La rinascita dei dinosauri

1.
Da qualche anno, la giustizia amministrativa compare sempre più frequentemente sulle prime pagine dei giornali: il traffico urbano e autostradale e la delimitazione delle zone pedonali, le tariffe telefoniche, il prezzo del pane o del latte, le liquidazioni degli impiegati statali, gli orari di chiusura delle discoteche al sabato sera, lo svolgimento delle competizioni elettorali e anche la partecipazione ai campionati di calcio sono state tutte materie oggetto di decisioni dei giudici amministrativi che hanno avuto vasta risonanza nell’opinione pubblica.
Si tratta di un fenomeno sorprendente per almeno due motivi.
In primo luogo, pochissimi sanno davvero che cosa siano, come funzionano e, soprattutto, perché esistono, i Tribunali Amministrativi Regionali (i TAR) e il Consiglio di Stato, cioè gli organi dai quali il sistema della giustizia amministrativa è composto (e infatti, gli strafalcioni in proposito sui giornali sono innumerevoli). Pochissimi lo sanno, anche perché, nel nostro paese, nessuno si è mai preoccupato di spiegare che cosa sia la giustizia amministrativa a coloro che quel sistema dovrebbe tutelare e per i quali è stato inventato, e cioé i cittadini, i lavoratori del settore pubblico, gli utenti dei servizi pubblici (in Francia, per esempio, il Governo ha predisposto un opuscoletto, che viene periodicamente aggiornato, che spiega “come far valere i vostri diritti in caso di conflitto con l’Amministrazione”).
Ma si tratta di un fenomeno sorprendente anche per un altro motivo, e cioé perché si verifica dopo un lungo periodo, nel quale la giustizia amministrativa è sopravvissuta come una creatura proveniente da un’altra era, misteriosamente sfuggita all’estinzione, oggetto di curiosità e di dibattiti accademici, ma senza alcun contatto con la realtà circostante.
Ma, come dice Ian Malcolm, il matematico esperto di teoria del caos in Jurassic Park (il libro, non il film, dove Spielberg lo trasforma in un’idiota che farfuglia luoghi comuni), nessuno può prevedere come reagisce un dinosauro estratto dal suo tempo e calato in un ambiente del tutto diverso ed è utopistico pensare di poterne controllare le reazioni, una volta che si sono messe in moto.
Ed è proprio ciò che è accaduto alla giustizia amministrativa.

2.
Progettata agli inizi del secolo scorso, dapprima in Francia e poi in alcuni paesi europei, per la risoluzione dei conflitti tra individuo e Stato, la giustizia amministrativa è sempre stata caratterizzata da alcune specificità:
– di essere una giustizia nata come sostitutiva di rapporti di forza, di potere o di sovranità tra cittadini e sovrano o cittadini e Stato, sottratti in quanto tali alla verifica di un giudice;
– di essere, proprio per questo, una giustizia anomala, perchè consente a un organo giudiziario, e quindi formalmente indipendente, di invalidare atti dell’Amministrazione, introducendo una breccia nel mitico principio della divisione dei poteri su cui è costruita la teoria dello Stato liberale;
– di essere una giustizia ineguale: da un lato il cittadino, portatore di interessi particolari, a cui viene riconosciuta una tutela giudiziaria, cioè da parte di un organo terzo rispetto ai litiganti, dall’altro lo Stato, portatore dell’interesse generale e quindi in posizione superiore e incomparabile con quella del cittadino;
– di essere una giustizia speciale rispetto a quella offerta dai giudici ordinari, perché le regole applicate tenevano conto della diseguaglianza dei soggetti in conflitto, e della priorità dell’interesse generale sull’interesse del singolo;
– di essere una giustizia amministrata da giudici speciali, abbastanza imparziali rispetto alle parti in conflitto da poter fare i giudici, ma non così imparziali da essere davvero indipendenti: si tratta di giudici scelti in modo da garantire il rispetto dell’ineguaglianza dei contendenti, sia pure secondo criteri di giustizia.
Sulla base di questi presupposti, la giustizia amministrativa, vista di volta in volta come la maschera del potere oppure come il baluardo del cittadino contro i soprusi dell’Amministrazione, ha costituito una delle più ambigue espressioni dell’ideologia liberal-borghese: formalmente finalizzata a riconoscere e tutelare il diritto dell’individuo singolo anche nei confronti dello Stato, raccordandolo però con l’interesse superiore di cui quest’ultimo è istituzionalmente portatore, sostanzialmente diretta a proteggere, con un giudice particolare, gli interessi reali, economici, politici, finanziari che lo Stato perseguiva.
E non casualmente, infatti, questo compito è stato generalmente affidato ad organi già esistenti – i Consigli di Stato francese, belga, italiano – con la funzione di consigliare il sovrano nelle materie dell’amministrazione pubblica: organi, quindi, strettamente collegati con l’Amministrazione e con il potere politico e non certo sospettabili di troppa imparzialità.

3.
E’ facile comprendere l’inattualità di questa istituzione, allorché calata nella realtà contemporanea, ove sia lo Stato che il singolo cittadino hanno perso la loro individualità.
Infatti, a seguito dell’espansione dell’intervento pubblico nell’economia e nella società, si è frantumato l’interesse generale dello Stato – una volta, almeno teoricamente, unitario – in una moltitudine di interessi pubblici di difficile coordinazione e spesso confliggenti: per esempio, c’è l’interesse pubblico allo sviluppo dell’impresa e quello alla tutela del lavoro, c’è l’interesse pubblico dell’ agricoltura e l’interesse pubblico dell’industria, c’è l’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente e quello allo sviluppo dell’urbanizzazione, e così via.
Nel contempo, si sono ricomposti i diritti del singolo – una volta, almeno teoricamente, altrettanto unitari – in una moltitudine di centri di aggregazione sociale, politica, economica, tutti rappresentativi di bisogni e esigenze diffuse, collettive e, quindi, in qualche modo, pubbliche.

4.
Di fronte a questa realtà, ovviamente non solo italiana, la risposta non è stata, nei paesi in cui c’era la giustizia amministrativa, quella di eliminarla e di seguire l’esempio dei paesi anglosassoni (Gran Bretagna, Stati Uniti) in cui c’è una sola giurisdizione, un solo giudice, che si occupa di tutto: dei conflitti tra cittadini e dei conflitti tra cittadini e Pubblica amministrazione.
Anzi, nell’unico paese in cui questo tentativo è stato fatto verso la fine dell’Ottocento, il Giappone, il giudice amministrativo è stato ben presto ricostituito.
La risposta è stata di segno diverso: i paesi senza giustizia amministrativa (e cioè, Gran Bretagna e Stati Uniti) hanno introdotto lentamente, ma in modo sempre più accentuato, nel proprio ordinamento organismi speciali, preposti a giudicare i conflitti insorgenti nelle aree di commistione tra pubblico e privato; nel contempo, i paesi forniti di una giustizia amministrativa hanno mantenuto il loro sistema, omogeneizzando il modo di giudicare dei giudici amministrativi a quello dei giudici ordinari, e tendendo così ad attenuare le diversità originarie.

5.
In Italia, questo processo ha avuto alcune peculiarità.
All’atto dell’entrata in vigore della Costituzione, e per i vent’anni che sono seguiti, in violazione della disposizione costituzionale che prevedeva l’istituzione di tribunali amministrativi regionali, unico organo della giustizia amministrativa è rimasto il Consiglio di Stato.
C’era, così, una sola legge, quella dello Stato, un solo organo incaricato di controllare e dirigere la pubblica amministrazione a livello periferico, il Prefetto, e un solo giudice che, nei conflitti tra interesse pubblico e interesse privato, era preposto alla sua interpretazione, appunto il Consiglio di Stato.
All’inizio degli anni settanta, si verifica nel nostro paese una rivoluzione.
Sono istituite le regioni a statuto ordinario, ai Prefetti si sostituiscono i comitati di controllo regionali, e sono istituiti i TAR.
Così all’improvviso, e quasi contemporaneamente, passano da uno a venti gli enti che possono fare leggi, il controllo sull’applicazione delle leggi passa da un organo singolo centrale a organi collegiali regionali (ovviamente ben più sensibili a logiche clientelari, elettorali e di potere partitico) e si moltiplicano i giudici preposti alla loro interpretazione.
Nel contempo, a seguito delle vicende sociali, politiche, sindacali culturali che in pochi anni mutano il volto dell’Italia, subisce una vistosa accelerazione – anche a livello territoriale – quel processo di decomposizione dell’interesse generale in frammentari interessi pubblici e di riaggregazione degli interessi dei singoli in nuovi interessi collettivi e diffusi di cui si è detto.
Cala, così, in un paese divenuto completamente diverso, il dinosauro della giustizia amministrativa. Cala una giustizia fatta per un mondo diverso e ormai scomparso, e costretta a rispettare e far valere le regole di un processo inventato per quel mondo, in un mondo nuovo. Che succede?

6.
Succede che Ian Malcolm ha ragione.
Il dinosauro non si estingue, ma si adatta e, dopo un certo tempo, smentendo tutte le previsioni, addirittura rifiorisce.
Ma, e questo è l’aspetto più singolare, non certo per merito delle nuove creature, cioè dei TAR.
Se facciamo un paragone con un’altra struttura giudiziaria istituita più o meno nello stesso periodo, l’inizio degli anni Settanta, e cioè il Pretore del lavoro, la differenza salta immediatamente agli occhi.
Quest’ultimo, istituito nel 1973, si afferma immediatamente come il polo di riferimento della conflittualità nel mondo del lavoro e nelle fabbriche: e questo accade perché offre risposte rapide, concrete e puntuali a bisogni emergenti che dilagavano nella società; offre, soprattutto una reale alternativa istituzionale allo scontro di piazza e alla polarizzazione del conflitto sociale. In pochi anni, così, e nonostante marginali eccessi e intemperanze iniziali, il Pretore del lavoro cambia il panorama delle relazioni industriali e sindacali, inserendovi per la prima volta il rispetto di regole di civiltà, di confronto e di buon senso. Questo successo è stato consentito soprattutto dall’entusiasmo e dalla dedizione con il quale la gran parte dei Pretori si è lanciata in quest’impresa, affrontando la sfida e la responsabilità di questo nuovo ruolo.
Aspettative analoghe, se c’erano allorché sono stati introdotti i TAR, sono state immediatamente deluse.
Le materie che i TAR si trovano a dover affrontare – per oltre l’80% dei casi, concernono la gestione del territorio e l’urbanistica, il commercio e il pubblico impiego – erano altrettanto esplosive di quelle concernenti il mondo del lavoro: erano materie dove il bisogno di giustizia era potenzialmente immenso, a fronte del dilagare della corruzione, delle spartizioni partitico-clientelari, dell’inefficienza gestionale.
Ebbene, i TAR si dimostrano subito sordi alle istanze di rinnovamento e alle richiesta di giustizia che arrivano dalla società e si dimostrano incapaci di comprendere, oltre che riluttanti ad affrontare, le immense possibilità di incidere su stratificate strutture di potere e di clientela.
I giudici del TAR dimostrano subito, per dirla chiaramente, di concepire il loro lavoro come una comoda e lucrosa carriera, e non come un importante impegno civile.
Così, le udienze per discutere le cause sono, se tutto va bene, non più di un paio al mese (il Pretore del lavoro degli anni Settanta tiene udienza tutti i giorni, mattina e pomeriggio, e spesso anche il sabato); in quei due giorni di udienza mensili vengono ammassate diecine se non centinaia di cause; e, ciò che è ancor più grave, solo in quei giorni d’udienza la maggior parte dei giudici fa la sua occasionale comparsa nei locali del Tribunale: per il resto vive altrove, spesso in tutt’altre faccende affacendata, rinunciando così ad ogni contatto con la realtà nella quale dovrebbe amministrare la giustizia; le sentenze vengono pubblicate a mesi, talvolta anni di distanza, quando ormai la loro utilità concreta è pressochè nulla.

7.
C’è poi, un elemento determinante, che non deve essere sottovalutato, il processo, cioè le regole in base alle quali la giustizia viene erogata.
Il successo del Pretore del lavoro è stato agevolato dalla introduzione, nel 1973, di un processo rapido, semplice, essenziale, e privo delle diecine di possibilità di sotterfugi dilatori che contraddistinguono l’erogazione della giustizia nel nostro paese e che fanno da sempre la pacchia di avvocati e giudici.
Al contrario, l’istituzione dei TAR non è stata accompagnata dalla predisposizione di un adeguato processo amministrativo: i TAR si sono così trovati a far fronte al loro compito con strumenti processuali arcaici, coniati all’inizio del secolo e rimasti sostanzialmente immutati.
Il raffronto tra il processo di cui dispone il lavoratore privato e quello di cui dispone il lavoratore pubblico per far valere i propri diritti è particolarmente significativo.
A differenza di quanto accade di fronte al Pretore del lavoro, le regole del processo che si svolge davanti al giudice amministrativo infatti vietano di sentire e di interrogare le parti in causa; vietano l’acquisizione di testimonianze sui fatti; impongono di decidere solo sulla base degli atti e dei documenti precostituiti dall’Amministrazione: vietano, in altri termini, al giudice di conoscere in modo indipendente i fatti delle cause di cui deve decidere.
Succede così che, invece di creare un processo adatto ai bisogni esistenti, vengono creati giudici adatti al processo: indifferenti alla realtà, sensibili solo agli atti e ai documenti dei quali devono verificare “la legittimità”, non ai fatti che quegli atti non fanno apparire, o vogliono tenere nascosti.
Per fare un solo esempio: praticamente tutti gli appalti (per costruire stadi, carceri, aeroporti) e i concorsi pubblici (per nominare indifferentemente primari, professori universitari, vigili e vespilloni) sono stati più o meno truccati, nel nostro paese, negli ultimi quindici anni (e probabilmente anche prima). Quelli che sono risultati truccati negli ultimi due anni, saltando fuori dall’inesauribile cilindro di Tangentopoli, sono solo una microscopica, anche se significativa, entità. Ebbene: il giudice amministrativo non si è accorto di nulla e non ha voluto accorgersi di nulla. Non era suo compito.
Succede così che le peggiori nefandezze commesse dall’Amministrazione restano impunite, se coperte da atti elaborati in modo corretto e inattaccabile; succede, viceversa, che atti malamente formulati impongano al giudice di annullare decisioni dell’Amministrazioni più che giustificate sulla base dei fatti così come si sono svolti.
Se a ciò si aggiunge che nessuno sforzo viene compiuto per innovare la tradizionale giurisprudenza del Consiglio di stato, elaborata nei primi decenni del secolo è facile comprendere che il disegno costituzionale di portare anche la giustizia amministrativa a contatto con i cittadini si rivela un sostanziale fallimento.
Naturalmente, il processo amministrativo che non funziona (non diversamente dal mercato che non funziona), non è senza vantaggi e senza premi per taluni: è un premio per gli Amministratori pubblici che possono impunemente gestire finanza pubblica, concorsi pubblici, dipendenti, licenze edilizie e di commercio, appalti; è un premio anche per le organizzazioni sindacali, che possono gestire o cogestire clientelarmente la massa degli impiegati pubblici.
Da questo punto di vista il processo, che a molti sembra una pura forma irrilevante, costituisce uno dei moltiplicatori del dissesto e del malcostume pubblico, e il sonnolento e indifferente giudice amministrativo dei TAR costituisce uno dei meccanismi di propulsione del diffondersi della corruzione e dell’inefficienza.

8.
Poi, a un certo punto, nella seconda metà degli anni Ottanta, qualcosa comincia a cambiare.
Non per merito dei TAR, si è detto. E’ infatti il Consiglio di Stato che inizia una lenta opera di revisione di dogmi e di regole processuali che avevano retto l’erogazione della giustizia amministrativa nel passato, e che la rendevano un luogo ormai separato anni luce non solo dai vigenti principi costituzionali, ma anche dalla società civile.
Così, viene ammessa – in alcuni casi – la possibilità di sentire i testimoni; vengono adottate decisioni che tendono a omogeneizzare il trattamento del lavoratore pubblico a quello del lavoratore privato, vengono abbandonati costosi formalismi; soprattutto, viene esteso il potere di intervento d’urgenza: e su ciò torneremo presto.
Non bisogna naturalmente pensare che il Consiglio di Stato sia stato mosso solo da un sincero desiderio di rinnovamento.
Molti dei suoi membri erano nella posizione istituzionale di trarre diretti o indiretti benefici, più o meno legali (e, anche se legali, non sempre corretti da un punto di vista etico-deontologico), dall’inefficienza, dalla corruzione presenti in ogni livello dell’Amministrazione pubblica e dalla fitta trama di connivenze e di scambi tra amministrazione e politica.
Se a ciò si aggiunge che parte dei Consiglieri di Stato sono direttamente nominati dal potere politico, e quindi raggiungono questa prestigiosa carica per merito di “padrini” politici non certo poco esigenti, non si può dubitare che anche il Consiglio di Stato potrebbe offrire qualche cosa di interessante per i giudici di Mani Pulite.
Il Consiglio di Stato si è mosso spinto soprattutto da un istinto di autolegittimazione e di autoconservazione: in breve, da un istinto di sopravvivenza. Un giudice le cui decisioni non servono, e delle quali nessuno si occupa, è un giudice destinato a scomparire. E pochi, fino alla prima metà degli anni Ottanta, avrebbero visto questa scomparsa con rimpianto.

9.
L’attività riformatrice del Consiglio di Stato, per quanto apprezzabile, non sarebbe servita a nulla, se non fosse stata accompagnata da un’intuizione decisiva: quella di ampliare gli immensi spazi di potere e discrezionalità offerti da uno strumento sino ad allora trascurato e sottosviluppato: i provvedimenti d’urgenza, la cosiddetta “sospensiva”.
Concepita come un provvedimento eccezionale del giudice amministrativo per paralizzare temporaneamente gli effetti di un atto della Pubblica amministrazione che, nell’attesa del lungo decorso del giudizio, avrebbe provocato danni irreparabili al destinatario, deve essere utilizzato con estrema parsimonia per rispettare il principio della divisione dei poteri e evitare intrusioni del giudice nell’esercizio del potere amministrativo, in pochi anni la sospensiva è divenuta il momento centrale e totalizzante dell’intero processo amministrativo. Lì, nella maggior parte dei casi, tutto si decide e tutto si risolve: ciò che accade dopo la pronuncia d’urgenza, e cioè la vera definizione del giudizio, che giunge ad anni di distanza, è, nella maggior parte dei casi, irrilevante.
Così, oggi, qualsiasi atto amministrativo del Governo, dei singoli Ministri, del Sindaco, può essere in poche settimane bloccato dall’intervento dei TAR, con efficacia che può estendersi su tutto il territorio nazionale; e in pochi mesi questa decisione può essere vagliata, e quindi confermata o annullata, da un secondo grado di giudizio, in sede di appello di fronte al Consiglio di Stato.

10.
Di fronte alla incivile lentezza e alla desolante inutilità dei giudizi civili (salvo quelli di cui si è detto davanti al giudice del lavoro) e penali, la giustizia amministrativa ha quindi dato una risposta efficacissima e dirompente a un bisogno primario della collettività: quello della rapidità del giudizio.
Ma, attenzione, il prezzo pagato per ottenere il beneficio della rapidità non è poco gravoso e inquietante.
Prima di tutto, perché deve sempre essere visto con grande sospetto ogni uso anomalo e deviante di uno strumento processuale: e tale è l’uso attuale delle sospensive e quindi dei provvedimenti di urgenza, utilizzati come mezzo sostitutivo della decisione definitiva e istituzionale,
Poi, perché oggi i TAR e il Consiglio di Stato decidono a raffica, in una sola mattina, diecine, a volte centinaia di sospensive, tutte rigorosamente (salvo pochissime eccezioni) prive di motivazione.
E la motivazione è l’unico importantissimo mezzo che consente la trasparenza e la verifica, da parte non solo dei destinatari, ma anche dell’opinione pubblica, della correttezza della decisione del giudice, cioè di un organo non democraticamente eletto e non amovibile.
Dove non c’è motivazione, gli spazi lasciati all’arbitrio sono enormi,
Un giudice che non motiva le sue decisioni, alla pari di un giudice che non decide sollecitamente, non è un giudice che soddisfa il bisogno di giustizia, anche se può tamponarlo.
E, se si tiene conto che è soltanto l’estendersi e l’intensificarsi dell’utilizzazione della sospensiva non motivata che ha consentito al giudice amministrativo di arrivare alla ribalta, offrendogli la possibilità, con poco sforzo e con largo arbitrio, di recuperare potere e credibilità, e di esercitare, quindi, un ruolo decisivo nel nostro diroccato panorama istituzionale, è chiaro che sono più vhe giustificati i dubbi e le perplessità sui modi con i quali oggi la giustizia amministrativa viene esercitata.