CHI MERITA IL MERITO?

Ronald Dworkin, uno tra i più importanti e più acuti giuristi progressisti  degli Stati Uniti, affronta con questo saggio il tema degli effetti della scienza genetica e della clonazione sui rapporti sociali e giuridici esistenti e sui principi etici predominanti.

Il saggio, pur tenendo conto in alcuni punti di problematiche specifiche della realtà americana (è il caso delle questioni relative alla assistenza sanitaria) che si pongono in modo diverso in Italia e nell’Unione Europea, formula considerazioni e valutazioni  di carattere generale che offrono preziosi spunti per una riflessione e soprattutto per una critica a molti luoghi comuni (Frankenstein, mettersi al posto di Dio, la sacralità della natura, il piano inclinato, e così via) che implacabilmente si presentano in qualsiasi luogo – dal salotto, al convegno alla commissione di studi – venga esaminato il tema della scienza genetica e della clonazione.

In questo breve commento mi limiterò a toccare solo alcuni aspetti (trascurandone molti altri solo per ragioni di spazio).

Si può davvero affermare che la scienza genetica ha aperto un vaso di Pandora (così l’articolo esordisce) oppure che con la scienza genetica l’uomo gioca con il fuoco e ne accetta le conseguenze (come l’articolo si conclude)?

Oppure è vero che stiamo percorrendo un’altra piccola tappa della evoluzione della specie, e che l’uomo ha sempre giocando con il fuoco, nell’ambito delle possibilità concessegli dai meccanismi dell’evoluzione?

Io propendo per questa seconda ipotesi.

L’uomo, da circa 100.000, apre vasi di Pandora appena gli si offre la opportunità di farlo e tutti noi oggi non solo siamo felici che i nostri antenati li abbiano aperti, ma godiamo ampiamente della loro intraprendenza. Fare un clone non è diverso dal fare, tanto per fare qualche esempio,  un trapianto di cuore o dal costruire dighe o canali che modificano l’assetto naturale dell’ambiente, o dall’alterare l’assetto naturale della terra con l’agricoltura.

Di quest’ultimo fondamentale avvenimento della storia umana ci mancano purtroppo documenti o informazioni, essendo accaduto circa 9000 anni orsono; ma è facile supporre che vi furono vibrate opposizioni da parte di coloro che ritenevano una violazione delle leggi naturali e magari divine l’abbandono di un modo di vita nomade (perdurato per diecine di migliaia di anni) e la scelta di un modo di vita sedentario.

In merito ai primi due fatti, invece, la documentazione non manca. Per ciò che riguarda i trapianti, e specificatamente i trapianti di cuore, è sufficiente rimandare alla stampa e alla pubblicistica dell’epoca (facilmente reperibile, trattandosi di accadimenti di pochi decenni orsono) per ritrovare le indignate proteste dei ferventi tutori dell’etica, della morale o della religione, in nome dell’immodificabilità della natura e del divieto di sostituirsi a Dio, contro interventi considerati oggi del tutto normali.

Certamente meno agevole per il lettore è invece reperire la documentazioni in merito alle costruzioni di dighe e canali. Vale quindi la pena di offrire qualche ragguaglio, utilizzando un celebre esempio.

“Commette un attentato contro la Natura e contro le leggi della Divina Provvidenza chi cerca di migliorare ciò che, per motivi imperscrutabili, è stato voluto imperfetto”.*

Con queste parole (riferite dallo storico Gregorio Maranon in una sua biografia del conte-duque de Olivares), la Commissione dei teologi dell’Impero spagnolo vietò nel 1641 l’attuazione del progetto di canalizzazione dei fiumi Tago e Manzanarre, predisposto dagli ingegneri italiani Carducci e Martelli.

Fu così segnata la condanna della Castiglia a restare, ancora per molto tempo, un’arida pianura spopolata, e, insieme, viene segnata la condanna della maggiore potenza europea dell’epoca a un lento e inesorabile declino demografico e economico.

I fiumi, in Spagna, resteranno come Dio e la Natura li hanno fatti, perché – ribadisce la Commissione –  “se Dio avesse voluto che i fiumi fossero navigabili, li avrebbe fatti navigabili”.

Sono certo che pochi di coloro che oggi si schierano contro l’uso della scienza genetica, per quanto propensi a difendere le prerogative della Natura o di Dio, starebbero dalla parte della Commissione dei teologi spagnola. In tutti questi casi, e in molti altri ancora, l’uomo si è sostituito alla natura o a Dio, ha aperto vasi di Pandora, ha giocato con il fuoco, accettandone le conseguenze.

Gli esempi addotti non hanno volutamente riguardato direttamente i meccanismi riproduttivi – coinvolti dalla clonazione – per evidenziare che l’opposizione fondamentalista (cioè quella che si esprime utilizzando i principi di immodificabilità della Natura o della illiceità di sostituirsi a Dio) copre ogni possibile campo di applicazione della innovazione tecnologica umana.

Parliamo ora della riproduzione. Per millenni la riproduzione umana è stata basata in modo esclusivo sull’accoppiamento di due persone di diverso sesso.

La riproduzione non era materialmente e logicamente concepible senza rapporto sessuale. La prima violazione nota e scientificamente accertata di questo principio non è però così recente come si suole pensare: risale ormai a oltre 110 orsono.

Nel 1884 un professore di medicina dell’Università di Filadelfia, William Pancoast riuscì a rendere incinta una sua paziente il cui marito era sterile, utilizzando – con sistemi assai primitivi – il seme donato da un suo studente. Il fatto, tenuto rigorosamente segreto, venne reso pubblico solo 25 anni dopo.

Scoppiò uno scandalo di vaste proporzioni: su quotidiani, settimanali e riviste specializzate medici, religiosi, giuristi, esperti di etica (gli esperti di bioetica non c’erano ancora) qualificarono l’intervento del prof.Pancoast (nel frattempo, per sua fortuna, deceduto) un crimine, un adulterio, un atto di libidine, una violenza sessuale, una pretesa di volersi sostituire a Dio, un gesto contrario alle leggi di Dio e della natura.

Da allora, le tecniche riproduttive hanno fatto passi da gigante: da molti decenni la fecondazione artificiale (nelle sue varie combinazioni) è un meccanismo riproduttivo socialmente, giuridicamente e moralmente accettato in molti paesi, e utilizzato da chi intenda avvalersene: nessuno grida più allo scandalo, Dio e la Natura sembrano essersi tranquillizzati almeno per ciò che riguarda questo aspetto.

Per gli amanti del lieto fine: il prodotto della geniale attività manipolatrice del dottor Pancoast, e cioè il figlio della sua paziente,  riuscì dopo molti anni a ritrovare e a identificare il proprio padre biologico, divenuto nel frattempo uno stimato medico utilizzando l’unica indicazione lasciata nel proprio diario dal medico, e cioè il fatto che aveva utilizzato il seme dello studente fisicamente più avvenente della sua classe (la storia è ampiamente riferita da Albert Jonsen in un articolo pubblicato sul Cambridge Quarterly, 1995, pag.263).

Definitivamente desueta è quindi divenuta oggi l’idea secondo cui la riproduzione senza accoppiamento sessuale è contraria alla natura o alle leggi divine.

Oggi, la riproduzione è di nuovo un crimine, un attentato alle leggi di Dio e della natura, e così via, se non c’è cooperazione – naturale o artificiale, diretta o a distanza, previa conoscenza reciproca o a mezzo di anonime donazioni – di un maschio e una femmina.

Quanto durerà?

Altrettanto priva di senso è poi la diffusa opposizione ad interventi (attualmente non possibili) rivolti a modificare uno o più geni di un individuo, in modo da evitare alla sua discendenza handicap fisici o psichici. Che cosa hanno in comune la palestra, la prigione, la scuola?

Sono luoghi artificiali che l’uomo ha inventato da alcune centinaia o forse migliaia di anni per  sostituirsi a Dio o alla Natura.

La palestra serve per trasformare e migliorare il fisico umano attraverso appositi esercizi ginnici, la scuola e la prigione per trasformare e migliorare la mente attraverso appositi processi educativi o rieducativi.

Secondo l’etica corrente, non c’è nulla di male in tutto ciò (come non c’è nulla di male oggi nei trapianti, nelle canalizzazioni e nella riproduzione artificiale).

Nessuno pensa che un individuo nato mingherlino tale deve rimanere; tutti pensano che imparare e studiare siano attività meritorie; molti ritengono che ficcare qualcuno in galera per qualche anno sia giusto perché così viene rieducato.

L’etica corrente sembra però mutare radicalmente, se si prospetta la possibilità di raggiungere i medesimi risultati con mezzi diversi da quelli tradizionali, e, in particolare, attraverso la genetica.

Si può sostituirsi alla natura o a Dio con palestre scuole e prigioni, o anche migliorando la propria resa intellettuale con sostanze chimiche o con stupefacenti: nessuno si rifiuta di leggere Baudelaire, o di ascoltare Jimi Hendrix, o di ammirare un quadro di Pollock sol perché sono il frutto di prestazioni intellettuali alterate da droghe; non si fanno gli esami delle urine agli studenti universitari dopo che hanno brillantemente superato un esame, né al pianista che esegue il Rach 3 in modo straordinario, né al manager che conclude un ottimo affare per la sua società lavorando incessantemente giorno e notte.

Per inciso, e solo per evidenziare la schizofrenia dell’etica attuale a questo riguardo, va osservato che del tutto diverso è l’atteggiamento dell’opinione pubblica per ciò che riguarda il miglioramento della propria resa fisica.

Non importa se ci sono bambine devastate per sempre da diecine di ore giornaliere di piscina o di palestra, o giovanotti che pedalano, corrono, lanciano quotidianamente per anni, trasformandosi (o più spesso trasformati) in robot, solo perché si vuole ottenere qualche campione da esibire nelle gare internazionali o addirittura alle Olimpiadi (abbandonando tutti gli altri al proprio destino di fallimento).

Va tutto bene, purché ci si ammazzi di fatica per trasformare e migliorare i propri muscoli: quel che conta è l’esercizio fisico, l’uso di sostanze artificiali (anabolizzanti, steroidi, ecc.) è vietato.

In questo caso, conta come i risultati sono raggiunti, per le prestazioni intellettuali ciò che conta è il risultato. In entrambi i casi, però, i geni non si toccano.

Chi è geneticamente sfavorito nel fisico (perché è miope, perché è affetto da nanismo, perché è esteticamente repellente) o nell’intelletto, deve darsi da fare e concorrere nella società e nel mercato da chi è stato favorito dalla Natura o da Dio, e sicuramente dai geni trasmessi dai suoi genitori.

Quindi, chi ha il (o i) geni dell’aggressività (ammesso che ci siano) se li tiene come sono: poi riformatori e carceri  penseranno a rieducare (e magari sedi elettriche a eliminare), anche se gli effetti di quell’innata aggressività avrebbero potuto essere modificati (ammesso che prima o poi possano essere modificati) intervenendo a livello genetico.

La tutela dei principi di etica globale passa attraverso l’indifferenza verso principi di etica reale, che imporrebbero che l’uomo possa utilizzare ciò che sa per evitare discriminazioni o alterazioni delle condizioni di partenza di ciascun individuo.

È facile verificare questa affermazione.

Si avranno risposte massicciamente negative in qualsiasi sondaggio venga posta la domanda se si sia favorevoli o contrari a interventi genetici per migliorare gli esseri umani.

Si avranno risposte invece tendenzialmente opposte, se la domanda venga posta sul comportamento che si intenda tenere qualora i propri figli corrano il rischio di essere affetti da malformazioni fisiche o intellettuali, eliminabili con interventi genetici.

In realtà, i richiami a Dio o alla natura celano alcune ragioni più serie e più profonde di opposizione: il timore – cui accenna Dworkin – di una profonda e irreversibile alterazione di parametri etici fondamentali, quali, per esempio, i valori di merito e di sacrificio, sui quali è basata la società occidentale contemporanea, e la sua impalcatura di regole fondate sulla concorrenza, la competitività individuale, il mercato.

In base a questi parametri, i risultati che si conseguono in qualsiasi campo si giustificano solo perché devono essere il frutto di fatica, di impegno, di applicazione: devono essere meritati.

In realtà, come tutti sanno, assai spesso sono dovuti al caso, alla fortuna, ai soldi di famiglia o a qualche santo protettore.

Ma, nonostante che il valore di quei parametri sia del tutto relativo, e costituisca anzi un colossale pretesto per mantenere la labile impalcatura della libera competizione degli individui, capire chi merita il merito resta un problema tuttora irrisolto: la nostra organizzazione sociale e giuridica si basa sul presupposto che sacrificio merito e successo siano nella generalità dei casi collegati e interdipendenti.

Ed è questo presupposto che verrebbe a cadere ammettendo la possibilità di una programmazione genetica, e l’eliminazione alla radice di ingiustizie oggi considerate frutto del caso.