A CHI SERVONO I PRODOTTI GENETICAMENTE MODIFICATI?

Attentato all’integrità della natura o espressione dell’ingegno umano?

Strumento di distruzione o di incremento della biodiversità?

Mezzo per sottoporre l’agricoltura mondiale al controllo di poche multinazionali, o panacea per eliminare il problema della fame?

Queste le alternative che si contrappongono nelle discussioni in merito alle ricombinazioni genetiche applicate all’agricoltura e dei relativi prodotti agricoli.

Fin dall’inizio degli anni Settanta, quindi ben prima della loro immissione sul mercato, i prodotti agricoli geneticamente modificati con la tecnica del Dna ricombinante, che chiameremo d’ora innanzi Pagm, sono stati al centro di uno scontro che ha riguardato non solo e non tanto le regole più appropriate da applicare per utilizzare questi prodotti garantendo la sicurezza dell’ambiente e la salute dei consumatori, ma l’ammissibilità da un punto di vista etico e ambientale della loro produzione e del loro uso: un vero e proprio scontro ideale tra opposte visioni del mondo.

Attualmente, i Pagm sono divenuti, con una crescita costante, una componente importante della produzione agricola mondiale (anche se le aree agricole interessate sono concentrate per il 99% in soli tre Paesi: Stati Uniti, Argentina e Canada): complessivamente erano coltivati con Pagm nel 1996 1,7 milioni di ettari, divenuti 11 milioni nel 1997, 27,8 milioni nel 1998, e 39,9 milioni nel 1999.

Lo scontro tra sostenitori e oppositori dei Pagm non è però diminuito di intensità: neppure i disastri di Three Miles Island e di Cernobyl hanno determinato nell’opinione pubblica una ostilità nei confronti dell’energia nucleare analoga a quella esistente nei confronti degli Ogm.

Il confronto si è però spostato dalla ammissibilità teorica dell’uso dei Pagm ai problemi connessi con il loro uso concreto.

Così, i temi di carattere scientifico, giuridico, agricolo, ambientali, economico hanno sostituito gli aspetti etici e politici, anche se questi ultimi non sono affatto scomparsi.

Anzi, nella maggior parte dei casi le prese di posizione sono ancora determinate non dall’acquisizione di dati scientifici e da valutazioni razionali, ma da scelte di campo operate pregiudizialmente e fideisticamente in base a quei postulati etici o politici formalmente scomparsi.

Si è anche verificata una radicalizzazione geografica, ed è penetrata nelle relazioni internazionali, materializzandosi nella contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Europea in merito alla coltivazione e alla commercializzazione di Pagm.

Quest’ultima mantiene infatti una posizione di sostanziale blocco dell’utilizzazione di Pagm.

Infine ha acquisito una decisiva importanza nel dibattito la valutazione degli effetti della utilizzazione di Pagm per affrontare il problema della sottonutrizione e della fame nei Paesi in via di sviluppo (d’ora in poi Pvs ) e più in generale sull’aumento della popolazione mondiale.

Ed è su quest’ultimo punto che intendo soffermarmi.

INCROCI TRADIZIONALI E PAGM

Tutte le attuali coltivazioni sono il risultato di lente e continue selezioni operate attraverso i secoli, finalizzate a migliorare la produttività, i valori nutrizionali, la resistenza alle malattie, il gusto, ed anche l’odore e il colore.

Ciò significa che oggi tutti i prodotti dell’agricoltura sono diversi dalle specie originarie, dal loro “prototipo” naturale.

La maggior parte di essi – in Europa oltre il 90% – deriva da specie che hanno avuto origine in luoghi diversi da quelli in cui esse sono attualmente coltivate, e sono quindi state importate nei luoghi ove sono attualmente coltivate modificando in modo sostanziale e irreversibile le condizioni naturali originarie.

Inoltre, molte delle specie da cui hanno tratto origine quelle oggi coltivate sono estinte: sopravvivono ormai solo gli incroci.

In Europa, più del 90% dei prodotti alimentari appartiene a questa categoria.

Gli incroci e le clonazioni effettuati con tecniche tradizionali hanno lo stesso obiettivo degli organismi prodotti con l’ingegneria genetica, cioè con tecniche consistenti nell’estrarre (con varie modalità (1) il Dna corrispondente a uno o più geni specifici da un organismo “donatore” e nell’inserirlo nella cellula di un organismo ricevente.

L’obiettivo è quello di ottenere varietà che offrono una resa quantitativamente o qualitativamente migliore, incrementando la resistenza alle condizioni ambientali in cui viene coltivata (per esempio aridità del terreno, temperature più basse o più elevate di quelle necessarie per la coltivazione della varietà non modificata), oppure incrementando la resistenza a parassiti o malattie proprie della specie su cui si interviene, o infine incrementando la resistenza a prodotti pesticidi o antiparassitari che debbono essere utilizzati.

L’obiettivo può anche essere quello di ottenere varietà vegetali più pregiate perché gustose, più gradevoli e attraenti (è per questo che la carota, da viola, è stata resa arancione).

Sia gli incroci tradizionali che i Pagm sono basati sulla modificazione del patrimonio genetico della specie oggetto dell’intervento.

Per i primi ciò si realizza con il trasferimento casuale, incontrollato e potenzialmente rischioso, di migliaia o diecine di migliaia di geni; per i secondi con l’inserimento mirato di uno o più geni predeterminati.

Proprio per la casualità del risultato, l’incrocio di specie effettuato secondo metodi tradizionali ha in vari casi prodotto nuove specie tossiche per l’uomo, o specie più resistenti a determinati parassiti e in taluni casi le specie incrociate hanno determinato l’estinzione delle specie originarie.

In effetti, non vi è prodotto alimentare, comunque ottenuto, che sia esente da rischi: ogni varietà vegetale può produrre effetti indesiderati e talvolta dannosi.

Sotto questo profilo non c’è differenza tra pratiche tradizionali e nuove tecnologie.

Questo significa che è privo di senso imputare questo pericolo solo agli incroci ottenuti con tecniche di ricombinazione genetica, dopo che per centinaia di anni, in considerazione dei benefici, si sono sopportati i rischi degli effetti dannosi degli incroci tradizionali.

Vi è però una differenza tra varietà vegetali ottenute con incroci tradizionali e Pagm.

Le pratiche tradizionali sono vincolate al rispetto dei limiti di compatibilità delle specie: solo specie che si assomigliano possono essere incrociate al fine di ottenere varietà nuove e diverse, mentre specie non compatibili, come pure specie appartenenti a generi (vegetale ed animale) diversi, non posso essere incrociate.

Al contrario, le tecnologie che utilizzano il Dna ricombinante possono essere utilizzate per ottenere modificazioni genetiche che non sarebbe possibile ottenere avvalendosi di pratiche tradizionali, inserendo in specie o varietà vegetali geni estratti da batteri o altri organismi animali, e realizzare così i c. d. organismi transgenici.

Naturalmente, il fatto che con le tecniche di ingegneria genetica si riescano ad ottenere incroci che non si possono ottenere con le tecniche tradizionali non significa che solo i primi incroci siano “innaturali”.

Se natura è la realtà non toccata o non trasformata dall’uomo, non c’è alcuna differenza tra tecniche tradizionali e tecniche di ingegneria genetica: entrambe creano prodotti innaturali: in entrambi i casi l’uomo si è sostituito alla natura o a Dio (utilizzando le tecniche di volta in volta messe a disposizione dal progresso scientifico e tecnologico).

La differenza – e quindi l’eventuale diverso trattamento giuridico – è quindi tra prodotti alimentari parimenti innaturali, ma gli uni ottenuti artificialmente con tecnologie utilizzate da migliaia d’anni, gli altri ottenuti artificialmente, ma con tecnologie che solo da pochi decenni sono a disposizione.

È solo in questa differenza e nei loro specifici effetti – se esistono – che dovrebbero essere individuate le ragioni che determinano l’accettabilità degli incroci tradizionali e l’inaccettabilità dei Pagm, e quindi divieti o limitazioni alla coltivazione o alla commercializzazione di questi ultimi, sotto il profilo del pericolo per l’ambiente, o per la salute.

POPOLAZIONE E AGRICOLTURA MONDIALE

Sulla terra vivono più di 6 miliardi di esseri umani; erano 3 miliardi e mezzo solo nel 1968.

L’aumento della popolazione è dovuto al generalizzato aumento dell’aspettativa di vita per effetto delle migliori condizioni di igiene, di assistenza sanitaria, alla maggiore disponibilità di acqua, al ridursi dell’inquinamento.

Il tasso di aumento della popolazione mondiale è oggi 1,3-1,4% (era 2,1% nel 1968).

Al tasso di crescita attuale, la popolazione mondiale è destinata a raddoppiare in cinquant’anni: questo significherebbe 12 miliardi di persone nel 2050, ma è probabile che il tasso decresca nel prossimo futuro (con il migliorare delle condizioni di vita, soprattutto delle donne) e quindi l’aumento della popolazione sia più contenuto.

Secondo previsioni delle Nazioni Unite si dovrebbe giungere a una popolazione di circa 8 miliardi nel 2025 e di 9 o 10 miliardi nel 2050 (quando 9 persone su 10 vivranno nei Pvs ), con una stabilizzazione finale a 11 miliardi verso il 2200 (2).

Prima del XX secolo, l’aumento della produzione agricola era determinato quasi esclusivamente dall’aumento delle aree coltivate.

A partire dagli anni Trenta, con l’avviarsi dell’utilizzazione pratica di nuove tecniche di ibridazione e con la creazione di nuove varietà delle specie più coltivate più resistenti o più prolifiche, comincia ad aumentare la produttività, prima negli Stati Uniti, poi, più tardi, in Europa e in Giappone.

Utilizzando queste tecniche, tra il 1935 e il 1975 la produzione di granturco aumenta negli Stati Uniti del 60%.

A partire dalla fine degli anni Sessanta, proprio la progettazione e l’utilizzazione di nuove varietà più produttive o più resistenti (che rendono possibile il passaggio da uno a due raccolti all’anno), insieme all’uso dell’azoto come fertilizzante e insieme a consistenti investimenti in opere di irrigazione sono le componenti della c. d. Rivoluzione verde che dapprima coinvolge l’Asia e l’America Latina e comincia a far sentire i suoi effetti in Africa negli anni Novanta.

Tre colture – frumento, granturco e riso – sono state l’oggetto principale della Rivoluzione verde; essenzialmente per l’aumento della loro produzione nel corso dei trent’anni è stata evitata quella crisi da mancanza di cibo nei Pvs che Ehrlich aveva previsto come inevitabile.

Queste colture oggi coprono circa la metà di tutte le terre coltivate (circa il 35% della superficie terrestre, escluse le ragioni polari); esse inoltre costituiscono le principali fonti di nutrizione della popolazione mondiale e compongono la maggior parte delle calorie presenti nella dieta umana (3).

A partire dal 1967, la produzione di queste colture è aumentata tra il 79% e il 97% solo per effetto della maggior resa ottenuta utilizzando le nuove varietà, i fertilizzanti chimici azotati e moderne tecniche di irrigazione, e solo per una minima parte per l’aumento delle aree coltivate (in mancanza di aumento della produttività, per raggiungere lo stesso risultato si sarebbe dovuta destinare ad uso agricolo un’area pari all’intera Amazzonia (4), e questo dimostra gli incalcolabili benefici di carattere ambientali provocati dalle tecnologie impiegate nella Rivoluzione verde).

Nel periodo di circa quarant’anni la popolazione è effettivamente raddoppiata, ma è più che raddoppiata la disponibilità di cibo, sia pure in modo diseguale tra Paesi sviluppati e Pvs.

Il risultato è che nei Paesi sviluppati il problema è non la carenza, ma l’eccesso di cibo: infatti i prezzi dei prodotti alimentari, proprio per l’abbondanza dell’offerta rispetto alla domanda, sono diminuiti in media di circa due terzi rispetto al prezzo del 1957 (la rallentata crescita della produzione di cibo nella seconda metà degli anni Novanta non dipende – come molti ritengono – dall’esaurirsi degli effetti della Rivoluzione verde, ma da deliberate scelte di politica agricola dei Paesi ricchi, che hanno così cercato di limitare il surplus) (5).

Inoltre, proprio per effetto dell’aumento della quantità di cibo disponibile e della diminuzione dei prezzi si è ridotto, come abbiamo visto, il numero di persone cronicamente sottonutrite nel mondo: erano – secondo stime delle Nazioni Unite che però molti esperti hanno giudicato non attendibili – oltre 900 milioni all’inizio degli anni Settanta, sono nel 1997 circa 800 milioni di persone (6).

Naturalmente, la Rivoluzione verde non è stata priva di effetti di carattere ambientale, economico e politico.

Essendo determinata da tecnologie ad alto uso di energia e di know-how, ha rimpiazzato le tecniche agricole semplici e spesso a conduzione famigliare; favorendo monoculture intensive, ha ridotto l’autonomia agricola locale e regionale, creando nuove forme di dipendenza e immettendo gli agricoltori in un sistema di banche di sementi, fertilizzanti, macchine agricole, finanziamenti, organizzazioni politiche; ha creato vincitori e vinti su scala mondiale, privilegiando coloro che sono riusciti a tenere il passo con i Paesi ricchi e danneggiando chi non ci è riuscito: nel 1950 l’agricoltura dei Paesi ricchi era sette volte più efficiente di quella dei Paesi poveri; nel 1985, trentasei volte (7).

LA PRODUZIONE DEL CIBO

Le previsioni concernenti la quantità di cibo disponibile nel futuro sono di estrema importanza per valutare se i Pagm siano utili o indispensabili per affrontare il problema della nutrizione dell’accrescersi della popolazione mondiale o quantomeno per evitare un incremento delle persone sottonutrite e affamate nel mondo.

Sono previsioni ardue, sia per la molteplicità di fattori da considerare (oltre a quello strettamente agroalimentare, si deve tener conto degli aspetti climatici, economici, politici e di relazioni internazionali), sia per i diversi e spesso non dichiarati interessi degli esperti e degli scienziati proprio con riferimento all’impiego di tecniche genetiche (in quanto i sostenitori di queste ultime tendono ad accentuare la probabilità di un futuro peggiore dell’attuale, mentre gli oppositori favoriscono ipotesi ottimistiche).

Così, è prima di tutto assai incerto uno dei dati di partenza di qualsiasi previsione e cioè la quantità delle persone sottonutrite nel futuro.

Secondo il Rapporto Transgenic plants and world agriculture, predisposto dalla Royal Society del Regno Unito (nettamente favorevole all’utilizzazione dei Pagm) l’attuale cifra di 800 milioni di persone sottonutrite è destinata a raddoppiarsi nel 2050, se non interverranno consistenti modificazioni sulle cause che generano la sottonutrizione.

Secondo altre stime (Fao) il numero complessivo delle persone sottonutrite dovrebbe continuare a calare, riducendosi nel 2050 a 600 milioni.

Pur essendo questa contrapposizione di tali dimensioni da rendere di per sé solo arduo qualsiasi esercizio previsionale, su un dato però vi è un sostanziale accordo tra tutti gli specialisti: futuri aumenti della produzione agricola dovranno basarsi su un aumento della produttività, e non su una estensione dei territori destinati all’agricoltura, per due ragioni.

Prima di tutto, perché le aree utilizzabili per l’agricoltura sono già scarse, e continuano a diminuire, sia per cause naturali (erosione, mancanza di acqua, desertificazione, ecc. ), sia per l’assoggettamento ad altre destinazioni.

In secondo luogo perché una estensione delle aree destinate all’agricoltura oltre i limiti attuali produrrebbe costi economici e organizzativi difficilmente sopportabili per molti Paesi e, inoltre, un aumento non sostenibile dell’inquinamento ambientale (per effetto della distruzione delle foreste, dell’habitat naturale e della biodiversità).

La questione centrale è quindi se sia possibile un aumento della resa delle coltivazioni adottando le stesse tecniche introdotte dalla Rivoluzione verde (e quindi senza utilizzare le nuove tecnologie genetiche), senza provocare danni non sostenibili all’ambiente, in modo da soddisfare il prevedibile aumento della domanda dovuto all’aumento della popolazione mondiale.

Molti studi sono stati fatti per verificare quale sia la produttività massima raggiungibile con le tecniche agricole attualmente utilizzate; tenendo conto della produttività massima raggiunta dalle varie specie nelle migliori condizioni ambientali e tecnologiche possibili, la conclusione più diffusa è che non potranno essere superati di molto i livelli raggiunti attualmente dalle colture più produttive nei Paesi più avanzati, se non introducendo nuove sofisticate tecnologie che permettano di intervenire sull’efficienza della fotosintesi e sul metabolismo delle piante.

Le previsioni però non sono per nulla pessimistiche.

Secondo la maggior parte degli esperti l’obiettivo di raggiungere una produzione sufficiente per soddisfare la domanda mondiale di circa 8 miliardi di persone nel 2025 può essere raggiunto senza aumentare il terreno coltivato e utilizzando le tecniche attualmente in uso, anche se saranno necessari imponenti opere di estensione delle infrastrutture di irrigazione, sofisticati processi di razionalizzazione nel raccolto, nella conservazione e nella distribuzione dei prodotti alimentari, e la eliminazione degli sprechi che ora caratterizzano il sistema agroalimentare mondiale.

In definitiva la situazione mondiale per ciò che riguarda la produzione globale di cibo dovrebbe continuare a migliorare (8).

MOLTO CIBO, MAL DISTRIBUITO

Il fatto che la quantità globale di cibo sarà complessivamente sufficiente a far fronte alla domanda globale della popolazione nei prossimi tre-quattro decenni non è di per sé sufficiente a concludere che sarà risolto il problema della fame nel mondo.

Infatti, la produzione di cibo non è distribuita uniformemente in rapporto alla popolazione e alle previsioni di crescita.

Anzi: si è visto che la produzione di cibo è già oggi sovrabbondante nei Paesi ricchi, dove l’aumento della popolazione sarà esiguo, mentre è deficitaria nei Paesi poveri – soprattutto in Africa e in Asia – dove è previsto il più alto tasso di crescita della popolazione.

Per queste ultime aree non sarà prevedibilmente possibile ottenere un aumento della produzione di cibo che soddisfi le necessità della aumentata popolazione.

Pertanto per soddisfare la domanda di cibo sarà necessario – se non si ipotizzano altre soluzioni – realizzare efficienti processi di trasferimento di cibo dai Paesi ricchi (ove la produzione è in eccedenza) ai Pvs.

“Non si getta via la minestra, perché la gente muore di fame”.

Questo ammonimento impartito dai genitori ai figli della mia generazione (negli anni Cinquanta del secolo scorso), dovrebbe quindi essere destinato a divenire di pressante attualità nel futuro.

Ma è difficile trasferire la minestra avanzata nelle case dei Paesi ricchi verso le capanne dei Paesi poveri.

Pertanto è proprio sulla realizzabilità del trasferimento che si concentrano le maggiori preoccupazioni.

Non è infatti assolutamente chiaro come questo trasferimento potrà essere realizzato e garantito, sotto vari punti di vista: dal punto di vista commerciale e della global governance, posto che attualmente il commercio mondiale dei prodotti alimentari è stato solo sfiorato dal vento di libertà e di libera concorrenza portato dalla globalizzazione (non casualmente, potendo essere la libera concorrenza in questo settore devastante per le economie dei Paesi ricchi); dal punto di vista organizzativo-logistico; infine, dal punto di vista meramente economico, posto che certamente gli affamati dei Pvs non sono in grado di acquistare sul mercato mondiale le derrate alimentari prodotte nei Paesi ricchi.

In definitiva, le previsioni, seppur rassicuranti e addirittura ottimistiche per ciò che riguarda la produzione di cibo, non risolvono il problema essenziale, e cioè quello di far incontrare l’abbondante offerta con l’abbondante domanda; ma nessuno indica la strada per risolvere questo problema.

Molti però ritengono che non sia questo il problema.

POLITICHE AGRICOLE PER I PVS:L’UTILITÀ DEI PAGM

L’idea che i problemi alimentari futuri debbano o possano risolversi trasferendo cibo dai Paesi ove è sovrabbondante ai Paesi ove manca è ritenuta da molti irrealizzabile e errata.

Costoro osservano che la vera causa della fame non è la mancanza di cibo: è la diseguaglianza.

È questo per esempio il pensiero di Amartya Sen secondo il quale non vi è collegamento tra mancanza di cibo e fame: la storia insegna che la gente muore di fame in presenza di sovrapproduzione di cibo al quale però non ha accesso per mancanza di mezzi (9).

La causa della fame non è quindi la mancanza di cibo, è la povertà.

Il problema non sta dalla parte dell’offerta, sta dalla parte della domanda.

Aumentare la produzione di cibo con le stesse modalità con le quali viene prodotto oggi sarà inutile in futuro, come lo è oggi: il cibo non viene trasferito da chi lo ha a chi non lo ha, perché il trasferimento costa troppo e perché chi non produce cibo non ha neppure i mezzi per comprarlo sul mercato mondiale.

La fame è determinata quindi, come oggi sostengono gli ambientalisti a differenza di qualche decennio fa, non da condizioni naturali e dalla mancanza di cibo, ma dall’inefficienza e dalla corruzione dei governi, dalle guerre, dalla mancanza di mezzi per procurarsi il cibo (10).

In questa prospettiva, ciò che risulta necessario per realizzare l’obiettivo di garantire cibo sufficiente per tutti è realizzare concretamente la possibilità di aumentare la produzione di cibo lì dove c’è il bisogno, senza ipotizzare inattuabili trasferimenti.

Questo significa che la fame nei Pvs può e deve essere affrontata nei prossimi decenni non solo aumentando la produzione agricola e non tanto organizzando complessi meccanismi redistributivi, ma anche – e soprattutto – creando tutte le condizioni economiche, materiali, politiche, di educazione, di eguaglianza e non discriminazione, di buon governo che permettono di incrementare il benessere della collettività e quindi di incrementare i mezzi economici necessari per acquisire il cibo necessario sul mercato o per coltivarlo.

La fame si combatte con la giustizia sociale.

In proposito, osserva Norman Borlaug, premio Nobel e uno dei padri della Rivoluzione verde, che i raccolti possono essere aumentati del 50% o addirittura del 100% in India, America latina e nelle aree della ex Unione Sovietica, e fino al 200% nell’Africa sub-sahariana, a condizione che sia mantenuta la stabilità politica e sia favorita l’iniziativa privata nel settore agricolo (11).

Eppure, anche questa conclusione non lascia soddisfatti.

L’aspetto che lascia perplessi è proprio quello sul quale, in definitiva, dovrebbe ruotare l’intero meccanismo cui è rimesso la nutrizione futuro della popolazione sottonutrita a livello mondiale.

Se le previsioni sull’aumento della produzione di cibo tramite aumento della produttività utilizzando le tecnologie proprie della Rivoluzione verde non offrono una rassicurante soluzione al problema del necessario trasferimento di cibo dai Paesi ricchi ai Paesi poveri, la soluzione basata sull’aumento di giustizia sociale in questi ultimi nei prossimi tre-quattro decenni sembra altrettanto irrealizzabile, quantomeno per la maggior parte dei Paesi interessati, tenuto conto della situazione attuale caratterizzata da pesanti disuguaglianze, guerre civili, corruzione, inefficienza amministrativa e sprechi.

In proposito, è stato osservato che è certamente vero che centinaia di milioni di persone sono affamate non perché non ci sia il cibo, ma perché sono povere e non hanno i mezzi per acquistarlo o per coltivarlo; ma il problema per la grande massa degli affamati non è ottenere mezzi economici per l’acquisto di cibo, ma avere la possibilità di coltivare i prodotti agricoli necessari per la loro sussistenza.

Pertanto, se è vero che chi ha fame non ha cibo perché è povero, è altrettanto vero che è povero perché non ha cibo, perché i raccolti sono insufficienti, la resa delle varie specie agricole disponibili è assai bassa, il terreno è arido, l’acqua per irrigare manca, e così via.

È questo lo scenario che caratterizza una grande numero di Pvs ove oggi quasi un miliardo di persone muore di fame perché vive al di fuori del mercato: non solo del mercato globale, ma anche dei mercati locali.

E non è assolutamente credibile ipotizzare una radicale trasformazione di questo scenario con l’improbabile rapida adozione di politiche di giustizia sociale.

Ecco che allora si profila l’utilità dei Pagm proprio qui, per uno specifico settore di mercato, quello dell’agricoltura dei Pvs: non come alternativa all’incremento di produttività da realizzarsi con le tecnologie offerte dalla Rivoluzione verde, né come alternativa all’adozione nei Pvs di politiche sociali e agricole che a loro volta incrementino le possibilità di accesso al cibo per coloro che oggi sono esclusi, ma come strumento specifico di intervento finalizzato a soddisfare la domanda di del coltivatore-consumatore di chi sta nei Pvs, e non ha accesso né al mercato: alcune centinaia di milioni di persone per le quali la sopravvivenza è legata soltanto alla possibilità di coltivare i prodotti di cui hanno bisogno.

In queste economie quindi la tecnologia genetica può esplicare tutte le sue potenzialità, creando Pagm resistenti ai parassiti, alla mancanza di acqua, e in generale alle difficili condizioni ambientali.

Per esempio, tutti i prodotti agricoli nei quali si è riuscito ad inserire il Bacillus Thuringiensis, che produce una tossina fortemente insetticida hanno rivelato, proprio per questa accentuata resistenza ai parassiti, un consistente aumento della produttività.

Inoltre, sono state realizzate specie di riso e di granturco transgenico che sono in grado di tollerare suoli con alta concentrazione di alluminio, un problema comune dei suoi con elevato tasso di acidità, assai diffusi nei Paesi tropicali, e sinora poco produttivi (ma analoghi prodotti sono in corso di elaborazione per ridurre, mediante la coltivazione, la concentrazione di mercurio nel terreno).

Altri scienziati all’università di Delhi hanno allo studio un riso che, a seguito dell’aggiunta di due geni, è in grado di sopravvivere in situazioni – frequenti in molti Paesi asiatici – di prolungata immersione nell’acqua.

Un altro gruppo di ricercatori ha ottenuto un riso transgenico in grado di produrre betacarotene, che nel processo digestivo può essere convertito in vitamina A (di cui sono carenti in Asia 180 milioni di bambini).

È anche in corso di progettazione un riso con un contenuto di ferro triplo rispetto a quello naturale, utile per evitare anemie che dipendono dall’assenza di questo minerale.

In Kenya è stata realizzata una patata dolce transgenica che è resistente ad un distruttivo virus (12).

Si sta rivelando di enorme importanza inoltre la possibilità di utilizzare i Pagm a fini di assistenza sanitaria: sono assai avanzati gli studi per l’inserimento di vaccini all’interno di prodotti commestibili, come le banana, ottenendo con ciò il risultato di immunizzare con il cibo i bambini dei Pvs ai quali la somministrazione di vaccini è preclusa da difficoltà organizzative, logistiche o finanziarie.

L’elenco potrebbe continuare a lungo.

Ma già questi esempi impongono di riflettere sul fatto che, se il reale problema è quello di creare fonti di nutrizione lì dove ci sono le persone che ne hanno bisogno, l’uso dei Pagm può costituire la soluzione più ragionevolmente realizzabile nel periodo di tre-quattro decenni in considerazione, senza affidarsi a irrealizzabili trasferimenti di cibo su scala globale, e neppure all’adozione di improbabili riforme istituzionali nei Pvs, ma soltanto nella disponibilità delle sementi necessarie: cioè di beni il cui costo è irrisorio ed alla portata di tutti.

LO SCONTRO SUI PAGM

Se si tiene conto di questi dati, la moltitudine di attori che popola il confuso scenario dello scontro sui Pagm comincia a sgranarsi nelle sue componenti.

Partiamo dagli oppositori dei Pagm.

Ci sono prima di tutto i gruppi ambientalisti.

Questi tengono essenzialmente conto della situazione di benessere economico e ambientale dei Paesi ricchi, cioè dei Paesi in cui si trovano i loro aderenti, i loro finanziatori, i consumatori e le loro associazioni, e dove si forma l’opinione pubblica che a loro fa riferimento.

Per tutti costoro, che vivono in una situazione in cui i problemi sono l’obesità e l’eccesso di cibo e non la fame, il rifiuto dei Pagm non comporta alcun sacrificio sul tenore di vita e sul benessere alimentare.

Viceversa, l’introduzione dei Pagm non porta alcun beneficio apparente: non aggiunge nulla a ciò che già c’è, sicché ogni rischio, per quanto minimo e trascurabile, risulta ingiustificato e eccessivo.

I gruppi ambientalisti soprattutto in Europa sono tutt’altro che soli.

Hanno il sostegno – assai importante da un punto di vista ideologico-culturale – di movimenti fondamentalisti (di derivazione religiosa o puramente conservazionista), per i quali la lotta ai Pagm costituisce un ottimo strumento per impostare battaglie a difesa della vita, della creazione o della natura (con tutti i limiti e le contraddizioni che abbiamo indicato nei precedenti capitoli); hanno inoltre il sostegno del frastagliato movimento noglobal, per il quali la lotta ai Pagm assume il significato di lotta contro l’estendersi a livello mondiale del potere economico e tecnologico delle multinazionali americane.

Ma soprattutto c’è, come potente alleato nell’arena dei rapporti di forza economico-politici dei Paesi ricchi europei, la filiera agroalimentare che si fonda sulle tecnologie tradizionali che hanno costituito le premesse della Rivoluzione verde: i fertilizzanti e i pesticidi chimici, le macchine agricole, le grandi opere irrigue: i contadini, gli agricoltori, gli allevatori e le organizzazioni politico-sindacali che li rappresentano, i vari settori produttivi della coltivazione dei prodotti agricoli (e quindi i produttori di erbicidi, pesticidi e sostanze chimiche necessarie per l’attuale modo di produzione) e delle trasformazione dei prodotti agricoli in prodotti di mercato, e poi, via via, i settori dell’Amministrazione pubblica e del potere legislativo che rappresenta i diversificati, consistenti interessi che su tale filiera convergono.

Per tutti costoro, i Pagm rappresentano una possibile catastrofe: rischiano infatti di compromettere il virtuosistico gioco di prestigio istituzionale-giuridico-economico su cui si regge il sistema agroalimentare dei Paesi ricchi, rivolto a mantenere, nell’ampia marea della globalizzazione, un precario equilibrio protezionistico tra eccesso di produzione e garanzia di profitti.

Dall’altra parte, tra i sostenitori dei Pagm e tra coloro che possono trarne benefici emergono attori che rivestono questo ruolo solo da poco tempo e cioè da quando il dibattito si è focalizzato sul tema agricolo e alimentare, e che paiono essere i veri destinatari dei Pagm: tutte le decine e decine di milioni di persone che popolano i Pvs, che non hanno mezzi per accedere al mercato dei prodotti alimentari finiti, che non partecipano a formare la pubblica opinione e non partecipano quindi al dibattito mondiale, che devono fare i conti non solo con un ambiente o un terreno ostili per trarre l’essenziale per la sussistenza, ma, assai spesso, anche con l’indifferenza e l’ostilità dei governi dei loro Paesi.

Per costoro, l’utilizzabilità di Pagm adatti alle loro necessità e ai loro bisogni significa la chance di oltrepassare la linea rossa della sottonutrizione: significa un aumento di possibilità di sopravvivenza, a partire dalla disponibilità di poche sementi (13).

Ci sono poi le potenti multinazionali della genetica applicata all’agroalimentare, cioè le imprese che sui Pagm hanno investito ingentissime risorse e hanno progettato enormi profitti.

Queste – accusate di voler sottoporre al proprio controllo e alle proprie finalità commerciali la futura produzione agricola mondiale – si trovano ora di fronte a una inaspettata e paradossale situazione.

Ed infatti i Pagm, prodotto di anni di ricerca scientifica e di sofisticata tecnologia dei Paesi ricchi, oggetto di enormi investimenti finanziari e di altrettanto enormi aspirazioni di guadagni, rischiano di rivelarsi, salvo che per alcune produzioni di nicchia, beni inutili per i Paesi ricchi, da cui i progettati profitti possono derivare: qui possono soltanto aggravare il problema della sovrapproduzione agricola, alterando il precario equilibrio di sovvenzioni, protezionismo e contenimento della produzione che tutela gli agricoltori e, indirettamente, l’intero mercato agroalimentare.

Nello stesso tempo, i Pagm si profilano dei beni preziosi e indispensabili per i Pvs, e per i più poveri tra questi: quindi per un mercato che certamente non è in grado di soddisfare con i propri mezzi le aspirazioni di profitto e di ripagare gli investimenti dei produttori dei Pagm.

Così, i principali sostenitori dell’uso dei Pagm, le multinazionali della biotecnologia, vedono profilarsi defatiganti e costose opposizioni – in apparenza in nome della sicurezza, della tutela dell’ambiente e del principio di precauzione, in realtà a difesa dell’egoista difesa dei propri privilegi – da parte dei consumatori ai quali i loro prodotti sono diretti, perché possono pagarli, e nel contempo la pressante domanda di quegli stessi prodotti da parte di una massa di possibili consumatori collocati nei Paesi poveri e non in grado di far fronte ai costi.

Gli attori però non finiscono qui.

Tra gli schieramenti si collocano, esitanti, i governi dei Paesi ricchi (soprattutto in Europa).

Questi sono stretti tra la pressione della domanda dell’opinione pubblica e dalla struttura agroalimentare chimica e meccanica tradizionale, contraria all’uso dei Pagm, e tra la necessità – determinata non da altruismo, ma dall’obiettivo di garantire margini di complessiva stabilità economica e politica nei prossimi decenni in un mondo la cui popolazione sarà sempre più squilibrata – di soddisfare le necessità alimentari del prossimo futuro dei Pvs.

Tutti questi governi si trovano di fronte alla scelta tra assumere decisioni gradite alla generazione presente, da cui dipende la loro elezione e il loro sostegno, ma tali da compromettere l’equilibrio alimentare e quindi politico fra pochi decenni, oppure decisioni sgradite agli elettori presenti ma necessarie per le generazioni future non solo dei Pvs, ma anche dei Paesi ricchi.

Ci sono anche i governi dei Pvs, che spesso si trovano in una situazione non migliore: dovrebbero optare per l’adozione di nuove tecnologie agricole, ma questo significherebbe indirizzare investimenti per avviare la costruzione di situazioni di maggior benessere per gli strati più poveri della popolazione e così alterare alle radici la struttura sociale, il tessuto di tradizioni e di consuetudini dei Paesi che governano, i meccanismi internazionali di aiuti e sovvenzioni, e in generale minare alle basi i presupposti sui quali si basa il loro potere.

CONCLUSIONI

Così la realtà dell’economia agricola mondiale e l’analisi dei bisogni e dell’offerta nel futuro focalizzano in posizioni più precise la moltitudine degli attori sulla scena dello scontro sui Pagm e delineano uno scenario per molti versi inaspettato; si scompaginano certezze acquisite e vengono allo luce pregiudizi e ideologie sulla base delle quali esse sono state costruite.

Molti sostenitori dei Pagm, bollati come ingenui amanti del progresso, oggettivamente (se non volontariamente) al servizio degli interessi economici e dell’ansia di profitto delle multinazionali della genetica, risultano schierati a difesa della necessità di garantire la sopravvivenza alimentare nei Pvs.

Viceversa, ambientalisti e altri oppositori dei Pagm, sostenuti dai movimenti di sinistra e genericamente antiglobalizzazione, si trovano ad essere schierati con i settori più conservatori delle società ricche, difensori degli interessi della filiera agro-chimica-alimentare tradizionale, egoisti difensori del benessere acquisito e indifferenti alle esigenze di chi, nei Pvs, muore di fame.

Restano, ancora, difficili problemi da risolvere: non quelli della produzione di cibo, né quelli del suo trasferimento, né quelli di una trasformazione in senso democratico dei Pvs, ma quelli connessi con la soluzione di un problema che sempre più si porrà sul tappeto delle relazioni internazionali, e cioè come sarà possibile l’incontro dell’offerta di Pagm da parte delle multinazionali che sui Pagm detengono la proprietà intellettuale, alla ovvia ricerca di profitti e di compensi per gli investimenti realizzati, con la domanda dei Pvs che, come si è detto, sicuramente non saranno in grado di soddisfarne le richieste economiche.

Ed ecco così che, alla fine, scopriamo che il problema davvero centrale dell’utilizzazione dei Pagm diventa non quello etico dal quale lo scontro sui Pagm ha preso le mosse, né quello di economia distributiva, né quello della politica agricola, e neppure quello di politica internazionale, ma la questione della global governance e degli equilibri di diritti e di accesso alle risorse nel mondo globalizzato.