizzato dei dipendenti pubblici non vi erano più atti amministrativi: gli atti di gestione del rapporto da parte del datore di lavoro pubblico divengono, alla pari degli atti del datore di lavoro privato, atti privati che si inseriscono all’interno del rapporto contrattuale; la Pubblica amministrazione opera con le stese modalità e gli stessi vincoli del datore di lavoro privato: gli atti amministrativi possono essere solo atti presupposti al rapporto di lavoro, e quindi precedere anche la fase della sua costituzione.

In altri termini, la soluzione imboccata è stata quella di respingere gli atti e i provvedimenti amministrativi al di fuori dell’area del rapporto di lavoro: vi è stato, per converso, un prosciugamento dell’area autoritativa, che non copre più il predetto rapporto (sul punto cfr. RUSCIANO, Contributo alla lettura della riforma dell’impiego pubblico, in N.Rusciano e L.Zoppoli, L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Torino 1993).

Sugli atti che l’Amministrazione adotta per disciplinare o per intervenire nel rapporto di lavoro vi è quindi piena giurisdizione del giudice ordinario, non perché questi oggi può conoscere anche posizioni giuridiche aventi consistenza di interesse legittimo, ma perché vi sono solo diritti soggettivi. Di conseguenza, il giudice ordinario è espressamente dotato – come chiarisce il 2° comma dell’art.68 nella sua attuale formulazione (introdotta dal D.L.vo 80/1998), la cui mancanza consentiva, come si è detto, di ipotizzare anche soluzioni diverse –  degli stessi poteri che già ha per intervenire sugli atti emessi dal datore di lavoro privato: è quindi ammessa una tutela risarcitoria, di accertamento, di condanna e costitutiva, con le stesse modalità con cui è ammessa nei confronti dei datori di lavoro privati, mentre, alla pari di questi ultimi, la Pubblica amministrazione è assoggettata al rispetto delle disposizioni normative e contrattuali, oltreché dei principi di correttezza e buona fede (cfr. CORPACI, Nuova disciplina del pubblico impiego e tutela giurisdizionale, in Lav. Dir., 1994, p.9).

Altrettanto significativa deve essere considerata la riformulazione dell’art. 4, 1° comma del D.L.vo 29/1993: mentre la originaria formulazione stabiliva in modo non del tutto univoco che le pubbliche amministrazioni “operano con i poteri del privato datore di lavoro”, la disposizione modificata e attualmente vigente stabilisce che “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte… con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” (art.4, 2°comma).

Quindi non vi sono più atti amministrativi nel rapporto di lavoro, e non vi sono neppure più interessi legittimi. Non vi possono essere interessi legittimi, là ove sono previsti solo diritti: potranno esservi, al più, diritti contrapposti o collegati, che comportano l’eventuale esistenza di situazioni di litisconsorzio necessario (cfr. ZOLI, Amministrazione del rapporto e tutela delle posizioni soggettive dei dipendenti pubblici in Dir.Lav. Rel.Ind. 1993, p.633; CLARICH e IARIA, La riforma del pubblico impiego, Rimini 1993, p.314 ss.).

In conclusione, la riforma attuata con la privatizzazione appare sufficientemente chiara, e le disposizioni sono per lo più non equivoche. Questo non vuol dire che non sorgeranno problemi, e che la srtada della privatizzazione e soprattutto del trasferimento della giurisdizione al giudice ordinario non sarà priva di ostacoli. I principali tra questi verranno proprio da coloro che dovranno interpretare le norme: decideranno del successo o del fallimento della riforma da un lato la tradizionale ritrosia del giudice ordinario ad occuparsi di questioni concernenti la Pubblica Amministrazione da un lato, d’altro lato la naturale resistenza del giudice amministrativo ad abbandonare zone di giurisdizione (e quindi zone di influenza e di contatto con il potere politico e con la dirigenza amministrativa) affidategli da tre quarti di secolo – anche se l’abbandono è stato ampiamente compensato con l’affidamento di nuove zone di giurisdizione esclusiva, ritagliate per materie (secondo le indicazioni formulate dalla Commissione Bicamerale: cfr. gli artt.33-35 del D.L.vo 80\1998).