La donazione di organi: lo strano caso del signor moore e il dilemma del buon samaritano

1. Che cosa sono i cadaveri?
Nei cimiteri di Londra c’era gente che andava e veniva ogni notte per trafugare cadaveri, ricorda Chateaubriand nelle sue Mémoires d’outre?tombe, raccontando le vicende del suo esilio inglese tra il 1793 e il 1800: erano i body snatchers, che nel XVIII e nei primi decenni del XIX secolo rifornivano medici e scienziati di corpi da dissezionare per lo studio dell’anatomia umana e per l’addestramento nelle pratiche chirurgiche, e, inoltre, musei e collezionisti privati di scheletri e teschi da esposizione. L’attività dei body snatchers era possibile perché, secondo la common law inglese, i corpi senza vita erano cose che non appartenevano a nessuno: erano res nullius delle quali chiunque poteva appropriarsi. La loro sottrazione dai cimiteri non era quindi sanzionata, a meno che ? come precisava Blackstone, l’autore del più importante dei commentari giuridici inglesi dell’epoca ? non fossero insieme trafugati anche i vestiti o altri oggetti del defunto (cosa che, naturalmente, accadeva assai di rado, in quanto coloro che si occupavano di questa fiorente e lucrosa attività avevano cura di spogliare i cadaveri prima di asportarli, e di riporre nuovamente nel tumulo ogni oggetto personale).
Negli altri paesi occidentali, a differenza che in Inghilterra, la vendita e l’appropriazione dei cadaveri era rigorosamente vietata: essi, seppur considerati da un punto di vista giuridico come cose, erano considerati cose extra commercium. C’erano però delle eccezioni: erano liberamente commerciabili e appropriabili i corpi, a pezzi o interi, dei santi: così erano oggetto di libero commercio e di scambio, fin dall’antichità, le reliquie e, nel caso divenuto famoso di San Spiridione, addirittura l’intero cadavere, divenuto di proprietà di una famiglia greca di Corfù che ne aveva tratto fonte di consistenti guadagni (LEGENDRE).
Non va poi dimenticato un aspetto paradossale di questo divieto: il commercio dei cadaveri era vietato anche nei paesi ? come gli Stati Uniti o la Russia ? nei quali ancora esisteva ufficialmente la schiavitù, ed era quindi ammesso il commercio e la vendita di corpi umani, purchè viventi.
Come sempre accade, però, la forza del mercato prevale sui divieti legislativi. Così ciò che in Inghilterra era consentito, in Europa era oggetto di un fiorente mercato nero. In Francia, per esempio, racconta Jean-Pierre Baud che il furto di cadaveri dai cimiteri era, all’inizio dell’Ottocento, una pratica abituale per sgombrare i cimiteri sovraffollati e per rifornire le sale anatomiche; il problema di far scomparire i residui dei corpi dissezionati veniva poi risolto riducendoli in grasso, e vendendo il prodotto così ottenuto soprattutto ai carrettieri per lubrificare gli ingranaggi delle ruote e ai fabbricanti di candele, utilizzate in grande quantità per l’illuminazione dei grandi edifici pubblici (tra cui, naturalmente, la Facoltà di medicina) (BAUD).
I cimiteri della Gran Bretagna sarebbero potuti rimanere il giacimento di materiale umano più prezioso d’Europa e i body snatchers avrebbero potuto conservare la loro posizione di incontrastati monopolisti di questo mercato, in continua espansione per il progredire della scienza medica, della chirurgia e del collezionismo se alcuni di essi, particolarmente intraprendenti, non avessero deciso di incrementare l’offerta selezionando e prenotando i cadaveri tra gli ospiti degli ospedali per i poveri o degli ospizi (forse anche cooperando pe accelerarne la disponibilità), suscitando così l’indignazione dell’opinione pubblica.
Nel corso dell’inchiesta parlamentare che seguì, risultò che un solo body snatcher aveva dissotterrato e venduto tra il 1809 e il 1813 i corpi di 1211 adulti e 179 bambini: una media di quattro al giorno.
L’ordinamento inglese venne così adeguato agli altri ordinamenti europei e il commercio e la vendita di cadaveri furono vietati, salvo specifiche autorizzazioni.
2. Qual è l’utilità dei morti per i vivi?
La drastica riduzione della disponibilità di cadaveri per lo studio dell’anatomia e per la pratica della chirurgia determinata dal divieto provocò in tutta l’Inghilterra un’impennata dei prezzi sul mercato e, conseguentemente, vivaci proteste nel mondo scientifico: da molti la nuova legislazione fu considerata un attacco oscurantista e irresponsabile al progresso della medicina. Tra questi, vi era anche Jeremy Bentham il quale, chiedendosi quale potesse essere, a questo punto, l’utilità dei morti per i vivi, si schierò a favore dell’utilizzazione dei cadaveri e delle esigenze della ricerca scientifica in campo medico, e contro leggi che limitavano quelle esigenze e che sottraevano i cadaveri alla libera disponibilità, invitando provocatoriamente i suoi amici allo spettacolo della dissezione e dell’autopsia del proprio corpo, dopo la morte (Bentham).
Certo Bentham non avrebbe mai potuto immaginare la risposta che il progresso della scienza medica e della tecnologia sanitaria si sarebbero incaricate di offrire alla sua provocatoria domanda. A distanza di poco più di un secolo, l’ignobile mestiere di procurare cadaveri o organi per i vivi ha ottenuto una completa legittimazione giuridica e sociale. Al posto dei body snatchers imbrattati di fango e di sangue ci sono oggi complesse organizzazioni societarie multinazionali e équipes di medici in camice bianco, ai cimiteri si sono sostituite asettiche sale d’ospedale, ai divieti si sono sovrapposte leggi che disciplinano e organizzano una attività, considerata ormai ovunque di primario interesse pubblico e sociale (anche se non bisogna dimenticare che, subito dopo i primi trapianti di cuore, molti avevano avanzato una richiesta di moratoria ritenendo il trapianto un business immorale e criminale).
Così oggi i cadaveri hanno, per i vivi, una utilità ben più consistente di quella di offrire un corpo da sezionare o un teschio da riporre in una bacheca: essi sono divenuti, specie se non ancora consumati dal tempo o deteriorati dalle malattie, insostituibili e inesauribili giacimenti di preziose materie prime, sfruttati ancora in modo assai primitivo.
Da un qualsiasi cadavere, intervenendo a cuore fermo, si possono ricavare due cornee, due articolazioni dell’anca, una mandibola, sei ossicini dell’orecchio, ossa lunghe e costole, legamenti vari, tendini e cartilagini, midollo osseo, arterie e vene, pelle, materiale genetico. Invece, da un corpo di una persona sana e relativamente giovane che per un qualche incidente (quasi sempre, per un incidente stradale) abbia subito la distruzione irreparabile delle funzioni del cervello, è possibile ricavare anche, intervenendo tempestivamente e prima che si fermi la circolazione: un cuore, due polmoni, due reni, un fegato e un pancreas.
C’è però una consistente differenza rispetto al passato: ciò che oggi ha assunto la qualità di una cosa, di un bene economico non è, come ai tempi in cui era ammessa (o tollerata) la schiavitù, l’uomo unitariamente considerato, in quanto insieme di persona (cioè come insieme delle qualità immateriali dell’uomo) e di corpo. E’ infatti sottratto all’utilizzazione e al commercio da parte di chiunque l’essere umano in quanto entità unitaria.
Parimenti, non sono cose, e restano quindi sottratti all’utilizzazione e al commercio da parte di chiunque, le due componenti primarie dell’essere umano, considerate nella loro dimensione unitaria: la persona, intesa come l’insieme delle qualità immateriali che formano l’identità e il corpo, inteso come insieme degli elementi fisici e come sistema biochimico.
Nessuno può quindi dirsi “proprietario” di sè stesso, del proprio corpo, o della propria persona: la proprietà è infatti un potere che si esercita su un bene economico (materiale o immateriale), e che comporta la possibilità di utilizzarlo a proprio piacimento: sia di goderne, sia di disporne, cedendolo ad altri.
Certamente, si tratta di una conquista di civiltà. Ma Jean-Pierre Baud ci avverte di non dimenticare che è una conquista raggiunta a caro prezzo: alla radice dell’esclusione di ogni rapporto di proprietà dell’uomo con il suo corpo sta non la valorizzazione dell’elemento corporeo, ma la sua cancellazione: sta l’opera di giuristi che hanno privato l’uomo del suo corpo, trasformandolo in pura volontà: così, l’uomo in quanto volontà può stipulare contratti, redigere testamenti, compiere ogni sorta di atti giuridici, ma resta del tutto irrilevante se l’uomo in quanto corpo ha fame, non ha una casa o è privo di mezzi di sussistenza (Baud).
Resta comunque il fatto che oggi, per l’essere umano, per la persona, per il corpo può parlarsi solo di libertà, non di potere: essi non sono cose, non sono beni economici, e di essi nessuno può disporre (a questo principio non fanno se non apparentemente eccezione il suicidio, l’eutanasia, e il cosiddetto diritto di morire: sono, questi, tutti casi nei quali l’uomo liberamente sceglie di porre fine a sè stesso, senza alcuna finalità di carattere economico o commerciale, e anche senza alcuna finalità di beneficio per altri).

3. Il caso del signor Moore.
Si è detto che non si può parlare di proprietà, con riferimento al corpo unitariamente inteso, neppure da parte dell’essere umano cui esso appartiene.
Ma resta vera questa affermazione anche per i componenti e i materiali nei quali il corpo può essere disaggregato? Oppure, se si abbandona il livello del corpo come entità unitaria, è concepibile attribuire all’essere umano la proprietà degli elementi dai quali il suo corpo è composto? Più in generale: gli elementi del corpo umano possono essere qualificati beni economici in senso stretto, e cioè merci cedibili e commerciabili (sia pure a condizioni e con limiti particolari, determinati dalla particolare natura del bene) da parte di colui cui essi appartengono o, più in generale, da parte di chiunque ne abbia la proprietà o il possesso?
Prima di formulare risposte affrettate a questa domanda, è bene ricordare che alcuni degli elementi che costituiscono l’altra componente primaria dell’essere umano, quella immateriale, e cioè la persona, sono oggi, nel mondo occidentale, liberamente commerciabili: così, ciascuno può disporre di componenti essenziali della propria personalità e della propria identità, quali la la voce o il nome o addirittura la propria immagine, sfruttandone l’uso direttamente, o concedendone lo sfruttamento a terzi (Breccia, 505). E si tratta di una libertà inconcepibile non solo presso molti popoli primitivi, ma anche presso molte culture attualmente esistenti, dove l’immagine è rigidamente tutelata da ogni appropriazione o riproduzione (e infatti la fotografia viene ritenuta un inammissibile e irrimediabile furto di un attributo della propria identità).
Nel mondo occidentale, quindi, le componenti della persona sono già state colpite da un processo di commercializzazione. E si è trattato di un processo accettato senza particolari reazioni o proteste dall’opinione pubblica.
Il corpo è destinato a seguire la stessa strada, o è assoggettato a regole differenti?
Il modo migliore per cominciare a rispondere a questa domanda è forse quello di esporre la vicenda del signor John Moore, il quale, nel 1976, si fece visitare dal centro medico dell’Università di California a Davis; gli venne diagnosticata una rara forma di leucemia alla milza, che fu asportata con un apposito intervento chirurgico. Tra il 1976 e il 1983 il signor Moore dovette sottoporsi a numerose visite di controllo, e, spesso, a dolorose analisi che richiedevano il prelievo di sangue, midollo osseo, pelle e sperma.
Nel 1984 il signor Moore venne casualmente a sapere che nel marzo il Centro universitario di Davis e i due medici che lo avevano assistito per lunghi anni avevano ottenuto un brevetto per una sequenza di cellule (linfociti T) denominata “cellule Mo” idonea a riprodurre la linfocina, una proteina di grande valore terapeutico per la regolazione del sistema immunitario. Forse incuriosito dalla denominazione (che, senza molta fantasia, riproduceva le prime due lettere del suo nome), il signor Moore, dopo qualche indagine, scoprì che la sequenza di cellule brevettata scaturiva proprio dalla sua milza, il cui tessuto ? a seguito della rara forma tumorale che lo aveva colpito ? aveva assunto rarissime e straordinarie proprietà: e scoprì anche che il brevetto aveva coronato anni di ricerche e sperimentazioni e manipolazioni genetiche condotte dai suoi medici curanti, rese possibili anche dai frequenti prelievi operati nel corso delle analisi e dei controlli cui era stato sottoposto.
Il valore commerciale del brevetto era stimato, entro l’anno 1990, in oltre 3 miliardi di dollari; il Centro di Davis e i suoi medici curanti avevano ottenuto da due società operanti nel settore della farmacologia genetica a cui era stata concessa la licenza per lo sfruttamento commerciale del brevetto (Genetic Institute e Sandoz) un compenso ammontante a circa 440.000 dollari a fronte dell’attività di ricerca svolta tra il 1983 e il 1986 e quote di partecipazione azionaria nelle due società (Howard).
4. La risposta dei giudici al signor Moore e al signor Daoud.
Il signor Moore allora si rivolse all’Autorità giudiziaria, affermando di essere il proprietario del materiale dal quale il prodotto brevettato era stato elaborato e richiedendo sia una partecipazione ai guadagni che sarebbero stati tratti dall’utilizzazione di parti del proprio corpo, sia un risarcimento non essendo stato preventivamente informato, nè avendo acconsentito alle sperimentazioni effettuate su di sè.
La domanda di Moore, accolta integralmente nel giudizio di primo grado con una sentenza definita da molti “rivoluzionaria”, è stata successivamente respinta dalla Corte Suprema di California, in sede di appello.
Secondo la Corte, una persona alla quale sia asportato un organo o una parte del corpo non può accampare su di essi alcun diritto di proprietà, in quanto né il corpo umano, né le sue componenti sono una cosa: essi quindi non possono essere trattati come una merce. Ma non è stata una sentenza raggiunta all’unanimità. Vi sono stati tre giudici (su nove) che hanno espresso il loro dissenso da questa conclusione. Per i dissenzienti, è ingiusto che la proprietà di tessuti umani o organi sia esclusa per il loro “proprietario”, ma venga poi riconosciuta a coloro che ne acquisiscono il possesso, lecitamente o meno: chi ruba un cuore o altri organi dal luogo in cui vengono conservati è infatti indiscutibilmente responsabile di un furto, cioè dell’appropriazione di una cosa: tessuti e organi, una volta separati dal corpo, non possono essere cose, e quindi oggetto di diritti, per tutti, salvo che per l’essere umano dal cui corpo sono stati separati.
Se abbandoniamo per un momento la storia del signor Moore, e facciamo un salto sul Vecchio Continente, scopriamo un’altra singolare vicenda giudiziaria (riferita ancora da Jean-Pierre Baud), che si è conclusa in un modo che i giudici dissenzienti della Corte Suprema della California avrebbero certamente condiviso.
Il 27 giugno del 1985 Janel Daoud, ritenendosi incarcerato ingiustamente, si taglia la falangetta dell’anulare destro e la immerge in una bottiglia di liquido conservante, con l’intenzione di inviarla al Ministro della Giustizia. Ma il direttore del carcere gli confisca dito e bottiglia, riponendolo tra gli effetti personali del carcerato, da restituire nel momento in cui cessa lo stato di detenzione.
Daoud ricorre al giudice, chiedendo la restituzione del suo dito argomentando che le dita di un corpo umano, ancorché separate dal corpo, non possono essere trattate come una qualsiasi cosa e quindi non possono essere confiscate.
Il Tribunale di Avignone ha respinto il ricorso di Daoud, ritenendo il dito separato dal corpo una cosa, come ogni altra cosa sottoponibile a confisca (Baud).
Il Tribunale francese, quindi, a differenza della Corte californiana, ha deciso che le parti del corpo umano sono cose. Ma non ha avuto bisogno di dare una risposta precisa ad una domanda altrettanto importante: Daoud era proprietario del suo dito?
Una risposta a questa domanda permetterebbe di fare un passo avanti per risolvere il ben più complesso dilemma affrontato dalla Corte della California. Ma, attenzione, si tratterebbe di un passo necessario, ma non sufficiente.
5. Sabiniani contro Proculiani.
Se si risponde che Moore e Daoud erano proprietari rispettivamente della milza e del dito, non per questo si può automaticamente dare ragione alla pretesa di Moore. Quest’ultimo infatti non richiedeva la restituzione della sua milza, della quale, anzi, aveva acconsentito a privarsi, né ne richiedeva il controvalore. Moore voleva ottenere una parte dei proventi derivanti da un prodotto ottenuto utilizzando anche, come materia prima. le cellule della sua milza.
Proprio per questo la richiesta di Moore era dirompente: cellule e tessuti umani oggi costituiscono la materia prima di una consistente parte di tutte le ricerche di ingegneria genetica applicata alla medicina e alla farmacologia, e gran parte delle società che operano nel settore dell’ingegneria genetica fanno correntemente uso di tessuti umani per lo sviluppo dei loro prodotti, i quali vengono correntemente brevettati. Una generalizzata pretesa dei pazienti di ottenere quote dei profitti derivanti dai prodotti ottenuti utilizzando o manipolando tessuti o cellule (per lo più tratti dal loro corpo a seguito di operazioni chirurgiche) avrebbe messo in seria crisi la ricerca medica e farmaceutica.
Anche per questo, secondo la maggioranza dei giudici della Corte suprema della California, la richiesta di Moore deve essere respinta: l’essere umano non può avere diritti sui prodotti ottenuti utilizzando parti del suo corpo per ragioni di etica e di politica sanitaria: la libertà e l’autonomia della ricerca medico scientifica verrebbero radicalmente compromesse, se questo diritto venisse riconosciuto, senza tener conto che ciò che è brevettato e posto in commercio, ciò che in altri termini determina il profitto, non sono la cellula o il tessuto umano originario: è un ritrovato che risulta da una attività di ricerca e sperimentazione, e da sofisticati e costosi processi di rielaborazione, trasformazione e manipolazione del materiale originario. E poco importa che questi ritrovati possono essere utilizzati non solo per scopi umanitari e di ricerca, ma anche ? come nella specie è accaduto ? a fini di profitto.
Il contrasto sulla proprietà della sostanza ottenuta a seguito della trasformazione della milza di Moore non è nuovo; anzi, Moore e l’ingegneria genetica hanno riportato inaspettatamente d’attualità, a oltre duemila anni di distanza. un dibattito che travagliò gli antichi giuristi romani, dando addirittura luogo alla nascita di due opposte scuole di pensiero: i Sabiniani e i Proculiani.
La nave, il vino, il vaso sono di chi li ha fatti, oppure del proprietario dei materiali (del legname, dell’uva, del vino)? Per i primi, il prodotto finito deve appartenere al proprietario degli elementi con i quali è stato costituito, per i secondi, a coloro che con la loro opera li hanno trasformati. Nella sentenza della Corte Suprema californiana, la tesi dei Proculiani ? che premia l’attività di ricerca e di impresa e il lavoro rispetto alla proprietà ? ha avuto la prevalenza.
Ma, proprio utilizzando questo schema che ci arriva da un lontano passato, possono farsi ulteriori riflessioni.
Secondo alcuni si dovrebbe distinguere tra gli organi, i quali sono dotati di una loro specifica autonomia funzionale e possono essere trapiantati in un altro corpo, e quei componenti che sono privi di autonomia funzionale, quali, per esempio, le cellule, i tessuti, gli ormoni, il DNA (Swain?Marusyk).
Gli organi, secondo i sostenitori di questa tesi, non subiscono alcuna attività di trasformazione: essi vengono semplicemente custoditi e conservati nel periodo che intercorre tra l’espianto e il trapianto. Passano quindi dal proprietario originario, cui appartengono finchè non gli vengono asportati, al destinatario del trapianto che ne acquista la proprietà allorchè il trapianto avviene (o, forse ancor prima, allorchè viene definitivamente designato).
I componenti sono invece materie prime prive di autonomia funzionale, di per sè inutili, ma trasformabili dall’abilità e dal lavoro dell’uomo: è solo il lavoro dell’uomo che li rende utilizzabili, e oggetto di proprietà da parte di chi lavora. Si tratta di una tesi utile, in quanto evidenzia che il rapporto di un soggetto con le parti del proprio corpo non è riconducibile ad un modello unico, ma può avere contenuti e caratteristiche diverse.
Essa è però, per riutilizzare il nostro modello classico, contemporaneamente troppo Sabiniania e troppo Proculiana.
E’, prima di tutto, troppo Sabiniana per ciò che riguarda gli organi. Per giungere ad affermare la continuità della proprietà tra chi cede l’organo e chi lo riceve, viene infatti trascurato un aspetto decisivo. Nessuno può infatti trasferire direttamente il proprio organo a un altro soggetto (consegnandogli, per esempio, il proprio rene), senza l’intervento, la partecipazione e la collaborazione di strutture sanitarie, di trasporto, di assistenza.
Si tratta di un’attività che richiede consistenti investimenti tecnici e finanziari, sia per l’addestramento del personale, sia per l’utilizzazione del sofisticato know-how proprio del settore, sia per l’organizzazione e la predisposizione dei mezzi necessari; è un’attività che parte da un tempo precedente all’espianto dell’organo (perchè quando l’organo da cedere è disponibile, tutto deve essere pronto, in poche ore) e si estende ad un tempo successivo al trapianto (perchè tutti coloro che ricevono un organo richiedono cure e assistenza medica durature). Un solo esempio: la custodia e la conservazione degli organi avviene, negli USA, al di fuori delle strutture ospedaliere, ed è gestita da apposite società con criteri imprenditoriali. La società leader del settore è Criolife Inc. che raccoglie, conserva e surgela valvole cardiache, tendini, legamenti, richiedendo un compenso non per la cessione degli organi (in modo da evitare i problemi giuridici connessi all’accertamento della proprietà degli organi conservati), ma per il servizio di custodia e congelamento: il prezzo forfettario del servizio per la custodia e il congelamento di una valvola cardiaca, era, nel 1985, di circa 2000 $ (Freifeld).
Nel contempo, la tesi è troppo Proculiana allorchè esclude qualsiasi diritto del soggetto sui componenti del proprio corpo, considerandoli come una res nullius a disposizione di chiunque voglia trasformarli in “prodotti finiti”.
Così infatti vengono premiati esclusivamente coloro che partecipano alla lunga catena dei mediatori tra “proprietario” dei componenti e destinatario del preparato finale, cioè le imprese farmaceutiche, le strutture ospedaliere e sanitarie, i centri di ricerca. All’azzeramento – per ragioni etiche e di sanità pubblica – dei diritti del soggetto sui componenti del proprio corpo non si accompagna infatti, in nome delle stesse ragioni, un generale azzeramento dei diritti proprietari su tali componenti. Invece, quelle ragioni etiche e di sanità pubblica conducono alla conclusione che delle parti separate del corpo umano tutti possono trarre vantaggi anche consistenti, con l’unica esclusione del soggetto al quale vengono asportate. E’ certamente assai discutibile che in questo modo si persegua la funzione sociale di agevolare gli utenti finali, e cioè i consumatori dei preparati elaborati con i componenti stessi, e non le strutture sanitarie, farmaceutiche e industriali che controllano il mercato delle componenti del corpo umano. I componenti del corpo umano rischiano in questo modo di divenire simili al pesce, che è offerto gratis a chi lo pesca, ma costa comunque caro al consumatore (Thorne,43).
Questa tesi rischia poi – secondo molti – di provocare effetti contrari a quelli che persegue: l’azzeramento dei diritti proprietari può produrre infatti non una illimitata disponibilità di materia prima per attività di ricerca e sperimentazione, ma una sua mancanza, unitamente a fenomeni di mercato nero. Ben difficilmente infatti coloro che, come il signor Moore, possiedono tessuti o altri elementi del loro corpo dotati di proprietà utili o rare e che, a differenza di Moore, ne divengono coscienti, li offriranno gratuitamente, consentendo per di più ad altri di trarne tutti i profitti. Si corre così il rischio di ritrovarsi con tanti casi simili a quello della donna che alcuni anni orsono negli USA aveva stipulato con una società di ricerche farmaceutiche un contratto di vendita del suo sangue, fornito di rari anticorpi, per 25000 $ una tantum, oltre 200$ alla settimana e l’uso di un’automobile (Hardiman).
La conclusione di questa breve rassegna sui problemi che sorgono allorchè si vuole rispondere alla domanda di chi è il corpo umano, è che il vero problema a cui deve essere data risposta non è tanto quello della proprietà, ma quello delle condizioni e dei limiti che debbono essere introdotti per la trasferibilità dei diritti sulle parti del corpo umano: con quali regole organi e componenti del corpo umano possono essere prelevati, trasferiti, utilizzati e trapiantati?
6. Il principio della donazione.
Il sistema attuale del trasferimento di organi, tessuti e componenti del corpo umano è ufficialmente basato, nella maggior parte dei paesi occidentali, sul principio della donazione. Secondo molti esperti, la compravendita di organi ? ripetutamente condannata dall’Organizzazione mondiale della sanità – costituisce il vero incubo della medicina in questo momento. E si tratta di un mercato fiorente e in continuo aumento: disperati e derelitti del Sud-est asiatico, dell’Africa, dell’Est europeo e del Sudamerica offrono per pochi dollari reni, cornee (perdendo ovviamente la vista da un occhio), lembi di pelle per pochi dollari.
Il principio si fonda su un doppio rifiuto. Sul rifiuto di un passato, che lambisce i nostri giorni, nel corso del quale, dalla schiavitù ai lager nazisti, il corpo umano è stato considerato come merce o come oggetto di sperimentazione; sul rifiuto di un futuro dominato dell’incontrollabilità del progresso della scienza e della tecnologia medica, lanciato verso l’obiettivo di “abolire la morte”, ma al prezzo di trasformare l’umanità in un “gigantesco mattatoio, in una Auschwitz molecolare” per il vantaggio di pochi privilegiati (Chargaff, Gorovits), a spese di milioni di “proletari del corpo” .
Il fondatore teorico di questo principio è considerato un economista e sociologo inglese, Richard Tittmuss, il quale, soffermandosi sulla trasfusione di sangue, ha sostenuto che i meccanismi fondati sulla cooperazione e l’altruismo debbono essere preferiti ai meccanismi di mercato fondati sul profitto (Tittmuss).
Essi debbono essere preferiti, secondo Tittmuss, non solo perché segnalano che l’egoismo non è l’unico sentimento significativo nella società moderna, e che non tutte le cose di valore possono essere comprate ma anche perché – come qualsiasi dono – avviano un meccanismo di scambio, indicando la fiducia del donatore nella disponibilità anche degli altri di compiere un gesto analogo in futuro, restituendo il beneficio ricevuto (Tittmuss, 239, Murray).
Secondo Tittmuss, inoltre, la donazione di sangue deve essere preferita non solo dal punto di vista dell’etica, ma anche secondo criteri puramente di efficienza e di sicurezza sanitaria: chi dona, non ha nessun interesse a trasferire organi malati o a nasconderne eventuali difetti, mentre ciò può accadere per chi vende.
In effetti, il sangue e gli organi appartengono, insieme, per esempio, agli appartamenti situati in vecchi stabili o alle automobili usate, alla categoria dei beni per i quali il ricevente non è in grado di determinare pregi e difetti del bene trasferito con la stessa precisione del cedente. E, per tutti questi beni, il rispetto non solo delle regole di mercato, ma anche di regole di buon comportamento, di regole etiche, costituisce una importante garanzia di risultati ottimali anche da un punto di vista economico.
Per questo, nella creazione di un libero mercato del sangue, Titmuss intravedeva non solo una gravissima minaccia per i valori etici e solidaristici che devono essere alimentati in ogni comunità, e un concreto pericolo di sfruttamento dei poveri, a favore delle classi abbienti, ma anche un attentato alla produttività complessiva del sistema sanitario.
Il principio di Tittmuss ha avuto una sorte curiosa: si è rapidamente esteso ad ogni trasferimento di parti di corpo umano, è stato recepito nella maggior parte delle legislazioni sui trapianti, riscuote oggi il consenso pressochè unanime dell’opinione pubblica, ma proprio il sangue, per il quale essa era stata elaborata, è rimasto escluso. Per il sangue infatti è tacitamente o espressamente consentita la vendita e il commercio in molti Paesi. Così, in Italia, la legge 14\7\1967 n.592 (a differenza della legge sul rene, approvata nello stesso anno) prevede espressamente la possibilità di un corrispettivo per il “donatore” del sangue; si è cercato di giustificare questa disposizione, osservando che si tratta di un atto di disposizione del corpo che non produce una diminuzione permanente dell’integrità psicofisica. (Moscati). Molte sono comunque le voci che – proprio in nome della concezione solidaristica e di una “cultura della donazione” basata “sulla valorizzazione del gesto del dono del sangue” – richiedono una modifica della disposizione legislativa, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, quando essa è divenuta una pericolosa e incongrua eccezione al principio generale della gratuità della cessione degli organi, che è stato esteso in via generale a tutti i casi di cessione a scopo di trapianto (Romboli, 319).
Vi sono paesi, comunque, nei quali – fermo restando il principio della donazione degli altri organi – il prelievo di sangue dietro compenso costituisce espressione di una normale attività commerciale: negli USA, per esempio, a fronte di un bisogno interno annuo di sangue di 3 milioni di litri ne vengono prelevati oltre 9 milioni, destinando il surplus all’esportazione (ma proprio con riferimento all’introduzione del libero mercato del sangue negli USA, Tittmuss osservava che “non potremo mai offrire una stima economica dei costi sociali subiti dalla società americana a seguito del declino della donazione di sangue” (Tittmuss, pag.198)); per converso, la sola Germania acquistava, sino a qualche anno fa, 800.000 litri all’anno di sangue americano.
Anche la Comunità europea, con una direttiva “a sorpresa” del 14 giugno 1989, ha scelto la strada del mercato: il sangue e il plasma umano sono stati qualificati come materie prime per la preparazione di medicinali e inseriti nel circuito commerciale delle imprese farmaceutiche.
La scelta operata dalla Comunità ha suscitato reazioni accorate e indignate in Francia, il paese che attualmente si pone il più rigido custode dei valori di solidarietà e del principio della donazione (che non è incompatibile con la qualità di cosa attribuita alle pari del corpo, come è accaduto per il caso del signor Daoud). Il Comité national d’ethique ha infatti criticato aspramente la decisione comunitaria e ha osservato che trattare il sangue e gli emoderivati come merce contrasta con i principi della gratuità della cessione delle parti del corpo umano e del trapianto in ogni sua fase, del rispetto della figura del donatore e della tutela dell’interesse del malato, e, ponendo le premesse per una generalizzata mercificazione di ogni altra parte del corpo umano, costituisce un serio attentato alla dignità dell’uomo (Nay).
7. Il dibattito sul principio della donazione.
Il principio della gratuità della cessione delle parti del corpo umano non è esente da critiche.
Secondo un primo gruppo di oppositori, esso risulta sempre meno idoneo per risolvere la penuria di organi e per soddisfare le lunghissime liste di attesa di possibili riceventi.
La mancanza di organi è assai grave nei paesi, come USA e Gran Bretagna, in cui vige quale condizione per l’espianto un sistema “opt in”, ove cioè la legislazione richiede per il prelievo di organi il consenso del defunto, accertabile a mezzo di dichiarazioni univoche, o dei suoi stretti famigliari. La “carta del donatore”, infatti, non funziona: pochi la sottoscrivono, e quei pochi, quando serve, non l’hanno con sè. Diventa così determinante il consenso dei familiari, i quali non sempre sono però rintracciabili nel breve spazio di tempo a disposizione, e raramente sono favorevoli. (Thorne).
Negli USA inoltre la propensione alla donazione sta vistosamente decrescendo negli ultimi anni: favorevole a donare i propri organi era il 70% di un campione rappresentativo nel 1968, è il 45% nel 1985. Il rifiuto è motivato soprattutto con due ragioni: il rischio che i medici non aspettino la morte (23%), e il rischio che addirittura la affrettino, se hanno bisogno di un organo (21%) (Porzio, 89). Per far fronte alla crescente mancanza di organi, si è anche pensato al macabro espediente di sostituire la condanna a morte con una condanna alla confisca degli organi, ufficialmente denominata pre?mortem prisoner organ draft (Stone).
La penuria di organi non è però meno grave nei paesi dove vige un sistema opt out, il quale prevede in via generale (con limitazioni predeterminate) l’espiantabilità degli organi dal cadavere. A questo gruppo di paesi appartiene l’Italia, dove – a seguito della legge 2\12\1975 n.644 – l’espiantabilità dell’organo, con l’eccezione dell’encefalo e delle ghiandole genitali e della procreazione, è divenuta la regola, salvo il caso di accertata volontà contraria del defunto o dei suoi stretti famigliari.
L’Italia, anzi, nonostante questa legislazione liberista, occupa da sempre uno degli ultimi posti in Europa. Tra il 1986 e il 1991 il numero dei donatori nel nostro paese è rimasto attorno a 5 per milione di abitanti, contro i 15 della Gran Bretagna e della Spagna, i 20 della Francia, i 25 dell’Austria; superiamo solo la Grecia, che ha 2 donatori ogni milione di abitanti. Anche se si considera il numero di trapianti, invece del numero dei donatori, il risultato non cambia: per ciò che riguarda il rene, per esempio, nel 1991 si sono eseguiti in media 34 trapianti per milione di abitanti nei paesi della Comunità europea, contro i 10 per milione di abitanti eseguiti in Italia (Nespor-Satolli-Santosuosso, pag.134).
Questo comporta che in Italia, attualmente, 28.500 pazienti sopravvivono attualmente con dialisi, in attesa di un trapianto di rene; di questi, 6000 sono inclusi in liste di attesa per il trapianto; i trapianti sono però non più di 500\600 all’anno (Antonella Cremonese). Erano invece circa 300, nel 1991, i pazienti in attesa di un cuore, e 400 i pazienti in attesa di un fegato, mentre vengono eseguiti annualmente meno della metà dei trapianti che sarebbero necessari (Nespor-Satolli-Santosuosso, pag.135).
La mancanza di organi, che pure indubbiamente costituisce un fatto assai grave, non è però, secondo i sostenitori del principio della donazione, una ragione sufficiente per far abbandonare il principio. Il rifornimento di organi potrebbe infatti, secondo costoro, essere reso sufficiente rispetto alle necessità se fossero compiuti adeguati sforzi per diffondere nella collettività una reale cultura della solidarietà attraverso il trapianto, e se, d’altro lato, fosse predisposta una organizzazione sanitaria idonea al recupero degli organi potenzialmente utilizzabili.
Un secondo gruppo di critici del principio della donazione osserva che esso, contrariamente alle apparenze, non ha privato della qualità di bene in senso economico i componenti del corpo umano nè i loro trasferimenti, ma ha soltanto, e paradossalmente, escluso dal regime di mercato proprio coloro che lo “possiedono”. Così, come del resto insegna la vicenda di Moore, nel complesso processo che si conclude con il trapianto o con l’utilizzazione di un componente del corpo umano, solo a chi cede una parte del proprio corpo si impone di agire eticamente, in modo altruistico e senza compenso: tutti gli altri attori ? medici e organizzazioni sanitarie (in particolare dove non esiste un’assistenza sanitaria gratuita), imprese farmaceutiche e produttori di attrezzature o strumenti igienici e sanitari, intermediatori e “banche” di conservazione, stoccaggio e congelamento di organi e componenti del corpo umano ? traggono dal principio di gratuità che grava sul cedente e quindi dall’azzeramento del suo possibile compenso, una ragione di aumento dei propri profitti (senza sostanziale beneficio per il ricevente).
L’eliminazione di questa ingiusta penalizzazione del proprietario può avvenire ? secondo una linea di pensiero rigorosamente mercantilista ? soltanto riconoscendo, accanto alla libertà e al piacere di donare, la libertà di vendere (Arrow), e introducendo così il diritto di proprietà, di disposizione e di vendita al proprietario degli organi e componenti del corpo (Engelhardt, Hardiman), eventualmente all’interno di un mercato degli organi appositamente costituito e accuratamente regolato, nel quale sia comunque interdetta la vendita tra vivi, in modo da evitare situazioni di sfruttamento (Cohen Lloyd); secondo altri, introducendo forme di incentivazione o di compenso (non necessariamente in denaro, ma sotto forma, per esempio, di agevolazioni sanitarie, ospedaliere, o fiscali al cedente o ai suoi eredi) per la utilizzazione degli organi dei cadaveri o per la cessione di tessuti umani.
Sono però, tutte queste, secondo i sostenitori della donazione, manifestazioni di contrattualismo individualistico iperrazionalista, di una “concezione etica che ci presenta tutti come dei free riders che nel corso di tutta la nostra vita in modo unilaterale possiamo decidere quando è conveniente considerarsi membri di una società e, quando non lo è, andare per la nostra strada; battitori liberi che non debbono nulla agli altri, e ai quali nulla può essere richiesto” (Lecaldano I.1. 47/48). Ponendosi in questa linea di pensiero, molti giuristi si sono pronunciati, in nome del benessere dell’umanità e del principio di solidarietà, per una sorta di nazionalizzazione dei cadaveri, e quindi di tutte le sue componenti: secondo costoro (sia pure con varie sfumature), “lo Stato, in un’organizzazione futura, deve poter disporre di qualunque cadavere, per poterne prelevare qualunque parte al fine di giovare a una vita umana” (Leone).
In realtà, il dibattito sulla donazione, e quindi sulla gratuità o meno della cessione degli organi, si basa su alcuni presupposti che vengono considerati pacifici, che però tali non sono.
8. Qualche riflessione aggiuntiva sulla donazione di organi.
La donazione è solitamente definita come un atto di liberalità di un soggetto, che trasferisce a un altro soggetto un proprio bene, senza alcun compenso. Si tratta di una definizione che, depurata dalle specificità che l’istituto ha assunto nei vari ordinamenti giuridici, corrisponde all’idea diffusa nell’opinione pubblica della donazione come atto di espressione della libertà e dell’autonomia dell’individuo per ciò che riguarda i propri beni. Due sono quindi i protagonisti necessari e sufficienti: un soggetto che dona, e un soggetto che riceve il dono.
Ben diversa è però, a questo riguardo, la cessione dell’organo.
Prima di tutto, già si è detto che, per quanto animato da buona volontà, nessuno potrebbe mai fare dono di un proprio organo da solo senza la partecipazione attiva e la collaborazione di una complessa struttura organizzativa e sociale. A differenza del dono di un paio di scarpe o di una bottiglia di champagne (per il quale sono sufficienti la decisione di donare, e il denaro necessario per comprare le scarpe o la bottiglia), il dono di un organo richiede assai di più per potersi realizzare. Richiede équipes di medici forniti di un know-how altamente specializzato per l’espianto prima e per il trapianto dopo, sofisticate strutture sanitarie che consentano di eseguire tutti gli interventi necessari, costosi sistemi di conservazione e trasporto, appropriate e spesso costose e durature cure mediche successive, unite a attività di assistenza per il ricevente (per evitare il pericolo del rigetto); in generale, un consistente investimento economico e finanziario che grava, in tutto o in gran parte (a seconda dei sistemi sanitari) sull’Amministrazione sanitaria e quindi sulla collettività.
Il dono di un organo – a differenza della donazione del paio di scarpe – esiste e si realizza in quanto atto sociale (Kluge), del quale la decisione privata di cedere l’organo costituisce un frammento, significativo e necessario, certo, ma, di per sè, del tutto insufficiente. Donatore, in definitiva, non è solo il soggetto cui l’organo appartiene, ma l’intera collettività cui il donatore e il ricevente appartengono.
C’è poi un secondo aspetto che rende diversa la donazione di organi dalla generale categoria della donazione, ed è che al donatore non è lasciata di norma la possibilità di scegliere il ricevente.
Con l’eccezione dei casi di donazione interparentale o interfamigliare (dove la decisione di donare è, in realtà, determinata proprio dall’esistenza di un vincolo famigliare, e avviene con riferimento a un ricevente necessariamente predeterminato), la scelta del ricevente dipende, per lo più, da liste di attesa formate che tendono (o dovrebbero tendere) a garantire l’imparzialità e l’equità della scelta (Porzio, Task Force). Moltissimi sono i criteri utilizzabili, e molti quelli in concreto utilizzati o dei quali è stata proposta l’utilizzazione, oltre a quelli preliminari della probabilità di riuscita dell’intervento (e quindi della compatibilità dell’organo con il sistema immunitario del ricevente). Tutti, mentre tendono a tutelare l’oggettività del processo decisionale, appaiono più o meno discutibili (salvo, forse, quello, assai semplice, della pura estrazione a sorte). Per esempio: a parità di altre condizioni (tra le quali, ovviamente, vi è l’imminente pericolo di morte), deve essere preferito un ricevente giovane o anziano? Deve essere preferito un ricevente con la stessa cittadinanza del cedente, o appartenente al suo sesso, o alla sua razza, o addirittura proveniente dalla stessa area geografica? Devono essere preferiti i capofamiglia ai singles? Chi ha già ricevuto un trapianto va in capo o in coda alla lista? Questi sono alcuni dei problemi (neppure tra i più complessi) che pone la predisposizione di criteri per la formazione delle liste di attesa. Quel che è certo, è che in nessun caso è stato incluso, o suggerito, per la formazione delle liste il criterio di tener conto, in qualche misura, della volontà del cedente.
Questo dipende dal fatto, ancora una volta, che donatore non è chi mette a disposizione l’organo, ma una intera collettività che mette a disposizione investimenti, tecnici sanitarie, strutture di ricerca e apparati di intervento di taluni soggetti sfortunati (non necessariamente suoi membri) . Si tratta di scelte che la collettività compie a mezzo dei suoi rappresentanti che cooperano nel formare la politica sanitaria del paese, dedicando al trapianto una determinata quota della quota di bilancio del settore (scelta probabilmente criticabile, a fronte di altre possibili, sulla base di semplici analisi dei costi e dei benefici, ma questo, come le questioni concernenti la formazione delle liste di attesa, fa parte di un’altra storia).
Quindi, poichè donatore dell’organo è, secondo questa ricostruzione, la collettività, è più che comprensibile che ad essa, e non a chi mette l’organo a disposizione, spetti anche il compito di individuare il ricevente.
9. Il dilemma del buon samaritano.
E così, la cessione di un organo, collocato nella pubblica opinione come una delle più significative espressioni di liberalità e di autonomia dell’individuo, e come uno dei massimi gesti individuali di solidarietà umana (in Messico si è proposto di attribuire a chi cede un organo la qualifica di ‘eroe nazionale’) si è trasformata in un gesto diffuso di solidarietà collettiva, all’interno del quale la posizione di colui che cede l’organo resta importante sì, ma perde la sua caratteristica di centralità e unicità. Tutti i membri di una collettività rinunciano (non sempre consciamente, naturalmente) a un pezzetto di assistenza sanitaria, e quindi di salute, per offrire la possibilità a alcuni soggetti sfortunati (non necessariamente membri anch’essi della collettività) di proseguire la propria vita con un organo altrui.
E chi cede l’organo (e partecipa, per un frammento certo non trascurabile, al gesto di solidarietà collettiva)? Per quel che abbiamo detto, qualificarlo “donatore” costituisce un’operazione di suggestione linguistica e giuridica che cela, come abbiamo visto, la differenza tra questa cessione e quella della donazione propriamente detta, altera la vera identità collettiva del donatore e consente l’improprio sviluppo di tutte contrapposizioni tra dono e vendita.
Ma allora, se non perchè spinto da puro spirito di liberalità, se non per donare, perchè qualcuno dovrebbe essere disponibile a cedere gratuitamente un proprio organo?
Per dare una risposta, facciamo ricorso alla storia del buon Samaritano, nella risistemazione, sotto forma di Dilemma del Samaritano, offerta da Derek Parfit (Parfit, 60)
Ciascun Samaritano potrebbe dare assistenza talvolta un bisognoso, a costi ridotti per sè stesso. A ciascun Samaritano potrebbe, per converso, capitare di essere aiutato da uno straniero. In una piccola comunità, il costo dell’assistenza potrebbe essere facilmente ripagato dal Samaritano, nel corso della sua vita .
E’ però assai più improbabile che ciò accada nel mondo moderno, e in particolare nel mondo occidentale. Nelle vaste comunità urbane, il Samaritano è quindi portato a pensare che il proprio aiuto al bisognoso sia ininfluente o non necessario, poichè c’è comunque sempre qualcuno che presta assistenza; per converso, può pensare che, in caso di proprio bisogno, troverà sempre qualcuno disposto a prestargli assistenza.
Se ciascuno si comporta in questo modo, il risultato diventa peggiore per tutti.
Ciascuno trarrebbe un profitto agendo in modo puramente egoistico e rifiutando la propria assistenza al bisognoso, ma ciascuno, così agendo, conseguirebbe un danno assai maggiore se tutti si comportassero come lui.
Ecco quindi che il Samaritano avrebbe dovuto passare alla storia non per la sua bontà, ma per il suo buon senso.
Il prototipo del Samaritano – e il dilemma in cui egli può trovarsi – può essere esteso, come ha dimostrato Parfit, a tutte le situazioni nelle quali può contare sul fatto che, perseguendo soltanto il proprio interesse, non subirà conseguenze negative, perchè un numero sufficiente di persone comunque agisce tenendo conto dell’interesse collettivo (Parfit, pag.53 ss.).
Può essere esteso, in particolare, a tutti i casi di servizio pubblico. Così, ciascuno può pensare che, non pagando il biglietto per il tram, o non pagando le tasse, o ottenendo medicinali inutili gratuitamente o al prezzo politico fissato dal Servizio sanitario nazionale, trae un profitto. Ma se tutti si comportano in questo modo, scompaiono i tram, i servizi pubblici cessano di funzionare, le medicine aumentano di prezzo. Perseguire il proprio interesse e la propria utilità produce un beneficio solo finchè si rimane un free-rider, finchè cioè molti continuano a tener conto dell’utilità collettiva. Se tutti perseguono il proprio interesse, il risultato finale è un danno assai più consistente del profitto tratto.
Se si tiene conto di tutto ciò, è facile comprendere che la disponibilità a cedere gratuitamente i propri organi non è un gesto di pura liberalità, così come non era un gesto di pura bontà il comportamento del buon Samaritano in una piccola comunità. Entrambi sono comportamenti altamente razionali, rivolti a perseguire in modo non occasionale il proprio interesse, e quello dei propri famigliari. Entrambi sono comportamenti altrettanto dovuti, non solo moralmente e socialmente, ma anche egoisticamente parlando, quanto quello di pagare il biglietto del tram o di non richiedere medicinali non necessari.
E veniamo ai trapianti. Se tutti, in caso di morte, cedono gratuitamente gli organi, tutti sanno che vi sono buone probabilità di ricevere gratuitamente un organo, in caso di bisogno. Chi, invece, si rifiuta di cedere gli organi (volendo evitare i ridotti rischi che ciò comporta), o chi si rifiuta di cederli senza compenso (in caso di apertura di un libero mercato degli organi) può egualmente contare – vista la comunità allargata in cui vive – sul fatto che vi siano buone probabilità, per sè o per i suoi famigliari, di ricevere gratuitamente o dietro compenso un organo in caso di bisogno. A meno che non ci siano troppi che la pensano in questo modo. Se così accade (e così oggi accade), la probabilità di ricevere un organo in caso di bisogno diviene assai bassa.
La conclusione è che l’insistenza con la quale la cessione di organi da parte di un soggetto è stata qualificata e ricostruita come donazione è scorretta non solo linguisticamente e giuridicamente, ma anche moralmente. Ciò sarebbe, tutto sommato, privo di rilievo, se questa insistenza non fosse inoltre, anche dannosa. Essa infatti ha sinora indotto chiunque a ritenere che il comportamento di cedere un organo senza compenso, in quanto dono, sia del tutto facoltativo e eventuale, sicchè farlo o non farlo sia privo di effetti pratici sulla posizione propria e dei suoi famigliari, e si eticamente irrilevante. E questo non è vero. Cedere gratuitamente i propri organi è, come abbiamo appena visto, un atto con il quale si persegue il proprio interesse, assai di più che non decidendo di non cederli o attendendo di poterli cedere a pagamento.

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