LA TERRA DEGLI SCHIAVI

Dov’è il Benin?

Pochi lo sanno, molti ne ignorano l’esistenza. Solo ai più anziani il nome Dahomey – l’antica denominazione del Benin – evoca incerti ricordi.

Eppure il Benin, uno Stato grande un po’ meno del Portogallo che si affaccia sul Golfo di Guinea, stretto tra il Togo e la Nigeria, colonia francese fino agli anni sessanta del secolo scorso, è stato il teatro di una tragedia di incomparabili proporzioni, i cui strascichi segnano tuttora la vita civile di molte nazioni.
Complessivamente, le vittime della tratta di schiavi sono state stimate in circa 15 milioni.

Da questa costa Portoghesi, Inglesi, Francesi e Olandesi hanno deportato, tra la metà del quindicesimo e la metà del diciannovesimo secolo, circa 10 milioni di esseri umani: più precisamente 9.391.100 schiavi, secondo i conti fatti da Philip Curtin nel 1969, con una indagine che tuttora rimane il riferimento dei successivi studi in materia (P.D.Curtin, The Atlantic Slave Trade: A Census, University of Wisconsin Press).

Attenzione però: in questo numero sono compresi solo gli schiavi effettivamente giunti a destinazione nei mercati di oltreoceano. Devono quindi aggiungersi tutti coloro che morivano durante il trasporto per mare – mediamente il 20% del carico – e tutti coloro che morivano, prima ancora, nel trasporto dal luogo di cattura al luogo di imbarco.

Il che significa, nei periodi di maggiore domanda di schiavi, alcune migliaia di deportati al mese.

Ben più elevato è il numero delle vittime indirette: intere economie in precedenza floride sono state distrutte, vasti territori in precedenza popolati sono stati abbandonati.

Recenti studi hanno dimostrato che nelle regioni che si affacciano sul Golfo di Guinea la scomparsa della foresta vergine non è avvenuta a quella velocità che finora era stata stimata, semplicemente perché la deforestazione non ha affatto riguardato una foresta vergine, ma una foresta sorta a seguito dello spopolamento di territori prima coltivati o utilizzati a pascolo, provocato dalla tratta degli schiavi.

Soprattutto, si è accumulata in Africa e in tutti i paesi che hanno partecipato alle varie fasi dell’economia schiavistica una pesante e irrisolta eredità di discriminazione, odio, paura, razzismo (si veda sull’argomento il libro appena uscito di Giorgio Pietrostefani, La tratta atlantica. Genocidio e sortilegio, Jaca Book). Sulla costa del Benin, proprio di fronte al mare, vicino a Ouidah (è obbligatorio l’invito alla lettura di un libro prezioso: Il Viceré di Ouidah di Chatwin), l’Unesco ha ricordato questa tragedia, erigendo un arco, l’Arco del Non-Ritorno, per commemorare i milioni di esseri umani che l’avidità e la smodata predilezione sviluppata dagli europei per zucchero e caffè e per i vestiti di cotone hanno di lì trascinato verso un destino di sofferenza e di morte.

Poche centinaia di visitatori all’anno arrivano ai piedi di quell’Arco, e guardano verso il mare: al di là c’è l’America, terra di libertà e di ricchezza per molti, terra di terrore per quelli che da quelle zone vi erano trascinati.

Invece dovrebbe essere previsto, magari con il contributo dell’Unione europea (che tanto ha a cuore i diritti dell’uomo) l’obbligo di compiere un pellegrinaggio a Ouidah per ciascun alunno delle scuole europee: un viaggio di formazione e di riflessione sul passato, sulle origini del proprio benessere..

Cotonou, capitale del Benin. Si affaccia sul mare con un porto effervescente e in grande sviluppo.

È come tante città africane: il prodotto di una crescita disordinata e di uno sviluppo incontrollato (non bisogna dimenticare che tra il 1991 e il 1997 gli investimenti stranieri in Africa hanno reso mediamente di più che in ogni altro continente).

Come tante città africane, si addensano e si accavallano, nello spazio di pochi metri, l’Antico e il Moderno: il canto del gallo e il sibilo del condizionatore d’aria, odori di frutta decomposta e di gas di scarico, uffici in vetroresina e capanne di paglia.

Nelle città africane i modi e gli stili di vita e le nuove tecnologie non sostituiscono quelle precedenti: il vecchio e il nuovo convivono e si sovrappongono, creando cortocircuiti spaziotemporali.

I veri protagonisti di Cotonou sono i ciclomotori giapponesi, nuovo simbolo dello sviluppo nella dimensione globale di sottosviluppo africano: migliaia e migliaia di Yamaha e Suzuki di piccola cilindrata si addensano ad ogni incrocio, stridendo e strombazzando, trasportando gruppi multicolori di persone, mai meno di due, spesso tre o quattro (ricordate la famiglia in Vespa nell’Italia pre-boom economico degli Anni Cinquanta?).

Sono mototaxi, guidati da giovani in divisa, con tanto di numero di licenza esibito sulla giacchetta, che portano a destinazione per poche lire persone e non, come da noi, pacchetti. La scarsità di mezzi ha determinato spontaneamente una soluzione che nelle città italiane si tenta di avviare per far fronte al congestionamento del traffico urbano prodotto dall’eccesso di benessere.

Man mano che si procede verso Nord, calano sempre più i segni della civiltà occidentale, i simboli del benessere occidentale: si fanno più rade le motociclette, scompaiono l’asfalto dalle strade, le costruzioni in muratura dalle città, le penne Bic dalle cartelle dei ragazzi.

Ci si muove nello spazio, ma è come fare un viaggio a ritroso nel tempo. Nell’estremo Nord del paese si entra nel territorio dei Somba, popolazione rimasta fortunatamente indenne dalla maggior parte degli effetti della colonizzazione.

Procedendo verso Nord, aumentano chiese, missioni, luoghi di incontro religiosi gestiti da organizzazioni gestite da preti, finti preti, ex-seminaristi, profeti e visionari.

Su cartelli corrosi dalle piogge, impiantati alla bell’e meglio agli angoli delle strade, ai bordi della boscaglia, si succedono combinazioni fantasiose di Santi, cuori di Maria, soldati apostolici di Cristo, minacciose profezie di apocalissi e comandamenti più o meno assurdi.

Dovunque sono reclamizzate organizzazioni per le quali la povertà costituisce non una situazione di necessità ma la risorsa da sfruttare, secondo il principio per cui l’aumento del bisogno materiale provoca la ricerca di compensazioni nell’Aldilà e quindi fertile terreno per chiunque venda prodotti immateriali e spirituali.

Tutta l’Africa è spolpata da migliaia di emuli di Credeonia Mwerinde.

Questa, dopo aver condotto una vita di miseria nell’Uganda travolta dalla guerra civile – due volte vedova, molti figli, molti lavoretti (venditrice ambulante di banane, prostituta, piccolo contrabbando) – vede nel 1988 la Madonna in una grotta ed avvia la sua carriera di profetessa.

La prima mossa è il reclutamento come aiutante profeta, consigliere e socio di Joseph Kibwetere, dotato di vasta esperienza nel settore per aver svolto funzioni di ispettore dell’insegnamento cattolico.

Sorge così il “Movimento per la restaurazione dei dieci comandamenti di Dio”: in pochi anni raccoglie migliaia di fedeli cui è promessa la salvezza eterna alla data ormai prossima dell’Apocalisse, a condizione che i loro beni terreni – un fazzoletto di terra, qualche risparmio – vengano lasciati al Movimento. La fede degli aderenti è ben ripagata: l’Apocalisse per loro arriva davvero, e tutti muoiono, avvelenati e felici, mentre Credeonia se la batte con il bottino.