TUTELA DELLA SALUTE E LEGITTIMITA’ DELL’IMPOSIZIONE DI UN TRATTAMENTO SANITARIO

Giurisprudenza

n. 10 / 1990

Vaccinazione obbligatoria

TUTELA DELLA SALUTE E LEGITTIMITA’ DELL’IMPOSIZIONE DI UN TRATTAMENTO SANITARIO

Corte costituzionale 22 giugno 1990, n. 307 – Pres. Saja – Rel. Corasaniti

con commento di Stefano Nespor

E’ costituzionalmente illegittima la legge 4 febbraio 1966, n. 51 che prevede l’obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica, nella parte in cui non pone a carico dello Stato un’equa indennità a favore di chi (soggetto vaccinato o terzo che lo assista o sia in contatto) subisca – al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 2043 c.c. – un danno da contagio o da altra malattia riconducibile all’effettuata vaccinazione antipoliomielitica obbligatoria.

… Omissis…

CONSIDERATO IN DIRITTO

1 – L’ordinanza di rimessione ha messo in dubbio la legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 32 della Costituzione, della legge 4 febbraio 1966, n. 51 (Obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica) con particolare riguardo agli artt. 1, 2 e 3.

La normativa è impugnata in quanto – mentre pone l’obbligo della vaccinazione antipoliomielitica per i bambini entro il primo anno di età, considerando responsabile (anche penalmente) dell’osservanza dell’obbligo l’esercente la patria potestà (oggi la potestà genitoriale) o la tutela sul bambino (o il direttore dell’Istituto di pubblica assistenza in cui il bambino è ricoverato, o la persona cui il bambino sia stato affidato da un Istituto di pubblica assistenza), e attribuendo al Ministero della sanità il compito di provvedere a proprie spese all’acquisto e alla distribuzione del vaccino – “non prevede un sistema di indennizzo e/o di provvidenze precauzionali e/o assistenziali per gli incidenti vaccinali”.

Nel corso di un giudizio civile intentato nei confronti del Ministro della sanità in relazione ai danni riportati da una madre per avere contratto la poliomielite, con paralisi spinale persistente, in quanto a lei trasmessa per contagio dal figlio, sottoposto a vaccinazione obbligatoria antipoliomielitica, il giudice a quo , considerato che non sembravano ricorrere estremi di responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., ha prospettato il possibile contrasto della denunciata carenza di previsione di rimedi come quelli suindicati per l’evenienza di lesioni derivanti da un trattamento sanitario obbligatorio, da parte della norma che lo introduce, con il principio, espresso nell’art. 32 della Costituzione, della piena tutela dell’integrità fisica dell’individuo.

2 – La questione è fondata.

La vaccinazione antipoliomielitica per bambini entro il primo anno di vita, come regolata dalla norma denunciata, che ne fa obbligo ai genitori, ai tutori o agli affidatari, comminando agli obbligati l’ammenda per il caso di inosservanza, costituisce uno di quei trattamenti sanitari obbligatori cui fa riferimento l’art. 32 della Costituzione.

Tale precetto nel primo comma definisce la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”; nel secondo comma, sottopone i detti trattamenti a riserva di legge e fa salvi, anche rispetto alla legge, i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Da ciò si desume che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale.

Ma si desume soprattutto che un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili.

Con riferimento, invece, all’ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica – il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri. Un corretto bilanciamento fra le due suindicate dimensioni del valore della salute – e lo stesso spirito di solidarietà (da ritenere ovviamente reciproca) fra individuo e collettività che sta a base dell’imposizione del trattamento sanitario – implica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo del trattamento. In particolare finirebbe con l’essere sacrificato il contenuto minimale proprio del diritto alla salute a lui garantito, se non gli fosse comunque assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito.

E parimenti deve ritenersi per il danno – da malattia trasmessa per contagio dalla persona sottoposta al trattamento sanitario obbligatorio o comunque a questo ricollegabile – riportato dalle persone che abbiano prestato assistenza personale diretta alla prima in ragione della sua non autosufficienza fisica (persone anche esse coinvolte nel trattamento obbligatorio che, sotto il profilo obbiettivo, va considerato unitariamente in tutte le sue fasi e in tutte le sue conseguenze immediate).

Se così è, la imposizione legislativa dell’obbligo del trattamento sanitario in discorso va dichiarata costituzionalmente illegittima in quanto non prevede un’indennità come quella suindicata.

3 – La dichiarazione di illegittimità, ovviamente, non concerne l’ipotesi che il danno ulteriore sia imputabile a comportamenti colposi attinenti alle concrete misure di attuazione della norma suindicata o addirittura alla materiale esecuzione del trattamento stesso. La norma di legge che prevede il trattamento non va incontro, cioè, a pronuncia di illegittimità costituzionale per la mancata previsione della tutela risarcitoria in riferimento al danno ulteriore che risulti iniuria datum . Soccorre in tal caso nel sistema la disciplina generale in tema di responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c.

La giurisprudenza di questa Corte è infatti fermissima nel ritenere che ogni menomazione della salute, definita espressamente come (contenuto di un) diritto fondamentale dell’uomo, implichi la tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. Ed ha chiarito come tale tutela prescinda dalla ricorrenza di un danno patrimoniale quando, come nel caso, la lesione incida sul contenuto di un diritto fondamentale (sentt. nn. 88 del 1979 e 184 del 1986).

E’ appena il caso di notare, poi, che il suindicato rimedio risarcitorio trova applicazione tutte le volte che le concrete forme di attuazione della legge impositiva di un trattamento sanitario o di esecuzione materiale del detto trattamento non siano accompagnate dalle cautele o condotte secondo le modalità che lo stato delle conoscenze scientifiche e l’arte prescrivono in relazione alla sua natura. E fra queste va ricompresa la comunicazione alla persona che vi è assoggettata, o alle persone che sono tenute a prendere decisioni per essa e/o ad assisterla, di adeguate notizie circa i rischi di lesione (o, trattandosi di trattamenti antiepidemiologici, di contagio), nonché delle particolari precauzioni, che, sempre allo stato delle conoscenze scientifiche, siano rispettivamente verificabili e adottabili.

Ma la responsabilità civile opera sul piano della tutela della salute di ciascuno contro l’illecito (da parte di chicchessia) sulla base dei titoli soggettivi di imputazione e con gli effetti risarcitori pieni previsti dal detto art. 2043 c.c.

Con la presente dichiarazione di illegittimità costituzionale, invece, si introduce un rimedio destinato a operare relativamente al danno riconducibile sotto l’aspetto oggettivo al trattamento sanitario obbligatorio e nei limiti di una liquidazione equitativa che pur tenga conto di tutte le componenti del danno stesso. Rimedio giustificato – ripetesi – dal corretto bilanciamento dei valori chiamati in causa dall’art. 32 della Costituzione in relazione alle stesse ragioni di solidarietà nei rapporti fra ciascuno e la collettività, che legittimano l’imposizione del trattamento sanitario.

… Omissis…

IL COMMENTO

di Stefano Nespor

1. Le questioni relative alla vaccinazione obbligatoria – sia quelle concernenti la legittimità dell’imposizione di un trattamento sanitario quale è la vaccinazione, sia quelle concernenti il risarcimento dei danni provocati da vaccini obbligatoriamente inoculati o assunti – hanno avuto nel nostro Paese, e più in generale nei paesi europei, scarsi riscontri in sede giudiziaria: quella in esame può dirsi, per ciò che riguarda l’Italia, la prima importante pronuncia sull’argomento. Le controversie su questa materia sono invece di vecchia data negli USA: vi è una sentenza della Corte Suprema Federale che risale al 1905.

Nessun programma di vaccinazione obbligatoria è infatti, come è noto, esente da rischi, sia per coloro che sono sottoposti alla vaccinazione, sia per il personale medico e infermieristico che le effettua, sia infine, in taluni casi, per i soggetti (per lo più i parenti stretti) che si vengono a trovare in contatto con chi viene vaccinato.

Prendiamo malattie quali la poliomielite, il morbillo e la pertosse. Si tratta di malattie di differente gravità, ciascuna delle quali, in mancanza di vaccinazione obbligatoriamente estesa a tutti gli appartenenti a una determinata collettività, colpirebbe diecine e diecine di soggetti, provocando lesioni permanenti e, in una consistente percentuale, la morte.

La vaccinazione evita, o riduce enormemente, il prodursi del rischio “naturale” consistente nella contrazione della malattia e nei suoi probabili o possibili effetti dannosi.

Ciò nonostante, essa crea un nuovo tipo di rischio “legale”, dovuto alla obbligatoria sottoposizione al vaccino. Secondo dati offerti dalle statistiche epidemiologiche, ogni milione di soggetti vaccinati contro il morbillo, uno subisce gravi e permanenti lesioni cerebrali (ma, secondo dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1986, muoiono ogni anno nel mondo di morbillo cinque milioni di bambini non vaccinati); oltre tre casi di danni cerebrali si verificano ogni milione di vaccini erogati contro la pertosse; infine, per ogni tre, due milioni di vaccini antipolio erogati, si verificano tre casi di polio tra i soggetti vaccinati, e un caso tra soggetti adulti non vaccinati, che si siano trovati in stretto contatto con i soggetti vaccinati (è questo il caso preso in considerazione della decisione in esame).

Ovviamente, da un punto di vista di interesse pubblico generale e di politica sanitaria, non v’è alcun dubbio sulla opportunità di eliminare o ridurre il rischio naturale costituito dalla diffusione della malattia, sottoponendo la collettività al rischio legale della vaccinazione obbligatoria, quantitativamente e qualitativamente ben più modesto (ben diversa è naturalmente la posizione del singolo, il quale, adottando un punto di vista strettamente egoistico, ha tutto l’interesse a sottrarsi al rischio della vaccinazione, ma solo fintantoché essa rimanga obbligatoria per tutti e l’obbligo venga sostanzialmente rispettato dagli altri).

La Corte costituzionale, nella sentenza in esame, conferma che la legge che imponga una vaccinazione obbligatoria è pienamente compatibile con la tutela del diritto alla salute posta dall’art. 32 Cost., in quanto il trattamento è rivolto a preservare non solo la salute di chi vi è sottoposto – ma questo solo scopo, a mio avviso, non sarebbe di per sé sufficiente a legittimare l’obbligatorietà del trattamento – ma anche la salute degli altri; ed è proprio questo secondo scopo (assai più del primo), dove la salute viene profilata come interesse della collettività, a giustificare pienamente, e di per sé solo, “la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute come diritto fondamentale”.

Non diversamente, la Corte Suprema federale degli USA ha respinto nel 1905 le pretese di coloro che contestavano, in nome dei diritti individuali di libertà e del diritto del singolo alla salute, l’obbligatorietà della vaccinazione obbligatoria antivaiolosa, osservando che “i rischi erano troppo ridotti per poter essere seriamente presi in considerazione a fronte dei benefici prodotti per la collettività” (Jacobson v. Massachusetts 197 US 11, 17/18, 1905).

A questo proposito, vi è solo da aggiungere che anche per effetto di scelte di questo tipo nel 1980 l’Organizzazione mondiale della sanità ha potuto ufficialmente annunciare la scomparsa del vaiolo a seguito di una campagna di vaccinazione su scala mondiale condotta a partire dal 1967. Oggi la vaccinazione antivaiolosa non è più obbligatoria: è stato eliminato non solo il rischio naturale posto dal vaiolo, ma anche il rischio legale posto dall’obbligatorietà della vaccinazione antivaiolosa.

2. Peraltro, se non può essere posta seriamente in discussione la legittimità delle previsioni che impongano l’obbligatorietà di una vaccinazione, restano sul tappeto – e possono essere variamente risolti – i problemi relativi alla sussistenza di diritti o di garanzie per i singoli, che di tali obblighi sono destinatari o che comunque si trovano sottoposti al pericolo di subire effetti dannosi. Si tratta di diritti riconducibili a due diverse ipotesi: da un lato, il diritto ad una adeguata informazione sull’entità del rischio (per lo più, peraltro, di scarsa utilità pratica, stante l’obbligatorietà del trattamento medico) e su tutte le possibili precauzioni da adottarsi per evitare o ridurre il pericolo di danni; d’altro lato, il diritto di ottenere adeguate forme di ristoro, nel caso che i danni si verifichino.

A questo proposito, un succinto esame dell’esperienza giudiziaria statunitense e del suo sviluppo è interessante.

Nel 1968 una Corte d’appello federale si discosta per la prima volta dal principio posto dalla sentenza della Corte Suprema nel 1905 della irrilevanza del rischio cui il singolo soggetto obbligatoriamente vaccinato è sottoposto e condanna il produttore di un vaccino antipolio a versare un consistente risarcimento ad un soggetto che, assumendo il vaccino, contrae la poliomelite; il produttore viene ritenuto responsabile per non aver adeguatamente avvertito i soggetti cui il vaccino era destinato del rischio cui erano sottoposti e delle cautele da adottare per ridurne la portata (Davis v. Wyett Laboratories Inc., 399 F. 2d 121, 9th Cir., 1968).

La sentenza si inserisce in una più generale tendenza all’incremento della litigiosità in merito ai danni alla salute e all’integrità psicofisica provocati dalla produzione, dal commercio e dall’utilizzazione (inconsapevole, volontaria o coatta) di merci, prodotti e sostanze, la cui potenziale nocività è ignorata o sottovalutata dai consumatori, ed ha un effetto dirompente.

Le richieste di risarcimento nei confronti dei produttori di vaccini, infatti, si moltiplicano: in occasione di una campagna di vaccinazione obbligatoria contro un’influenza particolarmente pericolosa, sono proposte in giudizio oltre 4.000 domande di risarcimento – per un totale di circa tre miliardi di dollari – da parte di soggetti che affermano di aver subito danni temporanei o permanenti a seguito dell’assunzione del vaccino: i costi subiti dai produttori (e, per loro conto, dalle compagnie di assicurazioni) a seguito delle domande accolte, delle transazioni effettuate e delle spese legali sopportate sono enormi (U.S. Environmental Protection Agency, Background Report for the Indemnification Report to the Congress, Washington 1983).

Nel corso degli anni Settanta, si afferma poi, di fatto, un orientamento giurisprudenziale che riconosce una sorta di responsabilità oggettiva in capo al produttore per tutti i danni insorti dopo la vaccinazione.

Vengono così accolte richieste di risarcimento sia in mancanza di prova che eventuali avvertimenti o prescrizioni mediche avrebbero effettivamente potuto impedire il verificarsi dell’infermità, sia, spesso, in mancanza di prova del rapporto di causalità tra vaccinazione e infermità susseguente (per esempio, Reyes v. Wyett Laboratories Inc., 498 F.2d 1264, 1974).

La inevitabile conseguenza dell’affermarsi di questa giurisprudenza è che i programmi di vaccinazione obbligatoria previsti dalle Autorità sanitarie si scontrano contro la crescente difficoltà di reperire un numero adeguato di produttori di vaccini a costi accessibili: questi ultimi, infatti, ritengono economicamente troppo rischiosa l’attività, anche per il vertiginoso aumento dei premi richiesti dalle assicurazioni.

Così, dei quindici produttori di vaccini esistenti sul mercato all’inizio degli anni Settanta, nel 1984 ne residuano due solamente per taluni vaccini, uno per altri e addirittura nessuno per quattro vaccini, per i quali era previsto il trattamento obbligatorio (cfr. C. Boffey, Vaccine Liability Threatens Supplies, in New York Times 25 giugno 1984): la situazione viene definita, da un portavoce governativo, di emergenza sanitaria.

A questo punto, nella giurisprudenza comincia a riaffiorare un orientamento più restrittivo, che, pur non segnando un ritorno al passato, introduce criteri più rigorosi per concedere il risarcimento di danni subiti a seguito di vaccinazioni e, più in generale, a seguito della utilizzazione di prodotti medicinali: per esempio, nel 1988 la Corte Suprema di California riafferma che la responsabilità del produttore di medicinali non è oggettiva, in considerazione dell’interesse pubblico allo sviluppo, alla disponibilità e al controllo del costo dei medicinali (Brown v. Superior Court 44 Cal 3d 1049, 1988).

Nel 1984, inoltre, un apposito Comitato federale governativo raccomanda l’emanazione di una legge che preveda un indennizzo, a carico dello Stato, per le vittime dei programmi di vaccinazione obbligatoria, limitando, nel contempo, il dilagare delle controversie giudiziarie.

Si giunge così al National Childhood Vaccine Injury Act del 1986, con il quale viene previsto un indennizzo (fino ad un ammontare massimo di $ 250.000) per chiunque subisca danni fisici a seguito della sottoposizione a vaccinazione obbligatoria, previa dimostrazione del solo rapporto di causalità tra trattamento sanitario e danno. Entro un breve termine dalla data di determinazione dell’indennizzo (erogato da un Fondo costituito con i proventi di un’apposita tassa posta sul prezzo di vendita di ciascun vaccino), può essere proposta un’azione giudiziaria per ottenere un effettivo risarcimento, dimostrando la sussistenza di una responsabilità per colpa; la proposizione dell’azione comporta, peraltro, una automatica rinuncia all’indennizzo.

Rispetto a questa evoluzione manifestatasi nella giurisprudenza e nella legislazione americana la soluzione adottata dalla Corte costituzionale italiana appare senz’altro ponderata e ragionevole.

Infatti, viene dichiarata la illegittimità costituzionale della norma che prevede la vaccinazione obbligatoria antipolio, nella parte in cui non prevede un equo indennizzo per il caso in cui i danni provocati dal trattamento obbligatorio non dipendano da comportamenti posti in essere dal produttore, dal distributore o dall’erogatore del vaccino (in questo senso era già stato presentato, nella passata legislatura, dal Ministro della Sanità Degan il disegno di legge n. 3730). Il sacrificio del diritto alla salute di alcuni soggetti, imposto a tutela della salute come bene collettivo, e necessaria conseguenza di questa tutela, deve quindi trovare un equo ristoro del danno patito, a carico della collettività, il cui ammontare deve ora essere fissato dal legislatore.

Diverso è il caso in cui il danno subito dal soggetto sottoposto al trattamento, da chi lo assista e dal personale che eroga il vaccino sia imputabile ad un comportamento colposo tenuto dal produttore del vaccino o dall’ente incaricato dell’erogazione.

In questo caso deve aver ingresso l’integrale risarcimento del danno alla salute subito, secondo i generali principi posti dall’art. 2043 c.c.

E tra i comportamenti colposi che la Corte espressamente individua come idonei a fondare il diritto al risarcimento dei danni viene espressamente indicata sia la comunicazione alla persona assoggettata al trattamento di vaccinazione o al suo rappresentante di adeguate notizie circa i rischi di lesione o di contagio, sia l’avvertimento circa le specifiche precauzioni che, allo stato delle conoscenze scientifiche, debbano essere adottate dalla persona assoggettata, da chi la assiste e dai familiari.

A questo proposito, però, va detto che mentre non si può che essere d’accordo sulla necessità del secondo gruppo di comunicazioni, la comunicazione di eventuali rischi derivanti dalla vaccinazione al soggetto vaccinato è per lo più irrilevante, stante l’obbligatorietà della vaccinazione medesima e può addirittura, secondo quanto più volte segnalato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, rivelarsi di ostacolo al successo della campagna di vaccinazione, inducendo molti ad evitare il trattamento.

La precisazione della Corte costituzionale, forse superflua rispetto al thema decidendum , non è casuale. Il fatto oggetto della controversia dalla quale è scaturito il giudizio di legittimità costituzionale riguarda, appunto, una richiesta di risarcimento del danno promossa da un familiare rimasto contagiato dalla poliomielite per essere stato in contatto con il figlio, nei giorni in cui lo stesso era sottoposto alla vaccinazione. Ebbene, mentre sin dal 1964 era scientificamente ben noto il rischio di contagio per contatto da parte dei familiari non vaccinati, in occasione della somministrazione del vaccino ai figli o ai conviventi fino al 1978 nei foglietti illustrativi (revisionati e autorizzati dal Ministero della Sanità) di tutte le confezioni di vaccini prodotti in Italia era omesso ogni riferimento a tale pericolo e alle semplicissime precauzioni da adottare per evitare il contagio, allo scopo di evitare effetti di allarme o dissuasione dall’osservanza dell’obbligo.

Ebbene, la Corte costituzionale non ha perso l’occasione di manifestare il suo netto dissenso rispetto all’opinione del Tribunale di Milano, autore dell’ordinanza di rimessione alla Corte (pubblicata in G.U. 18 ottobre 1989, 1a serie spec., n. 42), secondo cui questo comportamento, tenuto dai produttori e avallato dal Ministero, dovrebbe ritenersi giustificato e, quindi, inidoneo a fondare un diritto al risarcimento del danno, in quanto l’adozione di misure precauzionali, di informazioni o comunicazioni diffuse per evitare rischi individuali quantitativamente minimi contrasterebbe con l’interesse della sanità pubblica.

Secondo la Corte, nessun dichiarato interesse pubblico può giustificare la deliberata sottoposizione al rischio di gravi danni al diritto fondamentale alla salute, soprattutto se provocata dall’omissione di doverose e ben note informazioni, che tale rischio avrebbero eliminato o attenuato.

La donazione di organi: lo strano caso del signor moore e il dilemma del buon samaritano

1. Che cosa sono i cadaveri?
Nei cimiteri di Londra c’era gente che andava e veniva ogni notte per trafugare cadaveri, ricorda Chateaubriand nelle sue Mémoires d’outre?tombe, raccontando le vicende del suo esilio inglese tra il 1793 e il 1800: erano i body snatchers, che nel XVIII e nei primi decenni del XIX secolo rifornivano medici e scienziati di corpi da dissezionare per lo studio dell’anatomia umana e per l’addestramento nelle pratiche chirurgiche, e, inoltre, musei e collezionisti privati di scheletri e teschi da esposizione. L’attività dei body snatchers era possibile perché, secondo la common law inglese, i corpi senza vita erano cose che non appartenevano a nessuno: erano res nullius delle quali chiunque poteva appropriarsi. La loro sottrazione dai cimiteri non era quindi sanzionata, a meno che ? come precisava Blackstone, l’autore del più importante dei commentari giuridici inglesi dell’epoca ? non fossero insieme trafugati anche i vestiti o altri oggetti del defunto (cosa che, naturalmente, accadeva assai di rado, in quanto coloro che si occupavano di questa fiorente e lucrosa attività avevano cura di spogliare i cadaveri prima di asportarli, e di riporre nuovamente nel tumulo ogni oggetto personale).
Negli altri paesi occidentali, a differenza che in Inghilterra, la vendita e l’appropriazione dei cadaveri era rigorosamente vietata: essi, seppur considerati da un punto di vista giuridico come cose, erano considerati cose extra commercium. C’erano però delle eccezioni: erano liberamente commerciabili e appropriabili i corpi, a pezzi o interi, dei santi: così erano oggetto di libero commercio e di scambio, fin dall’antichità, le reliquie e, nel caso divenuto famoso di San Spiridione, addirittura l’intero cadavere, divenuto di proprietà di una famiglia greca di Corfù che ne aveva tratto fonte di consistenti guadagni (LEGENDRE).
Non va poi dimenticato un aspetto paradossale di questo divieto: il commercio dei cadaveri era vietato anche nei paesi ? come gli Stati Uniti o la Russia ? nei quali ancora esisteva ufficialmente la schiavitù, ed era quindi ammesso il commercio e la vendita di corpi umani, purchè viventi.
Come sempre accade, però, la forza del mercato prevale sui divieti legislativi. Così ciò che in Inghilterra era consentito, in Europa era oggetto di un fiorente mercato nero. In Francia, per esempio, racconta Jean-Pierre Baud che il furto di cadaveri dai cimiteri era, all’inizio dell’Ottocento, una pratica abituale per sgombrare i cimiteri sovraffollati e per rifornire le sale anatomiche; il problema di far scomparire i residui dei corpi dissezionati veniva poi risolto riducendoli in grasso, e vendendo il prodotto così ottenuto soprattutto ai carrettieri per lubrificare gli ingranaggi delle ruote e ai fabbricanti di candele, utilizzate in grande quantità per l’illuminazione dei grandi edifici pubblici (tra cui, naturalmente, la Facoltà di medicina) (BAUD).
I cimiteri della Gran Bretagna sarebbero potuti rimanere il giacimento di materiale umano più prezioso d’Europa e i body snatchers avrebbero potuto conservare la loro posizione di incontrastati monopolisti di questo mercato, in continua espansione per il progredire della scienza medica, della chirurgia e del collezionismo se alcuni di essi, particolarmente intraprendenti, non avessero deciso di incrementare l’offerta selezionando e prenotando i cadaveri tra gli ospiti degli ospedali per i poveri o degli ospizi (forse anche cooperando pe accelerarne la disponibilità), suscitando così l’indignazione dell’opinione pubblica.
Nel corso dell’inchiesta parlamentare che seguì, risultò che un solo body snatcher aveva dissotterrato e venduto tra il 1809 e il 1813 i corpi di 1211 adulti e 179 bambini: una media di quattro al giorno.
L’ordinamento inglese venne così adeguato agli altri ordinamenti europei e il commercio e la vendita di cadaveri furono vietati, salvo specifiche autorizzazioni.
2. Qual è l’utilità dei morti per i vivi?
La drastica riduzione della disponibilità di cadaveri per lo studio dell’anatomia e per la pratica della chirurgia determinata dal divieto provocò in tutta l’Inghilterra un’impennata dei prezzi sul mercato e, conseguentemente, vivaci proteste nel mondo scientifico: da molti la nuova legislazione fu considerata un attacco oscurantista e irresponsabile al progresso della medicina. Tra questi, vi era anche Jeremy Bentham il quale, chiedendosi quale potesse essere, a questo punto, l’utilità dei morti per i vivi, si schierò a favore dell’utilizzazione dei cadaveri e delle esigenze della ricerca scientifica in campo medico, e contro leggi che limitavano quelle esigenze e che sottraevano i cadaveri alla libera disponibilità, invitando provocatoriamente i suoi amici allo spettacolo della dissezione e dell’autopsia del proprio corpo, dopo la morte (Bentham).
Certo Bentham non avrebbe mai potuto immaginare la risposta che il progresso della scienza medica e della tecnologia sanitaria si sarebbero incaricate di offrire alla sua provocatoria domanda. A distanza di poco più di un secolo, l’ignobile mestiere di procurare cadaveri o organi per i vivi ha ottenuto una completa legittimazione giuridica e sociale. Al posto dei body snatchers imbrattati di fango e di sangue ci sono oggi complesse organizzazioni societarie multinazionali e équipes di medici in camice bianco, ai cimiteri si sono sostituite asettiche sale d’ospedale, ai divieti si sono sovrapposte leggi che disciplinano e organizzano una attività, considerata ormai ovunque di primario interesse pubblico e sociale (anche se non bisogna dimenticare che, subito dopo i primi trapianti di cuore, molti avevano avanzato una richiesta di moratoria ritenendo il trapianto un business immorale e criminale).
Così oggi i cadaveri hanno, per i vivi, una utilità ben più consistente di quella di offrire un corpo da sezionare o un teschio da riporre in una bacheca: essi sono divenuti, specie se non ancora consumati dal tempo o deteriorati dalle malattie, insostituibili e inesauribili giacimenti di preziose materie prime, sfruttati ancora in modo assai primitivo.
Da un qualsiasi cadavere, intervenendo a cuore fermo, si possono ricavare due cornee, due articolazioni dell’anca, una mandibola, sei ossicini dell’orecchio, ossa lunghe e costole, legamenti vari, tendini e cartilagini, midollo osseo, arterie e vene, pelle, materiale genetico. Invece, da un corpo di una persona sana e relativamente giovane che per un qualche incidente (quasi sempre, per un incidente stradale) abbia subito la distruzione irreparabile delle funzioni del cervello, è possibile ricavare anche, intervenendo tempestivamente e prima che si fermi la circolazione: un cuore, due polmoni, due reni, un fegato e un pancreas.
C’è però una consistente differenza rispetto al passato: ciò che oggi ha assunto la qualità di una cosa, di un bene economico non è, come ai tempi in cui era ammessa (o tollerata) la schiavitù, l’uomo unitariamente considerato, in quanto insieme di persona (cioè come insieme delle qualità immateriali dell’uomo) e di corpo. E’ infatti sottratto all’utilizzazione e al commercio da parte di chiunque l’essere umano in quanto entità unitaria.
Parimenti, non sono cose, e restano quindi sottratti all’utilizzazione e al commercio da parte di chiunque, le due componenti primarie dell’essere umano, considerate nella loro dimensione unitaria: la persona, intesa come l’insieme delle qualità immateriali che formano l’identità e il corpo, inteso come insieme degli elementi fisici e come sistema biochimico.
Nessuno può quindi dirsi “proprietario” di sè stesso, del proprio corpo, o della propria persona: la proprietà è infatti un potere che si esercita su un bene economico (materiale o immateriale), e che comporta la possibilità di utilizzarlo a proprio piacimento: sia di goderne, sia di disporne, cedendolo ad altri.
Certamente, si tratta di una conquista di civiltà. Ma Jean-Pierre Baud ci avverte di non dimenticare che è una conquista raggiunta a caro prezzo: alla radice dell’esclusione di ogni rapporto di proprietà dell’uomo con il suo corpo sta non la valorizzazione dell’elemento corporeo, ma la sua cancellazione: sta l’opera di giuristi che hanno privato l’uomo del suo corpo, trasformandolo in pura volontà: così, l’uomo in quanto volontà può stipulare contratti, redigere testamenti, compiere ogni sorta di atti giuridici, ma resta del tutto irrilevante se l’uomo in quanto corpo ha fame, non ha una casa o è privo di mezzi di sussistenza (Baud).
Resta comunque il fatto che oggi, per l’essere umano, per la persona, per il corpo può parlarsi solo di libertà, non di potere: essi non sono cose, non sono beni economici, e di essi nessuno può disporre (a questo principio non fanno se non apparentemente eccezione il suicidio, l’eutanasia, e il cosiddetto diritto di morire: sono, questi, tutti casi nei quali l’uomo liberamente sceglie di porre fine a sè stesso, senza alcuna finalità di carattere economico o commerciale, e anche senza alcuna finalità di beneficio per altri).

3. Il caso del signor Moore.
Si è detto che non si può parlare di proprietà, con riferimento al corpo unitariamente inteso, neppure da parte dell’essere umano cui esso appartiene.
Ma resta vera questa affermazione anche per i componenti e i materiali nei quali il corpo può essere disaggregato? Oppure, se si abbandona il livello del corpo come entità unitaria, è concepibile attribuire all’essere umano la proprietà degli elementi dai quali il suo corpo è composto? Più in generale: gli elementi del corpo umano possono essere qualificati beni economici in senso stretto, e cioè merci cedibili e commerciabili (sia pure a condizioni e con limiti particolari, determinati dalla particolare natura del bene) da parte di colui cui essi appartengono o, più in generale, da parte di chiunque ne abbia la proprietà o il possesso?
Prima di formulare risposte affrettate a questa domanda, è bene ricordare che alcuni degli elementi che costituiscono l’altra componente primaria dell’essere umano, quella immateriale, e cioè la persona, sono oggi, nel mondo occidentale, liberamente commerciabili: così, ciascuno può disporre di componenti essenziali della propria personalità e della propria identità, quali la la voce o il nome o addirittura la propria immagine, sfruttandone l’uso direttamente, o concedendone lo sfruttamento a terzi (Breccia, 505). E si tratta di una libertà inconcepibile non solo presso molti popoli primitivi, ma anche presso molte culture attualmente esistenti, dove l’immagine è rigidamente tutelata da ogni appropriazione o riproduzione (e infatti la fotografia viene ritenuta un inammissibile e irrimediabile furto di un attributo della propria identità).
Nel mondo occidentale, quindi, le componenti della persona sono già state colpite da un processo di commercializzazione. E si è trattato di un processo accettato senza particolari reazioni o proteste dall’opinione pubblica.
Il corpo è destinato a seguire la stessa strada, o è assoggettato a regole differenti?
Il modo migliore per cominciare a rispondere a questa domanda è forse quello di esporre la vicenda del signor John Moore, il quale, nel 1976, si fece visitare dal centro medico dell’Università di California a Davis; gli venne diagnosticata una rara forma di leucemia alla milza, che fu asportata con un apposito intervento chirurgico. Tra il 1976 e il 1983 il signor Moore dovette sottoporsi a numerose visite di controllo, e, spesso, a dolorose analisi che richiedevano il prelievo di sangue, midollo osseo, pelle e sperma.
Nel 1984 il signor Moore venne casualmente a sapere che nel marzo il Centro universitario di Davis e i due medici che lo avevano assistito per lunghi anni avevano ottenuto un brevetto per una sequenza di cellule (linfociti T) denominata “cellule Mo” idonea a riprodurre la linfocina, una proteina di grande valore terapeutico per la regolazione del sistema immunitario. Forse incuriosito dalla denominazione (che, senza molta fantasia, riproduceva le prime due lettere del suo nome), il signor Moore, dopo qualche indagine, scoprì che la sequenza di cellule brevettata scaturiva proprio dalla sua milza, il cui tessuto ? a seguito della rara forma tumorale che lo aveva colpito ? aveva assunto rarissime e straordinarie proprietà: e scoprì anche che il brevetto aveva coronato anni di ricerche e sperimentazioni e manipolazioni genetiche condotte dai suoi medici curanti, rese possibili anche dai frequenti prelievi operati nel corso delle analisi e dei controlli cui era stato sottoposto.
Il valore commerciale del brevetto era stimato, entro l’anno 1990, in oltre 3 miliardi di dollari; il Centro di Davis e i suoi medici curanti avevano ottenuto da due società operanti nel settore della farmacologia genetica a cui era stata concessa la licenza per lo sfruttamento commerciale del brevetto (Genetic Institute e Sandoz) un compenso ammontante a circa 440.000 dollari a fronte dell’attività di ricerca svolta tra il 1983 e il 1986 e quote di partecipazione azionaria nelle due società (Howard).
4. La risposta dei giudici al signor Moore e al signor Daoud.
Il signor Moore allora si rivolse all’Autorità giudiziaria, affermando di essere il proprietario del materiale dal quale il prodotto brevettato era stato elaborato e richiedendo sia una partecipazione ai guadagni che sarebbero stati tratti dall’utilizzazione di parti del proprio corpo, sia un risarcimento non essendo stato preventivamente informato, nè avendo acconsentito alle sperimentazioni effettuate su di sè.
La domanda di Moore, accolta integralmente nel giudizio di primo grado con una sentenza definita da molti “rivoluzionaria”, è stata successivamente respinta dalla Corte Suprema di California, in sede di appello.
Secondo la Corte, una persona alla quale sia asportato un organo o una parte del corpo non può accampare su di essi alcun diritto di proprietà, in quanto né il corpo umano, né le sue componenti sono una cosa: essi quindi non possono essere trattati come una merce. Ma non è stata una sentenza raggiunta all’unanimità. Vi sono stati tre giudici (su nove) che hanno espresso il loro dissenso da questa conclusione. Per i dissenzienti, è ingiusto che la proprietà di tessuti umani o organi sia esclusa per il loro “proprietario”, ma venga poi riconosciuta a coloro che ne acquisiscono il possesso, lecitamente o meno: chi ruba un cuore o altri organi dal luogo in cui vengono conservati è infatti indiscutibilmente responsabile di un furto, cioè dell’appropriazione di una cosa: tessuti e organi, una volta separati dal corpo, non possono essere cose, e quindi oggetto di diritti, per tutti, salvo che per l’essere umano dal cui corpo sono stati separati.
Se abbandoniamo per un momento la storia del signor Moore, e facciamo un salto sul Vecchio Continente, scopriamo un’altra singolare vicenda giudiziaria (riferita ancora da Jean-Pierre Baud), che si è conclusa in un modo che i giudici dissenzienti della Corte Suprema della California avrebbero certamente condiviso.
Il 27 giugno del 1985 Janel Daoud, ritenendosi incarcerato ingiustamente, si taglia la falangetta dell’anulare destro e la immerge in una bottiglia di liquido conservante, con l’intenzione di inviarla al Ministro della Giustizia. Ma il direttore del carcere gli confisca dito e bottiglia, riponendolo tra gli effetti personali del carcerato, da restituire nel momento in cui cessa lo stato di detenzione.
Daoud ricorre al giudice, chiedendo la restituzione del suo dito argomentando che le dita di un corpo umano, ancorché separate dal corpo, non possono essere trattate come una qualsiasi cosa e quindi non possono essere confiscate.
Il Tribunale di Avignone ha respinto il ricorso di Daoud, ritenendo il dito separato dal corpo una cosa, come ogni altra cosa sottoponibile a confisca (Baud).
Il Tribunale francese, quindi, a differenza della Corte californiana, ha deciso che le parti del corpo umano sono cose. Ma non ha avuto bisogno di dare una risposta precisa ad una domanda altrettanto importante: Daoud era proprietario del suo dito?
Una risposta a questa domanda permetterebbe di fare un passo avanti per risolvere il ben più complesso dilemma affrontato dalla Corte della California. Ma, attenzione, si tratterebbe di un passo necessario, ma non sufficiente.
5. Sabiniani contro Proculiani.
Se si risponde che Moore e Daoud erano proprietari rispettivamente della milza e del dito, non per questo si può automaticamente dare ragione alla pretesa di Moore. Quest’ultimo infatti non richiedeva la restituzione della sua milza, della quale, anzi, aveva acconsentito a privarsi, né ne richiedeva il controvalore. Moore voleva ottenere una parte dei proventi derivanti da un prodotto ottenuto utilizzando anche, come materia prima. le cellule della sua milza.
Proprio per questo la richiesta di Moore era dirompente: cellule e tessuti umani oggi costituiscono la materia prima di una consistente parte di tutte le ricerche di ingegneria genetica applicata alla medicina e alla farmacologia, e gran parte delle società che operano nel settore dell’ingegneria genetica fanno correntemente uso di tessuti umani per lo sviluppo dei loro prodotti, i quali vengono correntemente brevettati. Una generalizzata pretesa dei pazienti di ottenere quote dei profitti derivanti dai prodotti ottenuti utilizzando o manipolando tessuti o cellule (per lo più tratti dal loro corpo a seguito di operazioni chirurgiche) avrebbe messo in seria crisi la ricerca medica e farmaceutica.
Anche per questo, secondo la maggioranza dei giudici della Corte suprema della California, la richiesta di Moore deve essere respinta: l’essere umano non può avere diritti sui prodotti ottenuti utilizzando parti del suo corpo per ragioni di etica e di politica sanitaria: la libertà e l’autonomia della ricerca medico scientifica verrebbero radicalmente compromesse, se questo diritto venisse riconosciuto, senza tener conto che ciò che è brevettato e posto in commercio, ciò che in altri termini determina il profitto, non sono la cellula o il tessuto umano originario: è un ritrovato che risulta da una attività di ricerca e sperimentazione, e da sofisticati e costosi processi di rielaborazione, trasformazione e manipolazione del materiale originario. E poco importa che questi ritrovati possono essere utilizzati non solo per scopi umanitari e di ricerca, ma anche ? come nella specie è accaduto ? a fini di profitto.
Il contrasto sulla proprietà della sostanza ottenuta a seguito della trasformazione della milza di Moore non è nuovo; anzi, Moore e l’ingegneria genetica hanno riportato inaspettatamente d’attualità, a oltre duemila anni di distanza. un dibattito che travagliò gli antichi giuristi romani, dando addirittura luogo alla nascita di due opposte scuole di pensiero: i Sabiniani e i Proculiani.
La nave, il vino, il vaso sono di chi li ha fatti, oppure del proprietario dei materiali (del legname, dell’uva, del vino)? Per i primi, il prodotto finito deve appartenere al proprietario degli elementi con i quali è stato costituito, per i secondi, a coloro che con la loro opera li hanno trasformati. Nella sentenza della Corte Suprema californiana, la tesi dei Proculiani ? che premia l’attività di ricerca e di impresa e il lavoro rispetto alla proprietà ? ha avuto la prevalenza.
Ma, proprio utilizzando questo schema che ci arriva da un lontano passato, possono farsi ulteriori riflessioni.
Secondo alcuni si dovrebbe distinguere tra gli organi, i quali sono dotati di una loro specifica autonomia funzionale e possono essere trapiantati in un altro corpo, e quei componenti che sono privi di autonomia funzionale, quali, per esempio, le cellule, i tessuti, gli ormoni, il DNA (Swain?Marusyk).
Gli organi, secondo i sostenitori di questa tesi, non subiscono alcuna attività di trasformazione: essi vengono semplicemente custoditi e conservati nel periodo che intercorre tra l’espianto e il trapianto. Passano quindi dal proprietario originario, cui appartengono finchè non gli vengono asportati, al destinatario del trapianto che ne acquista la proprietà allorchè il trapianto avviene (o, forse ancor prima, allorchè viene definitivamente designato).
I componenti sono invece materie prime prive di autonomia funzionale, di per sè inutili, ma trasformabili dall’abilità e dal lavoro dell’uomo: è solo il lavoro dell’uomo che li rende utilizzabili, e oggetto di proprietà da parte di chi lavora. Si tratta di una tesi utile, in quanto evidenzia che il rapporto di un soggetto con le parti del proprio corpo non è riconducibile ad un modello unico, ma può avere contenuti e caratteristiche diverse.
Essa è però, per riutilizzare il nostro modello classico, contemporaneamente troppo Sabiniania e troppo Proculiana.
E’, prima di tutto, troppo Sabiniana per ciò che riguarda gli organi. Per giungere ad affermare la continuità della proprietà tra chi cede l’organo e chi lo riceve, viene infatti trascurato un aspetto decisivo. Nessuno può infatti trasferire direttamente il proprio organo a un altro soggetto (consegnandogli, per esempio, il proprio rene), senza l’intervento, la partecipazione e la collaborazione di strutture sanitarie, di trasporto, di assistenza.
Si tratta di un’attività che richiede consistenti investimenti tecnici e finanziari, sia per l’addestramento del personale, sia per l’utilizzazione del sofisticato know-how proprio del settore, sia per l’organizzazione e la predisposizione dei mezzi necessari; è un’attività che parte da un tempo precedente all’espianto dell’organo (perchè quando l’organo da cedere è disponibile, tutto deve essere pronto, in poche ore) e si estende ad un tempo successivo al trapianto (perchè tutti coloro che ricevono un organo richiedono cure e assistenza medica durature). Un solo esempio: la custodia e la conservazione degli organi avviene, negli USA, al di fuori delle strutture ospedaliere, ed è gestita da apposite società con criteri imprenditoriali. La società leader del settore è Criolife Inc. che raccoglie, conserva e surgela valvole cardiache, tendini, legamenti, richiedendo un compenso non per la cessione degli organi (in modo da evitare i problemi giuridici connessi all’accertamento della proprietà degli organi conservati), ma per il servizio di custodia e congelamento: il prezzo forfettario del servizio per la custodia e il congelamento di una valvola cardiaca, era, nel 1985, di circa 2000 $ (Freifeld).
Nel contempo, la tesi è troppo Proculiana allorchè esclude qualsiasi diritto del soggetto sui componenti del proprio corpo, considerandoli come una res nullius a disposizione di chiunque voglia trasformarli in “prodotti finiti”.
Così infatti vengono premiati esclusivamente coloro che partecipano alla lunga catena dei mediatori tra “proprietario” dei componenti e destinatario del preparato finale, cioè le imprese farmaceutiche, le strutture ospedaliere e sanitarie, i centri di ricerca. All’azzeramento – per ragioni etiche e di sanità pubblica – dei diritti del soggetto sui componenti del proprio corpo non si accompagna infatti, in nome delle stesse ragioni, un generale azzeramento dei diritti proprietari su tali componenti. Invece, quelle ragioni etiche e di sanità pubblica conducono alla conclusione che delle parti separate del corpo umano tutti possono trarre vantaggi anche consistenti, con l’unica esclusione del soggetto al quale vengono asportate. E’ certamente assai discutibile che in questo modo si persegua la funzione sociale di agevolare gli utenti finali, e cioè i consumatori dei preparati elaborati con i componenti stessi, e non le strutture sanitarie, farmaceutiche e industriali che controllano il mercato delle componenti del corpo umano. I componenti del corpo umano rischiano in questo modo di divenire simili al pesce, che è offerto gratis a chi lo pesca, ma costa comunque caro al consumatore (Thorne,43).
Questa tesi rischia poi – secondo molti – di provocare effetti contrari a quelli che persegue: l’azzeramento dei diritti proprietari può produrre infatti non una illimitata disponibilità di materia prima per attività di ricerca e sperimentazione, ma una sua mancanza, unitamente a fenomeni di mercato nero. Ben difficilmente infatti coloro che, come il signor Moore, possiedono tessuti o altri elementi del loro corpo dotati di proprietà utili o rare e che, a differenza di Moore, ne divengono coscienti, li offriranno gratuitamente, consentendo per di più ad altri di trarne tutti i profitti. Si corre così il rischio di ritrovarsi con tanti casi simili a quello della donna che alcuni anni orsono negli USA aveva stipulato con una società di ricerche farmaceutiche un contratto di vendita del suo sangue, fornito di rari anticorpi, per 25000 $ una tantum, oltre 200$ alla settimana e l’uso di un’automobile (Hardiman).
La conclusione di questa breve rassegna sui problemi che sorgono allorchè si vuole rispondere alla domanda di chi è il corpo umano, è che il vero problema a cui deve essere data risposta non è tanto quello della proprietà, ma quello delle condizioni e dei limiti che debbono essere introdotti per la trasferibilità dei diritti sulle parti del corpo umano: con quali regole organi e componenti del corpo umano possono essere prelevati, trasferiti, utilizzati e trapiantati?
6. Il principio della donazione.
Il sistema attuale del trasferimento di organi, tessuti e componenti del corpo umano è ufficialmente basato, nella maggior parte dei paesi occidentali, sul principio della donazione. Secondo molti esperti, la compravendita di organi ? ripetutamente condannata dall’Organizzazione mondiale della sanità – costituisce il vero incubo della medicina in questo momento. E si tratta di un mercato fiorente e in continuo aumento: disperati e derelitti del Sud-est asiatico, dell’Africa, dell’Est europeo e del Sudamerica offrono per pochi dollari reni, cornee (perdendo ovviamente la vista da un occhio), lembi di pelle per pochi dollari.
Il principio si fonda su un doppio rifiuto. Sul rifiuto di un passato, che lambisce i nostri giorni, nel corso del quale, dalla schiavitù ai lager nazisti, il corpo umano è stato considerato come merce o come oggetto di sperimentazione; sul rifiuto di un futuro dominato dell’incontrollabilità del progresso della scienza e della tecnologia medica, lanciato verso l’obiettivo di “abolire la morte”, ma al prezzo di trasformare l’umanità in un “gigantesco mattatoio, in una Auschwitz molecolare” per il vantaggio di pochi privilegiati (Chargaff, Gorovits), a spese di milioni di “proletari del corpo” .
Il fondatore teorico di questo principio è considerato un economista e sociologo inglese, Richard Tittmuss, il quale, soffermandosi sulla trasfusione di sangue, ha sostenuto che i meccanismi fondati sulla cooperazione e l’altruismo debbono essere preferiti ai meccanismi di mercato fondati sul profitto (Tittmuss).
Essi debbono essere preferiti, secondo Tittmuss, non solo perché segnalano che l’egoismo non è l’unico sentimento significativo nella società moderna, e che non tutte le cose di valore possono essere comprate ma anche perché – come qualsiasi dono – avviano un meccanismo di scambio, indicando la fiducia del donatore nella disponibilità anche degli altri di compiere un gesto analogo in futuro, restituendo il beneficio ricevuto (Tittmuss, 239, Murray).
Secondo Tittmuss, inoltre, la donazione di sangue deve essere preferita non solo dal punto di vista dell’etica, ma anche secondo criteri puramente di efficienza e di sicurezza sanitaria: chi dona, non ha nessun interesse a trasferire organi malati o a nasconderne eventuali difetti, mentre ciò può accadere per chi vende.
In effetti, il sangue e gli organi appartengono, insieme, per esempio, agli appartamenti situati in vecchi stabili o alle automobili usate, alla categoria dei beni per i quali il ricevente non è in grado di determinare pregi e difetti del bene trasferito con la stessa precisione del cedente. E, per tutti questi beni, il rispetto non solo delle regole di mercato, ma anche di regole di buon comportamento, di regole etiche, costituisce una importante garanzia di risultati ottimali anche da un punto di vista economico.
Per questo, nella creazione di un libero mercato del sangue, Titmuss intravedeva non solo una gravissima minaccia per i valori etici e solidaristici che devono essere alimentati in ogni comunità, e un concreto pericolo di sfruttamento dei poveri, a favore delle classi abbienti, ma anche un attentato alla produttività complessiva del sistema sanitario.
Il principio di Tittmuss ha avuto una sorte curiosa: si è rapidamente esteso ad ogni trasferimento di parti di corpo umano, è stato recepito nella maggior parte delle legislazioni sui trapianti, riscuote oggi il consenso pressochè unanime dell’opinione pubblica, ma proprio il sangue, per il quale essa era stata elaborata, è rimasto escluso. Per il sangue infatti è tacitamente o espressamente consentita la vendita e il commercio in molti Paesi. Così, in Italia, la legge 14\7\1967 n.592 (a differenza della legge sul rene, approvata nello stesso anno) prevede espressamente la possibilità di un corrispettivo per il “donatore” del sangue; si è cercato di giustificare questa disposizione, osservando che si tratta di un atto di disposizione del corpo che non produce una diminuzione permanente dell’integrità psicofisica. (Moscati). Molte sono comunque le voci che – proprio in nome della concezione solidaristica e di una “cultura della donazione” basata “sulla valorizzazione del gesto del dono del sangue” – richiedono una modifica della disposizione legislativa, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, quando essa è divenuta una pericolosa e incongrua eccezione al principio generale della gratuità della cessione degli organi, che è stato esteso in via generale a tutti i casi di cessione a scopo di trapianto (Romboli, 319).
Vi sono paesi, comunque, nei quali – fermo restando il principio della donazione degli altri organi – il prelievo di sangue dietro compenso costituisce espressione di una normale attività commerciale: negli USA, per esempio, a fronte di un bisogno interno annuo di sangue di 3 milioni di litri ne vengono prelevati oltre 9 milioni, destinando il surplus all’esportazione (ma proprio con riferimento all’introduzione del libero mercato del sangue negli USA, Tittmuss osservava che “non potremo mai offrire una stima economica dei costi sociali subiti dalla società americana a seguito del declino della donazione di sangue” (Tittmuss, pag.198)); per converso, la sola Germania acquistava, sino a qualche anno fa, 800.000 litri all’anno di sangue americano.
Anche la Comunità europea, con una direttiva “a sorpresa” del 14 giugno 1989, ha scelto la strada del mercato: il sangue e il plasma umano sono stati qualificati come materie prime per la preparazione di medicinali e inseriti nel circuito commerciale delle imprese farmaceutiche.
La scelta operata dalla Comunità ha suscitato reazioni accorate e indignate in Francia, il paese che attualmente si pone il più rigido custode dei valori di solidarietà e del principio della donazione (che non è incompatibile con la qualità di cosa attribuita alle pari del corpo, come è accaduto per il caso del signor Daoud). Il Comité national d’ethique ha infatti criticato aspramente la decisione comunitaria e ha osservato che trattare il sangue e gli emoderivati come merce contrasta con i principi della gratuità della cessione delle parti del corpo umano e del trapianto in ogni sua fase, del rispetto della figura del donatore e della tutela dell’interesse del malato, e, ponendo le premesse per una generalizzata mercificazione di ogni altra parte del corpo umano, costituisce un serio attentato alla dignità dell’uomo (Nay).
7. Il dibattito sul principio della donazione.
Il principio della gratuità della cessione delle parti del corpo umano non è esente da critiche.
Secondo un primo gruppo di oppositori, esso risulta sempre meno idoneo per risolvere la penuria di organi e per soddisfare le lunghissime liste di attesa di possibili riceventi.
La mancanza di organi è assai grave nei paesi, come USA e Gran Bretagna, in cui vige quale condizione per l’espianto un sistema “opt in”, ove cioè la legislazione richiede per il prelievo di organi il consenso del defunto, accertabile a mezzo di dichiarazioni univoche, o dei suoi stretti famigliari. La “carta del donatore”, infatti, non funziona: pochi la sottoscrivono, e quei pochi, quando serve, non l’hanno con sè. Diventa così determinante il consenso dei familiari, i quali non sempre sono però rintracciabili nel breve spazio di tempo a disposizione, e raramente sono favorevoli. (Thorne).
Negli USA inoltre la propensione alla donazione sta vistosamente decrescendo negli ultimi anni: favorevole a donare i propri organi era il 70% di un campione rappresentativo nel 1968, è il 45% nel 1985. Il rifiuto è motivato soprattutto con due ragioni: il rischio che i medici non aspettino la morte (23%), e il rischio che addirittura la affrettino, se hanno bisogno di un organo (21%) (Porzio, 89). Per far fronte alla crescente mancanza di organi, si è anche pensato al macabro espediente di sostituire la condanna a morte con una condanna alla confisca degli organi, ufficialmente denominata pre?mortem prisoner organ draft (Stone).
La penuria di organi non è però meno grave nei paesi dove vige un sistema opt out, il quale prevede in via generale (con limitazioni predeterminate) l’espiantabilità degli organi dal cadavere. A questo gruppo di paesi appartiene l’Italia, dove – a seguito della legge 2\12\1975 n.644 – l’espiantabilità dell’organo, con l’eccezione dell’encefalo e delle ghiandole genitali e della procreazione, è divenuta la regola, salvo il caso di accertata volontà contraria del defunto o dei suoi stretti famigliari.
L’Italia, anzi, nonostante questa legislazione liberista, occupa da sempre uno degli ultimi posti in Europa. Tra il 1986 e il 1991 il numero dei donatori nel nostro paese è rimasto attorno a 5 per milione di abitanti, contro i 15 della Gran Bretagna e della Spagna, i 20 della Francia, i 25 dell’Austria; superiamo solo la Grecia, che ha 2 donatori ogni milione di abitanti. Anche se si considera il numero di trapianti, invece del numero dei donatori, il risultato non cambia: per ciò che riguarda il rene, per esempio, nel 1991 si sono eseguiti in media 34 trapianti per milione di abitanti nei paesi della Comunità europea, contro i 10 per milione di abitanti eseguiti in Italia (Nespor-Satolli-Santosuosso, pag.134).
Questo comporta che in Italia, attualmente, 28.500 pazienti sopravvivono attualmente con dialisi, in attesa di un trapianto di rene; di questi, 6000 sono inclusi in liste di attesa per il trapianto; i trapianti sono però non più di 500\600 all’anno (Antonella Cremonese). Erano invece circa 300, nel 1991, i pazienti in attesa di un cuore, e 400 i pazienti in attesa di un fegato, mentre vengono eseguiti annualmente meno della metà dei trapianti che sarebbero necessari (Nespor-Satolli-Santosuosso, pag.135).
La mancanza di organi, che pure indubbiamente costituisce un fatto assai grave, non è però, secondo i sostenitori del principio della donazione, una ragione sufficiente per far abbandonare il principio. Il rifornimento di organi potrebbe infatti, secondo costoro, essere reso sufficiente rispetto alle necessità se fossero compiuti adeguati sforzi per diffondere nella collettività una reale cultura della solidarietà attraverso il trapianto, e se, d’altro lato, fosse predisposta una organizzazione sanitaria idonea al recupero degli organi potenzialmente utilizzabili.
Un secondo gruppo di critici del principio della donazione osserva che esso, contrariamente alle apparenze, non ha privato della qualità di bene in senso economico i componenti del corpo umano nè i loro trasferimenti, ma ha soltanto, e paradossalmente, escluso dal regime di mercato proprio coloro che lo “possiedono”. Così, come del resto insegna la vicenda di Moore, nel complesso processo che si conclude con il trapianto o con l’utilizzazione di un componente del corpo umano, solo a chi cede una parte del proprio corpo si impone di agire eticamente, in modo altruistico e senza compenso: tutti gli altri attori ? medici e organizzazioni sanitarie (in particolare dove non esiste un’assistenza sanitaria gratuita), imprese farmaceutiche e produttori di attrezzature o strumenti igienici e sanitari, intermediatori e “banche” di conservazione, stoccaggio e congelamento di organi e componenti del corpo umano ? traggono dal principio di gratuità che grava sul cedente e quindi dall’azzeramento del suo possibile compenso, una ragione di aumento dei propri profitti (senza sostanziale beneficio per il ricevente).
L’eliminazione di questa ingiusta penalizzazione del proprietario può avvenire ? secondo una linea di pensiero rigorosamente mercantilista ? soltanto riconoscendo, accanto alla libertà e al piacere di donare, la libertà di vendere (Arrow), e introducendo così il diritto di proprietà, di disposizione e di vendita al proprietario degli organi e componenti del corpo (Engelhardt, Hardiman), eventualmente all’interno di un mercato degli organi appositamente costituito e accuratamente regolato, nel quale sia comunque interdetta la vendita tra vivi, in modo da evitare situazioni di sfruttamento (Cohen Lloyd); secondo altri, introducendo forme di incentivazione o di compenso (non necessariamente in denaro, ma sotto forma, per esempio, di agevolazioni sanitarie, ospedaliere, o fiscali al cedente o ai suoi eredi) per la utilizzazione degli organi dei cadaveri o per la cessione di tessuti umani.
Sono però, tutte queste, secondo i sostenitori della donazione, manifestazioni di contrattualismo individualistico iperrazionalista, di una “concezione etica che ci presenta tutti come dei free riders che nel corso di tutta la nostra vita in modo unilaterale possiamo decidere quando è conveniente considerarsi membri di una società e, quando non lo è, andare per la nostra strada; battitori liberi che non debbono nulla agli altri, e ai quali nulla può essere richiesto” (Lecaldano I.1. 47/48). Ponendosi in questa linea di pensiero, molti giuristi si sono pronunciati, in nome del benessere dell’umanità e del principio di solidarietà, per una sorta di nazionalizzazione dei cadaveri, e quindi di tutte le sue componenti: secondo costoro (sia pure con varie sfumature), “lo Stato, in un’organizzazione futura, deve poter disporre di qualunque cadavere, per poterne prelevare qualunque parte al fine di giovare a una vita umana” (Leone).
In realtà, il dibattito sulla donazione, e quindi sulla gratuità o meno della cessione degli organi, si basa su alcuni presupposti che vengono considerati pacifici, che però tali non sono.
8. Qualche riflessione aggiuntiva sulla donazione di organi.
La donazione è solitamente definita come un atto di liberalità di un soggetto, che trasferisce a un altro soggetto un proprio bene, senza alcun compenso. Si tratta di una definizione che, depurata dalle specificità che l’istituto ha assunto nei vari ordinamenti giuridici, corrisponde all’idea diffusa nell’opinione pubblica della donazione come atto di espressione della libertà e dell’autonomia dell’individuo per ciò che riguarda i propri beni. Due sono quindi i protagonisti necessari e sufficienti: un soggetto che dona, e un soggetto che riceve il dono.
Ben diversa è però, a questo riguardo, la cessione dell’organo.
Prima di tutto, già si è detto che, per quanto animato da buona volontà, nessuno potrebbe mai fare dono di un proprio organo da solo senza la partecipazione attiva e la collaborazione di una complessa struttura organizzativa e sociale. A differenza del dono di un paio di scarpe o di una bottiglia di champagne (per il quale sono sufficienti la decisione di donare, e il denaro necessario per comprare le scarpe o la bottiglia), il dono di un organo richiede assai di più per potersi realizzare. Richiede équipes di medici forniti di un know-how altamente specializzato per l’espianto prima e per il trapianto dopo, sofisticate strutture sanitarie che consentano di eseguire tutti gli interventi necessari, costosi sistemi di conservazione e trasporto, appropriate e spesso costose e durature cure mediche successive, unite a attività di assistenza per il ricevente (per evitare il pericolo del rigetto); in generale, un consistente investimento economico e finanziario che grava, in tutto o in gran parte (a seconda dei sistemi sanitari) sull’Amministrazione sanitaria e quindi sulla collettività.
Il dono di un organo – a differenza della donazione del paio di scarpe – esiste e si realizza in quanto atto sociale (Kluge), del quale la decisione privata di cedere l’organo costituisce un frammento, significativo e necessario, certo, ma, di per sè, del tutto insufficiente. Donatore, in definitiva, non è solo il soggetto cui l’organo appartiene, ma l’intera collettività cui il donatore e il ricevente appartengono.
C’è poi un secondo aspetto che rende diversa la donazione di organi dalla generale categoria della donazione, ed è che al donatore non è lasciata di norma la possibilità di scegliere il ricevente.
Con l’eccezione dei casi di donazione interparentale o interfamigliare (dove la decisione di donare è, in realtà, determinata proprio dall’esistenza di un vincolo famigliare, e avviene con riferimento a un ricevente necessariamente predeterminato), la scelta del ricevente dipende, per lo più, da liste di attesa formate che tendono (o dovrebbero tendere) a garantire l’imparzialità e l’equità della scelta (Porzio, Task Force). Moltissimi sono i criteri utilizzabili, e molti quelli in concreto utilizzati o dei quali è stata proposta l’utilizzazione, oltre a quelli preliminari della probabilità di riuscita dell’intervento (e quindi della compatibilità dell’organo con il sistema immunitario del ricevente). Tutti, mentre tendono a tutelare l’oggettività del processo decisionale, appaiono più o meno discutibili (salvo, forse, quello, assai semplice, della pura estrazione a sorte). Per esempio: a parità di altre condizioni (tra le quali, ovviamente, vi è l’imminente pericolo di morte), deve essere preferito un ricevente giovane o anziano? Deve essere preferito un ricevente con la stessa cittadinanza del cedente, o appartenente al suo sesso, o alla sua razza, o addirittura proveniente dalla stessa area geografica? Devono essere preferiti i capofamiglia ai singles? Chi ha già ricevuto un trapianto va in capo o in coda alla lista? Questi sono alcuni dei problemi (neppure tra i più complessi) che pone la predisposizione di criteri per la formazione delle liste di attesa. Quel che è certo, è che in nessun caso è stato incluso, o suggerito, per la formazione delle liste il criterio di tener conto, in qualche misura, della volontà del cedente.
Questo dipende dal fatto, ancora una volta, che donatore non è chi mette a disposizione l’organo, ma una intera collettività che mette a disposizione investimenti, tecnici sanitarie, strutture di ricerca e apparati di intervento di taluni soggetti sfortunati (non necessariamente suoi membri) . Si tratta di scelte che la collettività compie a mezzo dei suoi rappresentanti che cooperano nel formare la politica sanitaria del paese, dedicando al trapianto una determinata quota della quota di bilancio del settore (scelta probabilmente criticabile, a fronte di altre possibili, sulla base di semplici analisi dei costi e dei benefici, ma questo, come le questioni concernenti la formazione delle liste di attesa, fa parte di un’altra storia).
Quindi, poichè donatore dell’organo è, secondo questa ricostruzione, la collettività, è più che comprensibile che ad essa, e non a chi mette l’organo a disposizione, spetti anche il compito di individuare il ricevente.
9. Il dilemma del buon samaritano.
E così, la cessione di un organo, collocato nella pubblica opinione come una delle più significative espressioni di liberalità e di autonomia dell’individuo, e come uno dei massimi gesti individuali di solidarietà umana (in Messico si è proposto di attribuire a chi cede un organo la qualifica di ‘eroe nazionale’) si è trasformata in un gesto diffuso di solidarietà collettiva, all’interno del quale la posizione di colui che cede l’organo resta importante sì, ma perde la sua caratteristica di centralità e unicità. Tutti i membri di una collettività rinunciano (non sempre consciamente, naturalmente) a un pezzetto di assistenza sanitaria, e quindi di salute, per offrire la possibilità a alcuni soggetti sfortunati (non necessariamente membri anch’essi della collettività) di proseguire la propria vita con un organo altrui.
E chi cede l’organo (e partecipa, per un frammento certo non trascurabile, al gesto di solidarietà collettiva)? Per quel che abbiamo detto, qualificarlo “donatore” costituisce un’operazione di suggestione linguistica e giuridica che cela, come abbiamo visto, la differenza tra questa cessione e quella della donazione propriamente detta, altera la vera identità collettiva del donatore e consente l’improprio sviluppo di tutte contrapposizioni tra dono e vendita.
Ma allora, se non perchè spinto da puro spirito di liberalità, se non per donare, perchè qualcuno dovrebbe essere disponibile a cedere gratuitamente un proprio organo?
Per dare una risposta, facciamo ricorso alla storia del buon Samaritano, nella risistemazione, sotto forma di Dilemma del Samaritano, offerta da Derek Parfit (Parfit, 60)
Ciascun Samaritano potrebbe dare assistenza talvolta un bisognoso, a costi ridotti per sè stesso. A ciascun Samaritano potrebbe, per converso, capitare di essere aiutato da uno straniero. In una piccola comunità, il costo dell’assistenza potrebbe essere facilmente ripagato dal Samaritano, nel corso della sua vita .
E’ però assai più improbabile che ciò accada nel mondo moderno, e in particolare nel mondo occidentale. Nelle vaste comunità urbane, il Samaritano è quindi portato a pensare che il proprio aiuto al bisognoso sia ininfluente o non necessario, poichè c’è comunque sempre qualcuno che presta assistenza; per converso, può pensare che, in caso di proprio bisogno, troverà sempre qualcuno disposto a prestargli assistenza.
Se ciascuno si comporta in questo modo, il risultato diventa peggiore per tutti.
Ciascuno trarrebbe un profitto agendo in modo puramente egoistico e rifiutando la propria assistenza al bisognoso, ma ciascuno, così agendo, conseguirebbe un danno assai maggiore se tutti si comportassero come lui.
Ecco quindi che il Samaritano avrebbe dovuto passare alla storia non per la sua bontà, ma per il suo buon senso.
Il prototipo del Samaritano – e il dilemma in cui egli può trovarsi – può essere esteso, come ha dimostrato Parfit, a tutte le situazioni nelle quali può contare sul fatto che, perseguendo soltanto il proprio interesse, non subirà conseguenze negative, perchè un numero sufficiente di persone comunque agisce tenendo conto dell’interesse collettivo (Parfit, pag.53 ss.).
Può essere esteso, in particolare, a tutti i casi di servizio pubblico. Così, ciascuno può pensare che, non pagando il biglietto per il tram, o non pagando le tasse, o ottenendo medicinali inutili gratuitamente o al prezzo politico fissato dal Servizio sanitario nazionale, trae un profitto. Ma se tutti si comportano in questo modo, scompaiono i tram, i servizi pubblici cessano di funzionare, le medicine aumentano di prezzo. Perseguire il proprio interesse e la propria utilità produce un beneficio solo finchè si rimane un free-rider, finchè cioè molti continuano a tener conto dell’utilità collettiva. Se tutti perseguono il proprio interesse, il risultato finale è un danno assai più consistente del profitto tratto.
Se si tiene conto di tutto ciò, è facile comprendere che la disponibilità a cedere gratuitamente i propri organi non è un gesto di pura liberalità, così come non era un gesto di pura bontà il comportamento del buon Samaritano in una piccola comunità. Entrambi sono comportamenti altamente razionali, rivolti a perseguire in modo non occasionale il proprio interesse, e quello dei propri famigliari. Entrambi sono comportamenti altrettanto dovuti, non solo moralmente e socialmente, ma anche egoisticamente parlando, quanto quello di pagare il biglietto del tram o di non richiedere medicinali non necessari.
E veniamo ai trapianti. Se tutti, in caso di morte, cedono gratuitamente gli organi, tutti sanno che vi sono buone probabilità di ricevere gratuitamente un organo, in caso di bisogno. Chi, invece, si rifiuta di cedere gli organi (volendo evitare i ridotti rischi che ciò comporta), o chi si rifiuta di cederli senza compenso (in caso di apertura di un libero mercato degli organi) può egualmente contare – vista la comunità allargata in cui vive – sul fatto che vi siano buone probabilità, per sè o per i suoi famigliari, di ricevere gratuitamente o dietro compenso un organo in caso di bisogno. A meno che non ci siano troppi che la pensano in questo modo. Se così accade (e così oggi accade), la probabilità di ricevere un organo in caso di bisogno diviene assai bassa.
La conclusione è che l’insistenza con la quale la cessione di organi da parte di un soggetto è stata qualificata e ricostruita come donazione è scorretta non solo linguisticamente e giuridicamente, ma anche moralmente. Ciò sarebbe, tutto sommato, privo di rilievo, se questa insistenza non fosse inoltre, anche dannosa. Essa infatti ha sinora indotto chiunque a ritenere che il comportamento di cedere un organo senza compenso, in quanto dono, sia del tutto facoltativo e eventuale, sicchè farlo o non farlo sia privo di effetti pratici sulla posizione propria e dei suoi famigliari, e si eticamente irrilevante. E questo non è vero. Cedere gratuitamente i propri organi è, come abbiamo appena visto, un atto con il quale si persegue il proprio interesse, assai di più che non decidendo di non cederli o attendendo di poterli cedere a pagamento.

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Internet e la Legge – Capitolo 17

Capitolo 17
I libri digitali

24.1.L’era del libro digitale: un ritorno al passato.
Il 14 marzo 2000 un noto autore americano, Stephen King, ha diffuso in rete un proprio racconto, prima di porre in commercio la versione cartacea.
Nelle 24 ore seguenti, il racconto viene scaricato da 400.000 lettori virtuali da ogni parte del mondo. Un trionfo.
Molti hanno considerato il 14 marzo 2000 la ufficiale data di inizio di una nuova era. L’era del dopo-Gutenberg, quella in cui il libro digitale sostituirà il libro cartaceo, l’era in cui la disseminazione dell’informazione non dipenderà più da una molteplicità di intermediari, ma avverrà direttamente tra autore e lettore.
Sotto questo profilo, il libro digitale può rappresentare anche la chiusura di una parentesi, durata sei secoli, in cui la disseminazione dell’informazione è stata dominata dalla stampa: non un balzo in una nuova era, ma un ritorno al passato.
Prima della stampa infatti, nel mondo greco o romano, non vi era differenza tra lettori e autori.
Chiunque poteva divenire un autore in un modo assai semplice: scrivendo.
Non c’erano filtri, né intermediari che selezionavano i testi da stampare o le informazioni da erogare in base a criteri di profitto, o a valutazioni etico-religiose (queste ultime sopravvengono nel mondo occidentale medioevale, allorché la conservazione e la riproduzione dei manoscritti diviene un compito di ordini religiosi, i quali esercitavano anche un penetrante screening ideologico per scegliere le opere degne di riproduzione: ma ciò non ha impedito la copiatura e la conservazione delle opere di Petronio o di Marziale).
Tra lo scrittore qualsiasi e lo scrittore affermato (l’autore), nel mondo romano vi era una semplice differenza quantitativa, data dal numero di copie disponibili del manoscritto, e questa dipendeva, in ultima analisi, dalla richiesta dei consumatori di informazioni sotto forma di testi manoscritti .
Poi arriva la stampa, e si spezza la sostanziale coincidenza tra lettori e autori; si afferma una distribuzione dell’informazione selezionata in base a criteri di efficienza economica e commerciale e – in considerazione dell’estendersi del numero di lettori – in base a valutazioni di ordine pubblico e di carattere etico.
L’avvento della stampa ha quindi creato un sistema diseguale, nel quale un ruolo centrale con funzioni selettive è stato progressivamente accumulato da vari intermediari: corrispondentemente, gli autori sono stati isolati dalla generale platea dei lettori e dalla ampia categoria degli scrittori, e trasformati in una categoria composta da coloro i cui testi erano ritenuti idonei alla diffusione secondo valutazioni effettuate con diversi criteri da stampatori, editori, censori, critici, moralisti, organismi pubblici, e così via .
Gli editori pubblicano ciò che ritengono possa creare un profitto, sulla base di valutazioni di ciò che i lettori vorranno e (nei periodi e nei luoghi in cui vi sia una censura) potranno leggere.
Le informazioni inserite nelle opere stampata sono quindi distribuite sulla base di criteri di efficienza economica: ciò che conta è recuperare gli investimenti effettuati, e questa necessità determina il contenuto dell’opera e dell’informazione trasmessa.
Il risultato è che solo una minima parte di ciò che viene scritto viene reso disponibile al pubblico, ed una minima parte delle informazioni meritevoli di essere disseminate viene effettivamente distribuita.
La produzione di opere e di informazioni si adegua, a seconda dei tempi e dei luoghi, alle richieste e ai vincoli imposti dai vari intermediari: gli autori nel periodo della stampa sono quelli che producono informazioni che l’editore accetta (secondo sue valutazioni di ciò che il pubblico è disposto a comprare), e che il governo o le autorità religiose permettono di pubblicare.
I libri stampati disponibili sono quindi il risultato di uno stratificato processo di selezione.
L’avvento del libro digitale porterà alla scomparsa della selezione e degli intermediari che hanno svolto il ruolo di selettori, gli editori in primo luogo.
Qualsiasi autore, o meglio, qualsiasi scrittore, può pubblicare un libro digitale: è sufficiente realizzare l’opera – non in forma manoscritta come un tempo, ma in forma digitale – e diffonderla poi in Rete, rendendola disponibile a un pubblico vasto quanti sono gli utenti della Rete, e distribuito su scala mondiale. Se l’opera sarà letta o scaricata per essere conservata, dipenderà non dai processi selettivi introdotti dalla stampa, ma dal contenuto, e quindi, dal giudizio del mercato.
È realistica questa prospettiva, oppure va classificata tra le numerose utopie che si sono sviluppate con l’avvento del Cyberspazio?

24.2 La lunga marcia verso il libro digitale: gli ostacoli tecnologici.
Prima di dare una risposta all’interrogativo, soffermiamoci sul percorso necessario per giungere ad una diffusione del libro digitale. Un percorso non breve.
Gli ostacoli non sono costituiti dagli enormi costi necessari per convertire il patrimonio esistente in libri digitali , e non sono costituiti neppure dalla mancanza di modalità standard per realizzare la trasformazione del patrimonio librario cartaceo in patrimonio elettronico, anche se la situazione attuale – ci sono oltre 1000 modi di formattare un libro digitale, e alcune centinaia di tecnologie per leggere – è comparabile con quella delle prese elettriche: chi ha un rasoio elettrico comprato in Germania, non può usarlo in Italia o negli Stati Uniti.
Gli ostacoli più importanti sono due.
Il primo, di carattere tecnologico e connesso alla tecnologia per la lettura: alla gente non piace leggere sullo schermo di un lettore di testi digitalizzati.
Non va dimenticato, a questo proposito, che l’idea di un libro esclusivamente digitale è vecchia almeno quanto il PC. Nella prima fase, all’inizio degli anni Ottanta – prima dell’espansione della Rete – si pensava al CD-ROM come sostituto del libro cartaceo e come veicolo di lettura.
Tuttora sono inserite e commerciate in CD-ROM antologie più o meno approfondite delle letterature di varie paesi. È un prodotto indubbiamente utile, se non altro perché assorbe all’intero di un dischetto il contenuto di una libreria (con enorme risparmio di spazio e di costi). Ma ha un difetto: nessuno lo compra (ed è per questo che ora in tutta Europa viene allegato come offerta dei periodici), perché, appunto, nessuno ha voglia di leggere sul PC (anche se in parte almeno il crollo del mercato del CD-Rom letterario è stato anche provocato dallo sviluppo della Rete e dall’offerta di intere biblioteche gratuitamente in Rete ).
Gli strumenti portatili o palmari sinora in commercio per leggere libri – il primo, Rocket Ebook, prodotto da Nuvomedia nel 1998 ,seguito da SoftBook Reader e, più recentemente, da Microsoft PocketPC; in Francia è disponibile uno strumento equivalente, Cytale, esposto al Salone del libro di Parigi nell’aprile del 2000 – sono assai costosi non hanno avuto successo(ne sono stati venduti complessivamente 30-40.000).
Poi, leggere sullo schermo è sgradevole, fino a che la tecnologia non introdurrà una illuminazione analoga a quella offerta dalla luce sulla carta che per di più, rispetto al lettore digitale, è un materiale assai più comodo, flessibile, resistente.
Molti sono convinti che i portatili o palmari per lettura, così come sono attualmente non abbiano ragionevoli sviluppi di mercato nel prossimo futuro, e che il modello vincente per la diffusione del libro digitale non sia ancora stato prodotto .
Ma il momento potrebbe non essere lontano.
Sono in fase di studio avanzato anche dei veri e propri libri elettronici, composti da carta elettronica.
Si tratta di un foglio plastificato, flessibile come un foglio di carta. Al suo interno, milioni di microcapsule di un decimo di millimetro di spessore, schiacciate l’una insieme all’altra in una sorta di sandwich elettronico. All’interno delle microcapsule, migliaia di particelle bianche inserite in un liquido blu. A seconda della polarità del campo elettrico creato, le particelle si spostano, e si forma così o un punto bianco o un punto blu. Appaiono così, a seconda degli impulsi inviati, le lettere e le parole, tracciate con un inchiostro elettronico. L’insieme di queste pagine forma il libro elettronico del futuro, il “libro finale” secondo la definizione di Joseph Jacobson, oggi 34 anni, professore al MIT, inventore dell’inchiostro elettronico e fondatore di E-ink (acronimo per inchiostro elettroforetico).
Almeno quattro imprese, E-ink compreso, stanno lavorando su questi fogli e hanno già costruito prototipi. Secondo le previsioni, il libro elettronico dovrebbe essere pronto fra 5 anni.
Per risolvere i problemi di trasmissione via Internet direttamente al consumatore di questi libri, E-ink ha costituito nell’ottobre del 2000 una apposita società con il numero uno mondiale della tecnologia telefonica, Lucent Technologies. Ma anche IBM partecipa a questa gara è ha progettato un giornale elettronico, attualmente di 16 pagine, che può essere ricaricato via Internet o anche con onde radio.
Una tecnologia parzialmente diversa, il Gyricon, basata anch’essa su microcapsule inserite nell’interno di un foglio che si colorano diversamente a seconda degli impulsi elettromagnetici inviati, è stata messa a punto da Nicholas Sheridon ed è in corso di sviluppo da parte di Xerox, che nel 1999 si è consorziata con 3M, una multinazionale che opera nel settore chimico e dei prodotti adesivi: l’obiettivo è il lancio di Wand, un foglio di grandi dimensioni per annunci al pubblico, da affiggere nei supermercati, nei luoghi di incontro.

24.3. La lunga marcia verso il libro digitale: gli ostacoli economici.
Vi è poi un secondo problema, legato specificatamente a Internet: alla gente non piace pagare per i contenuti, siano essi testi, musica, fotografie o altro, che riceve attraverso Internet. E per questo che quotidiani e settimanali, dopo vari tentativi di offrire la propria versione online in abbonamento, si sono arresi e permettono l’accesso gratuitamente (salvo imporre, in taluni casi, un obbligo di registrazione e la richiesta di un compenso per l’utilizzazione degli archivi): il solo Wall Street Journal – sfruttando la specificità delle notizie offerte – si è mantenuto fedele alla politica dell’abbonamento. Ed è per questo che hanno avuto un successo così travolgente tutte le iniziative, quali Napster o Gnutella, che hanno offerto la possibilità di scaricare gratuitamente musica dal Cyberspazio (per lo più violando la normativa sul diritto d’autore).
Ma torniamo a Stephen King.
Quest’ultimo, sottovalutando il principio appena esposto, e sottovalutando quindi l’importanza del fatto che il primo racconto digitale era stato offerto online gratuitamente, ha ripetuto l’esperimento, questa volta offrendo un romanzo esclusivamente digitale, ma a pagamento.
Ha così posto in Rete un romanzo, The Plant, che aveva iniziato molti anni prima e che intendeva completare caricando capitolo dopo capitolo periodicamente in Internet . Il lettore avrebbe potuto scaricare ciascun capitolo, pagando ogni volta un modico compenso (un dollaro per i primi due capitoli, compensi analoghi per i capitoli successivi). King si era impegnato a completare il libro se almeno il 75% di coloro che scaricavano il capitolo offerto avesse versato l’importo richiesto. Era anche possibile effettuare automaticamente la transazione per gli utenti abituali di Amazon: con un solo click, potevano ottenere il nuovo capitolo e versare il compenso richiesto.
Alla fine di novembre, King, avendo constatato che erano decresciuti i lettori, ma soprattutto erano decresciuti i lettori paganti – solo il 45% dei lettori pagava il compenso – si è fermato (lasciando tra l’altro a bocca asciutta i consumatori adempienti).
In conclusione, i due problemi combinati – rifiuto dell’utente di utilizzare lo schermo per la lettura e di pagare contenuti diffusi su Internet – contribuiscono a produrre quello che gli economisti chiamano l’effetto “chicken and egg”, in altri termini: prima l’uovo o la gallina? I produttori di palmari non sono disposti a investire se prima non si rendono conto che la gente legge. I produttori di contenuto non sono disposti ad investire se prima non c’è il modo di leggere.
Il risultato è che pochi sono i libri digitali disponibili (anche se l’insuccesso di King non ha frenato l’entusiasmo di molti autori ), e pochi i palmari diffusi con possibilità di lettura dell’e-book .
In definitiva, il libro cartaceo gode infatti di ottima salute. Anzi, paradossalmente proprio il libro cartaceo è il prodotto più venduto con il commercio elettronico: secondo un’indagine di Nielsen Media Research, nel 1997 vi sono stati oltre 5 milioni di acquisti di libri mediante Internet.
Inoltre, secondo un rapporto Gallup, hanno visitato una biblioteca almeno una volta in un anno il 64% degli americani nel 1998, mentre erano il 51% venti anni prima. A fronte dell’aumentata domanda, nel solo 1997 sono state costruite o ristrutturate negli Stati Uniti 225 biblioteche pubbliche. E non bisogna pensare che questo aumento di domanda dipenda dal fatto che esse offrono accessi a Internet; dipende invece dai soliti, tradizionali motivi: richiedere un libro in prestito (81%), consultare il bibliotecario (65%), mentre solo il 17% dei frequentatori si propone di connettersi con Internet.
In conclusione, non bisogna essere troppo ottimisti sull’affermazione in tempi brevi del libro digitale: le nuove tecnologie per affermarsi non solo devono funzionare, ma devono anche essere una soluzione per un problema reale. Invece, i libri digitali al momento si presentano come una soluzione in cerca di un problema .

24.4 Le ragioni dell’ottimismo: qualche considerazione sulle guide turistiche.
Per gettare uno sguardo nel futuro del libro, e costruire una risposta all’interrogativo con il quale avevamo concluso il primo paragrafo, dobbiamo cercare di comprendere le ragioni per le quali, nonostante le difficoltà del percorso e le incertezze date dall’immaturità dei mezzi tecnologici a disposizione, gli editori dimostrano tanto ottimismo da lanciare faraonici piani di investimento per l’affermazione degli e-book, paradossalmente accelerando i tempi della conclusione dell’epoca che li ha posti come intermediari dominanti del mercato del libro stampato.
Infatti, nel maggio del 2000 una delle più grandi case editrici del mondo, Barnes & Nobles ha investito 20 milioni di dollari nello sviluppo di libri digitali .
Anche Time Warner Books, Random House, Simon and Schuster hanno già stabilito siti dove vendono opere online direttamente ai richiedenti, da leggere sullo schermo del PC o su palmari portatili.
In generale, Andersen Consulting prevede 2.4 miliardi di e-books nel 2004, mentre PricewaterhouseCoopers ritiene addirittura che in quell’anno gli e-books cominceranno ad avere un impatto significativo sul mercato editoriale in quanto copriranno il 26% di tutte le vendite editoriali, con una spesa per il consumatore finale di 5.4 miliardi di dollari .
Alla Fiera del libro di Francoforte dell’ottobre 2000, su 6791 espositori presenti, più di 2000 hanno presentato delle opere digitali. Secondo un sondaggio realizzato durante la Fiera di Akep (Arbeitskreis Elektronishes Publizieren), il 96,9 % degli intervistati ritiene che Internet assumerà un ruolo sempre più centrale nello sviluppo della casa editrice del prossimo futuro .
Molti, di fronte a scelte economiche apparentemente ingiustificate, hanno concluso ironicamente che il futuro del libro digitale sembra essere come un test di Rohrschach: ciascuno vi vede quello che vuole vedere.
Eppure, a partire dalle concrete possibilità offerte dal mercato, l’ottimismo degli editori non è fuori luogo e gli investimenti programmati sono tutt’altro che sconsiderati: sono il frutto di valutazioni assai approfondite che non tengono conto tanto della situazione attuale della tecnologia, sicuramente insufficiente, quanto delle poderose possibilità di sfruttamento della digitalizzazione dei testi.
Cominciamo ad esaminare la nicchia di mercato che più si presta all’uso del libro digitale: enciclopedie, guide, manuali, testi scolastici e universitari.
Pensiamo per esempio a una guida turistica.
Attualmente chi vuole prepararsi in modo accurato per trascorrere una vacanza di una settimana visitando alcune città italiane in Emilia è costretto ad acquistare vari e costosi volumi, dedicati l’uno alla storia e alla cultura, l’altro alla gastronomia, l’altro ancora alle località da visitare, e così via. Poi deve trascinarseli dietro per tutto il viaggio per consultarli e utilizzarli. Se invece desidera solo informazioni turistiche generali, dovrà probabilmente comprare una corposa guida d’Italia (analogamente, chi voglia avere indicazioni sull’epoca di potatura di una azalea difficilmente evita l’acquisto di un trattato completo di giardinaggio).
Solo poche pagine e poche delle informazioni acquistate vengono utilizzate, anche se il prezzo richiesto è stato commisurato all’intero pacchetto di informazioni che si è stati costretti a comprare.
Nel mondo del libro stampato si è affermata la regola che non si può acquistare ciò che serve o ciò che si vuole: si deve acquistare ciò che il venditore e l’autore vogliono vendere. È una regola ferrea, imposta da considerazioni di carattere economico, che il lettore ha dovuto subire.
Nel mondo del libro digitalizzato, questa regola scompare: il consumatore può selezionare solo le parti o i capitoli desiderati e può pagare ciò che effettivamente intende usare. Compra solo ciò che si utilizza.
Si diversifica l’informazione disponibile, e si permette all’acquirente di realizzare a costi irrisori un proprio volume personalizzato, selezionando le pagine volute o raccogliendo più capitoli sullo stesso argomento da libri diversi, in modo da avere un ventaglio di informazioni e quindi una guida più accurata e onnicomprensiva. Per tornare all’esempio dell’Italia, il nostro ipotetico turista potrà costruire un proprio volume dedicato esclusivamente alle città dell’Emilia, formato dall’assemblaggio di capitoli di vari libri, uno dedicato all’arte, l’altro alla gastronomia, l’altro ancora agli alberghi: un obiettivo che avrebbe richiesto l’acquisto di numerose guide cartacee.
Inoltre, potrà ricevere il testo desiderato direttamente a casa, o da chioschi e rivendite munite di strumenti per scaricare l’opera richiesta – quotidiano, rivista o libro – direttamente sul lettore portatile del cliente: si potrà andare ad acquistare un libro come oggi si va a rifornirsi di benzina.
I vantaggi per il consumatore sono evidenti.
Ma vi sono anche vantaggi per l’autore e per l’editore.
Questo diverso modo di costruzione e trasferimento del prodotto determinerà una consistente riduzione di costi: non si dovranno più stampare tante copie del libro quante si prevede di vendere o si vorrebbe vendere. Ciascun libro sarà prodotto in forma digitale (o eventualmente su carta) a richiesta.
Potranno così essere eliminate la maggior parte delle spese di intermediazione tra autore o editore e lettore ora esistenti: in primo luogo, le spese delle materie prime, la carta innanzitutto; poi le spese (deposito dei volumi, macero degli invenduti, inventari) che gravano sull’editore, il quale deve tenere conto anche del rischio di pubblicare libri che non sa se avranno successo; infine, i costi di distribuzione e magazzinaggio che da soli rappresentano più del 50% del prezzo finale del libro cartaceo.
Alla selezione dei prodotti determinata da regole economiche, si sostituisce una selezione determinata dalle capacità dell’editore di costruire cataloghi completi, attraenti, onnicomprensivi su determinate materie.
La riduzione dei costi opererà a tutto beneficio di coloro che stanno ai due capi del filo: titolari della proprietà intellettuale su un’opera da un lato, lettori dall’altro.
Ma non è tutto oro ciò che luccica.
Prima di tutto, accanto ad una riduzione dei costi vi è, meno appariscente, una loro diversa allocazione.
Infatti, l’accesso a testi digitalizzati, e più in generale all’informazione digitalizzata dipende dalla disponibilità dell’equipaggiamento tecnologico necessario: un PC o un lettore digitale, un modem, un telefono, software adatto a questo scopo, e adatto anche a riprodurre immagini se esse sono contenute nel testo, e così via.
Sono costi non indifferenti, che vengono trasferiti sull’utente finale (mentre prima erano costi di produzione e intermediazione dell’informazione stampata, distribuiti sul singolo prodotto acquistato): essi operano una netta selezione tra lettori di informazioni digitali e non. In un mondo a prevalente informazione digitali, chi non ha l’equipaggiamento tecnologico necessario è tagliato fuori. È agevole già ora individuare chi è predestinato all’esclusione: gli appartenenti alle fasce di reddito più modeste, che non sono in grado di affrontare la spesa per munirsi della tecnologia necessaria e, su scala globale, coloro che vivono in Paesi non sviluppati, ove Internet è scarsamente diffuso, anche per i costi delle infrastrutture (solo il 3% della popolazione africana ha accesso a Internet, per esempio).

24.5 Le nuove frontiere del diritto d’autore e della proprietà intellettuale nel nuovo mercato del libro digitale.
In realtà, i grandi investimenti che sono in corso per lo sviluppo e l’affermazione sul mercato del libro digitale trovano la loro reale giustificazione nella possibilità che questo strumento offre di realizzare nuove e ancora in parte inesplorate forme di profitto per l’editore, per l’autore e, in generale per la proprietà intellettuale.
Il diritto d’autore è sorto infatti con modalità e caratteristiche vincolate dalla realtà economica e produttiva in cui la creazione dell’autore si materializzava, fissata dalla tecnologia del supporto cartaceo. Questa realtà, come si è visto, imponeva di realizzare e di vendere un certo tipo di prodotto: il libro. Un racconto di venti pagine, per quanto entusiasmante, non può essere posto isolatamente in vendita, perché i costi di stampa e distribuzione lo rendono difficilmente commerciabile. Lo stesso vale per un romanzo di tremila pagine.
Se cambiamo la realtà cartacea e materiale nella quale il diritto d’autore si estrinseca, e lanciamo l’opera in Rete, il diritto d’autore non è più vincolato alle stesse caratteristiche e alle stesse modalità. Ciò che non si poteva fare con il supporto cartaceo – la vendita di un’opera frammentata in capitoli, o in pagine – diviene fattibile in Rete.
Ma il libro digitale e la cessione frammentata in Rete offrono un ulteriore, consistente vantaggio all’editore e all’autore, che si traduce in una corrispondente penalizzazione per la categoria dei consumatori.
Torniamo al nostro esempio.
Chi acquista una guida d’Italia cartacea per una visita di sette giorni alle città dell’Emilia ne usa poche pagine, ma ha a disposizione un piccolo patrimonio che può oculatamente gestire. Prima di tutto, può essere letta dall’acquirente un numero infinito di volte; può essere imprestato ad amici, che a loro volta possono leggerlo: si tratta di utilizzazioni compatibili con l’attuale assetto del diritto d’autore, e di un uso legittimo dell’opera della quale si sono acquistati i diritti . Può conservarla per il caso di una futura visita in altre località italiane, e magari scegliere le località da visitare utilizzando la guida come strumento di consultazione; può imprestarla o regalarla a parenti ed amici che si recano in Italia, partecipando a meccanismi di scambio in base ai quali potrà ricevere in prestito una guida per le prossime vacanze in Francia; può venderla sul mercato del libro usato e recuperare parte dell’investimento effettuato.
Sono tutte utilizzazioni compatibili, e usi legittimi dell’opera, anche, o forse sarebbe meglio dire solo, perché non vi sarebbe stato modo, nella realtà materiale e cartacea di concretizzazione del diritto d’autore, di impedire questo uso.
Le possibilità si riducono con il libro digitalizzato ritagliato appositamente per determinate esigenze: non è agevole trovare qualcuno che abbia esattamente le esigenze per le quali abbiamo creato il nostro volume.
Ma soprattutto, il libro digitalizzato può essere trasferito da chi ne detiene la proprietà intellettuale con particolari tecnologie che ne regolano l’uso: può essere graduato, a seconda del compenso contrattualmente convenuto, il numero di consultazioni ammesso, oppure il tempo per il quale il testo rimane disponibile per il lettore; può essere concessa o preclusa la possibilità di stampa del testo, e così via.
In altri termini, alla frammentazione del testo, consentita dalla tecnologia digitale, corrisponde una frammentazione, e una corrispondente valorizzazione economica, del diritto d’autore e della proprietà intellettuale: il diritto d’autore si trasforma da goffo e monolitico strumento ancorato alla riproduzione cartacea in un agile e duttile meccanismo per estrarre valore dalle molteplici possibilità d’uso dal contenuto di un’opera, personalizzandone la cessione per soddisfare le svariate esigenze degli utenti.
Proprio questa elasticità di uso e queste immense possibilità di sfruttamento hanno convinto molti editori tradizionali di libri su carta e molti nuovi editori virtuali di libri digitalizzati che vi sia un enorme mercato che attende di essere sviluppato e sfruttato e che l’investimento, ancorché elevato e rischioso, meriti di essere effettuato.
Ed è infatti in corso, ormai da tempo, una gara alla digitalizzazione di libri cartacei idonei alla scomposizione e alla vendita frammentata.
In primo piano figurano, oltre che le guide turistiche, i testi scolastici e universitari.
Molti editori che si occupano di questo settore hanno già predisposto database per permettere ai docenti di costruire dei libri di testo mediante assemblaggio e composizione di parti di libri del proprio catalogo.
McGraw-Hill ha creato un database chiamato Primis, che permette ai docenti di scegliere tra 180.000 pagine di libri, distribuiti su 20 discipline, per creare il proprio libro di testo personalizzato. Un’altra casa editrice, Taylor & Francis ha costituito con Versaware, società che si occupa specificatamente di tecnologia nel settore dell’editoria, una società che ha progettato un sistema per la realizzazione di libri digitali personalizzati. I libri possono essere consegnati via Rete direttamente agli studenti, sotto forma di files da stampare o da scaricare su palmari da lettura (le parti di testo più utilizzate costano naturalmente di più), a seconda delle richieste, del piano di studi, della preparazione di base del richiedente, e anche del risultato che si intende conseguire.
Proprio questa caratteristica della personalizzazione, che è contemporaneamente il cuore del valore aggiunto del libro digitale alla proprietà intellettuale e della possibilità del consumatore di ottenere esattamente ciò che desidera, reca però con sé un attentato ad un modo di uso dell’opera letteraria – dal quotidiano al romanzo al saggio – che era implicitamente ammesso nella realtà cartacea: il diritto di leggere restando anonimo.
Chi compra un giornale o un libro, non fornisce le proprie generalità. Certo, può essere riconosciuto dal venditore, specie se è un acquirente abituale. Ma è sufficiente far acquistare l’opera da altri, o acquistare in luoghi diversi da quelli abituali (una libreria in una stazione ferroviaria o in un aeroporto), per potersi garantire con una buona probabilità l’assoluto anonimato.
La possibilità di leggere in modo anonimo, da quando la stampa ha permesso una diffusione del libro e delle opere letterarie e da quando è decresciuto il controllo esercitato o esercitabile dall’autorità sui testi scritti, ha costituito un enorme valore per l’autonomia della persona e, più in generale per lo sviluppo della società occidentale . Ha garantito infatti il formarsi della libertà di opinione, il sorgere di idee non necessariamente conformi al volere del potere politico o religioso; ha garantito la circolazione di testi vietati o sgraditi al potere, contrastando l’omogeneizzazione dei comportamenti e delle culture e favorendo quella miscela di visioni del mondo diverse e spesso conflittuali che sono stati alla base della nostra convivenza sociale e della nostra democrazia.
Tutto ciò è destinato a scomparire in una ipotetica futura organizzazione del mercato culturale ove la trasmissione dei testi avviene esclusivamente a mezzo di contratti on-line, nei quali è necessario fornire i propri dati identificativi per ottenere il prodotto desiderato.

Internet e la Legge – Capitolo 15

Capitolo 15
Il mercato del divertimento

Cinema, televisione e Video, Giochi, Musica, libri, Cultura: generi e categorie assai diversi gli uni dagli altri. Contribuiscono però a formare ciò che i paesi di lingua inglese raccolgono insieme nel concetto di entertainment business: il mercato del divertimento.
Si tratta di un mercato che è in realtà costituito da tanti sub-mercati autonomi e solo marginalmente connessi, con caratteristiche, utenti, imprenditori, problemi tecnologici, giuridici e organizzativi spesso assai diversi, uniti però da alcuni elementi comuni.
Da un punto di vista sociologico, si tratta di un mercato che si rivolge al tempo libero dei consumatori: un’area che, negli ultimi decenni, per effetto dell’aumento del benessere nel mondo occidentale e del progressivo ridursi del tempo dedicato all’attività lavorativa e a soddisfare bisogni primari, è in continua espansione.
Da un punto di vista economico giuridico, si tratta di un mercato sul quale si scambia un particolare tipo di bene: le informazioni. Tutto ciò che circola nel mercato del divertimento, sia pure sotto forme diverse, è costituito, alla base, dal bene informazione: un bene, che per molti versi costituisce un diritto (ed è talvolta considerato come un diritto fondamentale nell’attuale organizzazione sociale), nella prospettiva del mercato, diviene una merce.
Da un punto di vista organizzativo-giuridico, è un mercato caratterizzato dalla presenza di un terzo polo, oltre a produttori e consumatori: gli autori dei contenuti, titolari di diritti riconosciuti sulle opere dell’ingegno prodotte. In altri termini, e proprio per la presenza di questo polo di autori, il mercato del divertimento è caratterizzato dalla presenza della proprietà immateriale, che scaturisce dall’ingegno degli autori.
Fin dai primi anni in cui ha abbandonato la sua dimensione esclusivamente accademica e culturale, la Rete è stata considerata come uno spazio assai promettente per lo sviluppo di un mercato virtuale del divertimento. In realtà uno solo è stato il settore che ha avuto successo nel Cyberspazio, assumendo caratteristiche e fisionomie proprie, diverse da quelle che gli stessi settori hanno nel mondo reale: la pornografia.
Fino a pochi anni orsono, però, nel settore del divertimento vi sono stati scarsissimi contatti tra realtà virtuale e produttori tradizionali, se si escludono alcuni timidi tentativi verificatisi negli Stati Uniti all’inizio degli anni Novanta, soprattutto da parte di produttori di video e cinema di Hollywood, di offrire prodotti digitali in collaborazione con operatori del Cyberspazio (erano le c.d. Siliwood, combinazione di Hollywood con Silicon Valley) direttamente nelle case degli utenti. Tentativi tutti abbandonati, perché risultati (o comunque ritenuti) in breve tempo privi di concreti sbocchi commerciali.
Le strade dell’entertainment business tradizionale e di quello virtuale sono così rimaste divise.
Poi, a partire dal 1997, questa volta non solo negli USA ma anche in Europa, i due mercati sono entrati nuovamente in contatto, anzi, in alcuni casi, come nel settore della musica, si può parlare di una vera e propria collisione. Molte imprese tradizionali hanno avviato programmi di investimento per espandere la loro attività su Internet, puntando su un rapido e consistente sviluppo del settore e, viceversa, molte imprese della new economy hanno compreso che, per trarre profitti dalle loro iniziative, avevano bisogno di controparti affermate su mercati tradizionali.
Il contatto si è manifestato per ragioni differenti e con caratteristiche diverse nei settori dai quali questo mercato è composto.
Così, nel settore infrastrutturale delle telecomunicazioni e informazioni si è sviluppata una ondata di fusioni tra imprese della new economy e dell’economia tradizionale, rivolte a sfruttare le sinergie derivanti dai due tipi di imprenditorialità.
Il caso più clamoroso è costituito dalla fusione tra AOL e Time Warner.
L’accordo tra le due società, perfezionatosi nel dicembre del 2000 a oltre un anno di distanza dal suo annuncio a causa delle indagini cui è stato sottoposto dagli organismi “antitrust” federali americani , si propone di realizzare un ponte verso il 21 secolo tra la new economy, personificata da AOL (una delle più importanti imprese del settore con oltre 25 milioni di abbonati) e la tradizionale entertainment business, rappresentata da Time Warner .
In altri settori un ruolo assai importante hanno rivestito le innovazioni tecnologiche, ma soprattutto l’atteggiamento degli autori e degli imprenditori rispetto a tali innovazioni.
Così, nel settore editoriale sono stati principalmente gli imprenditori tradizionali ad interessarsi delle possibilità offerte dal mercato virtuale, e ad avviare ardite iniziative per sviluppare – anche dal punto di vista tecnologico – prodotti idonei per questo mercato (si veda il capitolo dedicato ai Libri digitali).
Lo stesso può dirsi nel settore del commercio di beni artistici e delle aste, ove una delle più affermate case d’asta a livello mondiale, Sotheby, certamente trascinata dall’imponente successo ottenuto dai siti di aste virtuali (sui quali ci soffermiamo in un apposito capitolo) ha dapprima raggiunto un accordo con Amazon per lanciare nel novembre del 1999 un sito – Sothebys.amazon.com – che compare sul portale di Amazon, offrendo all’asta beni da collezione per il largo pubblico; successivamente ha avviato un sito autonomo, sothebys.com, dedicato a oggetti d’arte di valore.
Completamente diverso è stato invece l’andamento del mercato della musica: gli imprenditori tradizionali si sono rifiutati di sfruttare le opportunità offerte dalla rete e sono rimasti arroccati sulla difensiva. Come era prevedibile, è stato il mercato virtuale ad assumere l’iniziativa, e a distribuire contenuti musicali nella Rete, entrando pesantemente in collisione con consolidati assetti organizzativi e giuridici del mercato tradizionale: si è qui assistito a scontri giudiziari e, da ultimo, a avventurosi tentativi di accordo, con l’accordo tra Bertelsmann e Napster (si veda il capitolo dedicato alla Musica digitale).
Il contatto tra mercato tradizionale e mercato virtuale nell’entertainment business, pur procedendo negli ultimi tempi con maggior cautela, sembra essersi stabilizzato, ma gli esiti sono tutt’altro che certi.
Secondo molti osservatori specializzati in Internet continua a non offrire ragionevoli prospettive di profitti per le tradizionali attività che si occupano in senso lato di divertimento e quindi media, libri, musica, video, informazione . Nessuno sinora è riuscito a trarre profitti da un entertainment business basato solamente sulla Rete: è significativo l’esempio di Amazon, che, pur avendo assunto da anni una posizione di assoluta supremazia nella vendita in Rete di libri, CD e altri prodotti per il divertimento, ha continuato ad accumulare ingenti perdite.
Questa valutazione sembra essere confermata da un segnale assai significativo e cioè il calo, per tutto il 2000, della pubblicità via Internet, dovuto sia al mancato decollo nei termini sperati del settore, sia al fatto che sempre meno sono gli utenti che si inducono a cliccare su un banner di pubblicità (secondo dati dell’agosto 2000, sono passati dall’1% del 1997 allo 0,4% del 1999): ed infatti tutte le imprese sorte e sviluppatesi specificatamente per la pubblicità in Rete – prima fra tutte la più importante negli USA, Doubleclick Inc – hanno assistito a pesantissime perdite delle loro quotazioni in Borsa .
Vi sono essenzialmente due ragioni – una di carattere tecnico, l’altra economico – che non consentono di trarre valutazioni ottimistiche nel breve o medio periodo dal contatto di realtà virtuale e imprese tradizionali.
La prima è costituita da ragioni di immaturità tecnologica in una delle varie fasi della catena produttiva.
È il caso di tutto il settore video (che costituisce la parte più importante del mercato), il cui sperato sviluppo è reso difficile dalle difficoltà di trasmissione, e quindi di scaricamento, con le attuali connessioni Internet: sono infatti necessarie connessioni via cavo abilitate alla trasmissione a banda larga, tuttora scarsamente diffuse, anche negli Stati Uniti.
È il caso anche dei libri digitali: uno dei contenuti che non offre difficoltà dal punto di vista tecnologico per la distribuzione on-line, il testo, si scontra con la mancanza di uno supporto tecnologico che possa competere, quanto a gradimento e comodità per il lettore, con la carta e con il libro. È anche il caso anche delle arti figurative, la cui distribuzione online è ostacolata da difficoltà tecniche nella resa del prodotto, che resta assai inferiore a quello che si può ottenere mediante riproduzioni fotografiche.
In tutti questi casi si pone il tradizionale problema dell’uovo e della gallina, applicato all’economia: da un lato mancano gli investimenti tecnologici per lanciare il settore perché vengono ritenuti insufficienti i contenuti per giustificarli, d’altro lato mancano i contenuti perché non vi sono le strutture tecnologiche adeguate per diffonderli e ricavarne un profitto.
La seconda difficoltà è costituita da un aspetto economico.
È il caso dei prodotti musicali, ove lo sviluppo tecnologico attuale permette di diffondere on line brani musicali assolutamente uguali, come qualità e come resa, a quelli che possono essere acquistati su un CD, ma nessuno è disposto a pagare per riceverli.
Accanto a queste due difficoltà, deve esserne indicata una terza, costituita dall’incerto panorama legislativo e giurisprudenziale per ciò che concerne uno degli elementi su cui si basa lo sviluppo della società dell’informazione, e cioè la proprietà intellettuale: quel terzo polo tra imprese produttrici e consumatori che costituisce la base del mercato del divertimento.
Tuttavia, il contatto tra imprese tradizionali e imprese che si sono sviluppate nel Cyberspazio non sembra destinato a cessare, come è accaduto nella prima ondata: la strada è quella indicata dall’accordo tra AOL e Warner, ma anche tra Bertelsmann e Napster, quella della combinazione tra nuove tecnologie, contenuti tradizionali, nuove forme di protezione della proprietà intellettuale e quindi di distribuzione.

Internet e la Legge – Capitolo 1

Capitolo 1
Internet: storia, dati e previsioni

1945-1946
La prima idea di una rete mondiale di computer risale a Vannevar Bush, un matematico consigliere del Governo degli Stati Uniti: Bush ha immaginato una rete planetaria di macchine per immagazzinare tutto il sapere umano e ha proposto di chiamare questa rete “Web”.
L’idea di Vannevar Bush è straordinaria, se si tiene conto che in questo periodo è realizzato il primo computer, con una memoria di non più di venti parole.
1953
James Watson e Francis Crick scoprono la struttura del DNA e pongono così le basi per lo sviluppo della genetica. Si avvia così quasi contemporaneamente il percorso dell’informazione genetica che assieme all’informatica costituisce uno dei pilastri su cui si basa la moderna società dell’informazione .

1960-1963In questo periodo Doug Engelbart progetta la posta elettronica, l’ipertesto e il browsing. Inventa anche il mouse per poter realizzare il suo progetto.
La parola ipertesto (Hypertext) è inventata da Ted Nelson nell’edizione della rivista Literary Machine nel 1965.
È l’epoca della guerra fredda e della costruzione di immensi apparati nucleari, offensivi e difensivi, da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Rand Corporation, una società che opera nel settore dell’informatica, riceve l’incarico dal Ministero della difesa degli Stati Uniti, di progettare un sistema di comunicazione militare che continui a funzionare in caso di attacco nucleare.
Questa, almeno, è la versione più diffusa. Invece, secondo Bob Taylor, allora dirigente dei progetti di ricerca informatica del Ministero, l’incarico aveva lo scopo, del tutto pacifico, di collegare i laboratori scientifici del paese.
J.C.R. Licklider of MIT, primo dirigente del DARPA dall’ottobre del 1962, descrive le interazioni economiche e sociali che possono scaturire da un networking su scala mondiale nel suo progetto denominato “Galactic Network”. Licklider immagina un sistema interconnesso di computer con il quale ciascuno può accedere a dati e informazioni ovunque si trovi.

1964
Rand propone la creazione di una rete di computer il cui funzionamento non dipenda da un unico o da pochi individuabili centri di raccolta e distribuzione dei dati, al fine di evitare il blocco delle comunicazioni se fossero stati distrutti. Ciascun computer di questa rete avrebbe dovuto, inoltre, essere equivalente agli altri ed essere in grado di ricevere e inviare messaggi a ogni altro computer. I messaggi emessi da un computer avrebbero dovuto essere smembrati e organizzati in pacchetti, in modo da giungere a destinazione anche separatamente e indipendentemente dal percorso seguito: così, se una rotta fosse stata disabilitata da eventi bellici (ovviamente, secondo la versione più accreditata), il messaggio avrebbe potuto percorrerne automaticamente un’altra, passando attraverso i cosiddetti routers.
Questi principi, pur avendo perso importanza gli scopi militari e difensivi, sono tutt’oggi alla base di Internet.

1965
Un’agenzia del governo statunitense che si occupa di ricerca militare nel campo informatico, chiamata Advanced Research Project Agency (ARPA#), realizza un prototipo di rete mettendo in comunicazione un computer del Massachusetts con uno situato in California: per la prima volta due computer, sebbene fisicamente lontani, sono messi in grado di comunicare e condividere dati e applicazioni.

1966-1968
In questi anni gli sforzi si concentrano nella creazione di ARPANET#, la rete che per un lungo periodo ha rappresentato il cuore di Internet.

1969
I computer collegati ad ARPANET# divengono quattro: tre si trovano in California, a Los Angeles, Stanford e Santa Barbara, il quarto nello Utah.

1970-1971
Il software necessario al funzionamento del network è reso accessibile al pubblico: si tratta però ancora di un pubblico assai ristretto, costituito da ricercatori e studiosi nei settori scientifici e accademici.
In questi anni viene inventato il microprocessore, che, permetterà in pochi anni di diffondere il PC come strumento di uso quotidiano per lavoro, informazione, studio e svago, e offrirà così le base per l’affermazione di Internet

1972È messo a punto il primo programma di posta elettronica a opera di Ray Tomlinson: in questo modo gli utenti collegati al network hanno a disposizione un nuovo strumento di comunicazione. Per oltre un decennio la posta elettronica resta la fonte pressoché esclusiva del traffico su Internet.

1973
Viene realizzato il primo collegamento internazionale: Internet si estende dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna e alla Norvegia.

1974
Alcuni ricercatori americani (Vint Cerf e Bob Kahn) avviano lo studio di un metodo per trasmettere e ricevere dati indipendentemente dalla specifica rete cui il computer è collegato; il progetto è chiamato “Internetting Project” (progetto di interconnessione).

1980
Berners-Lee, uno scienziato in attività presso il CERN, in Svizzera, sviluppa un programma denominato Enquire che sfrutta le possibilità dell’ipertesto per collegare tra loro documenti sparsi nei vari computer dell’ente. È l’antenato del World Wide Web.

1981
IBM inventa il PC e ne avvia la diffusione nelle case, negli uffici, nelle scuole.

1981 – 1982
Il numero di PC in uso passa in un anno da 2 milioni nel 1981 a 5,5 milioni nel 1982.
Dieci anni dopo, nel 1992, ci sono 65 milioni di PC.
Si colloca in questo periodo uno dei più clamorosi errori di strategia commerciale della recente storia economica. IBM#, società che ha ideato il PC# e per lungo tempo ha dominato il mercato in modo incontrastato, rinuncia a sviluppare autonomamente un linguaggio per il nuovo prodotto e affida questo compito a una sconosciuta società: Microsoft. Quest’ultima in breve tempo costituisce un impero informatico e distrugge nel contempo quello di IBM#, sviluppando prima il linguaggio MS-DOS#, poi il linguaggio Windows, utilizzabili non solo da IBM#, ma da ogni PC# IBM#-compatibile.
In questo modo Microsoft crea anche il vasto mercato su cui si fonda la diffusione di Internet.
Internet, infatti, prima necessariamente ristretto ad ambienti accademici o a organizzazioni governative e di ricerca per la dimensione e il costo degli apparecchi collegati, è proiettato dalla diffusione del PC# come strumento di uso generalizzato e quotidiano verso una crescita che tuttora continua senza sosta: nel 1981 solo 213 computer sono abilitati a offrire accessi ad altri computer e ad altri network di computer; nel 1984 i computer abilitati superano quota 1000; nel 1989 divengono 80.000 con circa 500 network collegati; nell’ottobre del 1990, sono 313.000 e i network collegati sono oltre 2300.

1983
Il primo gennaio è per Internet una data storica: tutti i computer di ARPANET# passano simultaneamente a utilizzare il protocollo di rete TCP/IP# tuttora in uso, studiato per assicurare la massima accessibilità a tutte le reti: Internet si avvia a diventare il mezzo quotidiano per comunicazione a mezzo di computer.
Viene istituito l’Internet Activities Board (IAB) per guidare lo sviluppo del protocollo TCP/IP e per offrire assistenza tecnica alla comunità di Internet.

1984
Gli indirizzi numerici, utilizzati per identificare in modo univoco i computer collegati in rete, sono sostituiti da nomi più facili da memorizzare: sorge il Domain Name System, cioè il meccanismo per attribuire a ciascun utente un nome – Domain Name, in breve DS – tale da individuarlo in modo univoco su scala mondiale.
La progettazione del sistema, la messa a punto dei criteri di distribuzione e l’organizzazione in concreto dell’apparato per distribuire i Domain Names risalgono ad una persona, uno dei più importanti creatori di Internet, Jon Postel. Questi svolge la sua attività prima da solo, poi come direttore di un apposito istituto, IANA, che opera in base a un contratto con una agenzia del Governo federale degli Stati Uniti, DARPA.

1985
Molte agenzie governative statunitensi, fra cui la NASA, avviano la realizzazione di network che utilizzano il protocollo TCP/IP.

1986
Un’agenzia del Governo federale, National Science Foundation (NSF) mette a punto un proprio network, denominato NSFNET, che collega tutti i computer dell’agenzia. Lentamente, questo network si sostituisce a ARPANET.

1990
Il network di NSF sostituisce integralmente ARPANET. NSF stabilisce il divieto di attività commerciali o a scopo di lucro sul suo network.

1991
NSF riceve l’incarico di dirigere il coordinamento e il finanziamento della parte non militare della infrastruttura di Internet, ed inoltre anche della gestione della distribuzione dei DN. È il primo passo verso la autonomia del Cyberspazio. Resta in vigore il divieto di utilizzazione del network a scopo di lucro.
Per sfuggire a questo divieto, alcuni ISP Provider costituiscono il Commercial Internet Exchange (CIX), che organizza un proprio router e diviene operativo nel 1992.
Nasce il WWW#, realizzato nei laboratori di Ginevra del Comitato Europeo per la Ricerca Nucleare (CERN#) a opera di Tim Berners-Lee. Il WWW# consente lo scambio di informazioni con tecnologia ipertestuale, utilizzando il linguaggio HTML# (Hyper Text Markup Language).
Con il Web, Internet compie un salto di qualità: dalla semplice trasmissione di informazioni testuali si passa alla trasmissione di informazioni multimediali e quindi di messaggi testuali, visivi e sonori, resa possibile anche dalla maggiore potenza dei computer.

1992
Nel dicembre del 1992 NSF affida a Network Solutions, Inc. (NSI) l’appalto di alcuni servizi, tra cui la registrazione dei DN. Da allora e fino al 1999 NSI è l’unico titolare del potere di erogare DN e di organizzarne la distribuzione su scala mondiale.

1993
È realizzato il primo browser concepito per un pubblico di utenti indifferenziato, cioè il primo programma per perlustrare il WWW# interpretando il linguaggio HTML#, finalizzato a una larga diffusione: è denominato Mosaic, divenuto successivamente Netscape.
Nell’aprile il CERN# annuncia di non voler sfruttare la invenzione del WWW# per scopi commerciali (rinunciando anche a royalties per il suo utilizzo) al fine di favorire le possibilità di uno sviluppo della tecnologia europea in questo settore.
Lo sviluppo del World Wide Web e la diffusione generalizzata di Mosaic sono i fattori che determinano in pochi anni l’affermazione su scala mondiale di Internet.
È pubblicato il documento di Clinton e Gore “Technology for America’s Economic Growth: A New Direction to Build Economic Strength”: compare l’idea delle autostrade dell’informazione.
Il governo degli Stati Uniti affida a IANA, che subdelega a un consorzio di imprese appositamente costituito nel 1993, denominato Inter-Nic il compito di registrazione dei numeri IP# e dei DN#.
Internet diviene sempre più globale, ma il suo controllo resta ancora saldamente in mano di agenzie americane.
Le imprese che costituiscono InterNic sono tre: AT&T#, General Atomics e Network Solutions, Inc. (NSI#), tutte prescelte da NSF a seguito di una selezione pubblica.
Ciascuna delle imprese prescelte stipula con NSF un accordo di collaborazione della durata di cinque anni.
In base agli accordi AT&T# avrebbe dovuto gestire la InterNic Directory e i Database Services Project; NSI# avrebbe dovuto gestire tutte le procedure di registrazione, e quindi l’assegnazione dei numeri IP# e dei DN#, mentre General Atomics avrebbe dovuto occuparsi dei servizi di informazione.
L’accordo con General Atomics e con AT&T è risolto dopo due anni, nel 1995.
Dal 1993 e fino al 1998 NSI, unica superstite dell’originario consorzio, ha quindi da sola la responsabilità a livello mondiale dell’assegnazione del DNS.
Il compito assegnato a NSI# ha comportato fino al 1995 la registrazione di circa 200 DN# al mese: nel periodo 1997-1998 i DN# registrati erano più di 125.000 al mese. Complessivamente, NSI# ha assegnato oltre tre milioni di domain names.
NSF toglie il divieto di utilizzazione commerciale del Cyberspazio. È il primo passo verso Internet come mondo virtuale globale.

1994-1995
Si organizza come istituzione stabile il 3W Consortium, (@) ospitato prima a Ginevra, poi al Massachusetts Institute of Technology (MIT#) di Cambridge, infine dal 1995 dislocato anche in Francia, a seguito di un ac-cordo con l’Istituto nazionale francese di ricerca sull’informatica e l’infor-mazione (INRIA#), e in Giappone alla Keio University. Finalità del Consorzio è ottenere il rispetto degli standard del WWW# da parte dei produttori.
Il CERN, insieme alla Commissione dell’Unione Europea, lancia il Webcore Project per lo sviluppo della tecnologia WWW# in Europa.
Viene fondata a Graz la Web Society: alla fondazione partecipano il Politecnico di Graz, l’Università di Minnesota e INRIA#.
È pubblicato dall’Unione Europea il c.d. rapporto Bangemann (dal nome del Commissario dell’Unione Europea): è il piano della Commissione dell’Unione europea sulla autostrada dell’informazione.
Internet è uno dei temi principali del meeting dei G7 tenutosi a Bruxelles presso la Commissione dell’Unione Europea.
Alla fine del 1995 circa 5 milioni di computer sono direttamente o indirettamente collegati a Internet (erano 376.000 nel 1991), costituito da più di 50.000 network, collocati in 90 diversi paesi. La posta elettronica, il servizio più semplice offerto da Internet, raggiunge 160 paesi.

1996
Il costo del computer processing power, cioè della potenza nella gestione di informazioni, misurato come costo per singola istruzione per secondo, è calato del 99.9999% nel corso di 30 anni (quindi, ad una media del 35% all’anno). Nello stesso periodo di tempo, la “global computing power” è aumentata di un miliardo di volte.
Nel contempo le innovazioni tecnologiche e il processo di liberalizzazione e privatizzazione verificatisi nel settore delle telecomunicazioni e della telefonia pongono alla portata di chiunque l’uso del telefono: una telefonata di tre minuti tra Londra e New York costa – a valore costante del dollaro – oggi 20 centesimi di dollaro; costava 300$ negli anni Trenta e ancora 50 dollari nel 1960.
L’insieme di questi due elementi produce la nascita dell’industria Internet: circa un milione di addetti nel mondo sono occupati direttamente al suo sviluppo o nell’indotto.
Jon Postel, rendendosi conto che il sistema dei DN è inadatto allo sviluppo assunto da Internet, propone l’adozione di un nuovo DNS, che preveda anche la cessazione della posizione di monopolio di NSI nel settore, e la formazione di un regime competitivo per l’erogazione dei DN
Nasce il Palm Pilot, il computer tascabile con schermo palmare.

1997-1998
L’utilizzazione commerciale di Internet prende il sopravvento sull’utilizzazione culturale e accademica: Internet si appresta a divenire il mercato globale, il luogo di incontro per produttori e consumatori di ogni parte del mondo.
Microsoft tenta di estendere il proprio controllo sul sistema Internet, inserendo direttamente in Windows un proprio browser: Explorer. Il progetto è di indirizzare tutti gli utenti di PC che utilizzano Windows ad utilizzare il browser di Microsoft per navigare nel Cyberspazio. Microsoft ha successo, Netscape è sostanzialmente eliminata e Explorer si impadronisce del mercato. Ciò però determina una complessa vicenda giudiziaria per violazione della normativa Antitrust, da cui Microsoft esce perdente .
Una commissione istituita da IANA, denominata IAHC (International ad hoc Committee) nel febbraio 1997, emette un rapporto in cui ritiene che i DN siano una risorsa collettiva, e lo sviluppo e l’uso dello spazio di internet sia una questione di politica internazionale.
Nel contempo, si comincia a parlare di una seconda generazione di Internet, con nuove regole per la gestione della rete che tengano conto della nuova realtà. Università, enti di ricerca, organizzazioni no-profit nazionali e internazionali sono sempre più insofferenti di fronte al predominio acquisito dalle componenti commerciali di Internet: si diffonde l’idea di una secessione e della creazione di un nuovo Internet, destinato a scopi esclusivamente culturali.

1998
Scade il contratto in base al quale NSI ha gestito e assegnato i DN su Internet.
Nel gennaio una Agenzia del Dipartimento del Commercio del Governo degli Stati Uniti preposta al settore delle telecomunicazioni pubblica il c.d. Green Paper, contenente la proposta di costituire una società, con sede in USA, che amministri l’erogazione dei DNS.
L’Unione europea si oppone all’idea di un organo sotto il diretto controllo degli Stati Uniti e nel febbraio propone la costituzione di organismo internazionale da istituire con un accordo internazionale che ne definisca i poteri e le responsabilità .
Nel giugno il Governo degli Stati Uniti pubblica un documento, c.d. White Paper (White Paper Management of Internet Names and Addresses), ribadendo la volontà di mantenere il controllo amministrativo, politico e giurisdizionale degli Stati Uniti sull’organismo preposto all’erogazione dei DNS .
Senza tenere conto delle considerazioni provenienti dall’Unione europea, e senza d’altro canto trovare troppa resistenza, nell’ottobre viene costituita una società denominata Internet Corporation for Assigned Number and Names – ICANN, società privata non profit soggetta al diritto dello stato di California.
A ICANN viene affidata la responsabilità non solo del controllo del DNS, ma anche dello sviluppo di nuovi standard per i protocolli di internet: quindi i compiti di ICANN si estendono anche alla struttura e ai codici tecnologici in base ai quali Internet opera.
1999
ICANN comincia ad operare con un Consiglio provvisorio, a capo del quale è Esther Dyson. Quest’ultima dichiara che la società opera per realizzare il mandato affidato dal Governo di porre fine alla situazione di monopolio esistente per la registrazione dei DN. Molti protestano ed osservano che il Consiglio provvisorio eccede dai limiti dei proprio poteri e evita di porre in essere un sistema di gestione trasparente e democratico. Scrive uno dei più quotati commentatori di problemi di Cyberspazio del New York Times, a proposito dei componenti del Consiglio provvisorio: “Sono stati nominati in modo misterioso, si riuniscono clandestinamente e tengono verbali assai approssimativi. Però, cominciano ad assumere decisioni e a delineare programmi che potranno incidere su chiunque usi Internet”

2000
Si svolgono le elezioni per nominare i rappresentanti della comunità di Internet nel Consiglio di ICANN. La procedura, che coinvolge tutti i continenti, è stata definita il primo grande esercizio di cyberdemocrazia. Oltre 300 milioni di utenti possono partecipare al voto, assolvendo all’onere di previa registrazione. In realtà, la partecipazione è deludente, anche per gli articoli tecnici e le difficoltà della procedura prevista: si iscrivono al voto solo 76504 utenti. All’Europa sono assegnati due posti, e si iscrivono al voto 23519 (quasi la metà del numero globale degli utenti registrati).
Tra il 1 e il 10 ottobre, si svolgono le elezioni. L’Europa sceglie i proprio rappresentanti in seno alla direzione di ICANN: Andy Mueller-Maguhn, studente fuori corso all’Università libera di Berlino, esponente di spicco di Chaos Computer Club, con sede a Amburgo e 1600 membri sparsi in tutto il mondo, il cui progetto è “libertà illimitata in rete, circolazione delle informazioni senza alcuna censura” e Jeannette Hofmann, ricercatrice di scienze sociali a Strasburgo.
Continua lo sviluppo di Internet: rilevazioni del giugno indicano che 350 milioni di persone nel mondo utilizzano Internet. In quattro anni, potranno essere un miliardo.
Si tratta di dati e di ritmi impressionanti. Ma attenzione: quegli stessi dati indicano anche che gli utenti sono solo il 6% della popolazione mondiale ha accesso ad Internet (e solo il 35% della popolazione dei paesi più sviluppati) . Il fenomeno Internet è quindi solo agli inizi e gli elementi su cui basare le previsioni sono esigui. Tutto ciò che si scrive sugli effetti che Internet è destinato a provocare sull’assetto della società in un futuro più o meno prossimo, ha un valore di previsione assai limitato.
Novembre – dicembre
ICANN decide di aggiungere 7 nuovi Top Level Domain Names a quelli in funzione fin dall’origine: .biz, .info, .name, .pro, .aero, .coop, e .museum

Natale 2000
Si passa dai 20 milioni di acquirenti del Natale ’99 a 35 milioni. La spesa online cresce dai 15.000 miliardi del Natale 1999 a 25.000 miliardi (in lire). Cioè più 66%: nessun altro settore ha un aumento così forte. Amazon nell’anno 2000 ha raggiunto 6.000 miliardi di e-commerce fra libri, cd ed elettronica. La vendita di biglietti aerei via Internet ha avuto così successo che Priceline.com è ormai una delle dieci maggiori agenzie di viaggio negli Usa.

2001
Gennaio
Sono 377 milioni gli utenti che navigano regolarmente su Internet, utilizzando circa 100 milioni di PC.
Di questi 105 milioni sono in Europa, 161 negli Stati Uniti e in Canada. Solo 3 in Africa dove i costi sono ancora assai elevati e le infrastrutture inadeguate.
Per la prima volta dalla creazione del Cyberspazio, i navigatori negli Stati Uniti sono meno della metà del totale mondiale.
Anche gli utenti di lingua madre non inglese hanno superato gli utenti di linguamadre inglese: i primi sono 211 milioni, i secondi 192 milioni; secondo recenti stime, saranno rispettivamente 560 e 230 milioni nel 2003. In Europa, il più alto numero di utenti è nel Regno Unito (20 milioni), seguito da Germania (18 milioni), Italia (12 milioni) e Francia (9 milioni) .
I DN assegnati sono oltre 34.771.000 (poco più di 400.000 in Italia, oltre 1 milione in Germania). Di questi, oltre 21 milioni sono nel Top Level Domain .com. Tra gli Stati, i Top Level più usati sono quelli di Gran Bretagna e Germania: .uk, seguito da .de
Le pagine presenti sul Web sono circa 500 miliardi: è un universo del quale solo una minima parte – tra il 10 e il 20% – è conoscibile; il resto sfugge ai motori di ricerca ed è quindi introvabile, a meno di non conoscerne l’esatto indirizzo .
In quattro anni sono stati venduti oltre 10 milioni di computer palmari. Accanto all’originario Palm Pilot, sono sul mercato diecine di varietà.
Il commercio elettronico in Rete continua la sua espansione. Attualmente negli Stati Uniti si acquista in Rete per oltre 4.000 miliardi di lire al mese.

Internet e la Legge – Indice

S. Nespor, Ada Lucia de Cesaris
INTERNET E LA LEGGE
La persona, la proprietà intellettuale, il commercio elettronico, gli aspetti penalisitici, 2a ed., 2001, Milano, Hoepli.
Indice del libro

Introduzione alla seconda edizione

PARTE GENERALE
1. Internet: storia, dati e previsioni
2. Internet e la globalizzazione
3. Le organizzazioni di Internet
4. Le regole del network
5. Le regole di internet
6. Le basi della società dell’informazione: informazioni e telecomunicazioni

LA PRIVACY
7. Identificabilità e anonimato
8. La privacy
9. La posta elettronica
10. Usenet

LA PROPRIETA’ INTELLETTUALE
11. La proprietà intellettuale
12. Il diritto d’autore
13. I Domain Name
14. I Links
15. Il mercato del divertimento
16. La musica digitale
17. I libri digitali

IL DOCUMENTO ELETTRONICO, IL COMMERCIO E LE ATTIVITA’ PRODUTTIVE
18. Il documento elettronico
19. La legge, la pubblica amministrazione e la giustizia
20. Il commercio elettronico
21. I pagamenti elettronici
22. I Provider e gli operatori di Internet
23. I consumatori
24. La pubblicità
25. Il commercio elettronico e il regime fiscale
26. Il Cyberlavoro

INTERNET E ASPETTI PENALISTICI
27. Diritto penale ed Internet
28. I minori ed Internet

INDIRIZZARIO INTERNET

Prefazione a Giuseppe Vaciago (a cura di) “Internet e responsabilità giuridiche”, La Tribuna, 2002

Allorchè si affronta il tema delle responsabilità giuridiche che si determinano utilizzando Internet (la responsabilità di Internet, secondo il titolo di questo volume, ma anche e soprattutto la responsabilità in Internet), è inevitabile la domanda: siamo di fronte a un fenomeno davvero nuovo, a nuove figure giuridiche di responsabilità, non disciplinati nell’ordinamento giuridico esistente (perché non previsti), che richiedono quindi appositi interventi normativi su scala internazionale e nazionale, oppure hanno ragione coloro che scetticamente ritengono che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole, e che sia sufficiente adattare con saggezza la normativa esistente alla nuova realtà?
Si schierano con questi ultimi Carl Saphiro e Hal Varian che, in un volume di successo purtroppo non tradotto in italiano (Information rules, Harvard Business School Press, 1998) possono farsi previsioni su quello che succede con la diffusione di Internet, e specificatamente possono farsi previsioni sugli sviluppi giuridici e normativi della responsabilità in Internet semplicemente studiando quello che è successo molti decenni orsono con la diffusione del telefono o, pochi anni fa, con la diffusione del telefax; si schiera invece con i sostenitori della versione “apocalittica” Kevin Kelly che sostiene (New Rules for the New Economy, Viking Penguin, 1998) che il mutamento introdotto da Internet è così vasto e così pervasivo da produrre effetti indipendenti dal sistema economico, sociale e giuridico esistente e, soprattutto da produrre da solo le proprie regole, nuove rispetto a quelle passate.
Questa radicale contrapposizione coinvolge anche valutazioni di più ampia portata, che influenzano gli stessi presupposti con i quali viene concepita e disegnata la responsabilità in Internet.
Vi sono alcuni che sono convinti che l’intero assetto della comunità internazionale – basato sul principio dell’autonomia e della sovranità dello stato- è stato cancellato dal nuovo ordine giuridico e economico determinato dal cambiamento tecnologico (è la tesi brillantemente sostenuta da Susan Strange in The Retreat of the State: The Diffusion of Power in the World Economy, in Cambridge Uni Press, Cambridge USA, 1998).
Per converso, secondo altri è invece impossibile ipotizzare che sia stato il cambiamento tecnologico a produrre modifiche nell’assetto internazionale (principale esponente di questa linea di pensiero è STEPHEN KRASNER, Sovereignty: Organised Hypocrisy, Princeton Uni Press, Princeton New Jersey, 1999).
Se l’introduzione di questo volume fosse stata scritta qualche anno fa, le tesi apocalittiche sarebbero state nettamente prevalenti: Internet ha creato un mondo retto da regole nuove e da nuove forme di responsabilità.
Oggi gli scettici hanno acquisito il sopravvento. Pochi anni sono passati – era il 1995 – da quando John Perry Barlow ha lanciato il suo proclama, la Dichiarazione di indipendenza del Cyberspazio: “Governi del mondo industriale, eravate giganti di carne e di acciaio, io vengo dal Cyberspazio. Su incarico del futuro, vi chiedo di lasciarci stare. Voi non avete alcun potere e alcuna sovranità sul luogo dove noi ci ritroviamo”.
A fronte di questa immagine quasi mitologica di un mondo virtuale anarchico, o comunque in grado di autodeterminarsi in base alla comune volontà degli utenti, in pochi anni abbiamo a che fare con una realtà ben diversa: nel Cyberspazio si applicano e si intersecano regole giuridiche di varia provenienza e di varia natura, ma tutte poste dagli ordinamenti statali e dalla comunità internazionale. Gli utenti del mondo virtuale appartengono al mondo reale, e gli scambi di informazioni e di messaggi non si limitano a muoversi nel cyberspazio: interagiscono e provocano effetti reali, nella realtà.
È quindi ovvio che ai comportamenti tenuti dagli utenti di Internet ciascuno stato applichi o pretenda di applicare le regole previste dal proprio ordinamento giuridico soprattutto allorché tali comportamenti incidano sulle posizioni giuridiche, sui diritti e sulle aspettative non solo di coloro che partecipano allo scambio, ma di soggetti a esso estranei. E infatti, la casistica di interventi giudiziari per questioni attinenti alla responsabilità, come questo volume illustra con i suoi numerosi esempi tratti dalla giurisprudenza più recente, è ormai assai nutrita e tende ad aumentare in modo consistente.
Certo, è in pratica difficile individuare quali specifiche regole di quale Stato si applichino a determinate situazioni, è difficile comprendere come farne applicazione in caso di violazione, ma certamente questo volume illustra che i comportamenti tenuti su Internet sono soggetti alle regole che li disciplinano e li puniscono nel mondo reale.
Ed allora, per chi si occupi professionalmente di questioni di responsabilità, o per chi semplicemente, come utente di Internet, voglia avere un orientamento su come comportarsi e quali rischi corre navigando in Rete, gli autori di questo volume hanno predisposto una guida che offre, oltreché una scorrevole lettura, elementi per orrizontarsi nei principali settori in cui problemi di responsabilità possono profilarsi: dal diritto d’autore e dalla proprietà intellettuale, al sistema dei domain names, alle varie ipotesi di reato informatico e telematico, alla privacy e alla responsabilità della Pubblica amministrazione.
Concludendo la lettura del libro, si saranno certamente apprese molte stimolanti cose sul tema della responsabilità in Internet; ma si sarà anche compreso che – con l’unica eccezione della proprietà intellettuale – l’idea, o il sogno, di creare con Internet un mondo a parte, possono dirsi tramontate anche per effetto della necessità di affrontare e risolvere le questioni che proprio i profli giuridici della responsabilità hanno posto.