MA IO DICO: ABBASSO I MANIFESTI

Questa prima domanda è interessante assai più per ciò che – più o meno inconsciamente – sottintende, che non per ciò che effettivamente chiede.

Il fatto stesso infatti che si ponga la domanda se la sinistra italiana ha un progetto politico o non lo ha, allorché essa è per la prima volta nella storia repubblicana (salvo il breve e illusorio periodo postbellico) al governo, rende evidente che c’è qualcosa che non va.

Prima di tutto, rende evidente che un progetto politico della sinistra italiana non c’era, tanto che non viene posta la domanda più ovvia, e cioè se la sinistra italiana ha almeno in parte realizzato il suo progetto.

Poi, rende evidente che non sono considerati sufficienti e qualificanti progetti politici della sinistra italiana i due grandi obiettivi che la sinistra italiana ha effettivamente realizzato e su cui è stato coinvolto l’intero paese:

a) né quello che ha permesso alla sinistra di giungere al governo (anche per il concorso di varie circostanze fortuite, costituite dal bizzarro meccanismo elettorale, e soprattutto dalla sottrazione di voti alla destra operata dalla Lega), e cioè la partecipazione alla promiscua alleanza per demolire uno dei più gravi pericoli subiti dalla democrazia in questo paese, costituito dall’assalto alle istituzioni della banda Previti-Berlusconi (pericolo che i faticosi risultati conseguiti dalle indagini giudiziarie condotte dalla Procura della Repubblica di Milano permettono oggi di valutare in tutta la sua devastante portata);

b) né quello che ha permesso alla sinistra italiana di governare, e cioè l’entrata dell’Italia in Europa, sapientemente utilizzata sia come martellante analgesico che ha prosciugato e depistato ogni attenzione dell’opinione pubblica sia come magico passepartout in nome del quale ogni cruento intervento diviene possibile.

Infine, rende evidente che; esauritosi l’effetto di mobilitazione sui primo obiettivo e prossimi ad esaurirsi gli effetti analgesici del secondo si giunge alla resa dei conti.

E allora, per parafrasare Chatwin: che ci facciamo noi qui?

Ecco, cioè, il senso di questa domanda oggi.

Si potrebbe rispondere: “Sono qui per smontare e rifare pezzo per pezzo questo paese”, come, secondo i quotidiani, ha detto Prodi commentando il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri sulla riforma del commercio.

Peccato che lo abbia detto Prodi, tutto sommato esponente di quei gruppi politici che questo paese così lo hanno montato, e non lo abbia mai detto nessuno di quel “gruppo dirigente che rappresenta la sinistra”.

Ma: qual è il “gruppo dirigente che rappresenta la sinistra”?

Esiste davvero, o esiste solo nelle fantasie i coloro che pensano di appartenervi?

Non è certo, il gruppo dirigente del Pds, dove convergono, confusamente affastellati in un globalizzante progetto acchiappaconsensi, un liberismo reso sinonimo esclusivamente di libertà per l’impresa e per il capitale che immancabilmente si ferma alle soglie dell’apparato pubblico e della pubblica amministrazione, un consolidato e autoritario verticismo (si vedano la vicenda dell’impresentabile candidatura di Di Pietro e dell’impresentata candidatura di Sansa), una insofferente e degradante indifferenza per i problemi tipicamente di sinistra (per esempio, immigrazione, rifugiati).

Non è neppure il gruppo dirigente di Rifondazione Comunista, incapace di sviluppare disegni organici di largo respiro, perché troppo calato nel tentativo di recuperare a sinistra i facili spazi lasciati dal vuoto ideologico del Pds e perché troppo esposto alle contrapposte minacce dell’emarginazione da parte della coalizione governativa (che l’ingaggio di Di Pietro ha trasformato in corposo riscatto) e dal ripudio da parte dello zoccolo duro della sua base che impone obiettivi ormai superati e impraticabili.

Al gruppo dirigente di Rifondazione Comunista va però il merito di aver lanciato, con la vittoria politica sulla riduzione dell’orario di lavoro l’unico preciso, ragionevole e inequivoco segnale di sinistra di questi anni: e l’orrore suscitato tra Confindustria e sindacati confederali ne sono la miglior
conferma.

Per concludere, credo che non possa e non debba essere fatto un programma politico di sinistra che tenga insieme le sinistre, vere pretese o presunte, attualmente in campo.

Se ne possono sfornare inutilmente tanti e ne sono stati scritti inutilmente troppi.

Certamente non ne va fatto uno “fondamentale” (parola che mette sempre qualche brivido).

Come tutte le espressioni indeterminate e con pluralità di significati, “Stato sociale” è un’espressione che non andrebbe usata senza essere accompagnata da una accurata definizione.

Dentro questo ormai corroso slogan, convivono, come nella famosa biblioteca di Borges, costruzioni monopolistiche che offendono e danneggiano il cittadino e il consumatore, come il sistema postale, la televisione di stato, la persecuzione dei permessi, delle autorizzazioni, delle carte bollate, e conquiste di civiltà come il sistema pensionistico e la tutela del lavoratore sul luogo di lavoro (entrambi tuttora gravemente carenti).

Visto che le forze politiche e le forze di sinistra di questo paese dedicano gran parte delle loro energie a riformare la Costituzione, la miglior risposta a questa domanda è ricordare quella parte della Costituzione che nessuno vuol riformare non – a quanto sembra – perché va bene così, ma perché non interessa più a nessuno e viene mantenuta non perché debba essere attuata, ma ad pompam tantum.

Partendo, per fare un solo esempio, dalle due disposizioni che aprono la Costituzione (dopo l’art. 1, che ha una funzione programmatica e di principio): l’art. 2 che afferma che “La Repubblica … richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale”, e l’art. 3, secondo il quale “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (2° comma).

Una considerazione finale alla “sottodomanda” che chiede se ci sia “una caduta di interesse per gli escludi dal processo economico” e se ci sia “una disattenzione per le disuguaglianze e le ingiustizie a livello mondiale”.

Difficilmente può essere trovato un esempio di inciviltà e grettezza più fulgido di quello che viene oggi riservato da questo governo agli immigrati e ai rifugiati.

Faccio , solo due esempi (decine di altri sono disponibili a richiesta):
– per immigrati che si trovano da dieci o vent’anni nel nostro paese, con famiglie e figli nati in Italia è oggi impossibile ottenere la cittadinanza italiana e godere di diritti civili e politici;
– la Commissione per il riconoscimento dell’asilo politico ai rifugiati istituita in attuazione della Convenzione di Ginevra opera abitualmente nella più completa illegittimità, e nega l’asilo politico ai richiedenti con i pretesti più vari, tutti rigorosamente in violazione, sia della Convenzione che dovrebbe attuare; sia dell’art; 10 della Costituzione (altro esempio di sovietizzazione della Costituzione, e cioè di disposizione lasciata sulla carta da ostentare in caso di necessità), secondo il quale “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica”.

Tutti questi provvedimenti vengono da anni sistematicamente sospesi dai Tribunali amministrativi (organi certo non sospetti di avventurismo internazionalista): eppure, nessuno laggiù al ministero degli Esteri si è ancora accorto che qualcosa non funziona.