MA IO DICO: ABBASSO I MANIFESTI

Questa prima domanda è interessante assai più per ciò che – più o meno inconsciamente – sottintende, che non per ciò che effettivamente chiede.

Il fatto stesso infatti che si ponga la domanda se la sinistra italiana ha un progetto politico o non lo ha, allorché essa è per la prima volta nella storia repubblicana (salvo il breve e illusorio periodo postbellico) al governo, rende evidente che c’è qualcosa che non va.

Prima di tutto, rende evidente che un progetto politico della sinistra italiana non c’era, tanto che non viene posta la domanda più ovvia, e cioè se la sinistra italiana ha almeno in parte realizzato il suo progetto.

Poi, rende evidente che non sono considerati sufficienti e qualificanti progetti politici della sinistra italiana i due grandi obiettivi che la sinistra italiana ha effettivamente realizzato e su cui è stato coinvolto l’intero paese:

a) né quello che ha permesso alla sinistra di giungere al governo (anche per il concorso di varie circostanze fortuite, costituite dal bizzarro meccanismo elettorale, e soprattutto dalla sottrazione di voti alla destra operata dalla Lega), e cioè la partecipazione alla promiscua alleanza per demolire uno dei più gravi pericoli subiti dalla democrazia in questo paese, costituito dall’assalto alle istituzioni della banda Previti-Berlusconi (pericolo che i faticosi risultati conseguiti dalle indagini giudiziarie condotte dalla Procura della Repubblica di Milano permettono oggi di valutare in tutta la sua devastante portata);

b) né quello che ha permesso alla sinistra italiana di governare, e cioè l’entrata dell’Italia in Europa, sapientemente utilizzata sia come martellante analgesico che ha prosciugato e depistato ogni attenzione dell’opinione pubblica sia come magico passepartout in nome del quale ogni cruento intervento diviene possibile.

Infine, rende evidente che; esauritosi l’effetto di mobilitazione sui primo obiettivo e prossimi ad esaurirsi gli effetti analgesici del secondo si giunge alla resa dei conti.

E allora, per parafrasare Chatwin: che ci facciamo noi qui?

Ecco, cioè, il senso di questa domanda oggi.

Si potrebbe rispondere: “Sono qui per smontare e rifare pezzo per pezzo questo paese”, come, secondo i quotidiani, ha detto Prodi commentando il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri sulla riforma del commercio.

Peccato che lo abbia detto Prodi, tutto sommato esponente di quei gruppi politici che questo paese così lo hanno montato, e non lo abbia mai detto nessuno di quel “gruppo dirigente che rappresenta la sinistra”.

Ma: qual è il “gruppo dirigente che rappresenta la sinistra”?

Esiste davvero, o esiste solo nelle fantasie i coloro che pensano di appartenervi?

Non è certo, il gruppo dirigente del Pds, dove convergono, confusamente affastellati in un globalizzante progetto acchiappaconsensi, un liberismo reso sinonimo esclusivamente di libertà per l’impresa e per il capitale che immancabilmente si ferma alle soglie dell’apparato pubblico e della pubblica amministrazione, un consolidato e autoritario verticismo (si vedano la vicenda dell’impresentabile candidatura di Di Pietro e dell’impresentata candidatura di Sansa), una insofferente e degradante indifferenza per i problemi tipicamente di sinistra (per esempio, immigrazione, rifugiati).

Non è neppure il gruppo dirigente di Rifondazione Comunista, incapace di sviluppare disegni organici di largo respiro, perché troppo calato nel tentativo di recuperare a sinistra i facili spazi lasciati dal vuoto ideologico del Pds e perché troppo esposto alle contrapposte minacce dell’emarginazione da parte della coalizione governativa (che l’ingaggio di Di Pietro ha trasformato in corposo riscatto) e dal ripudio da parte dello zoccolo duro della sua base che impone obiettivi ormai superati e impraticabili.

Al gruppo dirigente di Rifondazione Comunista va però il merito di aver lanciato, con la vittoria politica sulla riduzione dell’orario di lavoro l’unico preciso, ragionevole e inequivoco segnale di sinistra di questi anni: e l’orrore suscitato tra Confindustria e sindacati confederali ne sono la miglior
conferma.

Per concludere, credo che non possa e non debba essere fatto un programma politico di sinistra che tenga insieme le sinistre, vere pretese o presunte, attualmente in campo.

Se ne possono sfornare inutilmente tanti e ne sono stati scritti inutilmente troppi.

Certamente non ne va fatto uno “fondamentale” (parola che mette sempre qualche brivido).

Come tutte le espressioni indeterminate e con pluralità di significati, “Stato sociale” è un’espressione che non andrebbe usata senza essere accompagnata da una accurata definizione.

Dentro questo ormai corroso slogan, convivono, come nella famosa biblioteca di Borges, costruzioni monopolistiche che offendono e danneggiano il cittadino e il consumatore, come il sistema postale, la televisione di stato, la persecuzione dei permessi, delle autorizzazioni, delle carte bollate, e conquiste di civiltà come il sistema pensionistico e la tutela del lavoratore sul luogo di lavoro (entrambi tuttora gravemente carenti).

Visto che le forze politiche e le forze di sinistra di questo paese dedicano gran parte delle loro energie a riformare la Costituzione, la miglior risposta a questa domanda è ricordare quella parte della Costituzione che nessuno vuol riformare non – a quanto sembra – perché va bene così, ma perché non interessa più a nessuno e viene mantenuta non perché debba essere attuata, ma ad pompam tantum.

Partendo, per fare un solo esempio, dalle due disposizioni che aprono la Costituzione (dopo l’art. 1, che ha una funzione programmatica e di principio): l’art. 2 che afferma che “La Repubblica … richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale”, e l’art. 3, secondo il quale “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (2° comma).

Una considerazione finale alla “sottodomanda” che chiede se ci sia “una caduta di interesse per gli escludi dal processo economico” e se ci sia “una disattenzione per le disuguaglianze e le ingiustizie a livello mondiale”.

Difficilmente può essere trovato un esempio di inciviltà e grettezza più fulgido di quello che viene oggi riservato da questo governo agli immigrati e ai rifugiati.

Faccio , solo due esempi (decine di altri sono disponibili a richiesta):
– per immigrati che si trovano da dieci o vent’anni nel nostro paese, con famiglie e figli nati in Italia è oggi impossibile ottenere la cittadinanza italiana e godere di diritti civili e politici;
– la Commissione per il riconoscimento dell’asilo politico ai rifugiati istituita in attuazione della Convenzione di Ginevra opera abitualmente nella più completa illegittimità, e nega l’asilo politico ai richiedenti con i pretesti più vari, tutti rigorosamente in violazione, sia della Convenzione che dovrebbe attuare; sia dell’art; 10 della Costituzione (altro esempio di sovietizzazione della Costituzione, e cioè di disposizione lasciata sulla carta da ostentare in caso di necessità), secondo il quale “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica”.

Tutti questi provvedimenti vengono da anni sistematicamente sospesi dai Tribunali amministrativi (organi certo non sospetti di avventurismo internazionalista): eppure, nessuno laggiù al ministero degli Esteri si è ancora accorto che qualcosa non funziona.

CHI MERITA IL MERITO?

Ronald Dworkin, uno tra i più importanti e più acuti giuristi progressisti  degli Stati Uniti, affronta con questo saggio il tema degli effetti della scienza genetica e della clonazione sui rapporti sociali e giuridici esistenti e sui principi etici predominanti.

Il saggio, pur tenendo conto in alcuni punti di problematiche specifiche della realtà americana (è il caso delle questioni relative alla assistenza sanitaria) che si pongono in modo diverso in Italia e nell’Unione Europea, formula considerazioni e valutazioni  di carattere generale che offrono preziosi spunti per una riflessione e soprattutto per una critica a molti luoghi comuni (Frankenstein, mettersi al posto di Dio, la sacralità della natura, il piano inclinato, e così via) che implacabilmente si presentano in qualsiasi luogo – dal salotto, al convegno alla commissione di studi – venga esaminato il tema della scienza genetica e della clonazione.

In questo breve commento mi limiterò a toccare solo alcuni aspetti (trascurandone molti altri solo per ragioni di spazio).

Si può davvero affermare che la scienza genetica ha aperto un vaso di Pandora (così l’articolo esordisce) oppure che con la scienza genetica l’uomo gioca con il fuoco e ne accetta le conseguenze (come l’articolo si conclude)?

Oppure è vero che stiamo percorrendo un’altra piccola tappa della evoluzione della specie, e che l’uomo ha sempre giocando con il fuoco, nell’ambito delle possibilità concessegli dai meccanismi dell’evoluzione?

Io propendo per questa seconda ipotesi.

L’uomo, da circa 100.000, apre vasi di Pandora appena gli si offre la opportunità di farlo e tutti noi oggi non solo siamo felici che i nostri antenati li abbiano aperti, ma godiamo ampiamente della loro intraprendenza. Fare un clone non è diverso dal fare, tanto per fare qualche esempio,  un trapianto di cuore o dal costruire dighe o canali che modificano l’assetto naturale dell’ambiente, o dall’alterare l’assetto naturale della terra con l’agricoltura.

Di quest’ultimo fondamentale avvenimento della storia umana ci mancano purtroppo documenti o informazioni, essendo accaduto circa 9000 anni orsono; ma è facile supporre che vi furono vibrate opposizioni da parte di coloro che ritenevano una violazione delle leggi naturali e magari divine l’abbandono di un modo di vita nomade (perdurato per diecine di migliaia di anni) e la scelta di un modo di vita sedentario.

In merito ai primi due fatti, invece, la documentazione non manca. Per ciò che riguarda i trapianti, e specificatamente i trapianti di cuore, è sufficiente rimandare alla stampa e alla pubblicistica dell’epoca (facilmente reperibile, trattandosi di accadimenti di pochi decenni orsono) per ritrovare le indignate proteste dei ferventi tutori dell’etica, della morale o della religione, in nome dell’immodificabilità della natura e del divieto di sostituirsi a Dio, contro interventi considerati oggi del tutto normali.

Certamente meno agevole per il lettore è invece reperire la documentazioni in merito alle costruzioni di dighe e canali. Vale quindi la pena di offrire qualche ragguaglio, utilizzando un celebre esempio.

“Commette un attentato contro la Natura e contro le leggi della Divina Provvidenza chi cerca di migliorare ciò che, per motivi imperscrutabili, è stato voluto imperfetto”.*

Con queste parole (riferite dallo storico Gregorio Maranon in una sua biografia del conte-duque de Olivares), la Commissione dei teologi dell’Impero spagnolo vietò nel 1641 l’attuazione del progetto di canalizzazione dei fiumi Tago e Manzanarre, predisposto dagli ingegneri italiani Carducci e Martelli.

Fu così segnata la condanna della Castiglia a restare, ancora per molto tempo, un’arida pianura spopolata, e, insieme, viene segnata la condanna della maggiore potenza europea dell’epoca a un lento e inesorabile declino demografico e economico.

I fiumi, in Spagna, resteranno come Dio e la Natura li hanno fatti, perché – ribadisce la Commissione –  “se Dio avesse voluto che i fiumi fossero navigabili, li avrebbe fatti navigabili”.

Sono certo che pochi di coloro che oggi si schierano contro l’uso della scienza genetica, per quanto propensi a difendere le prerogative della Natura o di Dio, starebbero dalla parte della Commissione dei teologi spagnola. In tutti questi casi, e in molti altri ancora, l’uomo si è sostituito alla natura o a Dio, ha aperto vasi di Pandora, ha giocato con il fuoco, accettandone le conseguenze.

Gli esempi addotti non hanno volutamente riguardato direttamente i meccanismi riproduttivi – coinvolti dalla clonazione – per evidenziare che l’opposizione fondamentalista (cioè quella che si esprime utilizzando i principi di immodificabilità della Natura o della illiceità di sostituirsi a Dio) copre ogni possibile campo di applicazione della innovazione tecnologica umana.

Parliamo ora della riproduzione. Per millenni la riproduzione umana è stata basata in modo esclusivo sull’accoppiamento di due persone di diverso sesso.

La riproduzione non era materialmente e logicamente concepible senza rapporto sessuale. La prima violazione nota e scientificamente accertata di questo principio non è però così recente come si suole pensare: risale ormai a oltre 110 orsono.

Nel 1884 un professore di medicina dell’Università di Filadelfia, William Pancoast riuscì a rendere incinta una sua paziente il cui marito era sterile, utilizzando – con sistemi assai primitivi – il seme donato da un suo studente. Il fatto, tenuto rigorosamente segreto, venne reso pubblico solo 25 anni dopo.

Scoppiò uno scandalo di vaste proporzioni: su quotidiani, settimanali e riviste specializzate medici, religiosi, giuristi, esperti di etica (gli esperti di bioetica non c’erano ancora) qualificarono l’intervento del prof.Pancoast (nel frattempo, per sua fortuna, deceduto) un crimine, un adulterio, un atto di libidine, una violenza sessuale, una pretesa di volersi sostituire a Dio, un gesto contrario alle leggi di Dio e della natura.

Da allora, le tecniche riproduttive hanno fatto passi da gigante: da molti decenni la fecondazione artificiale (nelle sue varie combinazioni) è un meccanismo riproduttivo socialmente, giuridicamente e moralmente accettato in molti paesi, e utilizzato da chi intenda avvalersene: nessuno grida più allo scandalo, Dio e la Natura sembrano essersi tranquillizzati almeno per ciò che riguarda questo aspetto.

Per gli amanti del lieto fine: il prodotto della geniale attività manipolatrice del dottor Pancoast, e cioè il figlio della sua paziente,  riuscì dopo molti anni a ritrovare e a identificare il proprio padre biologico, divenuto nel frattempo uno stimato medico utilizzando l’unica indicazione lasciata nel proprio diario dal medico, e cioè il fatto che aveva utilizzato il seme dello studente fisicamente più avvenente della sua classe (la storia è ampiamente riferita da Albert Jonsen in un articolo pubblicato sul Cambridge Quarterly, 1995, pag.263).

Definitivamente desueta è quindi divenuta oggi l’idea secondo cui la riproduzione senza accoppiamento sessuale è contraria alla natura o alle leggi divine.

Oggi, la riproduzione è di nuovo un crimine, un attentato alle leggi di Dio e della natura, e così via, se non c’è cooperazione – naturale o artificiale, diretta o a distanza, previa conoscenza reciproca o a mezzo di anonime donazioni – di un maschio e una femmina.

Quanto durerà?

Altrettanto priva di senso è poi la diffusa opposizione ad interventi (attualmente non possibili) rivolti a modificare uno o più geni di un individuo, in modo da evitare alla sua discendenza handicap fisici o psichici. Che cosa hanno in comune la palestra, la prigione, la scuola?

Sono luoghi artificiali che l’uomo ha inventato da alcune centinaia o forse migliaia di anni per  sostituirsi a Dio o alla Natura.

La palestra serve per trasformare e migliorare il fisico umano attraverso appositi esercizi ginnici, la scuola e la prigione per trasformare e migliorare la mente attraverso appositi processi educativi o rieducativi.

Secondo l’etica corrente, non c’è nulla di male in tutto ciò (come non c’è nulla di male oggi nei trapianti, nelle canalizzazioni e nella riproduzione artificiale).

Nessuno pensa che un individuo nato mingherlino tale deve rimanere; tutti pensano che imparare e studiare siano attività meritorie; molti ritengono che ficcare qualcuno in galera per qualche anno sia giusto perché così viene rieducato.

L’etica corrente sembra però mutare radicalmente, se si prospetta la possibilità di raggiungere i medesimi risultati con mezzi diversi da quelli tradizionali, e, in particolare, attraverso la genetica.

Si può sostituirsi alla natura o a Dio con palestre scuole e prigioni, o anche migliorando la propria resa intellettuale con sostanze chimiche o con stupefacenti: nessuno si rifiuta di leggere Baudelaire, o di ascoltare Jimi Hendrix, o di ammirare un quadro di Pollock sol perché sono il frutto di prestazioni intellettuali alterate da droghe; non si fanno gli esami delle urine agli studenti universitari dopo che hanno brillantemente superato un esame, né al pianista che esegue il Rach 3 in modo straordinario, né al manager che conclude un ottimo affare per la sua società lavorando incessantemente giorno e notte.

Per inciso, e solo per evidenziare la schizofrenia dell’etica attuale a questo riguardo, va osservato che del tutto diverso è l’atteggiamento dell’opinione pubblica per ciò che riguarda il miglioramento della propria resa fisica.

Non importa se ci sono bambine devastate per sempre da diecine di ore giornaliere di piscina o di palestra, o giovanotti che pedalano, corrono, lanciano quotidianamente per anni, trasformandosi (o più spesso trasformati) in robot, solo perché si vuole ottenere qualche campione da esibire nelle gare internazionali o addirittura alle Olimpiadi (abbandonando tutti gli altri al proprio destino di fallimento).

Va tutto bene, purché ci si ammazzi di fatica per trasformare e migliorare i propri muscoli: quel che conta è l’esercizio fisico, l’uso di sostanze artificiali (anabolizzanti, steroidi, ecc.) è vietato.

In questo caso, conta come i risultati sono raggiunti, per le prestazioni intellettuali ciò che conta è il risultato. In entrambi i casi, però, i geni non si toccano.

Chi è geneticamente sfavorito nel fisico (perché è miope, perché è affetto da nanismo, perché è esteticamente repellente) o nell’intelletto, deve darsi da fare e concorrere nella società e nel mercato da chi è stato favorito dalla Natura o da Dio, e sicuramente dai geni trasmessi dai suoi genitori.

Quindi, chi ha il (o i) geni dell’aggressività (ammesso che ci siano) se li tiene come sono: poi riformatori e carceri  penseranno a rieducare (e magari sedi elettriche a eliminare), anche se gli effetti di quell’innata aggressività avrebbero potuto essere modificati (ammesso che prima o poi possano essere modificati) intervenendo a livello genetico.

La tutela dei principi di etica globale passa attraverso l’indifferenza verso principi di etica reale, che imporrebbero che l’uomo possa utilizzare ciò che sa per evitare discriminazioni o alterazioni delle condizioni di partenza di ciascun individuo.

È facile verificare questa affermazione.

Si avranno risposte massicciamente negative in qualsiasi sondaggio venga posta la domanda se si sia favorevoli o contrari a interventi genetici per migliorare gli esseri umani.

Si avranno risposte invece tendenzialmente opposte, se la domanda venga posta sul comportamento che si intenda tenere qualora i propri figli corrano il rischio di essere affetti da malformazioni fisiche o intellettuali, eliminabili con interventi genetici.

In realtà, i richiami a Dio o alla natura celano alcune ragioni più serie e più profonde di opposizione: il timore – cui accenna Dworkin – di una profonda e irreversibile alterazione di parametri etici fondamentali, quali, per esempio, i valori di merito e di sacrificio, sui quali è basata la società occidentale contemporanea, e la sua impalcatura di regole fondate sulla concorrenza, la competitività individuale, il mercato.

In base a questi parametri, i risultati che si conseguono in qualsiasi campo si giustificano solo perché devono essere il frutto di fatica, di impegno, di applicazione: devono essere meritati.

In realtà, come tutti sanno, assai spesso sono dovuti al caso, alla fortuna, ai soldi di famiglia o a qualche santo protettore.

Ma, nonostante che il valore di quei parametri sia del tutto relativo, e costituisca anzi un colossale pretesto per mantenere la labile impalcatura della libera competizione degli individui, capire chi merita il merito resta un problema tuttora irrisolto: la nostra organizzazione sociale e giuridica si basa sul presupposto che sacrificio merito e successo siano nella generalità dei casi collegati e interdipendenti.

Ed è questo presupposto che verrebbe a cadere ammettendo la possibilità di una programmazione genetica, e l’eliminazione alla radice di ingiustizie oggi considerate frutto del caso.

OPERE, SMATERIALIZZATEVI

Il diritto di autore – o, utilizzando il termine anglosassone, la proprietà intellettuale – consiste in una sorta di monopolio riconosciuto dalla legge su un bene immateriale, costituito dall’opera dell’ingegno di qualsiasi tipo: all’autore dell’opera è riconosciuto il diritto esclusivo di utilizzazione della stessa per un periodo di tempo predeterminato (e variabile in ragione della natura dell’opera).

Sino a qualche tempo fa, la protezione del diritto era essenzialmente basata sul presupposto che l’opera dell’ingegno doveva essere necessariamente fissata su supporti fisici (carta, materiali plastici per le opere musicali) e quindi, pur essendo immateriale, esisteva materialmente all’interno di  una organizzazione giuridica territoriale.

La diffusione di Internet e della tecnologia digitale ha di fatto eliminato i presupposti della materialità e della territorialità necessari per la divulgazione e la trasmissione dell’opera: ha smaterializzato il bene immateriale.

Oggi quindi chiunque, con rischi irrisori di essere identificato o punito, può riprodurre indefinitamente sulla Rete (quindi senza alcun supporto materiale), le opere dell’ingegno altrui rendendole così disponibili agli utenti di Internet ovunque essi si trovino (superando così barriere e confini territoriali).

Inoltre, vengono di continuo elaborati nuovi meccanismi e nuovi software che permettono di diffondere intensivamente opere protette nell’ambito del diritto d’autore – è il caso soprattutto delle opere musicali e di software quali MP3 o, più recentemente, Napsters – e di agevolare al massimo il prelievo delle opere agli utenti di Internet.

Secondo molti, tutto ciò può segnare il tracollo della proprietà intellettuale, così come è stata concepita, organizzata e protetta.

Destino veramente crudele: proprio nel momento in cui le nuove tecnologie a disposizione permettono di diffondere e sfruttare nel modo più completo le opere dell’ingegno privandole dei residui di materialità, l’autore sembra destinato ad una duplice sconfitta: con gli utenti, che vedono in Internet il veicolo per la liberalizzazione dell’uso e dell’accesso alle opere dell’ingegno, e con la società dell’informazione, che richiede sempre più informazioni, a basso prezzo e accessibili al maggior numero di persone.

Nella sconfitta gli autori trascinano inevitabilmente con sé case editrici, società discografiche, e, più in generale, tutte le imprese commerciali che basano la loro attività e i loro profitti sulla diffusione e sul commercio delle opere dell’ingegno, acquistando le licenze dagli autori.

Ma sono davvero attendibili queste previsioni così catastrofiche?

Vi sono alcuni che ne dubitano.

In effetti, la storia della proprietà intellettuale e dei beni immateriali è segnata fin dal suo sorgere dal profilarsi e dall’affermarsi di innovazioni tecnologiche che parevano via via preannunciarne il prossimo tracollo.

Ed ogni volta, ciò che era ritenuto come una insormontabile minaccia si è rivelato come una nuova fonte di sviluppo e di profitti della proprietà intellettuale.

È il caso dell’affermarsi in Inghilterra delle biblioteche pubbliche nella seconda metà del XVIII secolo, sorte per far fronte alla improvvisa richiesta da parte del pubblico di romanzi di avventure.

L’offerta di volumi in prestito agli abbonati in cambio di una modesta somma settimanale determinò furibonde reazioni – anche a livello giudiziario – da parte di librerie e case editrici e da parte dei titolari della proprietà intellettuale sulle opere che ritenevano questa pratica lesiva dei loro diritti e della loro attività imprenditoriale.

In pochi anni, tuttavia, ci si rese conto che la biblioteca pubblica, diffondendo, insieme ai libri, l’abitudine alla lettura in fasce di pubblico assai più larghe, determinava non un decremento, ma un incontenibile incremento della richiesta e quindi della vendita di libri, proporzionale all’aumento dell’utenza indotto dalla maggiore disponibilità di libri.

Contrariamente a ogni aspettativa, la biblioteca pubblica contribuì al declino del libro come strumento d’élite, ma promosse l’affermazione del libro come strumento di informazione e svago per le masse, con enormi vantaggi per gli autori (oltreché naturalmente per il pubblico).

La vicenda del libro si è ripetuta recentemente e con sorprendenti analogie, con i filmati in videotape (in sostanza, il VCR).

Anche in questa occasione, le case cinematografiche manifestarono inizialmente – siamo nei primi anni Ottanta – una netta ostilità verso questa pratica commerciale, temendo che avrebbe danneggiato irrimediabilmente la loro attività, basata pressoché esclusivamente sui cinema come mezzo di distribuzione.

Tentarono così con ogni mezzo di bloccarla o controllarla: trascinarono anche la Sony in una controversia giudiziaria che giunse fino alla Corte Suprema.

La Corte Suprema rigettò tutte le richieste delle società cinematografiche.

Per loro fortuna.

Oggi per effetto del noleggio e della vendita di videotape si è creato un enorme mercato aggiuntivo di utenti di prodotti cinematografici e di prodotti accessori a queste opere, che costituisce ormai di gran lunga la più importante fonte di profitti per i produttori e per i titolari dei diritti di autore sulle opere cinematografiche.

In entrambi i casi che abbiamo illustrato, i titolari di diritti di proprietà intellettuale hanno errato privilegiando istintivamente, ma in modo rivelatosi eccessivo, gli aspetti della protezione delle opere, rispetto agli aspetti della distribuzione e dell’accesso.

Privilegiare la protezione rispetto alla distribuzione e all’accesso è stato un errore sotto due punti di vista.

In primo luogo, perché i beni immateriali, come tutti i beni che hanno confini non ben definiti (tutto può divenire oggetto di proprietà intellettuale), sono difficili da proteggere giuridicamente.

In secondo luogo, perché la biblioteca pubblica prima e il VCR dopo hanno dimostrato che l’innovazione tecnologica non distrugge necessariamente la proprietà intellettuale, ma può favorirla:  determina solo nuovi punti di equilibrio tra esigenze del proprietario di vedersi adeguatamente remunerato il prodotto del suo ingegno e esigenze del consumatore di ottenere informazioni a basso costo e di facile accesso.

Queste vicende permettono di ritenere che anche i dirompenti effetti di Internet sul regime della proprietà intellettuale potrebbero risolversi non nella catastrofe che molti prevedono, ma nella individuazione di nuovi equilibri tra le contrapposte esigenze di titolari del diritto di autore e utenti dell’informazione e, magari, in nuovi concreti benefici per gli autori di opere dell’ingegno.

NAPSTER, la leggenda (formatasi in pochi mesi: sono i tempi della new-economy) vuole che Shawn Flanning, uno studente diciannovenne di computer science alla Northwestern University di Boston, abbia inventato Napster per tacitare le continue lamentele di un suo compagno di stanza sulla difficoltà di rintracciare e scaricare da Internet i file MP3 (si tratta di file musicali digitalizzati e compressi con una particolare tecnologia software in modo da poter essere velocemente trasmessi via Internet  e agevolmente inseriti nella memoria di un computer).

L’idea che sta alla base di Napster è quella della cooperativa: una cooperativa virtuale che mette in comune i testi musicali posseduti dai suoi soci.

Collegandosi a Napsters, si indica il titolo della canzone che si vuole ricevere, il software automaticamente la ricerca tra tutti i “soci” Napsters e ne permette lo scarico sul computer del richiedente.

In altri termini, è stata creata una gigantesca biblioteca di testi musicali, dalla quale ciascuno  può gratuitamente prelevare ciò che desidera.

Le case discografiche sono già scese sul sentiero di guerra contro Napster, uno strumento che ritengono idoneo a distruggere il diritto d’autore dei compositori e quindi il mercato della musica.

Ma Napster potrebbe rivelarsi, al contrario, uno strumento di diffusione del consumo di musica, e quindi di rafforzamento e promozione di un mercato che da tempo è in crisi per l’eccessivo costo dei CD.

Ovviamente, l’idea di cooperativa che sta alla base di Napster non è rimasta isolata.

Ha fatto subito proseliti, che, come sempre accade in ogni percorso innovativo, ne estendono o ne perfezionano le possibilità.

Tra i vari siti che offrono modelli di messa in comune delle informazioni virtuali, quello che ha scelto la strada più radicale è Freenet.

Questo sito si propone di mettere in comune tra i partecipanti alla cooperativa ogni genere di materiale informativo, documentario e fotografico, e non solo testi musicali.

Si tratta quindi di una vera e propria Rete che si organizza e cresce in modo autonomo e indipendente all’interno della Rete.

Tutti i dati e le informazioni che un membro ha ottenuto a pagamento o in virtù della propria posizione all’interno di una organizzazione divengono patrimonio comune e gratuito di tutti gli altri membri.

Poiché le informazioni circolano direttamente tra i vari PC, e quindi in modo decentrato, gli utenti di Freenet sono sottratti ai controlli e alle verifiche cui invece sono sottoposti, nei diversi ordinamenti giuridici statali, gli utenti di Internet.

Con tutti i vantaggi e i pericoli che ciò comporta: libertà di comunicare per tutti gli utenti che si trovano in Stati che reprimono controllano o censurano le informazioni; ma libertà di comunicare in segretezza anche a scopi illeciti, o per sviluppare transazioni o commerci vietati a livello nazionale o internazionale.

IL CANDIDATO È UN SITO

Stati Uniti.

Nella campagna presidenziale e elettorale del 1992, la posta elettronica era considerata uno strumento sperimentale e di avanguardia: pochi candidati ne fecero uso per comunicare con gli elettori, nessuno pensò che potesse avere una qualche importanza.

Infatti, non ne ebbe.

Nel 1996, i candidati alla Presidenza e molti candidati al Congresso lanciarono delle proprie pagine web, offrendo quasi esclusivamente quella che viene denominata brochureware, cioè quel tipo di pubblicità elettorale che viene comunemente usata in forma cartacea nelle campagne elettorali.

Nessuna interattività, nessuna analisi dei messaggi ricevuti; solo inviti ad esprimere opinioni, finalizzati però a costruire mailing-list per la campagna da utilizzare al di fuori del web (una eccezione era costituita dal sito di Bob Dole, come rileva Sara Bentivegna nel suo libro La politica in rete, Meltemi 1999, unica opera in italiano che offre dati e considerazioni sull’esperienza delle elezioni americane del 1996).

In conclusione, la campagna elettorale online nelle elezioni del 1996 era considerata – e probabilmente è stata – assolutamente inutile per raccogliere voti, ma assai economica, e inevitabile, visto che anche i competitori ne facevano uso.

Sono passati quattro anni.

Siamo vicini alle elezioni del 2000.

Volete sapere chi sono India, Cowboy e Ernie?

Semplice, cliccate su <www.georgewbush.com> e scoprirete che sono i tre gatti di George Bush: su quel sito vedrete anche le foto delle sue figlie, del cane Spot e di George da giovane (prima di fumare erba, e prima anche di evitare la guerra del Vietnam).

Volete sapere come fare per organizzare una serata per raccogliere fondi per la campagna di Bill Bradley?

Altrettanto semplice, cliccate su <www.billbradley.com> , poi entrate in Dinner Party Kit, e avrete tutte le informazioni necessarie (Bradley ha raccolto in questo modo oltre un milione di dollari già nelle prime settimane della sua campagna).

Se poi siete davvero stati in Vietnam, cliccate <www.mccainpatriots.com>, collegato con il sito principale di McCain, <www.mccain2000.com> , e vi troverete insieme a tutti i veterani che sostengono la sua campagna.

Non solo i candidati al posto più importante (quello di Presidente), ma tutti coloro che cercano di conquistare uno qualsiasi delle centinaia e centinaia di posti da assegnare nelle prossime elezioni sono muniti di un sito con il quale presentano sé stessi e i loro progetti, dialogano con i possibili elettori, ricevono finanziamenti per la loro campagna.

Numerosi siti web offrono poi informazioni di carattere generale sulla campagna elettorale, sui candidati e i loro programmi, sugli orientamenti di voto degli elettori, sui finanziamenti che ciascuno ha ricevuto, e su come i soldi sono stati spesi (provate a consultare, tanto per avere un esempio, <www.politics.com>  oppure <www.vote.com> fondata qualche anno fa da due avvocati impegnati nelle lotte giudiziarie contro i produttori di sigarette).

Questi sono i siti “ufficiali”: una piccola parte della politica online attuale negli Stati Uniti. Intorno ad essi gravita infatti una nebulosa di siti di fiancheggiatori, oppure di oppositori dei candidati: sono i cosiddetti hangers-on.

I primi sono costituiti e mantenuti da volontari, i quali svolgono attività di sostegno del loro candidato, organizzano meeting, raccolgono fondi.

Tutti questi si avvalgono di una particolare disposizione della legislazione elettorale, che esonera dalle rigide regole riguardanti la raccolta di fondi e di finanziamenti coloro che non sono inseriti nella organizzazione costituita dal candidato per la sua campagna.

Naturalmente, sono attentamente sorvegliati dalla Commissione incaricata di vigilare sull’andamento della campagna elettorale, che controlla che siano effettivamente volontari veri e propri.

Ci sono infine anche i siti ostili. Il più famoso è  <www.gwbush.com>: il suo creatore, Zack Exley, pedina da mesi con scrupolosa assiduità George Bush e ne smentisce o ridicolizza tutte le dichiarazioni o gli impegni che assume (“Bush non è solo il miglior candidato, è il miglior candidato che potete comprare con i vostri soldi” è uno degli slogan più noti del sito).

Exley offre anche una completa rasssegna di links ragionati a tutti i siti ostili a Bush (attualmente, circa una diecina) ed a quelli ostili ad altri candidati.

Da lì, si può quindi navigare verso <www.run-hillary.com>, dedicato a Hillary Clinton (ma da qualche tempo non consultabile) e verso <www.AlBore.com>  (bore significa noia), sito ombra di Al Gore, attualmente in vendita per 5000 dollari: il creatore garantisce migliaia di accessi quotidiani.

Non c’è da stupirsi: si calcola che dei 70 milioni di americani che utilizzano oggi la Rete, almeno un paio su dieci consultino abitualmente i siti della politica online.

Un mutamento inimmaginabile e vertiginoso dal 1996, per non parlare del 1970, appena trenta anni fa, quando la televisione, e l’offerta al pubblico dei tre famosi confronti diretti tra Kennedy e Nixon sembravano aver cambiato per sempre i modi di condurre una campagna elettorale.

Questa è l’America.

Che succede qui in Italia, ai margini dell’impero delle telecomunicazioni e della libertà sulla Rete?

Anche qui, le cose sono cambiate.

Nessuno più (con qualche eccezione, per rispetto delle tradizioni) affida la sua campagna elettorale ai comizi sulla piazza del paese (magari arrampicandosi, se di bassa statura, su cassette della verdura, come faceva Fanfani).

Sono in netto calo anche tutte le propagande cartacee che infestavano sino a pochi anni fa la nostra casella della posta e il nostro tergicristalli.

Siamo nell’epoca del trionfo della televisioni e degli spot.

Certo, anche i candidati si sono accorti che esiste Internet, e molti si sono muniti di un sito Web.

Ma andate a vederli: siamo ancora all’offerta del volantino di propaganda visualizzato, e, se presentabile, alla presentazione di un sintetico curriculum (che sarebbe comunque insufficiente per farsi assumere da qualsiasi organizzazione internazionale: chissà perché è ritenuto sufficiente per farsi votare come Presidente di una Regione italiana.).

Ci sono i siti dei vari partiti, alcuni anche ben congegnati: ma questo non è un segno di comprensione del nuovo, ma di inconscia riproduzione del vecchio, di mantenimento di una gara politica in cui non contano la persona, il candidato, i suoi programmi e le sue capacità: conta, più di tutto ciò, e più delle idee del candidato,  la sua appartenenza e le idee del partito in cui è inserito.

La campagna politica sulla Rete offre, tra gli altri, alcuni vantaggi.

L’interattività prima di tutto: ciascun candidato può comunicare direttamente e personalmente con il suo possibile elettore, confrontarsi con le sue domande e dare delle risposte.

Poi, la disintermediazione: ciascun candidato può stabilire un contatto diretto con l’elettore, senza passare attraverso mediatori quali il presentatore o il programma televisivo.

Infine, la pubblicità: ogni dichiarazione o affermazione del candidato è sottoposta immediatamente ad una verifica globale e pubblica, e può essere confermata (o smentita) altrettanto pubblicamente.

Sembra però che questi, nella campagna elettorale italiana, non siano vantaggi, ma pericoli.

A quanto sembra, nessuno è disposto a fissare sulla Rete idee, programmi e dati sui quali basa la sua campagna elettorale. Nessuno è disposto a un confronto, sulla Rete, rispetto a ciò che dice o a ciò che afferma.

Ma soprattutto, nessun candidato sembra disposto a dichiarare da dove trae i finanziamenti per la sua campagna e quali siano i suoi effettivi sostenitori.

TUTTI I CRIMINI DEL BUON LEOPOLDO

Negli ultimi anni, le ragioni umanitarie e, più in generale la tutela dei diritti umani sembrano aver fatto irruzione sulla scena mondiale.

La politica nazionale e internazionale e la diplomazia hanno fatto un intenso uso delle ragioni umanitarie come meccanismo di giustificazione di interventi bellici o di invasioni militari in paesi sovrani.

D’altro canto, il principio della perseguibilità delle violazioni dei diritti umani, da chiunque commesse, è stato alla base delle storiche decisioni adottate dalle Corti giudiziarie inglesi nel caso Pinochet.

Molti ritengono che questi casi siano espressione di una evoluzione del diritto e delle relazioni internazionali determinata dal progressivo corrodersi dello Stato nazione e delle barriere offerte dal principio di sovranità.

In effetti, la sovranità è oggi qualcosa di intrinsecamente diverso da ciò che era solo pochi decenni orsono.

Certamente i governi sono meno liberi di fare quel che vogliono, sia del loro territorio e del loro ambiente, sia dei popoli che governano: molti concordano sul punto che la sovranità, e cioè il potere di una nazione di impedire ad altri di interferire nei suoi affari interni, si va rapidamente erodendo.

Questa valutazione coglie il segno per ciò che riguarda il caso del generale Pinochet, che solo pochi anni orsono avrebbe potuto circolare liberamente per tutta Europa, seguito al più da qualche manifestazione di protesta.

Pinochet è quindi effettivamente una vittima – se così si può definire – della disgregazione del principio di sovranità.

È però errato ricondurre alla disgregazione della sovranità o all’evoluzione del diritto internazionale le varie invasioni e aggressione per ragioni umanitarie verificatesi a partire dall’operazione Restore Hope in Somalia.

Le attuali invasioni belliche per scopi umanitari, infatti, non sono l’effetto di una disgregazione della sovranità, ma al contrario, di una sua potente riaffermazione: una riaffermazione, perché questo istituto sorge molto tempo fa, per legittimare l’occupazione del Nuovo Mondo da parte prima della Spagna e poi delle altre potenze occidentali.

Ed infatti, una delle caratteristiche fondamentali delle aggressioni militari per ragioni umanitarie attuali – non diversamente da quelle attuate nel XVI e XVII secolo – è quella che lo spirito umanitario anima invariabilmente Stati militarmente e economicamente potenti, mentre destinatari dell’intervento umanitario sono sempre Stati o comunità militarmente e economicamente deboli.

Questo può significare che la mancanza di umanità è propria solo degli Stati poveri e che, viceversa, solo gli Stati ricchi che molto investono in armi e in apparati bellici sono non solo genuinamente umanitari, ma per di più animati da un incontenibile spirito solidaristico, che porta ad affrontare spese enormi in nome di principi di fratellanza.

Oppure può significare che gli Stati ricchi e potenti usano il pretesto delle ragioni umanitarie per fare guerre non consentite dal diritto internazionale, quasi sempre vietate dalle normative costituzionali dei singoli Stati, e comunque non giustificabili di fronte all’opinione pubblica interna.

Ma, a prescindere da ciò, la pratica dell’invasione e dell’aggressione militare giustificata dallo spirito umanitario degli invasori, sorta e teorizzata in Europa, come detto, alcuni secoli orsono, ha avuto varie più recenti applicazioni.

Nella sua versione contemporanea, è stata messa a punto ufficialmente negli anni Trenta, dopo che nel 1929 il patto Briand-Kellogg – sottoscritto da ben 65 Stati sui circa 100 allora esistenti – aveva solennemente abolito il ricorso alla guerra come strumento per dirimere conflitti internazionali, segnando così non la fine delle aggressioni militari, ma la necessità di giustificarle con ragioni umanitarie (ritenute compatibili con gli scopi del patto).

Così, è per tutelare i diritti umani degli abitanti Manchù, violati dai Cinesi che il Giappone interviene militarmente in Manciuria nel 1931, rendendosi responsabile di estensivi massacri della popolazione civile.

È per tutelare un popolo ridotto in schiavitù dai suoi governanti che l’Italia interviene in Etiopia nel 1935, con ampio uso di armi chimiche e di gas.

È infine per tutelare i diritti umani del popolo tedesco conculcati dal governo cecoslovacco che la Germania nazista occupa la Cecoslovacchia nel marzo del 1939.

L’invenzione del meccanismo delle ragioni umanitarie per giustificare una aggressione militare è però ancora precedente.

Ne è artefice uno dei più astuti ed efferati criminali della recente storia europea: Leopoldo II re dei Belgi, padrone assoluto del Congo.

Affermando di voler assistere materialmente e spiritualmente le popolazioni  locali, di volerle proteggere dalle incursioni dei briganti arabi alla ricerca di schiavi per il mercato di Zanzibar e di volerle immettere come liberi soggetti nella comunità internazionale, Leopoldo II riesce in un’impresa davvero eccezionale: alla Conferenza di Berlino del 1885, ove viene avviata la spartizione dell’Africa tra le potenze europee, fa assegnare non al Belgio, ma ad una associazione privata, la International African Association, l’immenso territorio del Congo.

In poco tempo, ottenuta l’assegnazione, l’associazione di dissolve, lasciando al suo posto Leopoldo II.

È l’unico caso di una colonia che costituisce, con tutti i suoi abitanti, la proprietà di una singola persona.

C’è un libro straordinario e avvincente che descrive la storia di Leopoldo II, del Libero Stato del Congo, e dei vari personaggi che vi hanno preso parte (Adam Hochschild, King Leopold’s Ghost. A Story of Greed, Terrror, and Heroism in Colonial Africa, Houghton Mifflin Company, New York 1998), purtroppo tuttora non tradotto in italiano.

Il libro offre una impressionante documentazione delle condizioni di schiavitù con le quali in Congo le popolazioni erano costrette a lavorare per raccogliere prima l’avorio, poi la gomma, preziose merci destinate ai mercati e ai consumatori europei.

Coloro che si rifiutavano di prestare la loro attività lavorativa erano deportati, seviziati o uccisi insieme ai membri delle loro famiglie, o, assai spesso, al fine di risparmiare munizioni, erano puniti con il taglio delle mani, che venivano pubblicamente esposte come monito dalle truppe di re Leopoldo (è in Congo che Conrad ha visto e sperimentato ciò che poi racconterà in uno dei suoi più celebri racconti, Cuore di tenebra).

Nel frattempo, Leopoldo II era descritto dai suoi sostenitori come “uno dei più nobili sovrani del mondo, un imperatore la cui unica ambizione è quella di servire la causa della civilizzazione cristiana e di promuovere il benessere dei suoi sudditi, governando con saggezza, tolleranza e giustizia” Quel dominio che la capillare propaganda di Leopoldo  giustificava come finalizzato alla diffusione della civilizzazione cristiana (con il sostegno, naturalmente, delle gerarchie ecclesiastiche) celava in realtà un metodico e ferocissimo genocidio di popolazioni inermi (intere aree del Congo vennero spopolate da deportazioni e massacri), determinato non da ragioni ideologiche, ma da grette finalità commerciali e di accumulazione di immense ricchezze.

Pochi coraggiosi (e tra questi non c’erano né Conrad né i numerosi preti cattolici presenti in Congo: fino all’ultimo il Vaticano ha difeso il cattolico Re dei Belgi), dopo aver visto ciò che accadeva in Congo, si dedicarono alla denuncia del regime di terrore ivi instaurato.

Ma per anni e anni, neppure le foto delle mani mozzate diffuse sui giornali europei riuscirono a smuovere l’opinione pubblica europea.

Solo dopo molto tempo, e dopo aver ammassato incalcolabili ricchezze, Leopoldo si vide costretto  a vendere al Belgio il suo Congo, e a rinunciare alla sua impresa umanitaria.

“Il Belgio avrà il mio Congo, ma non ha diritto di sapere ciò che io ho fatto lì” si racconta che abbia detto, dando incarico di distruggere tutti i documenti e gli archivi relativi al suo Libero Stato del Congo.

Come si vede, non c’è assolutamente nulla di nuovo nelle aggressioni belliche condotte per dichiarate finalità umanitarie: c’è, anzi, puzza di merce stantia e riciclata, contando sulla scarsa memoria degli ascoltatori.

Del resto, se Leopoldo con i pochi mezzi di persuasione all’epoca a sua disposizione è riuscito per quasi vent’anni a massacrare intere popolazioni per un po’ di gomma, convincendo gli europei che stava conducendo una faticosa missione umanitaria, è facile immaginare che i Governi europei attuali, con le tecnologie di comunicazione oggi a disposizione, possano ottenere consensi ben più estesi.

Possano anche persuadere l’opinione pubblica che c’è qualcosa di nuovo.

LA TERRA DEGLI SCHIAVI

Dov’è il Benin?

Pochi lo sanno, molti ne ignorano l’esistenza. Solo ai più anziani il nome Dahomey – l’antica denominazione del Benin – evoca incerti ricordi.

Eppure il Benin, uno Stato grande un po’ meno del Portogallo che si affaccia sul Golfo di Guinea, stretto tra il Togo e la Nigeria, colonia francese fino agli anni sessanta del secolo scorso, è stato il teatro di una tragedia di incomparabili proporzioni, i cui strascichi segnano tuttora la vita civile di molte nazioni.
Complessivamente, le vittime della tratta di schiavi sono state stimate in circa 15 milioni.

Da questa costa Portoghesi, Inglesi, Francesi e Olandesi hanno deportato, tra la metà del quindicesimo e la metà del diciannovesimo secolo, circa 10 milioni di esseri umani: più precisamente 9.391.100 schiavi, secondo i conti fatti da Philip Curtin nel 1969, con una indagine che tuttora rimane il riferimento dei successivi studi in materia (P.D.Curtin, The Atlantic Slave Trade: A Census, University of Wisconsin Press).

Attenzione però: in questo numero sono compresi solo gli schiavi effettivamente giunti a destinazione nei mercati di oltreoceano. Devono quindi aggiungersi tutti coloro che morivano durante il trasporto per mare – mediamente il 20% del carico – e tutti coloro che morivano, prima ancora, nel trasporto dal luogo di cattura al luogo di imbarco.

Il che significa, nei periodi di maggiore domanda di schiavi, alcune migliaia di deportati al mese.

Ben più elevato è il numero delle vittime indirette: intere economie in precedenza floride sono state distrutte, vasti territori in precedenza popolati sono stati abbandonati.

Recenti studi hanno dimostrato che nelle regioni che si affacciano sul Golfo di Guinea la scomparsa della foresta vergine non è avvenuta a quella velocità che finora era stata stimata, semplicemente perché la deforestazione non ha affatto riguardato una foresta vergine, ma una foresta sorta a seguito dello spopolamento di territori prima coltivati o utilizzati a pascolo, provocato dalla tratta degli schiavi.

Soprattutto, si è accumulata in Africa e in tutti i paesi che hanno partecipato alle varie fasi dell’economia schiavistica una pesante e irrisolta eredità di discriminazione, odio, paura, razzismo (si veda sull’argomento il libro appena uscito di Giorgio Pietrostefani, La tratta atlantica. Genocidio e sortilegio, Jaca Book). Sulla costa del Benin, proprio di fronte al mare, vicino a Ouidah (è obbligatorio l’invito alla lettura di un libro prezioso: Il Viceré di Ouidah di Chatwin), l’Unesco ha ricordato questa tragedia, erigendo un arco, l’Arco del Non-Ritorno, per commemorare i milioni di esseri umani che l’avidità e la smodata predilezione sviluppata dagli europei per zucchero e caffè e per i vestiti di cotone hanno di lì trascinato verso un destino di sofferenza e di morte.

Poche centinaia di visitatori all’anno arrivano ai piedi di quell’Arco, e guardano verso il mare: al di là c’è l’America, terra di libertà e di ricchezza per molti, terra di terrore per quelli che da quelle zone vi erano trascinati.

Invece dovrebbe essere previsto, magari con il contributo dell’Unione europea (che tanto ha a cuore i diritti dell’uomo) l’obbligo di compiere un pellegrinaggio a Ouidah per ciascun alunno delle scuole europee: un viaggio di formazione e di riflessione sul passato, sulle origini del proprio benessere..

Cotonou, capitale del Benin. Si affaccia sul mare con un porto effervescente e in grande sviluppo.

È come tante città africane: il prodotto di una crescita disordinata e di uno sviluppo incontrollato (non bisogna dimenticare che tra il 1991 e il 1997 gli investimenti stranieri in Africa hanno reso mediamente di più che in ogni altro continente).

Come tante città africane, si addensano e si accavallano, nello spazio di pochi metri, l’Antico e il Moderno: il canto del gallo e il sibilo del condizionatore d’aria, odori di frutta decomposta e di gas di scarico, uffici in vetroresina e capanne di paglia.

Nelle città africane i modi e gli stili di vita e le nuove tecnologie non sostituiscono quelle precedenti: il vecchio e il nuovo convivono e si sovrappongono, creando cortocircuiti spaziotemporali.

I veri protagonisti di Cotonou sono i ciclomotori giapponesi, nuovo simbolo dello sviluppo nella dimensione globale di sottosviluppo africano: migliaia e migliaia di Yamaha e Suzuki di piccola cilindrata si addensano ad ogni incrocio, stridendo e strombazzando, trasportando gruppi multicolori di persone, mai meno di due, spesso tre o quattro (ricordate la famiglia in Vespa nell’Italia pre-boom economico degli Anni Cinquanta?).

Sono mototaxi, guidati da giovani in divisa, con tanto di numero di licenza esibito sulla giacchetta, che portano a destinazione per poche lire persone e non, come da noi, pacchetti. La scarsità di mezzi ha determinato spontaneamente una soluzione che nelle città italiane si tenta di avviare per far fronte al congestionamento del traffico urbano prodotto dall’eccesso di benessere.

Man mano che si procede verso Nord, calano sempre più i segni della civiltà occidentale, i simboli del benessere occidentale: si fanno più rade le motociclette, scompaiono l’asfalto dalle strade, le costruzioni in muratura dalle città, le penne Bic dalle cartelle dei ragazzi.

Ci si muove nello spazio, ma è come fare un viaggio a ritroso nel tempo. Nell’estremo Nord del paese si entra nel territorio dei Somba, popolazione rimasta fortunatamente indenne dalla maggior parte degli effetti della colonizzazione.

Procedendo verso Nord, aumentano chiese, missioni, luoghi di incontro religiosi gestiti da organizzazioni gestite da preti, finti preti, ex-seminaristi, profeti e visionari.

Su cartelli corrosi dalle piogge, impiantati alla bell’e meglio agli angoli delle strade, ai bordi della boscaglia, si succedono combinazioni fantasiose di Santi, cuori di Maria, soldati apostolici di Cristo, minacciose profezie di apocalissi e comandamenti più o meno assurdi.

Dovunque sono reclamizzate organizzazioni per le quali la povertà costituisce non una situazione di necessità ma la risorsa da sfruttare, secondo il principio per cui l’aumento del bisogno materiale provoca la ricerca di compensazioni nell’Aldilà e quindi fertile terreno per chiunque venda prodotti immateriali e spirituali.

Tutta l’Africa è spolpata da migliaia di emuli di Credeonia Mwerinde.

Questa, dopo aver condotto una vita di miseria nell’Uganda travolta dalla guerra civile – due volte vedova, molti figli, molti lavoretti (venditrice ambulante di banane, prostituta, piccolo contrabbando) – vede nel 1988 la Madonna in una grotta ed avvia la sua carriera di profetessa.

La prima mossa è il reclutamento come aiutante profeta, consigliere e socio di Joseph Kibwetere, dotato di vasta esperienza nel settore per aver svolto funzioni di ispettore dell’insegnamento cattolico.

Sorge così il “Movimento per la restaurazione dei dieci comandamenti di Dio”: in pochi anni raccoglie migliaia di fedeli cui è promessa la salvezza eterna alla data ormai prossima dell’Apocalisse, a condizione che i loro beni terreni – un fazzoletto di terra, qualche risparmio – vengano lasciati al Movimento. La fede degli aderenti è ben ripagata: l’Apocalisse per loro arriva davvero, e tutti muoiono, avvelenati e felici, mentre Credeonia se la batte con il bottino.

IL GATTO UCCISO A CALCI E UN CASO STATUNITENSE

Tivoli, Italia (da Il Corriere della Sera, domenica 25\6\2000, Fabrizio Roncone “Giocano a calcio con un gatto fino a ucciderlo” pag.14).

I tre ragazzi erano annoiati e hanno deciso di passare il tempo giocando a calcio.

Come palla hanno usato un gatto nero. Il gatto trasformato in palla è morto.

I tre rischiano una multa per maltrattamento di animali, fino a 10 milioni.

La padrona del gatto, quando ha visto il gatto immobile sul marciapiede, ha cercato prima di fargli la respirazione bocca a bocca, poi un massaggio cardiaco.

Tutto inutile.

Il gatto era già morto.

Le due figlie della padrona del gatto hanno pianto per tutto il giorno.

Poi, lo hanno sepolto nel giardino di casa.

Leggendo questa notizia, il lettore può scegliere almeno due piste di valutazione:

a) inorridire per la crudeltà e il cinismo dei giovani d’oggi

b) stupirsi per il fatto che il Corriere ha dedicato un proprio inviato speciale e quattro colonne delle proprie pagine all’uccisione di un gatto;

c) considerare fa più notizia un gatto preso a calci che un rumeno bruciato dal padrone o a un giovane ecuadoregno giustiziato sulla strada da un praticante avvocato giustiziere.

Ma ecco che cosa accade negli Stati Uniti.

San Francisco, USA (da San Francisco Chronicle venerdì 2\6\2000, Jaxon Van Derbeken, S.F. Dog Killer Avoids 3-Strikes Sentence).

Joey Trimm, di anni 29, accortosi che il suo cane Guinness stava mangiando il cibo preparato per il gatto, colto da un impeto d’ira, lo ammazza di botte, lo mette in un sacchetto di plastica e lo butta nella spazzatura.

Ma la sua fidanzata, accortasi della mancanza del cane, lo denuncia.

Trimm viene arrestato Tutto ciò accade nel maggio del 1997, oltre tre anni orsono.

Trimm attende in carcere per tre anni il processo.

Il Procuratore distrettuale, avendo l’imputato già subito nel 1990 due condanne per molestie a due minorenni, chiede una condanna a 25 anni, in applicazione della legge dei “tre colpi”: alla terza condanna, per qualsiasi motivo, in California si ricevono non meno di venti anni di carcere.

Si giunge al processo.

Il Procuratore distrettuale sceglie una linea morbida.

Non per l’uccisione del gatto, ma per le molestie ai minorenni. A fronte di una ammissione di colpevolezza di Trimm, acconsente a considerare le due condanne precedenti per molestie come un solo episodio ai fini dei tre colpi, e chiede per l’uccisione del cane solo sette anni.

Il giudice ritiene eccessiva la richiesta e infligge una condanna a quattro anni.

Di fatto, Trimm uscirà dal carcere nel novembre di quest’anno, dopo tre anni e mezzo.

“Sono stupefatto per questo gesto di clemenza!” dichiara il portavoce di Voices for the Pets, una associazione per la protezione degli animali domestici “ma almeno tre anni li ha scontati”.

A CHI SERVONO I PRODOTTI GENETICAMENTE MODIFICATI?

Attentato all’integrità della natura o espressione dell’ingegno umano?

Strumento di distruzione o di incremento della biodiversità?

Mezzo per sottoporre l’agricoltura mondiale al controllo di poche multinazionali, o panacea per eliminare il problema della fame?

Queste le alternative che si contrappongono nelle discussioni in merito alle ricombinazioni genetiche applicate all’agricoltura e dei relativi prodotti agricoli.

Fin dall’inizio degli anni Settanta, quindi ben prima della loro immissione sul mercato, i prodotti agricoli geneticamente modificati con la tecnica del Dna ricombinante, che chiameremo d’ora innanzi Pagm, sono stati al centro di uno scontro che ha riguardato non solo e non tanto le regole più appropriate da applicare per utilizzare questi prodotti garantendo la sicurezza dell’ambiente e la salute dei consumatori, ma l’ammissibilità da un punto di vista etico e ambientale della loro produzione e del loro uso: un vero e proprio scontro ideale tra opposte visioni del mondo.

Attualmente, i Pagm sono divenuti, con una crescita costante, una componente importante della produzione agricola mondiale (anche se le aree agricole interessate sono concentrate per il 99% in soli tre Paesi: Stati Uniti, Argentina e Canada): complessivamente erano coltivati con Pagm nel 1996 1,7 milioni di ettari, divenuti 11 milioni nel 1997, 27,8 milioni nel 1998, e 39,9 milioni nel 1999.

Lo scontro tra sostenitori e oppositori dei Pagm non è però diminuito di intensità: neppure i disastri di Three Miles Island e di Cernobyl hanno determinato nell’opinione pubblica una ostilità nei confronti dell’energia nucleare analoga a quella esistente nei confronti degli Ogm.

Il confronto si è però spostato dalla ammissibilità teorica dell’uso dei Pagm ai problemi connessi con il loro uso concreto.

Così, i temi di carattere scientifico, giuridico, agricolo, ambientali, economico hanno sostituito gli aspetti etici e politici, anche se questi ultimi non sono affatto scomparsi.

Anzi, nella maggior parte dei casi le prese di posizione sono ancora determinate non dall’acquisizione di dati scientifici e da valutazioni razionali, ma da scelte di campo operate pregiudizialmente e fideisticamente in base a quei postulati etici o politici formalmente scomparsi.

Si è anche verificata una radicalizzazione geografica, ed è penetrata nelle relazioni internazionali, materializzandosi nella contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Europea in merito alla coltivazione e alla commercializzazione di Pagm.

Quest’ultima mantiene infatti una posizione di sostanziale blocco dell’utilizzazione di Pagm.

Infine ha acquisito una decisiva importanza nel dibattito la valutazione degli effetti della utilizzazione di Pagm per affrontare il problema della sottonutrizione e della fame nei Paesi in via di sviluppo (d’ora in poi Pvs ) e più in generale sull’aumento della popolazione mondiale.

Ed è su quest’ultimo punto che intendo soffermarmi.

INCROCI TRADIZIONALI E PAGM

Tutte le attuali coltivazioni sono il risultato di lente e continue selezioni operate attraverso i secoli, finalizzate a migliorare la produttività, i valori nutrizionali, la resistenza alle malattie, il gusto, ed anche l’odore e il colore.

Ciò significa che oggi tutti i prodotti dell’agricoltura sono diversi dalle specie originarie, dal loro “prototipo” naturale.

La maggior parte di essi – in Europa oltre il 90% – deriva da specie che hanno avuto origine in luoghi diversi da quelli in cui esse sono attualmente coltivate, e sono quindi state importate nei luoghi ove sono attualmente coltivate modificando in modo sostanziale e irreversibile le condizioni naturali originarie.

Inoltre, molte delle specie da cui hanno tratto origine quelle oggi coltivate sono estinte: sopravvivono ormai solo gli incroci.

In Europa, più del 90% dei prodotti alimentari appartiene a questa categoria.

Gli incroci e le clonazioni effettuati con tecniche tradizionali hanno lo stesso obiettivo degli organismi prodotti con l’ingegneria genetica, cioè con tecniche consistenti nell’estrarre (con varie modalità (1) il Dna corrispondente a uno o più geni specifici da un organismo “donatore” e nell’inserirlo nella cellula di un organismo ricevente.

L’obiettivo è quello di ottenere varietà che offrono una resa quantitativamente o qualitativamente migliore, incrementando la resistenza alle condizioni ambientali in cui viene coltivata (per esempio aridità del terreno, temperature più basse o più elevate di quelle necessarie per la coltivazione della varietà non modificata), oppure incrementando la resistenza a parassiti o malattie proprie della specie su cui si interviene, o infine incrementando la resistenza a prodotti pesticidi o antiparassitari che debbono essere utilizzati.

L’obiettivo può anche essere quello di ottenere varietà vegetali più pregiate perché gustose, più gradevoli e attraenti (è per questo che la carota, da viola, è stata resa arancione).

Sia gli incroci tradizionali che i Pagm sono basati sulla modificazione del patrimonio genetico della specie oggetto dell’intervento.

Per i primi ciò si realizza con il trasferimento casuale, incontrollato e potenzialmente rischioso, di migliaia o diecine di migliaia di geni; per i secondi con l’inserimento mirato di uno o più geni predeterminati.

Proprio per la casualità del risultato, l’incrocio di specie effettuato secondo metodi tradizionali ha in vari casi prodotto nuove specie tossiche per l’uomo, o specie più resistenti a determinati parassiti e in taluni casi le specie incrociate hanno determinato l’estinzione delle specie originarie.

In effetti, non vi è prodotto alimentare, comunque ottenuto, che sia esente da rischi: ogni varietà vegetale può produrre effetti indesiderati e talvolta dannosi.

Sotto questo profilo non c’è differenza tra pratiche tradizionali e nuove tecnologie.

Questo significa che è privo di senso imputare questo pericolo solo agli incroci ottenuti con tecniche di ricombinazione genetica, dopo che per centinaia di anni, in considerazione dei benefici, si sono sopportati i rischi degli effetti dannosi degli incroci tradizionali.

Vi è però una differenza tra varietà vegetali ottenute con incroci tradizionali e Pagm.

Le pratiche tradizionali sono vincolate al rispetto dei limiti di compatibilità delle specie: solo specie che si assomigliano possono essere incrociate al fine di ottenere varietà nuove e diverse, mentre specie non compatibili, come pure specie appartenenti a generi (vegetale ed animale) diversi, non posso essere incrociate.

Al contrario, le tecnologie che utilizzano il Dna ricombinante possono essere utilizzate per ottenere modificazioni genetiche che non sarebbe possibile ottenere avvalendosi di pratiche tradizionali, inserendo in specie o varietà vegetali geni estratti da batteri o altri organismi animali, e realizzare così i c. d. organismi transgenici.

Naturalmente, il fatto che con le tecniche di ingegneria genetica si riescano ad ottenere incroci che non si possono ottenere con le tecniche tradizionali non significa che solo i primi incroci siano “innaturali”.

Se natura è la realtà non toccata o non trasformata dall’uomo, non c’è alcuna differenza tra tecniche tradizionali e tecniche di ingegneria genetica: entrambe creano prodotti innaturali: in entrambi i casi l’uomo si è sostituito alla natura o a Dio (utilizzando le tecniche di volta in volta messe a disposizione dal progresso scientifico e tecnologico).

La differenza – e quindi l’eventuale diverso trattamento giuridico – è quindi tra prodotti alimentari parimenti innaturali, ma gli uni ottenuti artificialmente con tecnologie utilizzate da migliaia d’anni, gli altri ottenuti artificialmente, ma con tecnologie che solo da pochi decenni sono a disposizione.

È solo in questa differenza e nei loro specifici effetti – se esistono – che dovrebbero essere individuate le ragioni che determinano l’accettabilità degli incroci tradizionali e l’inaccettabilità dei Pagm, e quindi divieti o limitazioni alla coltivazione o alla commercializzazione di questi ultimi, sotto il profilo del pericolo per l’ambiente, o per la salute.

POPOLAZIONE E AGRICOLTURA MONDIALE

Sulla terra vivono più di 6 miliardi di esseri umani; erano 3 miliardi e mezzo solo nel 1968.

L’aumento della popolazione è dovuto al generalizzato aumento dell’aspettativa di vita per effetto delle migliori condizioni di igiene, di assistenza sanitaria, alla maggiore disponibilità di acqua, al ridursi dell’inquinamento.

Il tasso di aumento della popolazione mondiale è oggi 1,3-1,4% (era 2,1% nel 1968).

Al tasso di crescita attuale, la popolazione mondiale è destinata a raddoppiare in cinquant’anni: questo significherebbe 12 miliardi di persone nel 2050, ma è probabile che il tasso decresca nel prossimo futuro (con il migliorare delle condizioni di vita, soprattutto delle donne) e quindi l’aumento della popolazione sia più contenuto.

Secondo previsioni delle Nazioni Unite si dovrebbe giungere a una popolazione di circa 8 miliardi nel 2025 e di 9 o 10 miliardi nel 2050 (quando 9 persone su 10 vivranno nei Pvs ), con una stabilizzazione finale a 11 miliardi verso il 2200 (2).

Prima del XX secolo, l’aumento della produzione agricola era determinato quasi esclusivamente dall’aumento delle aree coltivate.

A partire dagli anni Trenta, con l’avviarsi dell’utilizzazione pratica di nuove tecniche di ibridazione e con la creazione di nuove varietà delle specie più coltivate più resistenti o più prolifiche, comincia ad aumentare la produttività, prima negli Stati Uniti, poi, più tardi, in Europa e in Giappone.

Utilizzando queste tecniche, tra il 1935 e il 1975 la produzione di granturco aumenta negli Stati Uniti del 60%.

A partire dalla fine degli anni Sessanta, proprio la progettazione e l’utilizzazione di nuove varietà più produttive o più resistenti (che rendono possibile il passaggio da uno a due raccolti all’anno), insieme all’uso dell’azoto come fertilizzante e insieme a consistenti investimenti in opere di irrigazione sono le componenti della c. d. Rivoluzione verde che dapprima coinvolge l’Asia e l’America Latina e comincia a far sentire i suoi effetti in Africa negli anni Novanta.

Tre colture – frumento, granturco e riso – sono state l’oggetto principale della Rivoluzione verde; essenzialmente per l’aumento della loro produzione nel corso dei trent’anni è stata evitata quella crisi da mancanza di cibo nei Pvs che Ehrlich aveva previsto come inevitabile.

Queste colture oggi coprono circa la metà di tutte le terre coltivate (circa il 35% della superficie terrestre, escluse le ragioni polari); esse inoltre costituiscono le principali fonti di nutrizione della popolazione mondiale e compongono la maggior parte delle calorie presenti nella dieta umana (3).

A partire dal 1967, la produzione di queste colture è aumentata tra il 79% e il 97% solo per effetto della maggior resa ottenuta utilizzando le nuove varietà, i fertilizzanti chimici azotati e moderne tecniche di irrigazione, e solo per una minima parte per l’aumento delle aree coltivate (in mancanza di aumento della produttività, per raggiungere lo stesso risultato si sarebbe dovuta destinare ad uso agricolo un’area pari all’intera Amazzonia (4), e questo dimostra gli incalcolabili benefici di carattere ambientali provocati dalle tecnologie impiegate nella Rivoluzione verde).

Nel periodo di circa quarant’anni la popolazione è effettivamente raddoppiata, ma è più che raddoppiata la disponibilità di cibo, sia pure in modo diseguale tra Paesi sviluppati e Pvs.

Il risultato è che nei Paesi sviluppati il problema è non la carenza, ma l’eccesso di cibo: infatti i prezzi dei prodotti alimentari, proprio per l’abbondanza dell’offerta rispetto alla domanda, sono diminuiti in media di circa due terzi rispetto al prezzo del 1957 (la rallentata crescita della produzione di cibo nella seconda metà degli anni Novanta non dipende – come molti ritengono – dall’esaurirsi degli effetti della Rivoluzione verde, ma da deliberate scelte di politica agricola dei Paesi ricchi, che hanno così cercato di limitare il surplus) (5).

Inoltre, proprio per effetto dell’aumento della quantità di cibo disponibile e della diminuzione dei prezzi si è ridotto, come abbiamo visto, il numero di persone cronicamente sottonutrite nel mondo: erano – secondo stime delle Nazioni Unite che però molti esperti hanno giudicato non attendibili – oltre 900 milioni all’inizio degli anni Settanta, sono nel 1997 circa 800 milioni di persone (6).

Naturalmente, la Rivoluzione verde non è stata priva di effetti di carattere ambientale, economico e politico.

Essendo determinata da tecnologie ad alto uso di energia e di know-how, ha rimpiazzato le tecniche agricole semplici e spesso a conduzione famigliare; favorendo monoculture intensive, ha ridotto l’autonomia agricola locale e regionale, creando nuove forme di dipendenza e immettendo gli agricoltori in un sistema di banche di sementi, fertilizzanti, macchine agricole, finanziamenti, organizzazioni politiche; ha creato vincitori e vinti su scala mondiale, privilegiando coloro che sono riusciti a tenere il passo con i Paesi ricchi e danneggiando chi non ci è riuscito: nel 1950 l’agricoltura dei Paesi ricchi era sette volte più efficiente di quella dei Paesi poveri; nel 1985, trentasei volte (7).

LA PRODUZIONE DEL CIBO

Le previsioni concernenti la quantità di cibo disponibile nel futuro sono di estrema importanza per valutare se i Pagm siano utili o indispensabili per affrontare il problema della nutrizione dell’accrescersi della popolazione mondiale o quantomeno per evitare un incremento delle persone sottonutrite e affamate nel mondo.

Sono previsioni ardue, sia per la molteplicità di fattori da considerare (oltre a quello strettamente agroalimentare, si deve tener conto degli aspetti climatici, economici, politici e di relazioni internazionali), sia per i diversi e spesso non dichiarati interessi degli esperti e degli scienziati proprio con riferimento all’impiego di tecniche genetiche (in quanto i sostenitori di queste ultime tendono ad accentuare la probabilità di un futuro peggiore dell’attuale, mentre gli oppositori favoriscono ipotesi ottimistiche).

Così, è prima di tutto assai incerto uno dei dati di partenza di qualsiasi previsione e cioè la quantità delle persone sottonutrite nel futuro.

Secondo il Rapporto Transgenic plants and world agriculture, predisposto dalla Royal Society del Regno Unito (nettamente favorevole all’utilizzazione dei Pagm) l’attuale cifra di 800 milioni di persone sottonutrite è destinata a raddoppiarsi nel 2050, se non interverranno consistenti modificazioni sulle cause che generano la sottonutrizione.

Secondo altre stime (Fao) il numero complessivo delle persone sottonutrite dovrebbe continuare a calare, riducendosi nel 2050 a 600 milioni.

Pur essendo questa contrapposizione di tali dimensioni da rendere di per sé solo arduo qualsiasi esercizio previsionale, su un dato però vi è un sostanziale accordo tra tutti gli specialisti: futuri aumenti della produzione agricola dovranno basarsi su un aumento della produttività, e non su una estensione dei territori destinati all’agricoltura, per due ragioni.

Prima di tutto, perché le aree utilizzabili per l’agricoltura sono già scarse, e continuano a diminuire, sia per cause naturali (erosione, mancanza di acqua, desertificazione, ecc. ), sia per l’assoggettamento ad altre destinazioni.

In secondo luogo perché una estensione delle aree destinate all’agricoltura oltre i limiti attuali produrrebbe costi economici e organizzativi difficilmente sopportabili per molti Paesi e, inoltre, un aumento non sostenibile dell’inquinamento ambientale (per effetto della distruzione delle foreste, dell’habitat naturale e della biodiversità).

La questione centrale è quindi se sia possibile un aumento della resa delle coltivazioni adottando le stesse tecniche introdotte dalla Rivoluzione verde (e quindi senza utilizzare le nuove tecnologie genetiche), senza provocare danni non sostenibili all’ambiente, in modo da soddisfare il prevedibile aumento della domanda dovuto all’aumento della popolazione mondiale.

Molti studi sono stati fatti per verificare quale sia la produttività massima raggiungibile con le tecniche agricole attualmente utilizzate; tenendo conto della produttività massima raggiunta dalle varie specie nelle migliori condizioni ambientali e tecnologiche possibili, la conclusione più diffusa è che non potranno essere superati di molto i livelli raggiunti attualmente dalle colture più produttive nei Paesi più avanzati, se non introducendo nuove sofisticate tecnologie che permettano di intervenire sull’efficienza della fotosintesi e sul metabolismo delle piante.

Le previsioni però non sono per nulla pessimistiche.

Secondo la maggior parte degli esperti l’obiettivo di raggiungere una produzione sufficiente per soddisfare la domanda mondiale di circa 8 miliardi di persone nel 2025 può essere raggiunto senza aumentare il terreno coltivato e utilizzando le tecniche attualmente in uso, anche se saranno necessari imponenti opere di estensione delle infrastrutture di irrigazione, sofisticati processi di razionalizzazione nel raccolto, nella conservazione e nella distribuzione dei prodotti alimentari, e la eliminazione degli sprechi che ora caratterizzano il sistema agroalimentare mondiale.

In definitiva la situazione mondiale per ciò che riguarda la produzione globale di cibo dovrebbe continuare a migliorare (8).

MOLTO CIBO, MAL DISTRIBUITO

Il fatto che la quantità globale di cibo sarà complessivamente sufficiente a far fronte alla domanda globale della popolazione nei prossimi tre-quattro decenni non è di per sé sufficiente a concludere che sarà risolto il problema della fame nel mondo.

Infatti, la produzione di cibo non è distribuita uniformemente in rapporto alla popolazione e alle previsioni di crescita.

Anzi: si è visto che la produzione di cibo è già oggi sovrabbondante nei Paesi ricchi, dove l’aumento della popolazione sarà esiguo, mentre è deficitaria nei Paesi poveri – soprattutto in Africa e in Asia – dove è previsto il più alto tasso di crescita della popolazione.

Per queste ultime aree non sarà prevedibilmente possibile ottenere un aumento della produzione di cibo che soddisfi le necessità della aumentata popolazione.

Pertanto per soddisfare la domanda di cibo sarà necessario – se non si ipotizzano altre soluzioni – realizzare efficienti processi di trasferimento di cibo dai Paesi ricchi (ove la produzione è in eccedenza) ai Pvs.

“Non si getta via la minestra, perché la gente muore di fame”.

Questo ammonimento impartito dai genitori ai figli della mia generazione (negli anni Cinquanta del secolo scorso), dovrebbe quindi essere destinato a divenire di pressante attualità nel futuro.

Ma è difficile trasferire la minestra avanzata nelle case dei Paesi ricchi verso le capanne dei Paesi poveri.

Pertanto è proprio sulla realizzabilità del trasferimento che si concentrano le maggiori preoccupazioni.

Non è infatti assolutamente chiaro come questo trasferimento potrà essere realizzato e garantito, sotto vari punti di vista: dal punto di vista commerciale e della global governance, posto che attualmente il commercio mondiale dei prodotti alimentari è stato solo sfiorato dal vento di libertà e di libera concorrenza portato dalla globalizzazione (non casualmente, potendo essere la libera concorrenza in questo settore devastante per le economie dei Paesi ricchi); dal punto di vista organizzativo-logistico; infine, dal punto di vista meramente economico, posto che certamente gli affamati dei Pvs non sono in grado di acquistare sul mercato mondiale le derrate alimentari prodotte nei Paesi ricchi.

In definitiva, le previsioni, seppur rassicuranti e addirittura ottimistiche per ciò che riguarda la produzione di cibo, non risolvono il problema essenziale, e cioè quello di far incontrare l’abbondante offerta con l’abbondante domanda; ma nessuno indica la strada per risolvere questo problema.

Molti però ritengono che non sia questo il problema.

POLITICHE AGRICOLE PER I PVS:L’UTILITÀ DEI PAGM

L’idea che i problemi alimentari futuri debbano o possano risolversi trasferendo cibo dai Paesi ove è sovrabbondante ai Paesi ove manca è ritenuta da molti irrealizzabile e errata.

Costoro osservano che la vera causa della fame non è la mancanza di cibo: è la diseguaglianza.

È questo per esempio il pensiero di Amartya Sen secondo il quale non vi è collegamento tra mancanza di cibo e fame: la storia insegna che la gente muore di fame in presenza di sovrapproduzione di cibo al quale però non ha accesso per mancanza di mezzi (9).

La causa della fame non è quindi la mancanza di cibo, è la povertà.

Il problema non sta dalla parte dell’offerta, sta dalla parte della domanda.

Aumentare la produzione di cibo con le stesse modalità con le quali viene prodotto oggi sarà inutile in futuro, come lo è oggi: il cibo non viene trasferito da chi lo ha a chi non lo ha, perché il trasferimento costa troppo e perché chi non produce cibo non ha neppure i mezzi per comprarlo sul mercato mondiale.

La fame è determinata quindi, come oggi sostengono gli ambientalisti a differenza di qualche decennio fa, non da condizioni naturali e dalla mancanza di cibo, ma dall’inefficienza e dalla corruzione dei governi, dalle guerre, dalla mancanza di mezzi per procurarsi il cibo (10).

In questa prospettiva, ciò che risulta necessario per realizzare l’obiettivo di garantire cibo sufficiente per tutti è realizzare concretamente la possibilità di aumentare la produzione di cibo lì dove c’è il bisogno, senza ipotizzare inattuabili trasferimenti.

Questo significa che la fame nei Pvs può e deve essere affrontata nei prossimi decenni non solo aumentando la produzione agricola e non tanto organizzando complessi meccanismi redistributivi, ma anche – e soprattutto – creando tutte le condizioni economiche, materiali, politiche, di educazione, di eguaglianza e non discriminazione, di buon governo che permettono di incrementare il benessere della collettività e quindi di incrementare i mezzi economici necessari per acquisire il cibo necessario sul mercato o per coltivarlo.

La fame si combatte con la giustizia sociale.

In proposito, osserva Norman Borlaug, premio Nobel e uno dei padri della Rivoluzione verde, che i raccolti possono essere aumentati del 50% o addirittura del 100% in India, America latina e nelle aree della ex Unione Sovietica, e fino al 200% nell’Africa sub-sahariana, a condizione che sia mantenuta la stabilità politica e sia favorita l’iniziativa privata nel settore agricolo (11).

Eppure, anche questa conclusione non lascia soddisfatti.

L’aspetto che lascia perplessi è proprio quello sul quale, in definitiva, dovrebbe ruotare l’intero meccanismo cui è rimesso la nutrizione futuro della popolazione sottonutrita a livello mondiale.

Se le previsioni sull’aumento della produzione di cibo tramite aumento della produttività utilizzando le tecnologie proprie della Rivoluzione verde non offrono una rassicurante soluzione al problema del necessario trasferimento di cibo dai Paesi ricchi ai Paesi poveri, la soluzione basata sull’aumento di giustizia sociale in questi ultimi nei prossimi tre-quattro decenni sembra altrettanto irrealizzabile, quantomeno per la maggior parte dei Paesi interessati, tenuto conto della situazione attuale caratterizzata da pesanti disuguaglianze, guerre civili, corruzione, inefficienza amministrativa e sprechi.

In proposito, è stato osservato che è certamente vero che centinaia di milioni di persone sono affamate non perché non ci sia il cibo, ma perché sono povere e non hanno i mezzi per acquistarlo o per coltivarlo; ma il problema per la grande massa degli affamati non è ottenere mezzi economici per l’acquisto di cibo, ma avere la possibilità di coltivare i prodotti agricoli necessari per la loro sussistenza.

Pertanto, se è vero che chi ha fame non ha cibo perché è povero, è altrettanto vero che è povero perché non ha cibo, perché i raccolti sono insufficienti, la resa delle varie specie agricole disponibili è assai bassa, il terreno è arido, l’acqua per irrigare manca, e così via.

È questo lo scenario che caratterizza una grande numero di Pvs ove oggi quasi un miliardo di persone muore di fame perché vive al di fuori del mercato: non solo del mercato globale, ma anche dei mercati locali.

E non è assolutamente credibile ipotizzare una radicale trasformazione di questo scenario con l’improbabile rapida adozione di politiche di giustizia sociale.

Ecco che allora si profila l’utilità dei Pagm proprio qui, per uno specifico settore di mercato, quello dell’agricoltura dei Pvs: non come alternativa all’incremento di produttività da realizzarsi con le tecnologie offerte dalla Rivoluzione verde, né come alternativa all’adozione nei Pvs di politiche sociali e agricole che a loro volta incrementino le possibilità di accesso al cibo per coloro che oggi sono esclusi, ma come strumento specifico di intervento finalizzato a soddisfare la domanda di del coltivatore-consumatore di chi sta nei Pvs, e non ha accesso né al mercato: alcune centinaia di milioni di persone per le quali la sopravvivenza è legata soltanto alla possibilità di coltivare i prodotti di cui hanno bisogno.

In queste economie quindi la tecnologia genetica può esplicare tutte le sue potenzialità, creando Pagm resistenti ai parassiti, alla mancanza di acqua, e in generale alle difficili condizioni ambientali.

Per esempio, tutti i prodotti agricoli nei quali si è riuscito ad inserire il Bacillus Thuringiensis, che produce una tossina fortemente insetticida hanno rivelato, proprio per questa accentuata resistenza ai parassiti, un consistente aumento della produttività.

Inoltre, sono state realizzate specie di riso e di granturco transgenico che sono in grado di tollerare suoli con alta concentrazione di alluminio, un problema comune dei suoi con elevato tasso di acidità, assai diffusi nei Paesi tropicali, e sinora poco produttivi (ma analoghi prodotti sono in corso di elaborazione per ridurre, mediante la coltivazione, la concentrazione di mercurio nel terreno).

Altri scienziati all’università di Delhi hanno allo studio un riso che, a seguito dell’aggiunta di due geni, è in grado di sopravvivere in situazioni – frequenti in molti Paesi asiatici – di prolungata immersione nell’acqua.

Un altro gruppo di ricercatori ha ottenuto un riso transgenico in grado di produrre betacarotene, che nel processo digestivo può essere convertito in vitamina A (di cui sono carenti in Asia 180 milioni di bambini).

È anche in corso di progettazione un riso con un contenuto di ferro triplo rispetto a quello naturale, utile per evitare anemie che dipendono dall’assenza di questo minerale.

In Kenya è stata realizzata una patata dolce transgenica che è resistente ad un distruttivo virus (12).

Si sta rivelando di enorme importanza inoltre la possibilità di utilizzare i Pagm a fini di assistenza sanitaria: sono assai avanzati gli studi per l’inserimento di vaccini all’interno di prodotti commestibili, come le banana, ottenendo con ciò il risultato di immunizzare con il cibo i bambini dei Pvs ai quali la somministrazione di vaccini è preclusa da difficoltà organizzative, logistiche o finanziarie.

L’elenco potrebbe continuare a lungo.

Ma già questi esempi impongono di riflettere sul fatto che, se il reale problema è quello di creare fonti di nutrizione lì dove ci sono le persone che ne hanno bisogno, l’uso dei Pagm può costituire la soluzione più ragionevolmente realizzabile nel periodo di tre-quattro decenni in considerazione, senza affidarsi a irrealizzabili trasferimenti di cibo su scala globale, e neppure all’adozione di improbabili riforme istituzionali nei Pvs, ma soltanto nella disponibilità delle sementi necessarie: cioè di beni il cui costo è irrisorio ed alla portata di tutti.

LO SCONTRO SUI PAGM

Se si tiene conto di questi dati, la moltitudine di attori che popola il confuso scenario dello scontro sui Pagm comincia a sgranarsi nelle sue componenti.

Partiamo dagli oppositori dei Pagm.

Ci sono prima di tutto i gruppi ambientalisti.

Questi tengono essenzialmente conto della situazione di benessere economico e ambientale dei Paesi ricchi, cioè dei Paesi in cui si trovano i loro aderenti, i loro finanziatori, i consumatori e le loro associazioni, e dove si forma l’opinione pubblica che a loro fa riferimento.

Per tutti costoro, che vivono in una situazione in cui i problemi sono l’obesità e l’eccesso di cibo e non la fame, il rifiuto dei Pagm non comporta alcun sacrificio sul tenore di vita e sul benessere alimentare.

Viceversa, l’introduzione dei Pagm non porta alcun beneficio apparente: non aggiunge nulla a ciò che già c’è, sicché ogni rischio, per quanto minimo e trascurabile, risulta ingiustificato e eccessivo.

I gruppi ambientalisti soprattutto in Europa sono tutt’altro che soli.

Hanno il sostegno – assai importante da un punto di vista ideologico-culturale – di movimenti fondamentalisti (di derivazione religiosa o puramente conservazionista), per i quali la lotta ai Pagm costituisce un ottimo strumento per impostare battaglie a difesa della vita, della creazione o della natura (con tutti i limiti e le contraddizioni che abbiamo indicato nei precedenti capitoli); hanno inoltre il sostegno del frastagliato movimento noglobal, per il quali la lotta ai Pagm assume il significato di lotta contro l’estendersi a livello mondiale del potere economico e tecnologico delle multinazionali americane.

Ma soprattutto c’è, come potente alleato nell’arena dei rapporti di forza economico-politici dei Paesi ricchi europei, la filiera agroalimentare che si fonda sulle tecnologie tradizionali che hanno costituito le premesse della Rivoluzione verde: i fertilizzanti e i pesticidi chimici, le macchine agricole, le grandi opere irrigue: i contadini, gli agricoltori, gli allevatori e le organizzazioni politico-sindacali che li rappresentano, i vari settori produttivi della coltivazione dei prodotti agricoli (e quindi i produttori di erbicidi, pesticidi e sostanze chimiche necessarie per l’attuale modo di produzione) e delle trasformazione dei prodotti agricoli in prodotti di mercato, e poi, via via, i settori dell’Amministrazione pubblica e del potere legislativo che rappresenta i diversificati, consistenti interessi che su tale filiera convergono.

Per tutti costoro, i Pagm rappresentano una possibile catastrofe: rischiano infatti di compromettere il virtuosistico gioco di prestigio istituzionale-giuridico-economico su cui si regge il sistema agroalimentare dei Paesi ricchi, rivolto a mantenere, nell’ampia marea della globalizzazione, un precario equilibrio protezionistico tra eccesso di produzione e garanzia di profitti.

Dall’altra parte, tra i sostenitori dei Pagm e tra coloro che possono trarne benefici emergono attori che rivestono questo ruolo solo da poco tempo e cioè da quando il dibattito si è focalizzato sul tema agricolo e alimentare, e che paiono essere i veri destinatari dei Pagm: tutte le decine e decine di milioni di persone che popolano i Pvs, che non hanno mezzi per accedere al mercato dei prodotti alimentari finiti, che non partecipano a formare la pubblica opinione e non partecipano quindi al dibattito mondiale, che devono fare i conti non solo con un ambiente o un terreno ostili per trarre l’essenziale per la sussistenza, ma, assai spesso, anche con l’indifferenza e l’ostilità dei governi dei loro Paesi.

Per costoro, l’utilizzabilità di Pagm adatti alle loro necessità e ai loro bisogni significa la chance di oltrepassare la linea rossa della sottonutrizione: significa un aumento di possibilità di sopravvivenza, a partire dalla disponibilità di poche sementi (13).

Ci sono poi le potenti multinazionali della genetica applicata all’agroalimentare, cioè le imprese che sui Pagm hanno investito ingentissime risorse e hanno progettato enormi profitti.

Queste – accusate di voler sottoporre al proprio controllo e alle proprie finalità commerciali la futura produzione agricola mondiale – si trovano ora di fronte a una inaspettata e paradossale situazione.

Ed infatti i Pagm, prodotto di anni di ricerca scientifica e di sofisticata tecnologia dei Paesi ricchi, oggetto di enormi investimenti finanziari e di altrettanto enormi aspirazioni di guadagni, rischiano di rivelarsi, salvo che per alcune produzioni di nicchia, beni inutili per i Paesi ricchi, da cui i progettati profitti possono derivare: qui possono soltanto aggravare il problema della sovrapproduzione agricola, alterando il precario equilibrio di sovvenzioni, protezionismo e contenimento della produzione che tutela gli agricoltori e, indirettamente, l’intero mercato agroalimentare.

Nello stesso tempo, i Pagm si profilano dei beni preziosi e indispensabili per i Pvs, e per i più poveri tra questi: quindi per un mercato che certamente non è in grado di soddisfare con i propri mezzi le aspirazioni di profitto e di ripagare gli investimenti dei produttori dei Pagm.

Così, i principali sostenitori dell’uso dei Pagm, le multinazionali della biotecnologia, vedono profilarsi defatiganti e costose opposizioni – in apparenza in nome della sicurezza, della tutela dell’ambiente e del principio di precauzione, in realtà a difesa dell’egoista difesa dei propri privilegi – da parte dei consumatori ai quali i loro prodotti sono diretti, perché possono pagarli, e nel contempo la pressante domanda di quegli stessi prodotti da parte di una massa di possibili consumatori collocati nei Paesi poveri e non in grado di far fronte ai costi.

Gli attori però non finiscono qui.

Tra gli schieramenti si collocano, esitanti, i governi dei Paesi ricchi (soprattutto in Europa).

Questi sono stretti tra la pressione della domanda dell’opinione pubblica e dalla struttura agroalimentare chimica e meccanica tradizionale, contraria all’uso dei Pagm, e tra la necessità – determinata non da altruismo, ma dall’obiettivo di garantire margini di complessiva stabilità economica e politica nei prossimi decenni in un mondo la cui popolazione sarà sempre più squilibrata – di soddisfare le necessità alimentari del prossimo futuro dei Pvs.

Tutti questi governi si trovano di fronte alla scelta tra assumere decisioni gradite alla generazione presente, da cui dipende la loro elezione e il loro sostegno, ma tali da compromettere l’equilibrio alimentare e quindi politico fra pochi decenni, oppure decisioni sgradite agli elettori presenti ma necessarie per le generazioni future non solo dei Pvs, ma anche dei Paesi ricchi.

Ci sono anche i governi dei Pvs, che spesso si trovano in una situazione non migliore: dovrebbero optare per l’adozione di nuove tecnologie agricole, ma questo significherebbe indirizzare investimenti per avviare la costruzione di situazioni di maggior benessere per gli strati più poveri della popolazione e così alterare alle radici la struttura sociale, il tessuto di tradizioni e di consuetudini dei Paesi che governano, i meccanismi internazionali di aiuti e sovvenzioni, e in generale minare alle basi i presupposti sui quali si basa il loro potere.

CONCLUSIONI

Così la realtà dell’economia agricola mondiale e l’analisi dei bisogni e dell’offerta nel futuro focalizzano in posizioni più precise la moltitudine degli attori sulla scena dello scontro sui Pagm e delineano uno scenario per molti versi inaspettato; si scompaginano certezze acquisite e vengono allo luce pregiudizi e ideologie sulla base delle quali esse sono state costruite.

Molti sostenitori dei Pagm, bollati come ingenui amanti del progresso, oggettivamente (se non volontariamente) al servizio degli interessi economici e dell’ansia di profitto delle multinazionali della genetica, risultano schierati a difesa della necessità di garantire la sopravvivenza alimentare nei Pvs.

Viceversa, ambientalisti e altri oppositori dei Pagm, sostenuti dai movimenti di sinistra e genericamente antiglobalizzazione, si trovano ad essere schierati con i settori più conservatori delle società ricche, difensori degli interessi della filiera agro-chimica-alimentare tradizionale, egoisti difensori del benessere acquisito e indifferenti alle esigenze di chi, nei Pvs, muore di fame.

Restano, ancora, difficili problemi da risolvere: non quelli della produzione di cibo, né quelli del suo trasferimento, né quelli di una trasformazione in senso democratico dei Pvs, ma quelli connessi con la soluzione di un problema che sempre più si porrà sul tappeto delle relazioni internazionali, e cioè come sarà possibile l’incontro dell’offerta di Pagm da parte delle multinazionali che sui Pagm detengono la proprietà intellettuale, alla ovvia ricerca di profitti e di compensi per gli investimenti realizzati, con la domanda dei Pvs che, come si è detto, sicuramente non saranno in grado di soddisfarne le richieste economiche.

Ed ecco così che, alla fine, scopriamo che il problema davvero centrale dell’utilizzazione dei Pagm diventa non quello etico dal quale lo scontro sui Pagm ha preso le mosse, né quello di economia distributiva, né quello della politica agricola, e neppure quello di politica internazionale, ma la questione della global governance e degli equilibri di diritti e di accesso alle risorse nel mondo globalizzato.

MITI E REALTÀ DELL’AMBIENTE GLOBALE

1. La globalizzazione danneggia l’ambiente?

Molti nei paesi ricchi del mondo ritengono che il processo di integrazione politica, istituzionale, economica e finanziaria – cioè quel vasto e complesso fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione – provochi danni presenti e soprattutto futuri all’ambiente, in particolare all’ambiente dei paesi in via di sviluppo.

Tre sono gli argomenti più ricorrenti a sostegno di questa opinione: la nocività dello sviluppo, la race to the bottom e gli effetti delle politiche di risanamento.

Prendiamoli in considerazione separatamente.

2. Il mito dell’Eden perduto: lo sviluppo danneggia l’ambiente.

Una delle argomentazioni più diffuse è che l’ambiente dei paesi in via di sviluppo verrà irrimediabilmente deteriorato dall’impatto con l’inquinamento prodotto dalle attività economiche e con gli effetti degradanti delle tecnologie produttive indotte dalla globalizzazione.

In sintesi, lo sviluppo economico danneggia l’ambiente.

Si tratta di una tesi che affonda le sue radici nei vari movimenti antisviluppo della fine degli anni Sessanta.

Essa non ha però riscontro nella realtà.

È anzi vero l’opposto: il grado di tutela dell’ambiente dipende direttamente dal livello di benessere economico e sociale delle collettività che si trovano sulle aree considerate.

Certo, il diverso grado di tutela dell’ambiente esistente e la diversa intensità di regolamentazione ambientale dipendono da molti fattori.

Tra questi assumono rilievo il grado di attenzione e di sensibilità ai problemi dell’ambiente e della salute delle collettività e delle autorità di governo; la storia, la cultura e l’identità di ciascun paese e delle collettività che lo compongono; le scelte politiche e di politica economica di carattere generale, collegate ad interessi pubblici in vari settori (turistico, agricolo, industriale, e così via); infine, circostanze occasionali, indirizzi politici di breve periodo, contingenze di carattere locale.

Ma il fattore di gran lunga più importante resta il benessere, generato dallo sviluppo economico.

Il livello di ricchezza raggiunto da un paese influisce infatti in modo determinante sulle condizioni dell’ambiente, sull’esistenza di norme che ne impediscono il deterioramento, sulla predisposizione di mezzi e di strutture per imporne il rispetto, sulla partecipazione della collettività a difendere i valori ambientali .

Osservava provocatoriamente il sociologo Aaron Wildawsky negli anni Settanta che ciò che occorre per vivere bene in un ambiente sano e pulito è, semplicemente, un buon reddito.

È una sintetica versione di quel circolo vizioso che ha posto in evidenza nel 1987 il rapporto della Commissione Mondiale su ambiente e sviluppo (c. d. Rapporto Brundlandt): è vero che l’ambiente deteriorato produce povertà, ma è altrettanto vero che la povertà deteriora l’ambiente .

Questo non vuol dire che il rapporto tra sviluppo economico, benessere e ambiente sia immediato e lineare.

Anzi, l’aumento dell’attività economica e produttiva, che è il generale presupposto dell’aumento del reddito, determina un aumento dell’inquinamento e quindi una fase iniziale di deterioramento dell’ambiente (tutte le società occidentali hanno attraversato, in momenti e con intensità diverse, questa fase).

Ma con l’aumentare del reddito aumenta gradualmente anche la richiesta sociale di un ambiente pulito: chi vive bene economicamente, vuole vivere in un ambiente sano .

A questo punto, le attività produttive inquinanti e i produttori sono gradualmente sottoposti a controllo da parte degli organi pubblici e dalle collettività interessate, e sono permesse solo se i costi del deterioramento ambientale vengono internalizzati, e posti, in tutto o in parte, a carico del produttore: è il noto principio chi inquina paga, che costituisce oggi uno dei cardini della politica ambientale dell’Unione europea .
Le imprese sono così spinte da strumenti legali (norme, regole, sanzioni) o da meccanismi di mercato (incentivi, benefici fiscali, vantaggi competitivi, ecc. ) ad adottare processi produttivi meno inquinanti e quindi a ridurre progressivamente la quantità di inquinamento.

Infine, con l’ulteriore aumento del benessere economico, la richiesta della collettività tende a dirigersi verso prodotti ambientalmente compatibili: si avvia allora una modificazione nei consumi e si determina una riduzione dell’utilizzazione – e quindi della produzione – di beni inquinanti.

Lo studio più ampio effettuato a conferma di questa tesi è stato condotto in Cina.

Qui l’apertura del sistema economico verso il mercato mondiale, verificatasi a partire dal 1991, ha immediatamente portato ad una specializzazione nella produzione di beni che potevano essere realizzati con le tecnologie disponibili e offrivano vantaggi competitivi.

Si trattava di produzioni ad alto potenziale inquinante che hanno determinato un sensibile degrado ambientale.

Ma, non appena il reddito ha cominciato a crescere, le emissioni inquinanti hanno cominciato a diminuire per effetto degli accresciuti controlli, dell’introduzione di nuove più restrittive regole, di richieste delle collettività locali.

Ad un certo punto, gli effetti benefici hanno superato gli iniziali effetti dannosi sull’ambiente.

Lo stesso studio ha anche effettuato una simulazione teorica, cercando di individuare quali sarebbero stati gli effetti sull’ambiente in mancanza del processo di liberalizzazione economica del 1991.

Per la maggior parte delle province cinesi sottoposte all’indagine il risultato è stato che le emissioni inquinanti in rapporto ad unità di prodotto sarebbero cresciute più rapidamente e quindi vi sarebbe stato un maggior degrado ambientale .

Il rapporto tra sviluppo, benessere e ambiente, oltre che non lineare, non è neppure automatico: non c’è un processo continuo che inevitabilmente conduce alla meta del miglioramento delle condizioni ambientali.

Vi sono molti paesi che tentano di porsi sulla strada dello sviluppo e avviano attività produttive in settori che si presentano competitivi sul mercato internazionale e poi rimangono a questo primo livello, e vi rimarranno per molto tempo ancora, prima di raggiungere il risultato finale di effetti favorevoli sull’ambiente.

Le ragioni di questo insuccesso non sono attribuibili allo sviluppo economico, ma ad altre cause: la necessità di pagare i pregressi debiti con l’estero, la presenza di classi politiche corrotte o incuranti dei bisogni della collettività, posizioni di rendita delle classi dominanti sorrette dalla mancanza di sviluppo e dal protezionismo, la mancanza di democrazia, la mancanza di uguaglianza e di certezza nei rapporti giuridici economici e sociali, le spese per armamenti e per guerre inutili e così via.

Sono proprio queste cause che, tenendo lontano lo sviluppo, mantengono le collettività interessate in condizioni di arretratezza e di povertà e favoriscono il lento deteriorarsi dell’ambiente.

Pertanto, il paradiso naturale che secondo gli ambientalisti deve essere protetto dallo sviluppo – l’ambiente dei paesi immuni dal contatto con la globalizzazione – è, in realtà, un luogo immaginario; i luoghi reali sono caratterizzati da condizioni di degrado, miseria e sopraffazione che possono essere migliorate dall’avvio di meccanismi di sviluppo e un attento controllo delle modalità e delle scelte politiche con cui esso viene attuato e gestito.

3. Il mito della fuga dall’Eden: la race to the bottom.

“Uno degli elementi che determinano la globalizzazione è che società multinazionali o transnazionali intendono piazzare attività industriali inquinanti in paesi che non hanno controlli e regole ambientali” .

Così perentoriamente afferma uno dei più noti siti Internet del cartello antiglobalizzazione.

Un’altra delle argomentazioni abituali del pensiero ambientale antiglobalizzazione è infatti che la libertà di commercio e l’integrazione economica e finanziaria producano un flusso delle attività produttive inquinanti dai paesi più ricchi verso i paesi più poveri.

Ciò dovrebbe accadere sia per l’accrescersi della quantità e della rigorosità delle regole di tutela dell’ambiente nei paesi ricchi che determina un effetto di “fuga dai paradisi ambientali” delle attività produttive inquinanti, sia per l’ “offerta di inferni ambientali” da parte dei paesi più poveri costituiti da regole di tutela ambientali meno rigide, e più blandamente applicate: è la cosiddetta race to the bottom.

La globalizzazione quindi dovrebbe condurre verso una polarizzazione ambientale e dovrebbe produrre due fenomeni concatenati: un circolo virtuoso per i paesi ricchi, che avranno paradisi ambientali sempre più tutelati, un circolo vizioso per i paesi poveri che sono destinati a ritrovarsi con inferni ambientali sempre più deteriorati.

Ma anche in questo caso mancano attendibili riscontri empirici.

In realtà, la maggior parte degli studi teorici e pratici esclude che vi sia un fenomeno apprezzabile di fuga dai paradisi ambientali delle attività produttive inquinanti o di race to the bottom dei paesi poveri.

Questi studi in genere esaminano il livello degli investimenti per vari settori di produzione industriali e verificano se gli investimenti in paesi in via di sviluppo sono maggiori per le produzioni particolarmente inquinanti rispetto ad altre produzioni.

Poiché non emerge alcuna significativa differenza nel livello di investimenti, essi escludono l’esistenza di un rapporto di causalità tra incremento della regolamentazione ambientale e fuga delle imprese soggette alla regolamentazione verso i paesi in via di sviluppo.

E la fuga non c’è perché i costi necessari per adeguare il processo produttivo a regole ambientali restrittive sono in generale contenuti (come è stato ampiamente dimostrato da recenti studi finanziati dall’Unione europea ): salvo che per talune produzioni particolarmente inquinanti, concentrate soprattutto nel settore chimico, essi non superano il 2-3% del prezzo finale.

Essi non sono quindi tali da indurre – di per sé soli – le imprese che operano in settori inquinanti a preferire la dislocazione della propria attività produttiva, rinunciando così anche a tutti gli aspetti positivi che i paesi ricchi offrono in termini di incentivi, di finanziamenti, di assistenza tecnologica e di relazioni politiche e commerciali .

Naturalmente, ben diverso è il discorso per quelle attività produttive che sono strettamente legate ad un determinata area geografica: le attività minerarie e petrolifere in primo luogo.

Ma in questo caso non vi è alcun spostamento, né alcuna fuga.

L’attrazione non è fornita dalle scarse regole ambientali dei paesi interessati, ma semplicemente dalla collocazione della risorsa da sfruttare.

Anzi: la trasformazione di ricchezze naturali in disastri ambientali e sociali per le popolazioni interessate (è il caso dello sfruttamento del petrolio nigeriano, dei giacimenti diamantiferi angolani e della Sierra Leone, e così via) è stata una caratteristica del processo di sviluppo capitalistico, fin dal XVI secolo, ed è stata protetta dalla mancanza di globalizzazione.

Essa trova oggi per la prima volta una immediata risonanza e una diffusa opposizione a livello mondiale proprio per la visibilità e la notorietà che a questi fenomeni offre quel potente strumento di globalizzazione che è l’accesso mondiale e immediato alla tecnologia delle comunicazioni.

Per converso è stato osservato che la presenza di regole ambientali rigorose può provocare vari tipi di vantaggio competitivo per le imprese sottoposte a quelle regole.

Infatti la presenza della regolamentazione ambientale spinge le imprese verso una differenziazione qualitativa dei prodotti, e permette – anche limitatamente al mercato interno – la costituzione di nicchie ad alto valore aggiunto per le imprese che intendono realizzare prodotti ambientalmente compatibili, per i quali possono essere ottenuti prezzi più elevati.

Anche sul mercato internazionale regole ambientali rigorose possono determinare effetti positivi in termini di competitività.

Infatti le imprese che intendono adeguarsi alla normativa ambientale dei paesi più ricchi sono costrette a sviluppare processi tecnologicamente innovativi e ciò permette di guadagnare una posizione privilegiata nel mercato internazionale.

Ma soprattutto la presenza di regole ambientali può costituire una efficace barriera a tutela delle imprese nazionali, in quanto impedisce l’importazione di tecnologie o prodotti non compatibili con la normativa nazionale esistente.

La fissazione di standard ambientali elevati per evitare l’inquinamento costituisce così un lecito strumento – anche in presenza di accordi di libero commercio in base ai quali siano vietate tariffe doganali o misure equivalenti – per escludere da un determinato mercato imprese concorrenti che, operando dove le regole sono meno rigorose, non possiedono il know-how tecnologico che le mette in grado di rispettare gli standard.

Si tratta del cosiddetto effetto California, così chiamato perché, in presenza di un mercato interno comune, ma assoggettato a regole ambientali differenti, quale è il mercato degli Stati Uniti, ove ciascuno stato può porre regole ambientali più restrittive, è stata proprio la California, introducendo regole più restrittive ad indurre gli altri Stati ad adeguarsi elevando i propri standard ambientali, in modo da non escludere le proprie imprese dalla possibilità di esportare verso lo stato californiano .

La regolamentazione ambientale può così costituire non la causa dell’esodo delle imprese verso i paesi in via di sviluppo, ma addirittura un polo d’attrazione per attività produttive: può quindi determinare non una race to the bottom dei paesi in via di sviluppo, ma una race to the top dei paesi ricchi.

In altri termini essa costituisce, se mai, una muraglia protettiva che – come le antiche mura medioevali – in una situazione di liberalizzazione dei mercati proteggono i paradisi ambientali e coloro che hanno la fortuna di viverci dall’accesso e dalla competizione di attività o produzioni estranee degradanti e non compatibili con le regole vigenti.

Per questo, molti considerano la attuale situazione di degrado ambientale dei paesi in via di sviluppo il frutto non della globalizzazione, ma della mancanza di globalizzazione.

In realtà, non bisogna dimenticare che i vantaggi che ciascun paese offre per attirare investimenti o attività produttive – e inversamente gli svantaggi che pone per respingerli – sono tanti e di tipo diverso: possono riguardare il funzionamento del sistema creditizio e finanziario, il funzionamento del sistema giudiziario (che richiederebbe un discorso a parte: per diverse ragioni possono fungere da elemento di attrazione sia la disfunzionalità e la corruttibilità dei giudici, sia la rapidità, l’efficienza e l’onestà del sistema giudiziario), la trasparenza del sistema amministrativo, l’organizzazione del mercato del lavoro e il costo del lavoro, il livello di sviluppo tecnologico, delle comunicazioni e dei trasporti, la generale stabilità economica e politica, ed anche (ma come si è visto in limiti assai contenuti) la regolamentazione ambientale per il controllo dell’inquinamento.

Ciascuno di questi elementi può attrarre o respingere investimenti e iniziative economiche di altri paesi (e questo vale sia per i paesi poveri che per i paesi più ricchi).

4. Il mito del risanamento ambientalmente nocivo: politiche di risanamento economico e degrado ambientale.

La terza ricorrente argomentazione ha per oggetto le riforme economiche e monetarie, di risanamento economico e di riequilibrio della bilancia dei pagamenti che molti paesi in via di sviluppo hanno dovuto adottare a partire dall’inizio degli anni Ottanta, costretti dal pesante indebitamento con l’estero e dalle condizioni poste dagli istituti finanziari internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) per riassestare il bilancio interno, e per ottenere la concessione di nuovi finanziamenti e per attirare investimenti.

Molti sono convinti che l’adozione di queste politiche sia la conseguenza della globalizzazione (vi sono anzi alcuni che ritengono che il processo di globalizzazione è stato avviato proprio per dare una struttura di sostegno a questi centri decisionali).

In realtà, l’adozione di queste politiche è stata in gran parte la conseguenza della gestione disastrosa operata dai governi dei paesi dissestati, che hanno sperperato finanziamenti e capitali per mantenere ed arricchire le elite politiche o militari, finanziando opere inutili e guerre dissennate,.

Ma, a prescindere dalle ragioni per le quali molti paesi hanno dovuto avviare processi di risanamento, il mito del risanamento nocivo sostiene che questi processi hanno provocato gravissimi danni ambientali e distruzione di risorse.

Con specifico riferimento ai dati ambientali, molti studi sono stati condotti negli anni Novanta e i risultati ottenuti – pur offrendo un panorama assai diversificato – non confermano la fondatezza di queste opinioni.

Una rassegna compiuta nel 1995 sugli studi e le indagini effettuate a partire dagli Ottanta su questo tema osserva che le prime ricerche, tutte orientate nel senso che gli interventi di risanamento economico avevano prodotto effetti negativi sulle condizioni ambientali dei paesi interessati, sono successivamente state smentite da studi che hanno raggiunto conclusioni assai più dubitative (in questo senso, per esempio, si sono pronunciati sette case-studies finanziati dall’OCSE e pubblicati nel 1992 ).

Questi studi successivi hanno evidenziato che questi interventi hanno avuto effetti di vario tipo, positivi e negativi, sulle condizioni ambientali e che tali effetti sono dipesi da una molteplicità di fattori, tra i quali le condizioni politiche e sociali dei singoli stati in cui questi interventi vengono effettuati, le condizioni preesistenti, i sistemi giuridici e culturali che fungono da contesto all’intervento.

Ci sono in proposito alcune indagini promosse dalla Banca Mondiale.

Una prima indagine del 1989, riferita alla prima parte degli anni Ottanta, conclude che le politiche di risanamento economico bei PVS, ben lungi dall’essere state una causa di degrado ambientale, hanno favorito la protezione dell’ambiente.

Ad analoghe conclusioni, anche se formulate con maggior cautela, perviene l’aggiornamento di questa indagine per il periodo 1989-1992: “il risanamento è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una corretta gestione e protezione dell’ambiente” .

Entrambi questi studi hanno attirato molte critiche rivolte in particolare alla metodologia adottata.

La Banca Mondiale ha così promosso una serie di ricerche sul campo, allo scopo di dare conferma dei risultati raggiunti.

I risultati di questo secondo gruppo di studi – condotti su varie realtà ove sono stati sperimentati diversi metodi di risanamento, tra cui Indonesia e Messico – sono però più ambigui, anche se tutti escludono che le politiche di risanamento economico siano la causa diretta o principale di problemi ambientali.

Ad analoghe conclusioni portano studi promossi dal World Resource Institute( si tratta di un case-study sulle politiche di risanamento attuate nelle Filippine) e dal WWF.

Quest’ultimo, in particolare, ha finanziato tre studi in Costa d’Avorio, Messico e Tailandia, raccolti successivamente in un unico volume .

Gli studi giungono a conclusioni simili: le politiche di risanamento hanno avuto effetti sia positivi che negativi sull’ambiente e sull’uso delle risorse naturali.

In conclusione, i dati e le ricerche condotte non offrono conferma neppure della terza argomentazione esaminata, secondo la quale le politiche di risanamento o le riforme economiche e monetarie attuate nell’ambito del processo di globalizzazione abbiano prodotto o producano degrado ambientale.

5. E se la globalizzazione facesse bene all’ambiente?

Sulla base dell’esame appena compiuto, risulta che la diffusa convinzione secondo cui il processo di integrazione economica e finanziaria a livello globale attualmente in corso produce degrado ambientale non trova conferme negli studi e nelle ricerche a disposizione.

Anzi: risulta ben più fondata la tesi secondo cui la globalizzazione apre una porta ed offre le possibilità per migliorarlo o evitarne il degrado; poi, le modalità adottate per varcare la soglia e quello che si troverà, una volta entrati, dipendono in gran parte da ciascun paese interessato: dalle sue condizioni economiche, sociali e culturali, ma anche – nel breve periodo – dalle scelte e dalla volontà politica e dalle strategie in concreto poste in essere dalle classi dominanti e dai governi in carica.

Del resto, è questa la posizione assunta da tutti gli organismi internazionali che si sono occupati dell’argomento, apparsi dopo la dichiarazione contenuta in Agenda 21 adottata alla conferenza delle Nazioni Unite su “ambiente e sviluppo” tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992: “un sistema commerciale aperto e multilaterale rende possibile una migliore allocazione e una più efficiente utilizzazione delle risorse e contribuisce in questo modo ad un aumento della produzione e del reddito, e ad attenuare la pressione sull’ambiente” .

A questo proposito, e pur mancando serie e documentate ricerche comparative, le vicende del secolo appena trascorso dimostrano che c’è una forte correlazione tra assenza di democrazia (in tutte le sue varianti) e di strutture di partecipazione, mancanza di libertà civile ed economica, mancanza di un clima normativo ed economico prevedibile e deterioramento dell’ambiente .

La protezione dei diritti umani, della posizione delle donne e della proprietà, il rispetto della legge, la lotta all’inflazione e alla corruzione, offrono non solo una via d’uscita dalla povertà e le premesse per innalzare il livello di reddito, ma anche la possibilità di frenare la distruzione dell’ambiente e di controllarne il deterioramento.

Dove governi democraticamente eletti si propongono di evitare corruzione e inflazione e la dilapidazione delle risorse pubbliche in spese inutili, dove la partecipazione della collettività dei cittadini è consentita e i diritti delle donne sono rispettati, dove il sistema giudiziario è davvero indipendente, lì ci sono le maggiori probabilità di un innalzamento delle condizioni economiche di vita, e quindi di miglior educazione e di maggiore istruzione e di sviluppo di una opinione pubblica libera e attenta anche alle esigenze della tutela dell’ambiente protetto da regole che controllano i fenomeni di inquinamento.

Proprio sulla base di queste esperienze, negli ultimi venti anni, in sintonia con il tumultuoso intensificarsi del processo di integrazione economica e commerciale a livello globale, si è assistito all’emergere di una global governance, di un ordine pubblico globale, che sfugge al dominio e al controllo degli Stati, e che cerca invece in parte di porre parte le basi giuridiche per lo sviluppo del processo di integrazione economica, e ne è quindi il sostegno; ma per altri versi è rivolto a tenere sotto controllo questo processo, ad indirizzarlo, a stabilirne le regole e i limiti, con l’obiettivo di creare un quadro di riferimento internazionale che favorisca, promuova e ove necessario imponga il rispetto dei diritti umani e dei fondamentali diritti civili.

Come osserva Sabino Cassese, “globalizzazione e global governance vanno intesi come fenomeni diversi e persino contrapposti, pur se vanno nella stessa direzione, di sottrarre una parte del diritto al suo abituale sovrano, lo Stato” .

Per ciò che riguarda l’ambiente, il crescere e l’affermarsi dell’ordine pubblico globale è stato contraddistinto da un consistente aumento di accordi internazionali: sono stati stipulati oltre duecento accordi multilaterali (cioè tra più di due paesi), e oltre un migliaio di accordi a livello regionale, bilaterale o locale.

Il processo di globalizzazione quindi ha sollecitato e in molti casi imposto una intensa attività di regolamentazione ambientale a diversi livelli .

Basti pensare che nei paesi che appartengono all’Unione Europea la grande maggioranza delle disposizioni ambientali deriva da normative poste a livello comunitario.

Questo significa che, in mancanza di un livello sopranazionale vincolante, in tutti questi paesi le condizioni dell’ambiente sarebbero oggi di gran lunga peggiori di quanto non siano.

Non solo: poiché in tutti i paesi dell’Unione il livello di disapplicazione delle normative comunitarie è ancora assai alto (o perché non vengono formalmente recepite, o perché vengono recepite in modo parziale, o perché, seppur recepite, non vengono applicate), il livello della tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini nei vari paesi sarebbe ancora migliore, se i poteri dell’Unione fossero ancora più vincolanti e cogenti.

E un discorso parzialmente analogo può farsi per ciò che riguarda la normativa sovranazionale e internazionale in genere.

Proprio a seguito di questa attività di individuazione di cornici istituzionali a livello internazionale negli anni Novanta del secolo scorso si sono affermati concetti del tutto nuovi, come quello di “preoccupazione comune” degli stati, fino a raggiungere la formulazione definitiva di “responsabilità condivisa ma diversificata” per la conservazione e il miglioramento dell’ambiente, in considerazione del diverso impatto che i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo hanno sull’attuale degrado ambientale .

Questa esplosione di regolamentazione sovranazionale in materia ambientale è avvenuta in tempi assai rapidi e in modo disorganico e confuso.

Ancora manca, anche se nella comunità e nell’organizzazione internazionale è possibile intravederne le tracce, un progetto politico ed istituzionale globale che ponga le regole e i limiti della globalizzazione, valorizzandone gli aspetti positivi ed evitandone quelli negativi.

6. Le ragioni di fondo: la strategia del disastro.

Le conclusioni che abbiamo appena raggiunto danno una risposta alla domanda dalla quale avevamo preso le mosse, ma propongono immediatamente una diversa questione: perché, se le cose stanno così, l’opinione pubblica dei paesi ricchi è così convinta che la globalizzazione danneggi l’ambiente?

Pur meritando la questione una trattazione assai più ampia, mi limito qui a prospettare una spiegazione, che rinvia all’influsso esercitato dalle organizzazioni ambientaliste che operano a livello internazionale.

Tutte queste organizzazioni – sia pure con differenti sfumature teoriche, e ancor di più con notevoli differenze tra la teoria e la pratica – hanno assunto posizioni ufficiali secondo cui la globalizzazione e la liberalizzazione economica costituiscono un grave pericolo e provocherà in un prossimo futuro enormi danni all’ambiente.

Proprio per questo esse fanno parte di quel composito schieramento anti-globalizzazione che vede marciare sotto una stessa bandiera movimenti religiosi e pacifisti, partiti e gruppi nazionalisti e xenofobi (la globalizzazione distrugge l’identità e il patrimonio culturale), organizzazioni di sinistra (la globalizzazione è solo un nuovo aspetto dell’imperialismo), movimenti sostenitori delle politiche protezioniste (assai forti tra i principali destinatari delle politiche protezionistiche occidentali, cioè gli agricoltori) .

Sono posizioni che si amalgamano con quella strategia – che altrove ho qualificato “strategia del disastro” – in base alla quale le organizzazioni ambientaliste hanno trasformato problemi globali reali o meno reali in questioni epocali, atte a catturare l’attenzione e il sostegno del pubblico e delle organizzazioni internazionali.

Questa strategia adottata dalle organizzazioni ambientaliste è stata estremamente efficace: molte organizzazioni ambientaliste sono oggi riconosciute come attori a livello internazionale alla pari degli stessi stati e godono oggi di prestigio e di credibilità a livello mondiale; sono ammesse di routine alle trattative riguardanti gli accordi internazionali sull’ambiente e la loro implementazione (dove può addirittura accadere che i rappresentanti degli stati debbano operare in qualità di intermediari allo scopo di ricomporre le prospettive conflittuali delle diverse Organizzazioni non riconosciute che partecipano alle discussioni; inoltre, hanno conseguito un notevole potere politico finanziario e oggi sono sicuramente più potenti di decine di stati presenti sulle carte geografiche del mondo.

Purtroppo la scelta di una strategia del disastro, una volta attuata, è difficile da abbandonare o da modificare.

Ed essa ha imposto la scelta di campo sulla questione dell’antiglobalizzazione, pur in presenza di opzioni non solo più ragionevoli, ma anche più corrispondenti agli stessi interessi dell’ambiente e delle organizzazioni ambientaliste.

Ed infatti, la posizione assunta dalle organizzazioni ambientaliste sul tema della globalizzazione presenta aspetti paradossali.

Essa infatti collide con la stessa ragione che ha determinato l’affermazione delle organizzazioni ambientaliste a livello internazionale, e cioè la crescente incapacità degli Stati nazionali di affrontare e risolvere la maggior parte dei problemi ambientali, o perché inadeguati per le loro dimensioni o per i ridotti mezzi economici a disposizione, o perché incapaci per i vincoli indotti dagli interessi di cui devono tenere conto: il formarsi e l’affermarsi di una dimensione globale, sia istituzionale che economica, è stato quindi sempre indicato proprio dalle organizzazioni ambientaliste come il modo migliore per ottenere una efficace tutela dell’ambiente ed efficaci risposte alle emergenze globali.

L’aspetto paradossale della posizione delle organizzazioni ambientaliste si accentua, se si tiene conto che esse – come si è detto – partecipano attivamente alla sempre più intensa attività sovranazionale in materia ambientale, sicché, contribuendo alla predisposizione e stipulazione di accordi multilaterali e internazionali, sono tra i più importanti attori di quel mondo globalizzato che per altro verso, combattono.

Bisogna dire che molte organizzazioni ambientaliste si stanno gradualmente rendendo conto della necessità di conciliare le due posizioni di nemico della globalizzazione e di attore del mondo globale, e di abbandonare un cartello popolato da alleati scomodi: Greenpeace per esempio ha scelto la strada di rivendicare il proprio ruolo e i propri successi a livello internazionale, e nel contempo di opporsi alla “attuale forma di globalizzazione che aumenta il potere delle multinazionali” conducendo “a ulteriori inequità ambientali e sociali e minacciando i diritti civili e democratici” , operando così un sostanziale ravvicinamento alle posizioni ufficiali delle principali organizzazioni internazionali.

È un passo importante verso una scelta di partecipazione all’elaborazione di un progetto di global governance che indirizzi e controlli la globalizzazione.

Questo progetto non può che essere il prodotto delle volontà politiche dei paesi poveri, dei paesi ricchi e delle varie organizzazioni internazionali – comprese le organizzazioni ambientaliste – e di tutti coloro che hanno interesse a che la porta aperta dalla liberalizzazione sia utilizzata in modo da portare benefici all’ambiente su scala locale e globale.