MITI E REALTÀ DELL’AMBIENTE GLOBALE

1. La globalizzazione danneggia l’ambiente?

Molti nei paesi ricchi del mondo ritengono che il processo di integrazione politica, istituzionale, economica e finanziaria – cioè quel vasto e complesso fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione – provochi danni presenti e soprattutto futuri all’ambiente, in particolare all’ambiente dei paesi in via di sviluppo.

Tre sono gli argomenti più ricorrenti a sostegno di questa opinione: la nocività dello sviluppo, la race to the bottom e gli effetti delle politiche di risanamento.

Prendiamoli in considerazione separatamente.

2. Il mito dell’Eden perduto: lo sviluppo danneggia l’ambiente.

Una delle argomentazioni più diffuse è che l’ambiente dei paesi in via di sviluppo verrà irrimediabilmente deteriorato dall’impatto con l’inquinamento prodotto dalle attività economiche e con gli effetti degradanti delle tecnologie produttive indotte dalla globalizzazione.

In sintesi, lo sviluppo economico danneggia l’ambiente.

Si tratta di una tesi che affonda le sue radici nei vari movimenti antisviluppo della fine degli anni Sessanta.

Essa non ha però riscontro nella realtà.

È anzi vero l’opposto: il grado di tutela dell’ambiente dipende direttamente dal livello di benessere economico e sociale delle collettività che si trovano sulle aree considerate.

Certo, il diverso grado di tutela dell’ambiente esistente e la diversa intensità di regolamentazione ambientale dipendono da molti fattori.

Tra questi assumono rilievo il grado di attenzione e di sensibilità ai problemi dell’ambiente e della salute delle collettività e delle autorità di governo; la storia, la cultura e l’identità di ciascun paese e delle collettività che lo compongono; le scelte politiche e di politica economica di carattere generale, collegate ad interessi pubblici in vari settori (turistico, agricolo, industriale, e così via); infine, circostanze occasionali, indirizzi politici di breve periodo, contingenze di carattere locale.

Ma il fattore di gran lunga più importante resta il benessere, generato dallo sviluppo economico.

Il livello di ricchezza raggiunto da un paese influisce infatti in modo determinante sulle condizioni dell’ambiente, sull’esistenza di norme che ne impediscono il deterioramento, sulla predisposizione di mezzi e di strutture per imporne il rispetto, sulla partecipazione della collettività a difendere i valori ambientali .

Osservava provocatoriamente il sociologo Aaron Wildawsky negli anni Settanta che ciò che occorre per vivere bene in un ambiente sano e pulito è, semplicemente, un buon reddito.

È una sintetica versione di quel circolo vizioso che ha posto in evidenza nel 1987 il rapporto della Commissione Mondiale su ambiente e sviluppo (c. d. Rapporto Brundlandt): è vero che l’ambiente deteriorato produce povertà, ma è altrettanto vero che la povertà deteriora l’ambiente .

Questo non vuol dire che il rapporto tra sviluppo economico, benessere e ambiente sia immediato e lineare.

Anzi, l’aumento dell’attività economica e produttiva, che è il generale presupposto dell’aumento del reddito, determina un aumento dell’inquinamento e quindi una fase iniziale di deterioramento dell’ambiente (tutte le società occidentali hanno attraversato, in momenti e con intensità diverse, questa fase).

Ma con l’aumentare del reddito aumenta gradualmente anche la richiesta sociale di un ambiente pulito: chi vive bene economicamente, vuole vivere in un ambiente sano .

A questo punto, le attività produttive inquinanti e i produttori sono gradualmente sottoposti a controllo da parte degli organi pubblici e dalle collettività interessate, e sono permesse solo se i costi del deterioramento ambientale vengono internalizzati, e posti, in tutto o in parte, a carico del produttore: è il noto principio chi inquina paga, che costituisce oggi uno dei cardini della politica ambientale dell’Unione europea .
Le imprese sono così spinte da strumenti legali (norme, regole, sanzioni) o da meccanismi di mercato (incentivi, benefici fiscali, vantaggi competitivi, ecc. ) ad adottare processi produttivi meno inquinanti e quindi a ridurre progressivamente la quantità di inquinamento.

Infine, con l’ulteriore aumento del benessere economico, la richiesta della collettività tende a dirigersi verso prodotti ambientalmente compatibili: si avvia allora una modificazione nei consumi e si determina una riduzione dell’utilizzazione – e quindi della produzione – di beni inquinanti.

Lo studio più ampio effettuato a conferma di questa tesi è stato condotto in Cina.

Qui l’apertura del sistema economico verso il mercato mondiale, verificatasi a partire dal 1991, ha immediatamente portato ad una specializzazione nella produzione di beni che potevano essere realizzati con le tecnologie disponibili e offrivano vantaggi competitivi.

Si trattava di produzioni ad alto potenziale inquinante che hanno determinato un sensibile degrado ambientale.

Ma, non appena il reddito ha cominciato a crescere, le emissioni inquinanti hanno cominciato a diminuire per effetto degli accresciuti controlli, dell’introduzione di nuove più restrittive regole, di richieste delle collettività locali.

Ad un certo punto, gli effetti benefici hanno superato gli iniziali effetti dannosi sull’ambiente.

Lo stesso studio ha anche effettuato una simulazione teorica, cercando di individuare quali sarebbero stati gli effetti sull’ambiente in mancanza del processo di liberalizzazione economica del 1991.

Per la maggior parte delle province cinesi sottoposte all’indagine il risultato è stato che le emissioni inquinanti in rapporto ad unità di prodotto sarebbero cresciute più rapidamente e quindi vi sarebbe stato un maggior degrado ambientale .

Il rapporto tra sviluppo, benessere e ambiente, oltre che non lineare, non è neppure automatico: non c’è un processo continuo che inevitabilmente conduce alla meta del miglioramento delle condizioni ambientali.

Vi sono molti paesi che tentano di porsi sulla strada dello sviluppo e avviano attività produttive in settori che si presentano competitivi sul mercato internazionale e poi rimangono a questo primo livello, e vi rimarranno per molto tempo ancora, prima di raggiungere il risultato finale di effetti favorevoli sull’ambiente.

Le ragioni di questo insuccesso non sono attribuibili allo sviluppo economico, ma ad altre cause: la necessità di pagare i pregressi debiti con l’estero, la presenza di classi politiche corrotte o incuranti dei bisogni della collettività, posizioni di rendita delle classi dominanti sorrette dalla mancanza di sviluppo e dal protezionismo, la mancanza di democrazia, la mancanza di uguaglianza e di certezza nei rapporti giuridici economici e sociali, le spese per armamenti e per guerre inutili e così via.

Sono proprio queste cause che, tenendo lontano lo sviluppo, mantengono le collettività interessate in condizioni di arretratezza e di povertà e favoriscono il lento deteriorarsi dell’ambiente.

Pertanto, il paradiso naturale che secondo gli ambientalisti deve essere protetto dallo sviluppo – l’ambiente dei paesi immuni dal contatto con la globalizzazione – è, in realtà, un luogo immaginario; i luoghi reali sono caratterizzati da condizioni di degrado, miseria e sopraffazione che possono essere migliorate dall’avvio di meccanismi di sviluppo e un attento controllo delle modalità e delle scelte politiche con cui esso viene attuato e gestito.

3. Il mito della fuga dall’Eden: la race to the bottom.

“Uno degli elementi che determinano la globalizzazione è che società multinazionali o transnazionali intendono piazzare attività industriali inquinanti in paesi che non hanno controlli e regole ambientali” .

Così perentoriamente afferma uno dei più noti siti Internet del cartello antiglobalizzazione.

Un’altra delle argomentazioni abituali del pensiero ambientale antiglobalizzazione è infatti che la libertà di commercio e l’integrazione economica e finanziaria producano un flusso delle attività produttive inquinanti dai paesi più ricchi verso i paesi più poveri.

Ciò dovrebbe accadere sia per l’accrescersi della quantità e della rigorosità delle regole di tutela dell’ambiente nei paesi ricchi che determina un effetto di “fuga dai paradisi ambientali” delle attività produttive inquinanti, sia per l’ “offerta di inferni ambientali” da parte dei paesi più poveri costituiti da regole di tutela ambientali meno rigide, e più blandamente applicate: è la cosiddetta race to the bottom.

La globalizzazione quindi dovrebbe condurre verso una polarizzazione ambientale e dovrebbe produrre due fenomeni concatenati: un circolo virtuoso per i paesi ricchi, che avranno paradisi ambientali sempre più tutelati, un circolo vizioso per i paesi poveri che sono destinati a ritrovarsi con inferni ambientali sempre più deteriorati.

Ma anche in questo caso mancano attendibili riscontri empirici.

In realtà, la maggior parte degli studi teorici e pratici esclude che vi sia un fenomeno apprezzabile di fuga dai paradisi ambientali delle attività produttive inquinanti o di race to the bottom dei paesi poveri.

Questi studi in genere esaminano il livello degli investimenti per vari settori di produzione industriali e verificano se gli investimenti in paesi in via di sviluppo sono maggiori per le produzioni particolarmente inquinanti rispetto ad altre produzioni.

Poiché non emerge alcuna significativa differenza nel livello di investimenti, essi escludono l’esistenza di un rapporto di causalità tra incremento della regolamentazione ambientale e fuga delle imprese soggette alla regolamentazione verso i paesi in via di sviluppo.

E la fuga non c’è perché i costi necessari per adeguare il processo produttivo a regole ambientali restrittive sono in generale contenuti (come è stato ampiamente dimostrato da recenti studi finanziati dall’Unione europea ): salvo che per talune produzioni particolarmente inquinanti, concentrate soprattutto nel settore chimico, essi non superano il 2-3% del prezzo finale.

Essi non sono quindi tali da indurre – di per sé soli – le imprese che operano in settori inquinanti a preferire la dislocazione della propria attività produttiva, rinunciando così anche a tutti gli aspetti positivi che i paesi ricchi offrono in termini di incentivi, di finanziamenti, di assistenza tecnologica e di relazioni politiche e commerciali .

Naturalmente, ben diverso è il discorso per quelle attività produttive che sono strettamente legate ad un determinata area geografica: le attività minerarie e petrolifere in primo luogo.

Ma in questo caso non vi è alcun spostamento, né alcuna fuga.

L’attrazione non è fornita dalle scarse regole ambientali dei paesi interessati, ma semplicemente dalla collocazione della risorsa da sfruttare.

Anzi: la trasformazione di ricchezze naturali in disastri ambientali e sociali per le popolazioni interessate (è il caso dello sfruttamento del petrolio nigeriano, dei giacimenti diamantiferi angolani e della Sierra Leone, e così via) è stata una caratteristica del processo di sviluppo capitalistico, fin dal XVI secolo, ed è stata protetta dalla mancanza di globalizzazione.

Essa trova oggi per la prima volta una immediata risonanza e una diffusa opposizione a livello mondiale proprio per la visibilità e la notorietà che a questi fenomeni offre quel potente strumento di globalizzazione che è l’accesso mondiale e immediato alla tecnologia delle comunicazioni.

Per converso è stato osservato che la presenza di regole ambientali rigorose può provocare vari tipi di vantaggio competitivo per le imprese sottoposte a quelle regole.

Infatti la presenza della regolamentazione ambientale spinge le imprese verso una differenziazione qualitativa dei prodotti, e permette – anche limitatamente al mercato interno – la costituzione di nicchie ad alto valore aggiunto per le imprese che intendono realizzare prodotti ambientalmente compatibili, per i quali possono essere ottenuti prezzi più elevati.

Anche sul mercato internazionale regole ambientali rigorose possono determinare effetti positivi in termini di competitività.

Infatti le imprese che intendono adeguarsi alla normativa ambientale dei paesi più ricchi sono costrette a sviluppare processi tecnologicamente innovativi e ciò permette di guadagnare una posizione privilegiata nel mercato internazionale.

Ma soprattutto la presenza di regole ambientali può costituire una efficace barriera a tutela delle imprese nazionali, in quanto impedisce l’importazione di tecnologie o prodotti non compatibili con la normativa nazionale esistente.

La fissazione di standard ambientali elevati per evitare l’inquinamento costituisce così un lecito strumento – anche in presenza di accordi di libero commercio in base ai quali siano vietate tariffe doganali o misure equivalenti – per escludere da un determinato mercato imprese concorrenti che, operando dove le regole sono meno rigorose, non possiedono il know-how tecnologico che le mette in grado di rispettare gli standard.

Si tratta del cosiddetto effetto California, così chiamato perché, in presenza di un mercato interno comune, ma assoggettato a regole ambientali differenti, quale è il mercato degli Stati Uniti, ove ciascuno stato può porre regole ambientali più restrittive, è stata proprio la California, introducendo regole più restrittive ad indurre gli altri Stati ad adeguarsi elevando i propri standard ambientali, in modo da non escludere le proprie imprese dalla possibilità di esportare verso lo stato californiano .

La regolamentazione ambientale può così costituire non la causa dell’esodo delle imprese verso i paesi in via di sviluppo, ma addirittura un polo d’attrazione per attività produttive: può quindi determinare non una race to the bottom dei paesi in via di sviluppo, ma una race to the top dei paesi ricchi.

In altri termini essa costituisce, se mai, una muraglia protettiva che – come le antiche mura medioevali – in una situazione di liberalizzazione dei mercati proteggono i paradisi ambientali e coloro che hanno la fortuna di viverci dall’accesso e dalla competizione di attività o produzioni estranee degradanti e non compatibili con le regole vigenti.

Per questo, molti considerano la attuale situazione di degrado ambientale dei paesi in via di sviluppo il frutto non della globalizzazione, ma della mancanza di globalizzazione.

In realtà, non bisogna dimenticare che i vantaggi che ciascun paese offre per attirare investimenti o attività produttive – e inversamente gli svantaggi che pone per respingerli – sono tanti e di tipo diverso: possono riguardare il funzionamento del sistema creditizio e finanziario, il funzionamento del sistema giudiziario (che richiederebbe un discorso a parte: per diverse ragioni possono fungere da elemento di attrazione sia la disfunzionalità e la corruttibilità dei giudici, sia la rapidità, l’efficienza e l’onestà del sistema giudiziario), la trasparenza del sistema amministrativo, l’organizzazione del mercato del lavoro e il costo del lavoro, il livello di sviluppo tecnologico, delle comunicazioni e dei trasporti, la generale stabilità economica e politica, ed anche (ma come si è visto in limiti assai contenuti) la regolamentazione ambientale per il controllo dell’inquinamento.

Ciascuno di questi elementi può attrarre o respingere investimenti e iniziative economiche di altri paesi (e questo vale sia per i paesi poveri che per i paesi più ricchi).

4. Il mito del risanamento ambientalmente nocivo: politiche di risanamento economico e degrado ambientale.

La terza ricorrente argomentazione ha per oggetto le riforme economiche e monetarie, di risanamento economico e di riequilibrio della bilancia dei pagamenti che molti paesi in via di sviluppo hanno dovuto adottare a partire dall’inizio degli anni Ottanta, costretti dal pesante indebitamento con l’estero e dalle condizioni poste dagli istituti finanziari internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) per riassestare il bilancio interno, e per ottenere la concessione di nuovi finanziamenti e per attirare investimenti.

Molti sono convinti che l’adozione di queste politiche sia la conseguenza della globalizzazione (vi sono anzi alcuni che ritengono che il processo di globalizzazione è stato avviato proprio per dare una struttura di sostegno a questi centri decisionali).

In realtà, l’adozione di queste politiche è stata in gran parte la conseguenza della gestione disastrosa operata dai governi dei paesi dissestati, che hanno sperperato finanziamenti e capitali per mantenere ed arricchire le elite politiche o militari, finanziando opere inutili e guerre dissennate,.

Ma, a prescindere dalle ragioni per le quali molti paesi hanno dovuto avviare processi di risanamento, il mito del risanamento nocivo sostiene che questi processi hanno provocato gravissimi danni ambientali e distruzione di risorse.

Con specifico riferimento ai dati ambientali, molti studi sono stati condotti negli anni Novanta e i risultati ottenuti – pur offrendo un panorama assai diversificato – non confermano la fondatezza di queste opinioni.

Una rassegna compiuta nel 1995 sugli studi e le indagini effettuate a partire dagli Ottanta su questo tema osserva che le prime ricerche, tutte orientate nel senso che gli interventi di risanamento economico avevano prodotto effetti negativi sulle condizioni ambientali dei paesi interessati, sono successivamente state smentite da studi che hanno raggiunto conclusioni assai più dubitative (in questo senso, per esempio, si sono pronunciati sette case-studies finanziati dall’OCSE e pubblicati nel 1992 ).

Questi studi successivi hanno evidenziato che questi interventi hanno avuto effetti di vario tipo, positivi e negativi, sulle condizioni ambientali e che tali effetti sono dipesi da una molteplicità di fattori, tra i quali le condizioni politiche e sociali dei singoli stati in cui questi interventi vengono effettuati, le condizioni preesistenti, i sistemi giuridici e culturali che fungono da contesto all’intervento.

Ci sono in proposito alcune indagini promosse dalla Banca Mondiale.

Una prima indagine del 1989, riferita alla prima parte degli anni Ottanta, conclude che le politiche di risanamento economico bei PVS, ben lungi dall’essere state una causa di degrado ambientale, hanno favorito la protezione dell’ambiente.

Ad analoghe conclusioni, anche se formulate con maggior cautela, perviene l’aggiornamento di questa indagine per il periodo 1989-1992: “il risanamento è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una corretta gestione e protezione dell’ambiente” .

Entrambi questi studi hanno attirato molte critiche rivolte in particolare alla metodologia adottata.

La Banca Mondiale ha così promosso una serie di ricerche sul campo, allo scopo di dare conferma dei risultati raggiunti.

I risultati di questo secondo gruppo di studi – condotti su varie realtà ove sono stati sperimentati diversi metodi di risanamento, tra cui Indonesia e Messico – sono però più ambigui, anche se tutti escludono che le politiche di risanamento economico siano la causa diretta o principale di problemi ambientali.

Ad analoghe conclusioni portano studi promossi dal World Resource Institute( si tratta di un case-study sulle politiche di risanamento attuate nelle Filippine) e dal WWF.

Quest’ultimo, in particolare, ha finanziato tre studi in Costa d’Avorio, Messico e Tailandia, raccolti successivamente in un unico volume .

Gli studi giungono a conclusioni simili: le politiche di risanamento hanno avuto effetti sia positivi che negativi sull’ambiente e sull’uso delle risorse naturali.

In conclusione, i dati e le ricerche condotte non offrono conferma neppure della terza argomentazione esaminata, secondo la quale le politiche di risanamento o le riforme economiche e monetarie attuate nell’ambito del processo di globalizzazione abbiano prodotto o producano degrado ambientale.

5. E se la globalizzazione facesse bene all’ambiente?

Sulla base dell’esame appena compiuto, risulta che la diffusa convinzione secondo cui il processo di integrazione economica e finanziaria a livello globale attualmente in corso produce degrado ambientale non trova conferme negli studi e nelle ricerche a disposizione.

Anzi: risulta ben più fondata la tesi secondo cui la globalizzazione apre una porta ed offre le possibilità per migliorarlo o evitarne il degrado; poi, le modalità adottate per varcare la soglia e quello che si troverà, una volta entrati, dipendono in gran parte da ciascun paese interessato: dalle sue condizioni economiche, sociali e culturali, ma anche – nel breve periodo – dalle scelte e dalla volontà politica e dalle strategie in concreto poste in essere dalle classi dominanti e dai governi in carica.

Del resto, è questa la posizione assunta da tutti gli organismi internazionali che si sono occupati dell’argomento, apparsi dopo la dichiarazione contenuta in Agenda 21 adottata alla conferenza delle Nazioni Unite su “ambiente e sviluppo” tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992: “un sistema commerciale aperto e multilaterale rende possibile una migliore allocazione e una più efficiente utilizzazione delle risorse e contribuisce in questo modo ad un aumento della produzione e del reddito, e ad attenuare la pressione sull’ambiente” .

A questo proposito, e pur mancando serie e documentate ricerche comparative, le vicende del secolo appena trascorso dimostrano che c’è una forte correlazione tra assenza di democrazia (in tutte le sue varianti) e di strutture di partecipazione, mancanza di libertà civile ed economica, mancanza di un clima normativo ed economico prevedibile e deterioramento dell’ambiente .

La protezione dei diritti umani, della posizione delle donne e della proprietà, il rispetto della legge, la lotta all’inflazione e alla corruzione, offrono non solo una via d’uscita dalla povertà e le premesse per innalzare il livello di reddito, ma anche la possibilità di frenare la distruzione dell’ambiente e di controllarne il deterioramento.

Dove governi democraticamente eletti si propongono di evitare corruzione e inflazione e la dilapidazione delle risorse pubbliche in spese inutili, dove la partecipazione della collettività dei cittadini è consentita e i diritti delle donne sono rispettati, dove il sistema giudiziario è davvero indipendente, lì ci sono le maggiori probabilità di un innalzamento delle condizioni economiche di vita, e quindi di miglior educazione e di maggiore istruzione e di sviluppo di una opinione pubblica libera e attenta anche alle esigenze della tutela dell’ambiente protetto da regole che controllano i fenomeni di inquinamento.

Proprio sulla base di queste esperienze, negli ultimi venti anni, in sintonia con il tumultuoso intensificarsi del processo di integrazione economica e commerciale a livello globale, si è assistito all’emergere di una global governance, di un ordine pubblico globale, che sfugge al dominio e al controllo degli Stati, e che cerca invece in parte di porre parte le basi giuridiche per lo sviluppo del processo di integrazione economica, e ne è quindi il sostegno; ma per altri versi è rivolto a tenere sotto controllo questo processo, ad indirizzarlo, a stabilirne le regole e i limiti, con l’obiettivo di creare un quadro di riferimento internazionale che favorisca, promuova e ove necessario imponga il rispetto dei diritti umani e dei fondamentali diritti civili.

Come osserva Sabino Cassese, “globalizzazione e global governance vanno intesi come fenomeni diversi e persino contrapposti, pur se vanno nella stessa direzione, di sottrarre una parte del diritto al suo abituale sovrano, lo Stato” .

Per ciò che riguarda l’ambiente, il crescere e l’affermarsi dell’ordine pubblico globale è stato contraddistinto da un consistente aumento di accordi internazionali: sono stati stipulati oltre duecento accordi multilaterali (cioè tra più di due paesi), e oltre un migliaio di accordi a livello regionale, bilaterale o locale.

Il processo di globalizzazione quindi ha sollecitato e in molti casi imposto una intensa attività di regolamentazione ambientale a diversi livelli .

Basti pensare che nei paesi che appartengono all’Unione Europea la grande maggioranza delle disposizioni ambientali deriva da normative poste a livello comunitario.

Questo significa che, in mancanza di un livello sopranazionale vincolante, in tutti questi paesi le condizioni dell’ambiente sarebbero oggi di gran lunga peggiori di quanto non siano.

Non solo: poiché in tutti i paesi dell’Unione il livello di disapplicazione delle normative comunitarie è ancora assai alto (o perché non vengono formalmente recepite, o perché vengono recepite in modo parziale, o perché, seppur recepite, non vengono applicate), il livello della tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini nei vari paesi sarebbe ancora migliore, se i poteri dell’Unione fossero ancora più vincolanti e cogenti.

E un discorso parzialmente analogo può farsi per ciò che riguarda la normativa sovranazionale e internazionale in genere.

Proprio a seguito di questa attività di individuazione di cornici istituzionali a livello internazionale negli anni Novanta del secolo scorso si sono affermati concetti del tutto nuovi, come quello di “preoccupazione comune” degli stati, fino a raggiungere la formulazione definitiva di “responsabilità condivisa ma diversificata” per la conservazione e il miglioramento dell’ambiente, in considerazione del diverso impatto che i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo hanno sull’attuale degrado ambientale .

Questa esplosione di regolamentazione sovranazionale in materia ambientale è avvenuta in tempi assai rapidi e in modo disorganico e confuso.

Ancora manca, anche se nella comunità e nell’organizzazione internazionale è possibile intravederne le tracce, un progetto politico ed istituzionale globale che ponga le regole e i limiti della globalizzazione, valorizzandone gli aspetti positivi ed evitandone quelli negativi.

6. Le ragioni di fondo: la strategia del disastro.

Le conclusioni che abbiamo appena raggiunto danno una risposta alla domanda dalla quale avevamo preso le mosse, ma propongono immediatamente una diversa questione: perché, se le cose stanno così, l’opinione pubblica dei paesi ricchi è così convinta che la globalizzazione danneggi l’ambiente?

Pur meritando la questione una trattazione assai più ampia, mi limito qui a prospettare una spiegazione, che rinvia all’influsso esercitato dalle organizzazioni ambientaliste che operano a livello internazionale.

Tutte queste organizzazioni – sia pure con differenti sfumature teoriche, e ancor di più con notevoli differenze tra la teoria e la pratica – hanno assunto posizioni ufficiali secondo cui la globalizzazione e la liberalizzazione economica costituiscono un grave pericolo e provocherà in un prossimo futuro enormi danni all’ambiente.

Proprio per questo esse fanno parte di quel composito schieramento anti-globalizzazione che vede marciare sotto una stessa bandiera movimenti religiosi e pacifisti, partiti e gruppi nazionalisti e xenofobi (la globalizzazione distrugge l’identità e il patrimonio culturale), organizzazioni di sinistra (la globalizzazione è solo un nuovo aspetto dell’imperialismo), movimenti sostenitori delle politiche protezioniste (assai forti tra i principali destinatari delle politiche protezionistiche occidentali, cioè gli agricoltori) .

Sono posizioni che si amalgamano con quella strategia – che altrove ho qualificato “strategia del disastro” – in base alla quale le organizzazioni ambientaliste hanno trasformato problemi globali reali o meno reali in questioni epocali, atte a catturare l’attenzione e il sostegno del pubblico e delle organizzazioni internazionali.

Questa strategia adottata dalle organizzazioni ambientaliste è stata estremamente efficace: molte organizzazioni ambientaliste sono oggi riconosciute come attori a livello internazionale alla pari degli stessi stati e godono oggi di prestigio e di credibilità a livello mondiale; sono ammesse di routine alle trattative riguardanti gli accordi internazionali sull’ambiente e la loro implementazione (dove può addirittura accadere che i rappresentanti degli stati debbano operare in qualità di intermediari allo scopo di ricomporre le prospettive conflittuali delle diverse Organizzazioni non riconosciute che partecipano alle discussioni; inoltre, hanno conseguito un notevole potere politico finanziario e oggi sono sicuramente più potenti di decine di stati presenti sulle carte geografiche del mondo.

Purtroppo la scelta di una strategia del disastro, una volta attuata, è difficile da abbandonare o da modificare.

Ed essa ha imposto la scelta di campo sulla questione dell’antiglobalizzazione, pur in presenza di opzioni non solo più ragionevoli, ma anche più corrispondenti agli stessi interessi dell’ambiente e delle organizzazioni ambientaliste.

Ed infatti, la posizione assunta dalle organizzazioni ambientaliste sul tema della globalizzazione presenta aspetti paradossali.

Essa infatti collide con la stessa ragione che ha determinato l’affermazione delle organizzazioni ambientaliste a livello internazionale, e cioè la crescente incapacità degli Stati nazionali di affrontare e risolvere la maggior parte dei problemi ambientali, o perché inadeguati per le loro dimensioni o per i ridotti mezzi economici a disposizione, o perché incapaci per i vincoli indotti dagli interessi di cui devono tenere conto: il formarsi e l’affermarsi di una dimensione globale, sia istituzionale che economica, è stato quindi sempre indicato proprio dalle organizzazioni ambientaliste come il modo migliore per ottenere una efficace tutela dell’ambiente ed efficaci risposte alle emergenze globali.

L’aspetto paradossale della posizione delle organizzazioni ambientaliste si accentua, se si tiene conto che esse – come si è detto – partecipano attivamente alla sempre più intensa attività sovranazionale in materia ambientale, sicché, contribuendo alla predisposizione e stipulazione di accordi multilaterali e internazionali, sono tra i più importanti attori di quel mondo globalizzato che per altro verso, combattono.

Bisogna dire che molte organizzazioni ambientaliste si stanno gradualmente rendendo conto della necessità di conciliare le due posizioni di nemico della globalizzazione e di attore del mondo globale, e di abbandonare un cartello popolato da alleati scomodi: Greenpeace per esempio ha scelto la strada di rivendicare il proprio ruolo e i propri successi a livello internazionale, e nel contempo di opporsi alla “attuale forma di globalizzazione che aumenta il potere delle multinazionali” conducendo “a ulteriori inequità ambientali e sociali e minacciando i diritti civili e democratici” , operando così un sostanziale ravvicinamento alle posizioni ufficiali delle principali organizzazioni internazionali.

È un passo importante verso una scelta di partecipazione all’elaborazione di un progetto di global governance che indirizzi e controlli la globalizzazione.

Questo progetto non può che essere il prodotto delle volontà politiche dei paesi poveri, dei paesi ricchi e delle varie organizzazioni internazionali – comprese le organizzazioni ambientaliste – e di tutti coloro che hanno interesse a che la porta aperta dalla liberalizzazione sia utilizzata in modo da portare benefici all’ambiente su scala locale e globale.