TUTELA DELLA SALUTE E LEGITTIMITA’ DELL’IMPOSIZIONE DI UN TRATTAMENTO SANITARIO

Giurisprudenza

n. 10 / 1990

Vaccinazione obbligatoria

TUTELA DELLA SALUTE E LEGITTIMITA’ DELL’IMPOSIZIONE DI UN TRATTAMENTO SANITARIO

Corte costituzionale 22 giugno 1990, n. 307 – Pres. Saja – Rel. Corasaniti

con commento di Stefano Nespor

E’ costituzionalmente illegittima la legge 4 febbraio 1966, n. 51 che prevede l’obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica, nella parte in cui non pone a carico dello Stato un’equa indennità a favore di chi (soggetto vaccinato o terzo che lo assista o sia in contatto) subisca – al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 2043 c.c. – un danno da contagio o da altra malattia riconducibile all’effettuata vaccinazione antipoliomielitica obbligatoria.

… Omissis…

CONSIDERATO IN DIRITTO

1 – L’ordinanza di rimessione ha messo in dubbio la legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 32 della Costituzione, della legge 4 febbraio 1966, n. 51 (Obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica) con particolare riguardo agli artt. 1, 2 e 3.

La normativa è impugnata in quanto – mentre pone l’obbligo della vaccinazione antipoliomielitica per i bambini entro il primo anno di età, considerando responsabile (anche penalmente) dell’osservanza dell’obbligo l’esercente la patria potestà (oggi la potestà genitoriale) o la tutela sul bambino (o il direttore dell’Istituto di pubblica assistenza in cui il bambino è ricoverato, o la persona cui il bambino sia stato affidato da un Istituto di pubblica assistenza), e attribuendo al Ministero della sanità il compito di provvedere a proprie spese all’acquisto e alla distribuzione del vaccino – “non prevede un sistema di indennizzo e/o di provvidenze precauzionali e/o assistenziali per gli incidenti vaccinali”.

Nel corso di un giudizio civile intentato nei confronti del Ministro della sanità in relazione ai danni riportati da una madre per avere contratto la poliomielite, con paralisi spinale persistente, in quanto a lei trasmessa per contagio dal figlio, sottoposto a vaccinazione obbligatoria antipoliomielitica, il giudice a quo , considerato che non sembravano ricorrere estremi di responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., ha prospettato il possibile contrasto della denunciata carenza di previsione di rimedi come quelli suindicati per l’evenienza di lesioni derivanti da un trattamento sanitario obbligatorio, da parte della norma che lo introduce, con il principio, espresso nell’art. 32 della Costituzione, della piena tutela dell’integrità fisica dell’individuo.

2 – La questione è fondata.

La vaccinazione antipoliomielitica per bambini entro il primo anno di vita, come regolata dalla norma denunciata, che ne fa obbligo ai genitori, ai tutori o agli affidatari, comminando agli obbligati l’ammenda per il caso di inosservanza, costituisce uno di quei trattamenti sanitari obbligatori cui fa riferimento l’art. 32 della Costituzione.

Tale precetto nel primo comma definisce la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”; nel secondo comma, sottopone i detti trattamenti a riserva di legge e fa salvi, anche rispetto alla legge, i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Da ciò si desume che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale.

Ma si desume soprattutto che un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili.

Con riferimento, invece, all’ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica – il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri. Un corretto bilanciamento fra le due suindicate dimensioni del valore della salute – e lo stesso spirito di solidarietà (da ritenere ovviamente reciproca) fra individuo e collettività che sta a base dell’imposizione del trattamento sanitario – implica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo del trattamento. In particolare finirebbe con l’essere sacrificato il contenuto minimale proprio del diritto alla salute a lui garantito, se non gli fosse comunque assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito.

E parimenti deve ritenersi per il danno – da malattia trasmessa per contagio dalla persona sottoposta al trattamento sanitario obbligatorio o comunque a questo ricollegabile – riportato dalle persone che abbiano prestato assistenza personale diretta alla prima in ragione della sua non autosufficienza fisica (persone anche esse coinvolte nel trattamento obbligatorio che, sotto il profilo obbiettivo, va considerato unitariamente in tutte le sue fasi e in tutte le sue conseguenze immediate).

Se così è, la imposizione legislativa dell’obbligo del trattamento sanitario in discorso va dichiarata costituzionalmente illegittima in quanto non prevede un’indennità come quella suindicata.

3 – La dichiarazione di illegittimità, ovviamente, non concerne l’ipotesi che il danno ulteriore sia imputabile a comportamenti colposi attinenti alle concrete misure di attuazione della norma suindicata o addirittura alla materiale esecuzione del trattamento stesso. La norma di legge che prevede il trattamento non va incontro, cioè, a pronuncia di illegittimità costituzionale per la mancata previsione della tutela risarcitoria in riferimento al danno ulteriore che risulti iniuria datum . Soccorre in tal caso nel sistema la disciplina generale in tema di responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c.

La giurisprudenza di questa Corte è infatti fermissima nel ritenere che ogni menomazione della salute, definita espressamente come (contenuto di un) diritto fondamentale dell’uomo, implichi la tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. Ed ha chiarito come tale tutela prescinda dalla ricorrenza di un danno patrimoniale quando, come nel caso, la lesione incida sul contenuto di un diritto fondamentale (sentt. nn. 88 del 1979 e 184 del 1986).

E’ appena il caso di notare, poi, che il suindicato rimedio risarcitorio trova applicazione tutte le volte che le concrete forme di attuazione della legge impositiva di un trattamento sanitario o di esecuzione materiale del detto trattamento non siano accompagnate dalle cautele o condotte secondo le modalità che lo stato delle conoscenze scientifiche e l’arte prescrivono in relazione alla sua natura. E fra queste va ricompresa la comunicazione alla persona che vi è assoggettata, o alle persone che sono tenute a prendere decisioni per essa e/o ad assisterla, di adeguate notizie circa i rischi di lesione (o, trattandosi di trattamenti antiepidemiologici, di contagio), nonché delle particolari precauzioni, che, sempre allo stato delle conoscenze scientifiche, siano rispettivamente verificabili e adottabili.

Ma la responsabilità civile opera sul piano della tutela della salute di ciascuno contro l’illecito (da parte di chicchessia) sulla base dei titoli soggettivi di imputazione e con gli effetti risarcitori pieni previsti dal detto art. 2043 c.c.

Con la presente dichiarazione di illegittimità costituzionale, invece, si introduce un rimedio destinato a operare relativamente al danno riconducibile sotto l’aspetto oggettivo al trattamento sanitario obbligatorio e nei limiti di una liquidazione equitativa che pur tenga conto di tutte le componenti del danno stesso. Rimedio giustificato – ripetesi – dal corretto bilanciamento dei valori chiamati in causa dall’art. 32 della Costituzione in relazione alle stesse ragioni di solidarietà nei rapporti fra ciascuno e la collettività, che legittimano l’imposizione del trattamento sanitario.

… Omissis…

IL COMMENTO

di Stefano Nespor

1. Le questioni relative alla vaccinazione obbligatoria – sia quelle concernenti la legittimità dell’imposizione di un trattamento sanitario quale è la vaccinazione, sia quelle concernenti il risarcimento dei danni provocati da vaccini obbligatoriamente inoculati o assunti – hanno avuto nel nostro Paese, e più in generale nei paesi europei, scarsi riscontri in sede giudiziaria: quella in esame può dirsi, per ciò che riguarda l’Italia, la prima importante pronuncia sull’argomento. Le controversie su questa materia sono invece di vecchia data negli USA: vi è una sentenza della Corte Suprema Federale che risale al 1905.

Nessun programma di vaccinazione obbligatoria è infatti, come è noto, esente da rischi, sia per coloro che sono sottoposti alla vaccinazione, sia per il personale medico e infermieristico che le effettua, sia infine, in taluni casi, per i soggetti (per lo più i parenti stretti) che si vengono a trovare in contatto con chi viene vaccinato.

Prendiamo malattie quali la poliomielite, il morbillo e la pertosse. Si tratta di malattie di differente gravità, ciascuna delle quali, in mancanza di vaccinazione obbligatoriamente estesa a tutti gli appartenenti a una determinata collettività, colpirebbe diecine e diecine di soggetti, provocando lesioni permanenti e, in una consistente percentuale, la morte.

La vaccinazione evita, o riduce enormemente, il prodursi del rischio “naturale” consistente nella contrazione della malattia e nei suoi probabili o possibili effetti dannosi.

Ciò nonostante, essa crea un nuovo tipo di rischio “legale”, dovuto alla obbligatoria sottoposizione al vaccino. Secondo dati offerti dalle statistiche epidemiologiche, ogni milione di soggetti vaccinati contro il morbillo, uno subisce gravi e permanenti lesioni cerebrali (ma, secondo dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1986, muoiono ogni anno nel mondo di morbillo cinque milioni di bambini non vaccinati); oltre tre casi di danni cerebrali si verificano ogni milione di vaccini erogati contro la pertosse; infine, per ogni tre, due milioni di vaccini antipolio erogati, si verificano tre casi di polio tra i soggetti vaccinati, e un caso tra soggetti adulti non vaccinati, che si siano trovati in stretto contatto con i soggetti vaccinati (è questo il caso preso in considerazione della decisione in esame).

Ovviamente, da un punto di vista di interesse pubblico generale e di politica sanitaria, non v’è alcun dubbio sulla opportunità di eliminare o ridurre il rischio naturale costituito dalla diffusione della malattia, sottoponendo la collettività al rischio legale della vaccinazione obbligatoria, quantitativamente e qualitativamente ben più modesto (ben diversa è naturalmente la posizione del singolo, il quale, adottando un punto di vista strettamente egoistico, ha tutto l’interesse a sottrarsi al rischio della vaccinazione, ma solo fintantoché essa rimanga obbligatoria per tutti e l’obbligo venga sostanzialmente rispettato dagli altri).

La Corte costituzionale, nella sentenza in esame, conferma che la legge che imponga una vaccinazione obbligatoria è pienamente compatibile con la tutela del diritto alla salute posta dall’art. 32 Cost., in quanto il trattamento è rivolto a preservare non solo la salute di chi vi è sottoposto – ma questo solo scopo, a mio avviso, non sarebbe di per sé sufficiente a legittimare l’obbligatorietà del trattamento – ma anche la salute degli altri; ed è proprio questo secondo scopo (assai più del primo), dove la salute viene profilata come interesse della collettività, a giustificare pienamente, e di per sé solo, “la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute come diritto fondamentale”.

Non diversamente, la Corte Suprema federale degli USA ha respinto nel 1905 le pretese di coloro che contestavano, in nome dei diritti individuali di libertà e del diritto del singolo alla salute, l’obbligatorietà della vaccinazione obbligatoria antivaiolosa, osservando che “i rischi erano troppo ridotti per poter essere seriamente presi in considerazione a fronte dei benefici prodotti per la collettività” (Jacobson v. Massachusetts 197 US 11, 17/18, 1905).

A questo proposito, vi è solo da aggiungere che anche per effetto di scelte di questo tipo nel 1980 l’Organizzazione mondiale della sanità ha potuto ufficialmente annunciare la scomparsa del vaiolo a seguito di una campagna di vaccinazione su scala mondiale condotta a partire dal 1967. Oggi la vaccinazione antivaiolosa non è più obbligatoria: è stato eliminato non solo il rischio naturale posto dal vaiolo, ma anche il rischio legale posto dall’obbligatorietà della vaccinazione antivaiolosa.

2. Peraltro, se non può essere posta seriamente in discussione la legittimità delle previsioni che impongano l’obbligatorietà di una vaccinazione, restano sul tappeto – e possono essere variamente risolti – i problemi relativi alla sussistenza di diritti o di garanzie per i singoli, che di tali obblighi sono destinatari o che comunque si trovano sottoposti al pericolo di subire effetti dannosi. Si tratta di diritti riconducibili a due diverse ipotesi: da un lato, il diritto ad una adeguata informazione sull’entità del rischio (per lo più, peraltro, di scarsa utilità pratica, stante l’obbligatorietà del trattamento medico) e su tutte le possibili precauzioni da adottarsi per evitare o ridurre il pericolo di danni; d’altro lato, il diritto di ottenere adeguate forme di ristoro, nel caso che i danni si verifichino.

A questo proposito, un succinto esame dell’esperienza giudiziaria statunitense e del suo sviluppo è interessante.

Nel 1968 una Corte d’appello federale si discosta per la prima volta dal principio posto dalla sentenza della Corte Suprema nel 1905 della irrilevanza del rischio cui il singolo soggetto obbligatoriamente vaccinato è sottoposto e condanna il produttore di un vaccino antipolio a versare un consistente risarcimento ad un soggetto che, assumendo il vaccino, contrae la poliomelite; il produttore viene ritenuto responsabile per non aver adeguatamente avvertito i soggetti cui il vaccino era destinato del rischio cui erano sottoposti e delle cautele da adottare per ridurne la portata (Davis v. Wyett Laboratories Inc., 399 F. 2d 121, 9th Cir., 1968).

La sentenza si inserisce in una più generale tendenza all’incremento della litigiosità in merito ai danni alla salute e all’integrità psicofisica provocati dalla produzione, dal commercio e dall’utilizzazione (inconsapevole, volontaria o coatta) di merci, prodotti e sostanze, la cui potenziale nocività è ignorata o sottovalutata dai consumatori, ed ha un effetto dirompente.

Le richieste di risarcimento nei confronti dei produttori di vaccini, infatti, si moltiplicano: in occasione di una campagna di vaccinazione obbligatoria contro un’influenza particolarmente pericolosa, sono proposte in giudizio oltre 4.000 domande di risarcimento – per un totale di circa tre miliardi di dollari – da parte di soggetti che affermano di aver subito danni temporanei o permanenti a seguito dell’assunzione del vaccino: i costi subiti dai produttori (e, per loro conto, dalle compagnie di assicurazioni) a seguito delle domande accolte, delle transazioni effettuate e delle spese legali sopportate sono enormi (U.S. Environmental Protection Agency, Background Report for the Indemnification Report to the Congress, Washington 1983).

Nel corso degli anni Settanta, si afferma poi, di fatto, un orientamento giurisprudenziale che riconosce una sorta di responsabilità oggettiva in capo al produttore per tutti i danni insorti dopo la vaccinazione.

Vengono così accolte richieste di risarcimento sia in mancanza di prova che eventuali avvertimenti o prescrizioni mediche avrebbero effettivamente potuto impedire il verificarsi dell’infermità, sia, spesso, in mancanza di prova del rapporto di causalità tra vaccinazione e infermità susseguente (per esempio, Reyes v. Wyett Laboratories Inc., 498 F.2d 1264, 1974).

La inevitabile conseguenza dell’affermarsi di questa giurisprudenza è che i programmi di vaccinazione obbligatoria previsti dalle Autorità sanitarie si scontrano contro la crescente difficoltà di reperire un numero adeguato di produttori di vaccini a costi accessibili: questi ultimi, infatti, ritengono economicamente troppo rischiosa l’attività, anche per il vertiginoso aumento dei premi richiesti dalle assicurazioni.

Così, dei quindici produttori di vaccini esistenti sul mercato all’inizio degli anni Settanta, nel 1984 ne residuano due solamente per taluni vaccini, uno per altri e addirittura nessuno per quattro vaccini, per i quali era previsto il trattamento obbligatorio (cfr. C. Boffey, Vaccine Liability Threatens Supplies, in New York Times 25 giugno 1984): la situazione viene definita, da un portavoce governativo, di emergenza sanitaria.

A questo punto, nella giurisprudenza comincia a riaffiorare un orientamento più restrittivo, che, pur non segnando un ritorno al passato, introduce criteri più rigorosi per concedere il risarcimento di danni subiti a seguito di vaccinazioni e, più in generale, a seguito della utilizzazione di prodotti medicinali: per esempio, nel 1988 la Corte Suprema di California riafferma che la responsabilità del produttore di medicinali non è oggettiva, in considerazione dell’interesse pubblico allo sviluppo, alla disponibilità e al controllo del costo dei medicinali (Brown v. Superior Court 44 Cal 3d 1049, 1988).

Nel 1984, inoltre, un apposito Comitato federale governativo raccomanda l’emanazione di una legge che preveda un indennizzo, a carico dello Stato, per le vittime dei programmi di vaccinazione obbligatoria, limitando, nel contempo, il dilagare delle controversie giudiziarie.

Si giunge così al National Childhood Vaccine Injury Act del 1986, con il quale viene previsto un indennizzo (fino ad un ammontare massimo di $ 250.000) per chiunque subisca danni fisici a seguito della sottoposizione a vaccinazione obbligatoria, previa dimostrazione del solo rapporto di causalità tra trattamento sanitario e danno. Entro un breve termine dalla data di determinazione dell’indennizzo (erogato da un Fondo costituito con i proventi di un’apposita tassa posta sul prezzo di vendita di ciascun vaccino), può essere proposta un’azione giudiziaria per ottenere un effettivo risarcimento, dimostrando la sussistenza di una responsabilità per colpa; la proposizione dell’azione comporta, peraltro, una automatica rinuncia all’indennizzo.

Rispetto a questa evoluzione manifestatasi nella giurisprudenza e nella legislazione americana la soluzione adottata dalla Corte costituzionale italiana appare senz’altro ponderata e ragionevole.

Infatti, viene dichiarata la illegittimità costituzionale della norma che prevede la vaccinazione obbligatoria antipolio, nella parte in cui non prevede un equo indennizzo per il caso in cui i danni provocati dal trattamento obbligatorio non dipendano da comportamenti posti in essere dal produttore, dal distributore o dall’erogatore del vaccino (in questo senso era già stato presentato, nella passata legislatura, dal Ministro della Sanità Degan il disegno di legge n. 3730). Il sacrificio del diritto alla salute di alcuni soggetti, imposto a tutela della salute come bene collettivo, e necessaria conseguenza di questa tutela, deve quindi trovare un equo ristoro del danno patito, a carico della collettività, il cui ammontare deve ora essere fissato dal legislatore.

Diverso è il caso in cui il danno subito dal soggetto sottoposto al trattamento, da chi lo assista e dal personale che eroga il vaccino sia imputabile ad un comportamento colposo tenuto dal produttore del vaccino o dall’ente incaricato dell’erogazione.

In questo caso deve aver ingresso l’integrale risarcimento del danno alla salute subito, secondo i generali principi posti dall’art. 2043 c.c.

E tra i comportamenti colposi che la Corte espressamente individua come idonei a fondare il diritto al risarcimento dei danni viene espressamente indicata sia la comunicazione alla persona assoggettata al trattamento di vaccinazione o al suo rappresentante di adeguate notizie circa i rischi di lesione o di contagio, sia l’avvertimento circa le specifiche precauzioni che, allo stato delle conoscenze scientifiche, debbano essere adottate dalla persona assoggettata, da chi la assiste e dai familiari.

A questo proposito, però, va detto che mentre non si può che essere d’accordo sulla necessità del secondo gruppo di comunicazioni, la comunicazione di eventuali rischi derivanti dalla vaccinazione al soggetto vaccinato è per lo più irrilevante, stante l’obbligatorietà della vaccinazione medesima e può addirittura, secondo quanto più volte segnalato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, rivelarsi di ostacolo al successo della campagna di vaccinazione, inducendo molti ad evitare il trattamento.

La precisazione della Corte costituzionale, forse superflua rispetto al thema decidendum , non è casuale. Il fatto oggetto della controversia dalla quale è scaturito il giudizio di legittimità costituzionale riguarda, appunto, una richiesta di risarcimento del danno promossa da un familiare rimasto contagiato dalla poliomielite per essere stato in contatto con il figlio, nei giorni in cui lo stesso era sottoposto alla vaccinazione. Ebbene, mentre sin dal 1964 era scientificamente ben noto il rischio di contagio per contatto da parte dei familiari non vaccinati, in occasione della somministrazione del vaccino ai figli o ai conviventi fino al 1978 nei foglietti illustrativi (revisionati e autorizzati dal Ministero della Sanità) di tutte le confezioni di vaccini prodotti in Italia era omesso ogni riferimento a tale pericolo e alle semplicissime precauzioni da adottare per evitare il contagio, allo scopo di evitare effetti di allarme o dissuasione dall’osservanza dell’obbligo.

Ebbene, la Corte costituzionale non ha perso l’occasione di manifestare il suo netto dissenso rispetto all’opinione del Tribunale di Milano, autore dell’ordinanza di rimessione alla Corte (pubblicata in G.U. 18 ottobre 1989, 1a serie spec., n. 42), secondo cui questo comportamento, tenuto dai produttori e avallato dal Ministero, dovrebbe ritenersi giustificato e, quindi, inidoneo a fondare un diritto al risarcimento del danno, in quanto l’adozione di misure precauzionali, di informazioni o comunicazioni diffuse per evitare rischi individuali quantitativamente minimi contrasterebbe con l’interesse della sanità pubblica.

Secondo la Corte, nessun dichiarato interesse pubblico può giustificare la deliberata sottoposizione al rischio di gravi danni al diritto fondamentale alla salute, soprattutto se provocata dall’omissione di doverose e ben note informazioni, che tale rischio avrebbero eliminato o attenuato.