Il diritto di autore – o, utilizzando il termine anglosassone, la proprietà intellettuale – consiste in una sorta di monopolio riconosciuto dalla legge su un bene immateriale, costituito dall’opera dell’ingegno di qualsiasi tipo: all’autore dell’opera è riconosciuto il diritto esclusivo di utilizzazione della stessa per un periodo di tempo predeterminato (e variabile in ragione della natura dell’opera).
Sino a qualche tempo fa, la protezione del diritto era essenzialmente basata sul presupposto che l’opera dell’ingegno doveva essere necessariamente fissata su supporti fisici (carta, materiali plastici per le opere musicali) e quindi, pur essendo immateriale, esisteva materialmente all’interno di una organizzazione giuridica territoriale.
La diffusione di Internet e della tecnologia digitale ha di fatto eliminato i presupposti della materialità e della territorialità necessari per la divulgazione e la trasmissione dell’opera: ha smaterializzato il bene immateriale.
Oggi quindi chiunque, con rischi irrisori di essere identificato o punito, può riprodurre indefinitamente sulla Rete (quindi senza alcun supporto materiale), le opere dell’ingegno altrui rendendole così disponibili agli utenti di Internet ovunque essi si trovino (superando così barriere e confini territoriali).
Inoltre, vengono di continuo elaborati nuovi meccanismi e nuovi software che permettono di diffondere intensivamente opere protette nell’ambito del diritto d’autore – è il caso soprattutto delle opere musicali e di software quali MP3 o, più recentemente, Napsters – e di agevolare al massimo il prelievo delle opere agli utenti di Internet.
Secondo molti, tutto ciò può segnare il tracollo della proprietà intellettuale, così come è stata concepita, organizzata e protetta.
Destino veramente crudele: proprio nel momento in cui le nuove tecnologie a disposizione permettono di diffondere e sfruttare nel modo più completo le opere dell’ingegno privandole dei residui di materialità, l’autore sembra destinato ad una duplice sconfitta: con gli utenti, che vedono in Internet il veicolo per la liberalizzazione dell’uso e dell’accesso alle opere dell’ingegno, e con la società dell’informazione, che richiede sempre più informazioni, a basso prezzo e accessibili al maggior numero di persone.
Nella sconfitta gli autori trascinano inevitabilmente con sé case editrici, società discografiche, e, più in generale, tutte le imprese commerciali che basano la loro attività e i loro profitti sulla diffusione e sul commercio delle opere dell’ingegno, acquistando le licenze dagli autori.
Ma sono davvero attendibili queste previsioni così catastrofiche?
Vi sono alcuni che ne dubitano.
In effetti, la storia della proprietà intellettuale e dei beni immateriali è segnata fin dal suo sorgere dal profilarsi e dall’affermarsi di innovazioni tecnologiche che parevano via via preannunciarne il prossimo tracollo.
Ed ogni volta, ciò che era ritenuto come una insormontabile minaccia si è rivelato come una nuova fonte di sviluppo e di profitti della proprietà intellettuale.
È il caso dell’affermarsi in Inghilterra delle biblioteche pubbliche nella seconda metà del XVIII secolo, sorte per far fronte alla improvvisa richiesta da parte del pubblico di romanzi di avventure.
L’offerta di volumi in prestito agli abbonati in cambio di una modesta somma settimanale determinò furibonde reazioni – anche a livello giudiziario – da parte di librerie e case editrici e da parte dei titolari della proprietà intellettuale sulle opere che ritenevano questa pratica lesiva dei loro diritti e della loro attività imprenditoriale.
In pochi anni, tuttavia, ci si rese conto che la biblioteca pubblica, diffondendo, insieme ai libri, l’abitudine alla lettura in fasce di pubblico assai più larghe, determinava non un decremento, ma un incontenibile incremento della richiesta e quindi della vendita di libri, proporzionale all’aumento dell’utenza indotto dalla maggiore disponibilità di libri.
Contrariamente a ogni aspettativa, la biblioteca pubblica contribuì al declino del libro come strumento d’élite, ma promosse l’affermazione del libro come strumento di informazione e svago per le masse, con enormi vantaggi per gli autori (oltreché naturalmente per il pubblico).
La vicenda del libro si è ripetuta recentemente e con sorprendenti analogie, con i filmati in videotape (in sostanza, il VCR).
Anche in questa occasione, le case cinematografiche manifestarono inizialmente – siamo nei primi anni Ottanta – una netta ostilità verso questa pratica commerciale, temendo che avrebbe danneggiato irrimediabilmente la loro attività, basata pressoché esclusivamente sui cinema come mezzo di distribuzione.
Tentarono così con ogni mezzo di bloccarla o controllarla: trascinarono anche la Sony in una controversia giudiziaria che giunse fino alla Corte Suprema.
La Corte Suprema rigettò tutte le richieste delle società cinematografiche.
Per loro fortuna.
Oggi per effetto del noleggio e della vendita di videotape si è creato un enorme mercato aggiuntivo di utenti di prodotti cinematografici e di prodotti accessori a queste opere, che costituisce ormai di gran lunga la più importante fonte di profitti per i produttori e per i titolari dei diritti di autore sulle opere cinematografiche.
In entrambi i casi che abbiamo illustrato, i titolari di diritti di proprietà intellettuale hanno errato privilegiando istintivamente, ma in modo rivelatosi eccessivo, gli aspetti della protezione delle opere, rispetto agli aspetti della distribuzione e dell’accesso.
Privilegiare la protezione rispetto alla distribuzione e all’accesso è stato un errore sotto due punti di vista.
In primo luogo, perché i beni immateriali, come tutti i beni che hanno confini non ben definiti (tutto può divenire oggetto di proprietà intellettuale), sono difficili da proteggere giuridicamente.
In secondo luogo, perché la biblioteca pubblica prima e il VCR dopo hanno dimostrato che l’innovazione tecnologica non distrugge necessariamente la proprietà intellettuale, ma può favorirla: determina solo nuovi punti di equilibrio tra esigenze del proprietario di vedersi adeguatamente remunerato il prodotto del suo ingegno e esigenze del consumatore di ottenere informazioni a basso costo e di facile accesso.
Queste vicende permettono di ritenere che anche i dirompenti effetti di Internet sul regime della proprietà intellettuale potrebbero risolversi non nella catastrofe che molti prevedono, ma nella individuazione di nuovi equilibri tra le contrapposte esigenze di titolari del diritto di autore e utenti dell’informazione e, magari, in nuovi concreti benefici per gli autori di opere dell’ingegno.
NAPSTER, la leggenda (formatasi in pochi mesi: sono i tempi della new-economy) vuole che Shawn Flanning, uno studente diciannovenne di computer science alla Northwestern University di Boston, abbia inventato Napster per tacitare le continue lamentele di un suo compagno di stanza sulla difficoltà di rintracciare e scaricare da Internet i file MP3 (si tratta di file musicali digitalizzati e compressi con una particolare tecnologia software in modo da poter essere velocemente trasmessi via Internet e agevolmente inseriti nella memoria di un computer).
L’idea che sta alla base di Napster è quella della cooperativa: una cooperativa virtuale che mette in comune i testi musicali posseduti dai suoi soci.
Collegandosi a Napsters, si indica il titolo della canzone che si vuole ricevere, il software automaticamente la ricerca tra tutti i “soci” Napsters e ne permette lo scarico sul computer del richiedente.
In altri termini, è stata creata una gigantesca biblioteca di testi musicali, dalla quale ciascuno può gratuitamente prelevare ciò che desidera.
Le case discografiche sono già scese sul sentiero di guerra contro Napster, uno strumento che ritengono idoneo a distruggere il diritto d’autore dei compositori e quindi il mercato della musica.
Ma Napster potrebbe rivelarsi, al contrario, uno strumento di diffusione del consumo di musica, e quindi di rafforzamento e promozione di un mercato che da tempo è in crisi per l’eccessivo costo dei CD.
Ovviamente, l’idea di cooperativa che sta alla base di Napster non è rimasta isolata.
Ha fatto subito proseliti, che, come sempre accade in ogni percorso innovativo, ne estendono o ne perfezionano le possibilità.
Tra i vari siti che offrono modelli di messa in comune delle informazioni virtuali, quello che ha scelto la strada più radicale è Freenet.
Questo sito si propone di mettere in comune tra i partecipanti alla cooperativa ogni genere di materiale informativo, documentario e fotografico, e non solo testi musicali.
Si tratta quindi di una vera e propria Rete che si organizza e cresce in modo autonomo e indipendente all’interno della Rete.
Tutti i dati e le informazioni che un membro ha ottenuto a pagamento o in virtù della propria posizione all’interno di una organizzazione divengono patrimonio comune e gratuito di tutti gli altri membri.
Poiché le informazioni circolano direttamente tra i vari PC, e quindi in modo decentrato, gli utenti di Freenet sono sottratti ai controlli e alle verifiche cui invece sono sottoposti, nei diversi ordinamenti giuridici statali, gli utenti di Internet.
Con tutti i vantaggi e i pericoli che ciò comporta: libertà di comunicare per tutti gli utenti che si trovano in Stati che reprimono controllano o censurano le informazioni; ma libertà di comunicare in segretezza anche a scopi illeciti, o per sviluppare transazioni o commerci vietati a livello nazionale o internazionale.