N. 14 inverno 1998

Guerre e guerre

Una volta c’era la guerra fredda.
L’Occidente produceva, commerciava e vendeva armi sempre più letali e sofisticate per conservare la pace: l’obiettivo era quello di essere più armati del Nemico.
La conservazione della pace comportava una vita sotto l’incubo della distruzione totale: ma era l’unico mezzo per evitare la guerra.
Mai è stato realizzato in modo così perfetto il mercato ideale: un meccanismo fine a sé stesso, inventato per produrre e vendere costosissime merci da non usare. Merci tanto più costose, quanto assolutamente inutili, perché progettate e realizzate per una guerra finta, una guerra che non ci sarebbe mai stata e non avrebbe mai potuto esserci, anche perché il Nemico, presentato assiduamente come forte, agguerrito, crudele, era debole, privo di risorse, tecnologicamente arretrato: gli mancava tutto, telefoni, cavi, computer.
Il suo crollo ha distrutto il mercato virtuale che per mezzo secolo ha reso ricchi e felici i produttori e i mercanti di armi e i governi occidentali che ufficialmente o clandestinamente li hanno sponsorizzati.
Fine dell’incubo, fine del pericolo di distruzione, inizio di un mondo di pace?
Assolutamente no: fine della guerra fredda e finta, ritorno alle guerre tradizionali, quelle calde e vere. È iniziato il riarmo: non si parla più di guerre stellari, si parla, tutti i giorni, di guerre.
È iniziata così una espansione della NATO, un organismo che avrebbe dovuto essere soppresso perché ormai totalmente inutile. Secondo Joel Johnson di Aerospace Industries la domanda di caccia da combattimento per il mercato NATO da sola vale attualmente più di 10 miliardi di dollari. Nello stesso tempo, la maggior parte dei paesi occidentali ha aumentato gli stanziamenti bellici nel proprio bilancio. L’Italia è in prima fila: la legge finanziaria del 1998 ha portato il bilancio del Ministero della Difesa da 26.000 miliardi a 31.000 di lire: un aumento di oltre il 20%, un record. Per di più, il costo per finanziare il caccia da combattimento Eurofighter 2000, pari a 928 miliardi di lire, è stato occultato nel bilancio del Ministero dell’Industria (furbissimi, non è vero, Prodi e D’Alema?).
Nessuno ne ha parlato.
La corsa al riarmo significa anche corsa al riarmo nucleare.
In questo settore, la scomparsa del Nemico ha segnato lo sblocco di una situazione di stallo che durava da vari anni e il rilancio della produzione di armi nucleari: il segnale è stato dato dalla Francia prima, da India e Pakistan più recentemente.
Ma, finita la guerra finta, le armi si possono vendere solo se c’è un numero sufficiente di guerre vere che permette di usarle e di consumarle.
La domanda va inventata, creata e incoraggiata.
Prima il compito dei produttori di materiale bellico e dei media era quello di convincere l’opinione pubblica che il Nemico era forte e minaccioso.
Oggi il compito è diverso: vanno costruiti tanti nemici e vanno dislocati in luoghi adatti, dove eventuali bombardamenti e massacri non diano noia al mondo ricco.
È un lavoro che richiede tempo e investimenti.
Non è un lavoro facile.
Bisogna convincere l’opinione pubblica mondiale che il capo di un piccolo paese sottosviluppato – ieri Nicaragua e Libia, oggi Irak – è una minaccia per il mondo intero, Stati Uniti compresi.
Ma il vero colpo di genio del marketing bellico – paragonabile quasi a quello della guerra fredda – è quello inaugurato con l’Irak, e cioè l’ispezione permanente: i nemici devono essere a disposizione per perlustrazioni continue a tempo indeterminato alla ricerca di armi, munizioni, industrie chimiche dissimulate, provette, carte.
Pensate quanto è stato investito in tempo e denaro per ottenere un vero mostro come Saddam Hussein, a confronto del quale Noriega, Ortega e perfino Gheddafi costituiscono dilettanteschi tentativi. Ma pensate anche quanto rende un piccolo, stupido, crudele criminale come Saddam Hussein in termini di produzione di armi, navi, aerei, bombe e in termini di occupazione per militari e attivisti bellici.
Il vero problema è però che, a differenza del vero Nemico, questi piccoli nemici si usurano velocemente e debbono essere prontamente sostituiti: siamo passati all’usa e getta. Quali saranno i prossimi?
*

Il libero mercato globale non ha distribuito benessere e uguaglianza; ha globalizzato morte e fame.
In Russia e in molti paesi asiatici la popolazione è stata severamente punita per aver creduto nelle promesse di un roseo capitalismo con il quale tutti avrebbero avuto automobili e forni microonde a portata di mano.
Il libero mercato ha globalizzato anche la disoccupazione, ovunque in aumento.
Nel contempo, si è globalizzata anche la sovrapproduzione: solo nel settore dell’auto vengono prodotti annualmente milioni di auto in eccesso.
Eppure secondo alcuni bisogna abbassare i salari per rilanciare l’economia. Perché i produttori dovrebbero assumere altri lavoratori anche se costano meno? C’è qualcuno che crede che se si dimezzano i salari la Fiat assumerà personale per fare un numero ancora maggiore di inutili automobili, magari a mano?
Abbassare i salari ha un solo effetto: demolisce il lavoro stabile a favore di quello instabile, ricattabile, infortunabile, trucidabile.
Ma, dicono quelli che lo propongono come rimedio, così facendo si diminuisce la rigidità del mercato del lavoro.
Ottima idea per un paese come l’Italia dove ci sono almeno 5 milioni di lavoratori in nero: un enorme mercato del lavoro superflessibile, che in molte zone del paese supera il mercato del lavoro ufficiale.
Cosa c’è di meno rigido del lavoro nero? Non sicuramente il sistema schiavistico, dato che i proprietari di schiavi dovevano nutrire i propri schiavi tutti i giorni e non potevano disfarsene licenziandoli.
Certo, flessibilità significa rendere legale il mercato del lavoro nero, o meglio rendere nero il mercato ufficiale, e poi rendere il tutto legale, ottenendo così centinaia di migliaia di posti di lavoro in più, tutti flessibilissimi.
In realtà, nei paesi occidentali siamo in presenza di una guerra unilaterale e globale contro i lavoratori garantiti e contro i livelli di sicurezza conquistati nel corso degli ultimi decenni. Una guerra che in Italia fa 1000 morti ufficiali l’anno (e due o tre volte tanto sommersi). Gli incidenti sul lavoro sono centinaia di migliaia l’anno, ma non se ne parla più (è un argomento archiviato insieme al comunismo, ai dischi di vinile e ai telefoni a manovella).

Odon Von Horvàth: tre pezzi e qualche dato

I

Ieri c’è stata la rivoluzione. Finalmente.
I Ministri sono stati tutti arrestati, salvo il Presidente del Consiglio che è fuggito all’estero, e il Ministro degli Interni fucilato in una osteria.
C’è gioia dovunque. Il popolo balla per la strada e si formano cortei qui e là. Dovunque la gente brucia e strappa le vecchie bandiere, mentre le nuove sventolano.
I militari sfilano; il nuovo Presidente ha le lacrime agli occhi.
La vecchia signora Hatschmaier ha avuto un infarto per la gioia.
Finalmente, finalmente il popolo ha vinto.
Sono scomparse le caste e le classi. C’è solo un popolo. Scomparsi anche i falsi dei. C’è solo la Nazione.
C’erano anche alcuni che dicevano, ma come un solo popolo, com’è questa storia della fratellanza e dell’uguaglianza, se alcuni continuano ad avere molto denaro e altri non ne hanno?
Sono stati subito fucilati.

II

Sul mio tavolo c’è un mazzo di fiori. Un regalo dei miei genitori: oggi è il mio compleanno. C’è un biglietto di mia madre: “Per il tuo trentaquattresimo compleanno ti auguro, mio caro figlio, ogni bene. Dio ti invii salute, fortuna e felicità!”. C’è anche un biglietto di mio padre: “Per il tuo trentaquattresimo compleanno ti auguro, mio caro figlio, ogni bene. Dio ti invii salute, fortuna e felicità!”.
La fortuna serve sempre, la salute c’è, ma felice proprio non lo sono. Ma forse nessuno lo è.
Mi siedo al tavolo, apro il calamaio con l’inchiostro rosso, sistemo davanti a me i ventisei compiti in classe che devo correggere, e penso: sono proprio stupido. Ho un posto sicuro con il diritto alla pensione, e questo è un bel successo oggigiorno, quando non si sa che cosa succederà domani. Quanti vorrebbero essere al mio posto! È davvero minuscola la percentuale di coloro che vogliono fare gli insegnanti che riesce a divenire di ruolo. C’è da ringraziare Dio che io lo sono diventato in un ottimo liceo e così posso divenire vecchio e stupido senza preoccupazioni. Posso arrivare anche a cent’anni, sempre con una pensione.
Comincio a correggere.
Ventisei ragazzi, di circa quattordici anni, hanno fatto un compito in classe di geografia (io insegno geografia e storia).
Il tema assegnato dalla scuola è “Perché dobbiamo avere delle colonie?”
Allora, Bauer (non ho allievi il cui cognome comincia per A), allora spiegami perché dobbiamo avere delle colonie.
“Abbiamo bisogno di colonie perché lì si trovano le materie prime con le quali facciamo funzionare le nostre industrie; senza le colonie non potremmo quindi offrire lavoro a tutti i nostri operai” – Giusto, Bauer – “Naturalmente, il problema non sono i lavoratori, è il popolo, perché anche loro, alla fin fine, appartengono al popolo”. Senza dubbio questa è alla fin fine una bella scoperta, caro Bauer. Ma so bene che è meglio non fare alcun appunto: è ciò che tutti i giornali ripetono. Non voglio irritarmi con i miei studenti, che, poveretti, non fanno altro che ripetere quello che sentono.
Vediamo che cosa scrive N.
“Abbiamo le colonie perché tutti i Negri sono falsi, fannulloni e ignoranti”.
Questo è troppo!
Sto già intingendo la penna nel calamaio, per scrivere: “Generalizzazione banale e priva di senso!”, poi mi fermo. Non ho appena sentito questa frase l’altro giorno da qualche parte? Sì, la ho sentita alla radio, mentre ero al ristorante, e mi era quasi passato l’appetito.
Lascio la penna: quel che la radio dice, non può essere censurato da un insegnante.
Passiamo al compito di S.

III

Sono nato il 9 dicembre del 1901 a Fiume sull’Adriatico.
Quando pesavo trentadue libbre, ho lasciato Fiume, e ho cominciato a girare tra Venezia e i Balcani.
Quando divenni alto 1,20 metri fui portato a Budapest, dove vissi fino a 1 metro e 21. Lì fui un visitatore accanito di spazi dedicati ai giochi per bambini, risultando sempre antipatico per il mio comportamento un po’ sognatore e un po’ dispettoso.
Ad un altezza di circa 1,52 metri si risvegliò in me l’Eros, ma senza procurarmi troppi fastidi.
Il mio interesse per l’arte e per la letteratura spuntò relativamente tardi, quando ero alto circa 1 metro e 70, ma solo quando raggiunsi 1,79 metri divenne una vera e propria irrefrenabile passione.
Quando scoppiò la guerra mondiale ero alto 1,67 e quando finì ero già arrivato a 1,80.
Tutti i miei ricordi d’infanzia sono andati perduti durante la guerra.
E poi, prima della guerra cambiavo città praticamente ogni anno; così ogni anno a scuola parlavo una lingua diversa. Quando giunsi in Germania la prima volta, non riuscivo neppure a leggere, nonostante la mia lingua materna fosse il tedesco, perché non conoscevo l’alfabeto gotico. Solo a quattordici anni scrissi la mia prima frase in tedesco.
Non chiedetemi perciò della mia patria. Posso solo rispondere: sono nato a Fiume, sono cresciuto a Belgrado, Budapest, Bratislava, Vienna e Monaco. Ho un passaporto ungherese. Patria? Non so che cosa vuol dire. Sono ungherese, croato, tedesco, ceco, il mio nome è ungherese, la mia lingua è il tedesco. Non ho patria, e non mi dispiace, anzi ne sono contento.
Naturalmente ci sono paesaggi, città, appartamenti, camere da letto dove mi sento a casa. Ho i miei ricordi: strade, piazze, stazioni ferroviarie, boschi, il mio primo amore con una donna che mi incontrò a Budapest e mi portò nella sua grande casa, dove viveva sola perché il marito era da tanto tempo in guerra, credo in Galizia; lei aveva voglia di essere amata.

IV

Odon von Horvàth: simpatico, modesto, pieno di charme, cavalleresco, ironico secondo Walter Mehring; sempre socievole e gaio secondo Hertha Pauli; gli piacevano la solitudine e le montagne, ma anche i mercati e le piazze piene di traffico, gli piaceva lo sport, soprattutto l’hockey su ghiaccio e la boxe, secondo Theodor Csokor. Dice Hans Geiringer che odiava i vestiti nuovi, lo smoking, i colletti duri, le scarpe di vernice; ciò nonostante era sempre elegante. Frequentava il salotto di Alma Mahler e quello di Max Reinhardt a Vienna. Gli piaceva la compagnia e riusciva a entrare in contatto anche con persone di cui non parlava la lingua.
Divenne famoso a Berlino per i suoi atti unici per teatro; ottenne il premio Kleist nel 1931.
Per i nazisti fu un rappresentante dell’arte degenerata.
Scrisse al suo carissimo amico Csokor nel novembre 1933: “Siamo ormai tutti prossimi ad emigrare, viviamo vicino alle nostre valige già pronte, impariamo freneticamente l’inglese, impariamo a cucire e a cucinare. E intanto, continuiamo a scrivere, a pensare, come se nulla fosse”.
Era a Vienna quando, nel marzo del 1937, l’Austria è occupata dai nazisti e annessa al Reich. Trova fortuitamente un posto su un autobus per Budapest. Da Budapest scrive a Csokor: “Capisco solo adesso che cosa vuol dire non poter più tornare indietro”.
Fugge da Budapest e si ferma per due settimane da una amica a Teplitz.
Riparte e va a Milano, si ferma tre giorni.
Di lì va a Zurigo.
Rimane due settimane, poi si ferma due ore a
Bruxelles. Poi ad Amsterdam.
Il 28 maggio arriva a Parigi. Ottiene un visto per gli Stati Uniti. Deve partire il 3 giugno.
Scrive a Csokor: “Sono felice: Adieu, Europa”.
Il 31 maggio festeggia la partenza con i suoi amici.
Si allontana alle sette di sera, vuole fare un’ultima passeggiata per gli Champs-Elisées.
C’è un improvviso temporale, un colpo di vento abbatte un vecchio castagno. Un ramo colpisce Horvàth.
Muore sul colpo.

Il primo pezzo è tratto da Die stille Revolution. Kleine Prosa, Suhrkamp 1975. Il secondo e il terzo da Ausgewahlte Werke, vol.2, Berlin (DDR) 1981. Le note biografiche sono tratte da varie fonti e dalle introduzioni dei curatori dei due volumi, Traugott Krischke e Hansjorg Schneider.

Dove sono gli Ilois

Gli Ilois erano gli abitanti dell’isola Diego Garcia. Non erano più di qualche migliaio, all’inizio degli anni Sessanta.
Diego Garcia è una colonia britannica, fa parte dell’Arcipelago delle Chagos.
Gli Ilois sarebbero dovuti divenire indipendenti nel 1965. Diego Garcia avrebbe dovuto formare un unico Stato insieme a Mauritius.
Mauritius è divenuta indipendente. Le isole Chagos e Diego Garcia no.
Sono state costituite in nuova colonia, denominata British Indian Overseas Territories, nonostante una risoluzione delle Nazioni Unite che diffidava formalmente la Gran Bretagna dal separare le isole Chagos da Mauritius.
Poi, le isole Chagos e i suoi abitanti sono scomparsi dalla carta geografica.
Non perché non valesse la pena di segnarle. Sono scomparse perché valgono troppo. Sono collocate a metà strada tra India e Medio Oriente, e la Gran Bretagna si è accorta che avrebbero presto avuto una enorme importanza strategica.
Così le ha affittate agli Stati Uniti, che le usano come base militare (e anche, visto che ci sono, come discarica di materiale radioattivo).
Da Diego Garcia nel 1991 sono partiti gli aerei utilizzati per bombardare l’Irak.
Ma che fine hanno fatto gli Ilois?
Le isole sono state consegnate agli Stati Uniti vuote, libere da persone o cose, come in ogni contratto di affitto che si rispetti.
Secondo il Ministero della Difesa della Gran Bretagna, gli Ilois “non sono mai esistiti”.
“Virtualmente disabitata” era Diego Garcia secondo il Ministero della Difesa degli Stati Uniti allorché ha fornito spiegazioni a una richiesta del Congresso in merito alla sorte degli abitanti.
Virtualmente.
Gli Ilois non ci sono più in Diego Garcia. Neppure uno.

Da: JOHN MADELEY, Diego Garcia. Report n.54. Minority Rights Groups, 1985; MARK CURTIS, The Ambiguity of Power: British Foreign Policy since 1945, Zed Books London 1995; JOHN PILGER, Hidden Agendas, Australia 1998.

Otto poesie di Giorgio Caproni

I

Devi perseverare
e usare molta pazienza
se vuoi arrivare
al punto di partenza.

II

Devi tornare.
Stai cercando davanti a te
ciò che hai lasciato alle spalle.

III

Calmati. Dove mai vuoi andare?
un punto è assodato.
non potrai mai arrivare
dove sei già arrivato.

IV

Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.

V

Tutti i luoghi che ho visto
che ho visitato,
ora so – ne sono certo:
non ci sono mai stato.

VI

Non chiedere nulla più.
Nulla per te qui resta.
Non sei della tribù.
Hai sbagliato foresta.

VII

Guardava il bicchiere. Fisso.
Quasi da ridurlo in schegge.
Capiva che il bicchiere dura
Più di chi lo regge.

VIII

Non portare con te nemmeno
la lanterna. Là
il buio è così buio
che non c’è oscurità.

Da GIORGIO CAPRONI. Le poesie sono tratte da: Il Franco cacciatore, Il muro della terra, Congedo del viaggiatore cerimonioso.

Il nuovo mondo

“Come stavo dicendo l’ultima volta che ci siamo visti”.
Così si rivolse ai suoi studenti, riprendendo il suo corso all’università di Salamanca al punto in cui lo aveva interrotto, l’umanista e poeta Luis de Leon.
L’interruzione, protrattasi per vari anni, fu dovuta all’incarceramento di de Leon su ordine della Santa Inquisizione.
Luis de Leon fu un uomo fortunato: fu incarcerato e ripetutamente torturato, ma non fu considerato sufficientemente eretico per essere bruciato.
Era il 1576.
Luis De Leon nelle sue lezioni parlava del Nuovo
Mondo, e parlava di coloro che abitavano in quei luoghi come esseri umani.
Parlava anche degli abitanti di Hispaniola (oggi suddivisa tra Haiti e Santo Domingo), diceva che erano uomini proprio come gli spagnoli.
Gli abitanti di Hispaniola furono assai meno fortunati delle popolazioni indiane delle aride zone dell’alta California e del Nevada, che vissero indisturbati fin oltre la metà del secolo scorso.
Scrisse Joseph Ives nel 1857, allorché la sua spedizione raggiunse il Grand Canyon: “La regione è totalmente priva di interesse; ci sono solo alcuni gruppi di selvaggi; una volta arrivati, l’unica cosa da fare è andarsene. Il gruppo di bianchi da me guidato è stato il primo, e certamente l’ultimo, a visitare questa località priva di qualsiasi utilità”. Per quei gruppi di selvaggi queste parole furono la salvezza. Per qualche decennio.
Hispaniola fu invece ritenuta subito interessante dai suoi primi visitatori. Così i suoi abitanti, circa centomila nel 1492 al momento dell’invasione spagnola, divennero duecento appena ottanta anni dopo.
Erano stati distrutti dalle malattie e dalle sevizie subite; ma forse ancor di più dal disgusto per quella civiltà rappresentata ai loro occhi dall’unione di conquistadores e di preti, di potere militare e poliziesco e potere religioso. È stato per entrambi i poteri un abbinamento di enorme successo, e solo da pochi secoli la Chiesa cattolica vi ha rinunciato, qui in Europa. Non vi ha invece mai rinunciato in America Latina: ne sono stati conferma e simbolo in un recente passato l’immondo pubblico incontro in Vaticano tra Woytila e Pinochet.
Mentre gli abitanti delle terre invase morivano, i colonizzatori inviavano commissioni di inchiesta per indagare sulla loro natura.
Erano uomini, o creature diaboliche?
I monaci spagnoli dell’ordine di San Gerolamo furono incaricati di effettuare un vero e proprio sondaggio, inviando un questionario ai coloni per sapere se essi li considerassero uomini.
Tutte le risposte furono negative.
Non erano uomini – secondo gli intervistati – “perché sfuggono gli Spagnoli, perché vanno in giro nudi, perché rifiutano di lavorare senza compenso, perché non hanno la barba, perché tagliano la barba quando cresce, perché regalano i loro beni agli amici, perché non scacciano i compagni a cui gli Spagnoli per punizione hanno tagliato le orecchie”.
Naturalmente, i monaci spagnoli dell’ordine di San Gerolamo non intervistarono Luis de Leon.
Così, per l’opinione pubblica europea del tempo, sapientemente orchestrata, costruita e alimentata dal potere politico, ecclesiastico e militare, questo era e doveva rimanere il Nuovo Mondo: popolato non da uomini, ma da mostri e da creature fantastiche, nemiche e diaboliche.
Alcuni hanno cercato di opporsi e di combattere queste menzogne e di svelarne i disegni di dominio e di sfruttamento.
Basta pensare alla Tempesta, composta da Shakespeare alcuni decenni dopo che Luis de Leon aveva ripreso le sue lezioni, ove l’atteggiamento dominante viene irriso e capovolto: Miranda, che da sempre vive con il padre Prospero in un’isola popolata solo da mostri e da creature fantastiche, reagisce con incontenibile stupore alla vista…. di un essere umano uguale a lei, con l’istintiva esclamazione (resa poi famosa da Huxley): “O Brave New World!”.

Da: CLAUDE LEVY STRAUSS, Tristes Tropiques, 1960; HENRY KAMEN, The Spanish Inquisition: A historical revision, Yale Uni Press 1998; STEPHEN J. PYNE, How the Canyon became Grand: A Short History, Viking 1998).

Tre poesie di Wislava Szymborska

La nuova stella

Hanno scoperto una nuova stella.
Ma non è che qui ci sia più luce di prima.
E prima di questa stella
non se ne sentiva la mancanza.
La stella è grande e lontana,
così lontana che sembra assai piccola,
più piccola di altre stelle
che in realtà sono molto più piccole di lei.

L’età   della   stella,  la   sua   massa,  la posizione
sono  state  l’argomento  per  una  tesi  di dottorato
e per un piccolo rinfresco:
c’erano  l’astronomo,  sua  moglie,  parenti, colleghi,
il   rettore   dell’università,   il ministro dell’educazione;
l’atmosfera era rilassata,
gli abiti informali
si parlava soprattutto di politica locale
si masticavano noccioline
bevendo l’aperitivo.

È una stella davvero magnifica,
ma senza conseguenze
sul tempo, sulla moda, sul governo,
sulla crisi in borsa e la crisi dei valori.
Non ha conseguenze neppure
Sull’industria pesante,
sulle trattative sindacali,
sulla globalizzazione.

È una stella in più
Per i giorni contati della vita.

Una stella nuova.
Mostrami dov’è.
Tra il bordo di quella nuvoletta grigia
e quel rametto d’acacia, sulla sinistra.
– Ah, eccola.

Un’altra guerra

Dopo ogni guerra
c’è chi deve pulire,
rimettere in ordine.
C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade,
c’è chi deve trascinare travi
per puntellare muri
c’è chi deve mettere i vetri alle finestre.
Ci vogliono anni.
Nel frattempo, gli altri sono già ripartiti
per un’altra guerra.
Bisogna ricostruire i ponti,
le stazioni, gli stadi,
cogliere l’occasione
perche’ tutto sembri più bello di prima.
C’è chi con la scopa in mano
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta annuendo.
Ma presto ci sarà chi si annoia.
Chi sapeva di che si trattava
fa lentamente posto a quelli
che ne sanno poco.
Poi a quelli che non ne sanno nulla.
Sull’erba che ha sepolto le cause e gli effetti
c’è chi sta disteso
con una spiga tra i denti
e fissa le nuvole.
Poi ci sarà un’altra guerra.

La moglie di Lot

Ho guardato indietro, è vero.
Dicono per curiosità.
Non pensano neppure che potessi avere altri motivi:
il rimpianto di una coppa d’argento
lasciata nella mia casa di Sodoma.
La voglia di non vedere più il mio probo marito
che mi camminava davanti.
La voglia di verificare se si sarebbe fermato,
qualora fossi morta (non si fermò).
La disubbidienza degli umili.
La speranza che Dio ci avesse ripensato,
e non facesse morire migliaia di innocenti.
La solitudine e la vergogna di fuggire così di nascosto.
Ma forse fu solo un colpo di vento
che mi sciolse i capelli
e che istintivamente mi fece girare la testa.
È possibile che io sia caduta, e poi divenuta di sale
con il viso rivolto alla città.

Da WISLAVA SZYMBORSKA. La prima poesia è tratta dalla raccolta Gente sul ponte; la seconda da La fine e l’inizio; la terza da Grande numero.

Voglio bene anche a loro

“Andiamo a dare un’occhiata a tombe di due o tremila anni fa” disse il padre “Tombe etrusche”.
“Papà” domandò la piccola Giannina “perché le tombe antiche fanno meno malinconia di quelle nuove?”
“Si capisce” rispose il padre “I morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti; è come se non fossero mai vissuti, e come se siano stati sempre morti”.
“Adesso che dici così” disse Giannina dopo qualche istante “mi fai pensare che anche gli etruschi sono vissuti, e voglio bene anche a loro come a tutti gli altri”.

Da GIORGIO BASSANI, Il giardino dei Finzi-Contini, in Opere, Mondadori 1998.

Crediti

Anche in questo quattordicesimo volume dei Testi Infedeli, come in tutti i volumi precedenti, i pezzi sono stati liberamente e infedelmente tradotti dall’originale.
Il volume è stato stampato nel dicembre del 1998 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio in Milano, nella tipografia Cinque Giornate srl.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.

N. 15 estate 1999

Le ragioni umanitarie

“Profondamente sensibili al dovere solenne di promuovere il benessere dell’umanità, persuasi che è giunto il tempo di rinunciare alla guerra come strumento di politica nazionale, convinti che tutti i cambiamenti nelle relazioni internazionali debbano avvenire con mezzi pacifici” sessantacinque Stati aderiscono al patto Briand-Kellogg (del quale la citazione iniziale costituisce il preambolo) che abolisce solennemente il ricorso alla guerra come strumento per dirimere conflitti internazionali.
È l’anno 1929. Tra gli Stati aderenti figurano la Germania, l’Italia e il Giappone. Il patto non segna, come tutti sanno, la fine della guerra come strumento offensivo; segna però il fiorire delle aggressioni militari giustificate da ragioni umanitarie (ritenute compatibili con gli scopi del patto).
Ecco i tre episodi più noti.

L’intervento militare del Giappone in Manciuria nel 1931, rivolto secondo gli aggressori giapponesi  a tutelare i diritti umani degli abitanti, violati dai Cinesi e la successiva costituzione nel 1932 dello Stato fantoccio del Manchukuo.
L’intervento militare dell’Italia in Etiopia nel 1936 (con ampio uso di armi chimiche e di gas), rivolto secondo gli aggressori italiani a liberare un popolo ridotto in schiavitù dai suoi governanti per immetterlo nella civiltà occidentale.
L’intervento militare della Germania nazista in Cecoslovacchia nel marzo del 1939, rivolto secondo gli aggressori tedeschi a tutelare i diritti etnici del popolo tedesco e del popolo boemo e finalizzato a realizzare i diritti umani fondamentali degli abitanti del paese. L’intervento segue di qualche mese lo smembramento della Cecoslovacchia, attuato mediante la  costituzione di due Stati (fittiziamente) indipendenti: la Slovacchia e la Rutenia (quest’ultima con il pomposo nome di Repubblica Carpato-Ucraina riesce a battere ogni record nella scala del decadimento degli Stati, durando poco meno di 24 ore: viene infatti subito invasa e annessa dall’Ungheria, naturalmente con l’assenso tedesco), e precede di pochi giorni la costituzione del famigerato Protettorato di Boemia e Moravia.

*

Osserva Louis Henkin, uno dei più importanti esperti di diritto internazionale, che “Ogni argomentazione tendente a erodere la proibizione dell’uso della guerra e a giustificare interventi militari a livello internazionale, al di fuori dei casi espressamente previsti dal diritto internazionale e dai trattati, deve essere considerata pericolosa. In particolare, estremamente pericolosa deve essere considerata la tesi che vuole consentire interventi militari in paesi sovrani, giustificati da ragioni umanitarie. La violazione dei diritti umani costituisce un dato di fatto assai comune; se fosse lecito da parte di uno Stato o di un gruppo di Stati aggredirne un altro allo scopo di tutelare tali diritti, sarebbe praticamente impossibile impedire l’uso della forza da parte di qualsiasi Stato nei confronti di qualsiasi altro Stato. I diritti umani debbono essere tutelati con mezzi diversi dall’aggressione militare, se si vogliono conservare gli attuali principi che governano il diritto internazionale”.
Non bisogna poi dimenticare che una delle caratteristiche fondamentali delle aggressioni militari per ragioni umanitarie è quella che lo spirito umanitario anima invariabilmente Stati militarmente e economicamente potenti, mentre destinatari dell’intervento umanitario sono sempre Stati militarmente e economicamente deboli.
Questo può significare che la mancanza di umanità è propria solo degli Stati poveri e che, viceversa, solo gli Stati ricchi che molto investono in armi e in apparati bellici sono non solo genuinamente umanitari, ma per di più animati da un incontenibile spirito solidaristico, che porta ad affrontare spese enormi in nome di principi di fratellanza.
Oppure può significare che gli Stati ricchi e potenti usano il pretesto delle ragioni umanitarie per fare guerre non consentite dal diritto internazionale, quasi sempre vietate dalle normative costituzionali dei singoli Stati, e comunque non giustificabili di fronte all’opinione pubblica interna.

*

Ecco l’elenco dei paesi che hanno subito aggressioni militari e bombardamenti dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. Sono ventidue casi in cui gli Stati Uniti (e in talune occasioni i suoi alleati) hanno violato il diritto internazionale vigente. Molte volte, per ragioni umanitarie.

Cina 1945-46
Corea 1950-53
Cina 1950-53
Guatemala 1954
Indonesia 1958-60
Cuba 1959-60
Guatemala 1960
Congo 1964
Perù 1965
Vietnam 1961-73
Laos 1964-73
Guatemala 1967-69
Cambogia 1969-70
El Salvador 1980
Nicaragua 1980
Grenada 1983
Libia 1986
Panama 1989
Iraq 1991-99
Sudan 1998
Afghanistan 1998

*

Che Milosevic e la Serbia siano il reale obiettivo dell’attuale aggressione bellica e che gli scopi siano quelli umanitari dichiarati sono affermazioni che hanno lo stesso livello di credibilità delle stimmate di Padre Pio (e delle stimmate dei suoi circa trecento predecessori).
Ecco altri tre obiettivi che rendono più comprensibile (anche se meno umanitaria) l’aggressione:

affermazione della NATO come organizzazione militare indipendente e autonoma, formalmente espressione di una pluralità di Stati, sostanzialmente braccio armato degli Stati Uniti;

occupazione e colonizzazione dell’intera area balcanica da parte delle potenze europee e degli Stati Uniti: la Bosnia è ormai stabilmente amministrata da forze di occupazione, l’Albania è ormai solo formalmente indipendente, Montenegro e Macedonia sono velocemente avviate a divenire protettorati a sovranità limitata;

avvio della spartizione della Confederazione russa. Come è accaduto per l’impero ottomano, le grandi manovre per la spartizione cominciano rosicchiando l’impero ai suoi margini e delegittimandolo all’esterno presso gli Stati protetti o amici e all’interno presso tutti i popoli che ne facevano parte.

Poi, è solo questione di tempo: per ridurre l’impero ottomano all’attuale Turchia, sono serviti quasi cento anni.

Per fonti e riferimenti: L’elenco delle aggressioni militari degli Stati Uniti è di WILLIAM BLUM, pubblicato in ZNET; NOAM CHOMSKY, The Current Bombing: Behind the Rhetoric, pure in ZNET; LOUIS HENKIN, Refugees and their Human Rights. Foreign and Comparative Law, in Fordham International Law Journal Online 1994; OGATA, SADAKO N., Defiance in Manchuria: the Making of the Japanese Foreign Policy, Berkeley 1964.

Cinque poesie e un racconto di Dorothy Parker

Un nuovo amore

Ed ecco qui alla mia porta un altro;
ed ecco i fiori nelle mie mani.
Mi siedo e guardo verso il pavimento.
Non avrò davvero niente da obiettare
Se se ne va verso un’altra porta.
E neppure se rimane.

Coincidenze sfortunate

Nel momento in cui tu giuri che sei sua
Tremando e singhiozzando,
e lui afferma che il suo amore è eterno
cara amica, tieni presente questo:
uno di voi due sta mentendo.

Separazione

Cerca pure, mio amato, la tua nuova strada;
non mi lascerai nella disperazione.
Finché io posso tenermi il passato
Vai a prenderti il tuo dannato futuro.

Canzone di guerra

Soldato, nella strana terra
Al di là del mare sconfinato
Raccogli pure il suo sorriso e tienile la mano:
non sentirti colpevole con me.
Poi, quando mai i soldati sono stati fedeli?
Se lei è bella e dolce e allegra,
ti auguro di farcela,
e di non dormire da solo.
Solo, ricordati
quando di notte le parlerai
Tra il sonno e la veglia
Chiamala con il mio nome.

Penelope

Nei percorsi del sole
Sulle soglie del vento
Dove terra e mare si uniscono
Lui cavalca le acque argentate
E fende le onde tumultuose.
Io me ne sto a casa e filo;
mi alzo impaurita
quando sento qualcuno che si avvicina;
faccio il tè, avvolgo la lana,
inamido le lenzuola per la notte.
Per tutti, valoroso  sarà lui.

La telefonata

Ti prego, Dio, fa che telefoni adesso. Gesù caro, non ti chiederò null’altro, davvero. E non ti sto poi chiedendo molto. E per te è davvero uno sforzo piccolo piccolo, accontentare questo mio desiderio. Ti prego. Ti prego. Se non ci penso, magari il telefono suona. Talvolta funziona così. Dovrei pensare a qualcosa d’altro.
Potrei contare fino a cinquecento. Lentamente. Senza imbrogliare. Anzi, se telefona prima che sia arrivata a trecento, non rispondo. Uno, due, tre, quattro….Cinquanta. Ma insomma, perché non telefona? Questa è l’ultima volta che guardo l’orologio. Poi non lo guardo più. Aveva detto che mi avrebbe chiamata alle cinque. “Ti chiamerò alle cinque, cara”. È qui che mi ha chiamata cara, ne sono quasi sicura. So per certo che mi ha chiamato cara due volte, e l’altra è stato quando se ne è andato. “Ciao, cara”. Non può aver pensato che io dovevo telefonargli. So che non sta bene, e agli uomini poi non piace. Se lo fai, si rendono conto che tu stai pensando a loro, e questo li irrita. Ma lui, non aveva bisogno di dirmi che mi avrebbe telefonato. Io certo non lo ho chiesto. Davvero.
Sarò più buona, Dio, se fai sì che telefoni. Ti sembra una cosa da niente, mio Dio, quello che ti chiedo? Certo, tu stai seduto lì in cielo, bianco e vecchio, con gli angeli e le stelle tutt’intorno. E io arrivo chiedendoti una telefonata. Non ridere, ti prego. Tu non sai come mi sento male. Per forza, tu sei intoccabile, sul tuo trono, nessuno può farti del male. E io sto male, davvero male. Non vuoi aiutarmi? In nome di tuo figlio, lo hai detto tu che avresti fatto qualsiasi cosa ti fosse richiesta in nome suo.
Devo smettere. Non posso andare avanti così. Supponiamo che un uomo dica ad una donna che la chiamerà al telefono, e poi qualcosa accade, e lui non telefona. Non è così grave. Probabilmente succede continuamente nel mondo. Ma a me non importa nulla di quel che succede nel mondo. Adesso metto l’orologio nell’altra stanza.
Se non guardo l’orologio, sicuramente mi telefona. Sarò dolcissima con lui, quando mi chiama. Anche se dice che non vuole vedermi questa sera, gli dirò “Va bene, non fa niente”. Certo, devo piacergli almeno un poco, se no non mi avrebbe chiamato cara ben due volte. Insomma, Dio, se ricevo la telefonata, giuro che non ti chiederò mai più niente. Ma forse mi stai punendo, perché mi sono comportata male? Se non mi chiama, saprò che Dio è irritato con me. Adesso conto fino a cinquecento e se non mi chiama, saprò che Dio non mi aiuterà mai più…

Da DOROTHY PARKER. Le prime tre poesie sono tratte da Enough Rope 1927; Canzone di guerra da War Songs 1944; Penelope da Sunset Gun 1928. La Telefonata da The Portable Dorothy Parker, Viking 1944.

Due scritti di Levi-Strauss

I

Montaigne ha detto che la vecchiaia ci riduce ogni giorno che passa; così, quando la morte sopraggiunge, non si porta via che un mezzo uomo, o un quarto di uomo. Montaigne è morto però a cinquantanove anni: sicuramente non ha potuto avere né esperienza né idea dell’estrema vecchiezza in cui io ora mi trovo. Ora, a quest’età che non avrei mai pensato di raggiungere e che costituisce una delle sorprese più curiose di tutta la mia esistenza, ho la sensazione di essere come un ologramma spezzato.
L’ologramma non possiede più la sua unità; ciononostante, come in tutti gli ologrammi, ciascuna parte residua conserva una immagine del tutto.
Così oggi c’è per me un io reale che non è più che la metà o un quarto di un uomo, come diceva Montaigne; ma c’è anche un io virtuale, che conserva ancora viva un’idea del tutto. L’io virtuale prepara un progetto di libro, comincia a organizzarne i capitoli e dice all’io reale: “Adesso tocca a te”. E l’io reale, che non è assolutamente in grado di continuare, risponde “Non ci penso nemmeno. È affar tuo. Sei tu soltanto che ancora percepisci la mia totalità”.
La mia vita oggi si svolge con questo strano, continuo battibecco tra i miei due io.
Ma devo ringraziarvi, perché, grazie alla vostra presenza e alla vostra amicizia, per qualche istante oggi avete fatto cessare questo dialogo, e avete permesso ai miei due io di coincidere di nuovo. So bene che il mio io reale continuerà a sciogliersi fino alla fine, ma vi sono riconoscente per avermi teso la mano e avermi dato la sensazione di poter fermare il tempo.

II

Capisco la passione, la follia, l’inganno dei racconti di viaggio. Danno l’illusione di cose che non esistono più e che tuttavia dovrebbero esistere ancora per farci sfuggire alla desolante sensazione che ventimila anni di storia sono andati perduti. Ma non c’è più nulla da fare. La civiltà è stata un fragile fiore che ha dovuto svilupparsi faticosamente in angoli riparati, in terreni ricchi di specie vegetali selvatiche che permettevano di variare e rinvigorire le sementi. Ora non più. L’umanità è cristallizzata nella monocoltura e produce civiltà uniforme in massa. La sua mensa offrirà per sempre ormai solo questa vivanda.
Un tempo si rischiava la vita per conquistare beni che oggi appaiono privi di valore: legna da bruciare in Brasile (da cui il nome), pepe, così prezioso che veniva conservato in bomboniere e masticato a grani, stoffe, e altro ancora.
Erano beni che producevano scosse visive o olfattive, gioioso calore per gli occhi, bruciore squisito per la lingua, che aggiungevano nuovi registri alla gamma sensoriale di una civiltà  che non si era resa ancora conto della sua scipitezza.
Oggi i viaggiatori riportano da quelle terre resoconti scritti e fotografici: spezie morali di cui la nostra società abbisogna per non essere sommersa dalla propria crudeltà, dalla propria insensibilità, o dalla noia.

Il primo pezzo è il discorso di Claude Lévi-Strauss agli amici al Collège de France il 25 gennaio 1999, in occasione del festeggiamento per il suo novantesimo compleanno. Ho ricevuto il testo del discorso da Pasquale Pasquino.
Il secondo pezzo è tratto da Tristes Tropiques, Librairie Plon, Parigi 1955.

Due poesie di Alex Fleites

Basta con Leibniz

Se vi siete finalmente
Resi conto
Che questo non è
Il migliore dei mondi possibili,
Mettetevi subito alla ricerca
del migliore
dei mondi impossibili.

Attenzione: Inverno

La Prefettura ha comunicato
che fra sette giorni all’alba
comincerà l’inverno.
Tutti,
donne e uomini,
anche se extracomunitari,
dovranno rispettare
le seguenti istruzioni.
Prima di tutto,
non lasciare il cuore esposto alle intemperie.
Poi, camminare a passo lesto
verso il sole nascente.
Soprattutto, ricordarsi
che l’inverno è transitorio.
Bisogna avere fiducia:
durerà lo stretto necessario
La fine dell’inverno sarà tempestivamente comunicata.

Da ALEX FLEITES, Poesie, Habana 1995.

Il tempo e l’amore

Un quadro di Van Dick conservato a Parigi nel museo Jacquemart-André raffigura un vecchio e un bambino. Entrambi hanno le ali.
Il vecchio trattiene il bambino sulle ginocchia e gli taglia le ali.
Secondo l’interpretazione corrente, il vecchio è il tempo, il bambino è l’amore. Quindi, il tempo sconfigge l’amore.
Le sconfitte dell’amore ad opera dei soggetti più vari sono un tema ricorrente delle arti figurative dell’epoca di Van Dick e del secolo successivo. Victor Hugo racconta ne I Miserabili che una vecchia suora ospitata nel convento di Picpus custodiva gelosamente tra i propri effetti personali un vecchio piatto di Faenza che rappresentava degli amorini fuggitivi, inseguiti da infermieri con enormi siringhe. Amore sconfitto dalle coliche è il titolo dell’opera.
L’interpretazione generalmente offerta del quadro di Van Dick si basa però su una distorsione mitologica: Eros è stato sempre descritto e rappresentato come un paffuto bambino dotato di ali (quasi sempre due, ma talvolta quattro) che vola qua e là: la giovinezza rappresenta la giocosità e lo slancio, le ali rappresentano l’imprevedibilità (proprio per segnalare quest’ultima caratteristica, anche la Fortuna  e la Vittoria nella tradizione classica e mitologica sono fornite di ali).
Non ha mai invece le ali il tempo: Cronos è un voluminoso signore di mezz’età che, ben seduto, crea e divora i suoi figli.
Questo perché il tempo non è imprevedibile. Anzi, è il contrario dell’imprevedibilità.
Sia che si addotti una visione eraclitea del tempo come movimento, sia che si scelga l’impostazione parmenidiana della staticità dell’essere, il tempo è, nel pensiero mitologico greco, l’eternità che in un incessante movimento ciclico si riproduce e divora sé stessa e tutto ciò che nasce dentro di sé, che si nutre macinando incessantemente ciò che produce: la massiccia stabilità e la voracità di Cronos ne sono appunto il miglior simbolo.
Il detto tempus fugit non esprime infatti la velocità del Tempo, ma la velocità della vita umana rispetto all’immobilità e alla eternità del Tempo dentro la quale essa è immersa.
A un certo punto però il Tempo comincia davvero a fuggire.
Molto più tardi, quando l’uomo non è più concepito come immerso in un cosmo di cui è una componente importante ma non essenziale, ma come il centro e il fine dell’universo, la durata della vita umana diviene il metro della percezione dell’universo.
Il tempo dell’uomo si separa per sempre dal Tempo ciclico e immutabile, l’eternità si sposta oltre i confini del tempo umano, con le varie invenzioni di inferni e paradisi (il limbo, con tutto il suo ingombrante contenuto di neonati non battezzati sembra sia stato un’allucinazione durata qualche secolo: si è recentemente deciso che non esiste), premi e punizioni che ciò comporta.
È solo in quel momento che al tempo spuntano le ali, ed è solo in quel momento che il tempo assume come connotazione raffigurativa (e punitiva) la vecchiaia.
Solo in quel momento il tempo, divenuto unilineare e non più ciclico, non divora più i suoi figli, ma viene dotato di una falce (riprendendo in parte l’episodio mitologico secondo cui con un falcetto Cronos avrebbe evirato il padre Urano).
Il quadro di Van Dick sembra collocarsi all’interno di questa concezione.
Così  il quadro vuole dirci, secondo l’interpretazione corrente, che quando si invecchia scompare l’amore, la possibilità e la capacità di amare, la capacità di essere imprevedibili.
Ma il quadro può esprimere un altro ben diverso messaggio, e cioè che qualsiasi amore invecchia si consuma e si affloscia con il passare del tempo: non esistono, ci dice Van Dick, la fedeltà e la costanza.
Entrambe queste interpretazioni sono possibili. Naturalmente, se il vecchio rappresenta davvero il tempo.
E se invece non solo il giovane, ma anche il vecchio rappresentasse l’amore, in diverse fasi del suo sviluppo? Il quadro raffigurerebbe la costanza dell’amore che, con il passare del tempo, prevale sulla imprevedibilità e ne distrugge il simbolo, le ali.
Potrebbe essere un elogio della fedeltà.

Da VICTOR BARENREITER, Kunst, Deutung und Darstellung, Varsavia 1954.

Mitteleuropa: Mukachevo

Il vecchio: Sono nato nell’Impero austroungarico, sono stato a scuola in Cecoslovacchia, mi sono sposato in Ungheria, poi ho lavorato nell’Unione Sovietica, ora vivo in Ucraina.
Il giovane: Ha davvero viaggiato molto, signore.
Il vecchio: Viaggiato? Non mi sono mai mosso da Mukachevo, il mio paese.

Crediti

Questo quindicesimo volume dei testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 1999 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano, nella tipografia Cinque Giornate srl.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.

N. 16 inverno 1999

Verità

In greco, verità si dice ALHJEIA. Significa a-letheia, senza velo. Il nome vuol quindi significare che la verità è disvelamento, è un processo dall’esito imprevedibile, è un tentativo di far emergere, da sotto i veli dell’apparenza, ciò che è.
Solo dopo che il disvelamento è compiuto, la luce tocca integralmente la realtà, e realtà e apparenza coincidono. Può essere necessario del tempo: di solito, la verità emerge a poco a poco, gradualmente. Soprattutto, raramente è possibile sapere con certezza quando l’operazione può ritenersi compiuta. La verità è quindi il risultato spesso fortunato di un impegno, di un lavoro che ciascuno può compiere utilizzando i propri criteri e i mezzi culturali che ha a disposizione.
Non sempre si arriva allo stesso punto, non sempre la luce tocca l’essere allo stesso modo.
La verità è quindi sempre incertezza, è sempre dubbio, è sempre infedele a sé stessa. Per converso, la certezza raramente contiene ed esprime la verità. È probabile che chi afferma di essere assolutamente certo di un fatto sia solo all’inizio del processo, e non sappia ancora come quel fatto davvero è, come sarà quando il disvelamento sarà compiuto.
Questo modo di pensare scompare nel mondo romano, germanico e cristiano.
Per i Romani, verità è veritas, da verum:  per i tedeschi è Wahrheit. La radice indogermanica comune, ver, indica lo sbarramento contro ciò che è ostile, la barriera che impedisce l’accesso dall’esterno.
È da queste basi che noi traiamo il nostro concetto di verità: qualcosa che si possiede e si conosce ad un certo momento e che da quel momento in poi va protetto dagli assalti degli altri.
Non c’è ricerca di verità, non c’è fatica, non c’è paziente attesa nel mondo romano-cristiano e germanico.
C’è conoscenza a priori, intolleranza, mancanza di fatica e di confronto: la verità sta al proprio posto, stabile, eretta, intangibile. L’uomo può solo custodirla, non scoprirla.
La verità nel nostro mondo è ciò che per i Greci è il velamento, l’errore: ciò che i Greci pensano si debba togliere per trovare l’essere, per i romani e per i cristiani va tenuto e protetto.
Quando Gesù insegna (come molti altri profeti, prima e dopo di lui) “Io sono la via, la verità” indica proprio questa strada di intolleranza, di acquisizione una volta per tutte, e quindi di non-ricerca e non-fatica, di sbarramento per proteggere qualcosa e non di attività per disvelare.

Da MARTIN HEIDEGGER, Parmenide, Friburgo 1982.

Due preghiere

I

Vi aspettiamo nell’oscurità
Venite tutti voi che ascoltate
Aiutateci nel nostro viaggio notturno:
non c’è sole che brilli
non c’è stella che dia luce.
Venite, mostrateci il cammino.
La notte, la notte è nemica,
la luna, la luna è scomparsa.
Venite, vi aspettiamo nell’oscurità.

II

Siamo le stelle che cantano,
cantiamo con la nostra luce.
La nostra luce è il nostro suono.
È suono il nostro lento percorso.
Luce e percorso sono per gli uomini,
perché trovino la loro strada.

La prima preghiera è degli Indiani Irochesi, la seconda degli Indiani Algonchini. Entrambe sono state raccolte da Rober Callois e Jean-Clarence Lambert in Trésor de la poésie universelle, Gallimard\Unesco 1958.

Punti di vista

Si possono vedere gli oggetti costruiti dall’uomo come risposte più o meno efficaci a delle precise necessità: un vaso, uno scaffale, un volante assolvono a determinate e ben note funzioni, e sono realizzate in modo da svolgere nel miglior modo possibile.
Ma si possono anche vedere gli oggetti costruiti dall’uomo come l’espressione di scelte tecnologiche collettive e di visioni del mondo.
Se si adotta questo secondo atteggiamento, un mortaio non è più un moulinex primordiale, l’aratro non è il prototipo primitivo del trattore, il grammofono non è l’antecedente storico del lettore CD.
Il senso degli oggetti può essere compreso solo all’interno delle filosofie e delle pratiche che li hanno prodotti, e non in rapporto alle necessità di una condizione umana – in genere quella in cui si vive – che si assume ideale.
Lungi dall’essere risposte rudimentali a questioni cui il nostro tempo ha offerto soluzioni più efficaci, gli oggetti del passato esprimono valori e veicolano visioni incompatibili e irriducibili con  i nostri.
Di essi, riusciamo agevolmente a vedere le carenze rispetto agli oggetti analoghi di cui facciamo uso; ma non riusciamo a comprendere il senso e le ragioni per le quali erano considerati come prodotti ottimali da coloro che li usavano.
Sono segni non di ciò che abbiamo guadagnato, ma di ciò che abbiamo perduto.

Da M.SINGLETON, Saggio introduttivo del catalogo della mostra “Afriques”, Bruxelles, 1992; D.FORAY, Choix de techniques. Rendements décroissants et processus historiques, in J.Prades, La Technoscience. Les fractures de discours, Parigi 1992; S.J.Gould, …

Ciquita

“Deliziosa da mangiare, soffice da mordere, come se fosse un impasto di farina e burro; il profumo è come quello delle rose, il sapore è ancora migliore”. È, naturalmente, la banana, descritta nel 1601 da Pieter de Marees, un esploratore olandese, agli stupiti ascoltatori.
Da allora, la banana ha cominciato ad invadere l’Occidente.
Per coltivare banane da spedire sulle tavole europee sono stati stravolti i rapporti sociali, irreversibilmente alterati gli ambienti e trasformate le economie di diecine di paesi tropicali.
Quando si mangia una banana, si mangia inconsapevolmente un boccone di storia del capitalismo. Ma si mangia anche inconsapevolmente un boccone di democrazia.
All’inizio, ci sono lo zucchero il cotone e il caffè.
In poco più di un centinaio di anni, i territori coltivabili dei paesi tropicali sono stati radicalmente trasformati per inviare questi beni sulle tavole imbandite o nei ben forniti guardaroba  dei paesi europei.
Ma la produzione di questi beni richiede larghe coltivazioni, molta manodopera.
Al posto dei latifondi per la coltivazione della canna da zucchero, del caffè o del cotone, popolati da schiavi al servizio della tavola o del guardaroba dell’occidentale civile e rispettoso dei diritti umani, la banana ha permesso di ritagliare piccoli appezzamenti coltivabili da un piccolo proprietario: poca terra, anche un solo ettaro, permette al contadino di condurre una vita misera, ma autonoma e libera, perché la banana cresce in modo quasi autonomo, ha bisogno di poca forza lavoro, offre cibo nutriente.
Ma è un sogno che spesso non ha lunga durata.
La banana crea lavoratori liberi ma isolati, ricattabili, costretti a contrarre debiti se una sola annata produce meno del necessario.

Da JOHN READER, Africa, Vintage Books 1999; J.E.G.SUTTON, The Growth of Framing Communities in Africa from the Equator southwards, Azania (Nairobi), 1996.

La piramide

Una mattina d’autunno, il nuovo Faraone annunciò che avrebbe rinunciato a farsi costruire una piramide. I suoi ascoltatori, i ministri, l’astrologo di palazzo, il pontefice massimo e contemporaneamente architetto in capo si rabbuiarono come se stesse per verificarsi una catastrofe. Rimasero per un momento a scrutare attentamente il viso del sovrano: Cheope rimase impenetrabile. La loro speranza che si fosse trattato solo di una battuta o di parole non sufficientemente meditate si affievolì.
Anche Cheope li osservava, e il suo sguardo sembrava dire: come se si trattasse della vostra piramide, e non della mia.
Poi, silenzioso, si alzò e lasciò la riunione.
Tutti  si guardarono angosciati. Che cosa sta per succedere? Il pontefice massimo aveva le lacrime agli occhi. Un ministro ebbe un malore. Fuori, spirali di sabbia sollevate dal vento salivano verso il cielo. Le osservavano e i loro occhi sembravano dire: Senza piramide, come potrai salire in cielo e trasformati in stella come hanno fatto gli altri faraoni. Come potrai continuare a illuminarci?
Per convincere il faraone a cambiare idea, i suoi ascoltatori decisero che avrebbero dovuto comprendere tutto sulla piramide, e sulle reali ragioni per le quali, da tempo immemorabile, ciascun faraone se ne faceva costruire una.
Dopo mesi di studi e di ricerche tornarono dal faraone.
Disse il pontefice massimo, mentre Cheope ascoltava impassibile:
“L’idea della piramide ha visto la luce in un periodo di crisi. Il potere del faraone era indebolito, come raccontano le cronache del tempo. Non era la prima volta che ciò succedeva. Ma per la prima volta, la crisi non era provocata dalla penuria, da ritardi nella piena del Nilo, da malattie. Era provocata dall’abbondanza”.
“Dall’abbondanza” ripeté un ministro “Detta anche benessere”.
Le sopracciglia di Cheope si arcuarono.
“Il benessere” proseguì il pontefice massimo “rendendo la gente indipendente e libera di spirito, la faceva anche refrattaria all’autorità e al potere assoluto del faraone. E una questione drammatica si pose allora: come affrontare la crisi? Come abbattere il benessere?”
“Era necessario trovare qualcosa” si inserì l’architetto capo “che tenesse occupata la gente giorno e notte, un’opera che potesse essere realizzata o lasciata incompiuta, a seconda del grado di benessere raggiunto, un’opera che potesse essere sempre rinnovata, quando ve ne fosse stato bisogno. La risposta fu: un grande monumento funerario.
Ciascun faraone avrebbe avuto la sua piramide, e non appena una generazione avesse compiuto la sua fatica, un altro faraone sarebbe venuto, a richiedere una nuova fatica alla generazione seguente, proporzionale alla quantità di benessere da eliminare”.
Riprese il pontefice massimo: “Si comprese che così si sarebbe potuto contenere il benessere. La piramide è potere. E’ repressione, forza, ricchezza. Ma è anche annientamento del popolo, costrizione dello spirito, demolizione della volontà, monotonia e abbandono. La piramide è il guardiano più sicuro del trono del faraone. La sua polizia segreta. Più è alta, più i sudditi sono minuscoli. Più i sudditi sono minuscoli, più il faraone appare in tutta la sua grandezza”.
Aggiunse un ministro: “Se la piramide scompare, il potere del faraone crolla. Non discostarti dalla tradizione: sarebbe la tua rovina, quella di tutti noi, e quella dell’Egitto intero.
Cheope alzo la mano destra, e fece cenno che l’udienza era terminata. Poi pronunciò poche parole: “La piramide sarà costruita. La più alta di tutte”.

Da ISMAIL KADARÉ, La pyramide, Parigi Fayard 1993 (tradotto dall’albanese da Jusuf Vrioni).

Quattro ritratti

La dottoressa cinese

La dottoressa si sfila la maschera di garza. È una donna sui trentacinque anni, di statura piuttosto piccola, il capo chiuso nella cuffia, il corpo nascosto da camice, le gambe coperte da larghi pantaloni di tela blu.
È la donna più bella che mi sia capitato di vedere in Cina.
Vedo di lei il volto, le mani, le caviglie nei calzini bianchi di nilon, i piedi chiusi dentro scarpette basse di pelle nera come quelle delle bambole.
Il volto è pallido, lievemente solcato da qualche ruga agli angoli degli occhi, la fronte è alta, convessa e trasparente come quella dei neonati tanto che si vedono pulsare le vene azzurre che la percorrono dall’alto in basso.
Gli occhi neri sono dolcissimi, allegri e allo stesso tempo profondi e quasi addolorati. Le ciglia lunghe e nere, la bocca piccola, gonfia e palpitante anche quando, anzi, soprattutto quando sta in silenzio, i denti chiusi, perfetti e scintillanti, le guance appena rosee con la fossetta nel mezzo. Non un velo di trucco. Le mani sono molto curate, e sembrano sentire il contatto degli oggetti ancora prima di toccarli. Anche quelle palpitano.
Lo stesso per i piedi che appena toccano il terreno subito si rialzano in un altro passettino. Quando stanno fermi, lei li solleva di continuo, come e quando può: o appoggiandosi sul tallone, o sulla punta, o su un piede solo: il tempo di sosta di una farfalla.
Parla con voce tenue, a momenti sibilante e acuta: sibilante come il verso di un insetto e acuta come il suono di un grillo.
Una piccola ciocca di capelli neri, quasi blu, le attraversa una sopracciglio e la tempia. Siccome la tempia pulsa, anche i capelli si muovono impercettibilmente.
Questo è quanto di lei si vede o si ode.
Ma non è ancora la sua bellezza, perché la bellezza è sempre misteriosa.

Savitsky

Savitsky, comandante della VI Divisione della Cavalleria, scattò in piedi non appena mi vide. Rimasi stupito di fronte alla bellezza del suo corpo gigantesco.
Si mosse, tintinnarono sul suo petto le decorazioni luccicanti; contemporaneamente la lampeggiante porpora dei suoi calzoni da cavalleggero e il rosso del suo piccolo cappello posto di sghembo sui capelli biondi disegnarono un lampo attraverso la capanna, come una bandiera sventolante nel cielo.
Si sparse intorno un profumo dolciastro e fresco di  sapone. Le sue lunghe gambe erano come ragazze avviluppate fino al collo in luccicanti stivaloni.
Mi salutò con un secco sorriso e appoggiò con brusca dolcezza la frusta sul tavolo .

Francesco Giuseppe

Com’era?
Era stupido o era astuto?
Come provava i sentimenti?
Gli è veramente piaciuto qualcosa?
Era un corpo o solamente uno splendido vestito?
E, se era un corpo, c’era anche un’anima sotto la sontuosa uniforme?
E se c’erano il corpo e l’anima, era anche un personaggio, o soltanto il ritratto di un personaggio?
Fu un prodotto del suo paese, oppure fu lui a creare un paese che gli somigliava?
Chi lo conosceva, poteva davvero dire di conoscerlo?
Portava una faccia, o solo una barba?
Quando prendeva decisioni, rifletteva, o amava il rischio?
Avrà afflitto anche sé stesso come affliggeva tutti quelli che gli stavano intorno?
Voleva l’azione o l’atto?
Voleva la guerra o la pace?
Voleva soldati,
O dei soldati gli interessavano solo le divise,
O delle divise gli interessavano solo i bottoni?
Prevaleva in lui l’amore o la morte?
Mai più forte impresse sul suo tempo la propria immagine
L’impersonalità.

Il signor Von Pasenow

Il signor von Pasenow aveva settant’anni e la gente provava una inspiegabile antipatia quando lo vedeva passare per le vie di Berlino: tutti pensavano che dovesse essere un vecchio molto cattivo.
Piccolo ma di giuste proporzioni, non magro ma neppure obeso. Portava la barba alla Guglielmo I ma un po’ più corta; sulle guance non c’era però traccia della lanugine bianca che dava al sovrano un’aria affabile. I capelli, appena un po’ diradati, mostravano solo alcuni peli bianchi; per la maggior parte erano ancora di quel biondo rossastro che ricorda la paglia putrescente.
In effetti, quando si guardava allo specchio, il signor von Pasenow riconosceva immancabilmente il volto che già cinquant’anni prima aveva ricambiato il suo sguardo.
Ma se il signor von Pasenow non era scontento di sé, a molti dei suoi conoscenti proprio non piaceva; non capivano come aveva potuto trovare una donna che lo aveva guardato con occhi desiderosi, magari baciandolo e abbracciandolo; gli concedevano al più qualche scontato successo con le contadine polacche della sua tenuta, cui probabilmente si avvicinava con modi isterici e un po’ tirannici.
Il signor von Pasenow cammina con passo veloce e rettilineo, tenendo la testa alta e sporgendo un po’ in fuori il piccolo ventre: si potrebbe quasi dire che porta il ventre davanti a sé.
Accanto alle gambe, c’è sempre il bastone da passeggio che procede in cadenza, sollevandosi fin quasi all’altezza del ginocchio, indugiando al suolo con un colpetto secco e tornando a sollevarsi.
I piedi gli procedono accanto, sollevandosi più del dovuto: la punta si alza un po’ troppo, quasi volesse mostrare la suola a quelli che incontra e il tacco batte sul selciato con colpi ritmati.
Insomma, il signor von Pasenow sembra un treppiede che si è messo in movimento; e vien da pensare che quell’andatura a tre gambe deve essere falsa come quel procedere in linea retta: diretto al nulla.

Gli autori sono, nell’ordine: GOFFREDO PARISE, Cara Cina, in Opere complete, Mondadori 1996; ISAAC BABEL, Red Cavalry; KARL KRAUS, Die Fackel, 1920, p.551; HERMANN BROCH, Die Schlafwandler. 1888: Pasenow oder die Romantik, Rhein Verlag Zurigo 1931

Privilegi

Il mestiere del mare
È quello di essere sempre in movimento.
Il mestiere dell’uomo
È quello di guardarlo dalla spiaggia.
Il mare è sempre uguale a sé stesso
Ma per l’uomo sarà sempre diverso.
Purtroppo, distinguere ciascuna onda da un’altra
È un privilegio di personaggi marginali della storia.

Da FRANKLIN PATINO ROMERO, Parole di Lazzaro, Havana 1995.

Capitalismo

I

Ricordate i direttori della “Cyclops Steel and Iron Work”?
Sono quelli che hanno spiegato alla Commissione parlamentare istituita dalla Camera inglese per indagare sulle condizioni della vita in fabbrica che era necessario che i bambini di dodici anni  lavorassero alle macchine per turni di dodici ore consecutive, notte e giorno.
Chiede un componente della Commissione: “Ma non possono fare i loro turni di dodici ore solo di giorno?”. Risponde uno dei direttori, E.F.Sanderson, visibilmente sgomento: “Ma così ci sarebbe uno spreco dei nostri investimenti nei macchinari, che rimarrebbero fermi per tutta la notte!”.

II

Il mondo è diviso in tre tipi di stati: quelli dove la gente spende un sacco di soldi per mantenere la linea e dimagrire; quelli dove la gente mangia per vivere; infine quelli dove la gente non sa se riuscirà a mangiare qualche cosa il giorno dopo.
A queste differenze si accompagnano differenze nelle malattie e nella speranza di vita.
Nei paesi del primo gruppo la gente si preoccupa per la sua vecchiaia, che si prolunga sempre di più. Negli altri paesi, la gente cerca di sopravvivere. Non devono preoccuparsi del colesterolo o dei grassi, perché muoiono prima di avere i problemi che il colesterolo provoca.
Cercano di assicurarsi una vecchiaia tranquilla, se mai ci sarà, facendo molti figli, nella speranza che qualcuno sopravviva e mantenga una senso di obbligo filiale.
Queste differenze oggi stanno crescendo. La differenza tra le nazioni più ricche e quelle più povere  nel reddito pro capite – per esempio, tra Svizzera e Mozambico – e di 400 a 1.
Duecento anni fa, era di 5 a 1.
Molte nazioni povere non solo non stanno guadagnando terreno ma lo stanno perdendo, in termini assoluti e relativi.
Rendere più ricche la nazioni povere non è solo un obbligo morale delle nazioni ricche: è perseguire il proprio interesse. Se non viene fatto, le nazioni povere, non riuscendo a far quadrare i bilanci esportando beni e materie prime, esportano persone: la ricchezza è una calamita irresistibile.

Da DAVID S. LANDES, The Wealth and Poverty of Nations, Norton, 1999.

Il progettista

L’universo esprime un progetto, c’è un disegno?
Tutto può essere un progetto, anche la cosa più caotica e irrazionale.
Secondo alcuni (la Bibbia per esempio), chi ha progettato l’universo aveva un particolare interesse nell’uomo.
Ma sappiamo che non è così. L’uomo è frutto di un caso, c’è da poco e durerà probabilmente poco.
Se mai, l’ipotetico progettista aveva un particolare interesse per i dinosauri (che hanno dominato la terra per milioni di anni) o per i coleotteri (che durano da milioni di anni). In realtà è frutto di un caso anche la vita, animale e vegetale.
Secondo altri, chi ha progettato l’universo ha stabilito le regole del suo funzionamento, le regole dell’universo. Ma non sembra che ci siano regole particolari, anche se non le conosciamo. Se la vita si fosse verificata dovunque, forse si potrebbe pensare che c’è un progetto: l’universo è fatto per la vita, il progettista ha fatto un universo per noi.
Ma, per quanto si sa, la vita c’è solo qui. Quindi può benissimo essere frutto del caso.
Il vantaggio delle teorie religiose è che sono estremamente flessibili e adattabili; soprattuto, dimenticano in fretta e non si vergognano mai di ciò che hanno sostenuto come irrinunciabile fino a poco prima.
Per esempio, per la Chiesa fino a un certo punto la terra e l’uomo stanno al centro dell’universo, e tutto sulla terra è in funzione dell’uomo.
Poi, si scopre che la terra non è affatto al centro dell’universo. Dopo aver bruciato per secoli quelli che sostenevano questa eresia, la Chiesa si è perfettamente adattata: tutto funziona anche se la terra è in un angolo.
Poi, si scopre che anche l’uomo non è al centro della creazione, ma è un prodotto tardivo e casuale dell’evoluzione.
Non si poteva più bruciare nessuno a questo punto, ma quelli che sostenevano questa tesi non hanno avuto vita facile. Oggi, la Chiesa riconosce che forse l’uomo non è proprio al centro della creazione; ma poco importa: ciò che ha sempre sostenuto vale comunque. Perfino la teoria del Big Bang secondo Pio XII, dimostrerebbe la fondatezza della dottrina cattolica.
Se si dimostrerà che l’universo non ha regole particolari, la Chiesa si adatterà anche a questo, alla mancanza di un progetto. Siccome Dio può fare tutto, può fare anche universi non progettati.
Del tutto campata in aria è anche l’affermazione che il progettista è buono (secondo San Tommaso, solo un Dio buono può aver fatto il mondo).
Di certo avrebbe potuto essere molto più buono: molti di noi sarebbero stati più buoni nel progettare un mondo con la vita. Avrebbe potuto anche essere più cattivo, o molto più cattivo.
Una delle tesi più diffuse è che il male su questo mondo dipende dal libero arbitrio, che il progettista avrebbe concesso agli uomini perché la libertà è un bene.
Così, per proteggere il libero arbitrio degli europei, il progettista ha lasciato sterminare milioni di popoli in Africa e nel Terzo Mondo. Per proteggere il libero arbitrio dei cristiani, ha lasciato bruciare centinaia di migliaia di streghe. Per proteggere il libero arbitrio dei tedeschi, il progettista ha lasciato ammazzare sei milioni di ebrei. Tutto a fin di bene, naturalmente, e tutto previsto e progettato (perché tutte queste cose il progettista, che sa tutto, le sapeva fin dall’inizio, ma ha deciso che andava bene così).
La verità è che l’influsso delle idee religiose sul mondo (sia di quelle monoteiste come l’ebraismo o l’islamismo, sia di quelle politeiste come il cattolicesimo) è stato catastrofico.
Hitler non sarebbe esistito senza centinaia di anni di antisemitismo cristiano e cattolico (di cui è stato il prodotto più coerente e razionale).
La schiavitù in America è stata giustificata sulla base di considerazioni religiose: la schiavitù era il volere di Dio.
Sadat è stato ucciso da un fanatico musulmano, Rabin da un fanatico ebreo, Gandhi da un fanatico Hindu.
I buoni generalmente si comportano bene, i cattivi male.
La religione riesce spesso a far comportare male anche i buoni.

Da STEVEN WEINBERG, A designer Universe?, conferenza letta nell’aprile del 1999 alla Conference on Cosmic Design,  organizzata dalla American Society for the Advancement of Science in Washington DC.

Tre poesie di Miguel d’Ors

Chi sono?

Chi sono?
Questo intervallo di mistero
tra la rosa ardente che taglio per te
e la rosa triste che la mia mano ti tende

Contrasto

Coloro che possiedono
Auto decappottabili
Ville sul mare con piscina
Barche a vela sempre pronte
E ridono su terrazzi soleggiati
Portando alla bocca una coppa di champagne
E però non sono felici

E io, che non ho niente più che queste strade
Dove passeggio,
Che faccio fatica per pagare l’affitto
Del trilocale dove vivo
Con mia moglie e i miei due figli
Che mi vogliono bene
Neppure sono felice.

Insistenza

La mia vita: molti giorni
Lontano da Cuzco, da Siena o da Grenoble,
tanti aerei che passano senza che io li abbia presi
tante voci la cui dolcezza mai giunse al mio cuore.
Soltanto il tempo, vuoto,
solo il tempo, vedo solo
il succedersi
implacabile
di giorni
e di tubetti di Colgate.

Da MIGUEL D’ORS. Le prime due poesie sono tratte da Curso superior de ignorancia, la terza da Es cielo y es azul.

Verba volant scripta manent

Siamo stati abituati a pensare che questo detto esprima la forza di ciò che si scrive rispetto a ciò che si dice. Ciò che si scrive, rimane e vincola: non si può più smentire, e si può essere smentiti. Eppure, il detto ha un significato ben diverso reso evidente dalla attrattività del verbo volare, contrapposta alla pesantezza del verbo restare. Volare non è il contrario di restare. Il detto non dice che le parole scompaiono mentre gli scritti restano, così come noi lo interpretiamo abitualmente. Il detto contrappone movimento a immobilità, leggerezza a pesantezza, ariosità a terragnità, fantasia a prosaicità. Vuole affermare che la parola contiene in sé lo spirito che lo scritto perde. Esso risale a un tempo in cui la lettura non si fa leggendo da soli il proprio libro, si fa ascoltando, generalmente in gruppo, il lettore: leggere è udire. Udendo le parole lette e dette si comprende assai più che non leggendo le parole fissate senza sentimento sulla carta.

Da ALBERTO MANGUEL, A History Of Reading, Penguin 1997.

*
Gli uomini che cambiano corpo più di quattro volte nella loro vita non possono fare i monaci.

Regola tibetana.

Crediti

Questo sedicesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 1999 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano, nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti, anche se spesso è stato rispettato – magari parzialmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.

N. 17 estate 2000

Wanderlust: i mad travelers

Una volta, negli ultimi decenni del XIX secolo, c’era la dromomania, denominata in francese automatisme ambulatoire.
Era una malattia.
I malati erano chiamati in Inghilterra mad travelers, in Francia alienés voyageurs: a un certo punto – spinti da un impulso irrefrenabile, poeticamente indicato in tedesco come Wanderlust – abbandonavano la casa, la famiglia, gli amici, il lavoro e si mettevano in viaggio, senza mezzi, valige, programmi o obiettivi,  verso ignote destinazioni. Scomparivano per settimane, mesi o anni. Nessuno sapeva dove si dirigevano, né se e quando sarebbero tornati, né perché fossero partiti.
Alcuni venivano ritrovati nelle campagne vicino a casa, altri in località lontanissime da quella da cui erano partiti: e poiché in molti paesi il vagabondaggio era considerato a quel tempo un crimine, venivano arrestati, interrogati, picchiati, frustati, condannati ai lavori forzati e spesso rinchiusi in manicomi.
Secondo Charles B.Davenport, sostenitore delle dottrine eugenetiche e studioso dell’ereditarietà, la malattia era la esplosione psichicamente incontrollabile dell’istinto nomadico primordiale che è presente, anche se contenuto, in ciascun essere umano: era il rifiuto della civiltà, della sedentarietà, delle regole di convivenza sociali e civili.
Davenport catalogò e studiò negli Stati Uniti 168 uomini e 15 donne affette da dromomania e le loro famiglie di origine. Giunse alla conclusione che il nomadismo era il prodotto di una alterazione genetica assai diffusa in America perché la popolazione era costituita in gran parte da discendenti di dromomani europei che avevano abbandonato le loro case e le loro famiglie e si erano avventurati in un mondo sconosciuto.
Secondo altri studiosi (in prevalenza francesi) la dromomania non era un fenomeno genetico, ma una vera e propria malattia, caratterizzata dalla “fuga”, dall’irrefrenabile desiderio di vagabondare. Era frequentemente associata ad alcoolismo, isteria e altri fenomeni di disfunzione psichica; era perciò potenzialmente pericolosa e eversiva, in quanto i malati – soprattutto uomini – offrivano un esempio di irresponsabilità, di sfrenatezza, di ribellione contro la convivenza civile.
Per tutti gli studiosi il dromomane era portatore di malattie e le nuove tecnologie della mobilità sviluppatesi alla fine dell’Ottocento (il treno e le navi a vapore in primo luogo), agevolando il suo vagabondare, favorivano il contagio di coloro che, rispettosi del civile principio di sedentarietà, non avrebbero corso altrimenti alcun pericolo.
Alla fine del secolo, i dromomani erano strettamente associati con la diffusione delle malattie veneree (molti studi scientifici cercarono di dimostrare la propensione genetica a tali malattie dei vagabondi), ed erano considerati individui pericolosi da respingere o isolare.
Secondo un libro di uno dei maggiori esperti di dromomania, James McCook (Alcune nuove riflessioni sul problema del vagabondaggio, 1892) il fatto che circa il 10% dei vagabondi esaminati avesse una malattia venerea dimostrava la pericolosità sociale delle persone propense alla immotivata mobilità. In un scritto successivo, “L’allarmante fenomeno degli elettori a pagamento”, McCook denuncia anche la pericolosità dei dromomani per il sistema democratico: erano infatti disposti a votare a pagamento ovunque si trovassero e anzi percorrevano miglia e miglia per votare in qualche elezione in cambio di modesti compensi. McCook propone quindi di escludere tutti i vagabondi dal diritto di voto. Il più famoso mad traveler è stato Albert Dadas impiegato del gas di Bordeaux. Era un omino dall’aria mite, con i baffetti sottili piegati all’ingiù sulla sua faccia sempre un po’ spaesata. Era un gran lavoratore ma con qualcosa di indefinibile, di sballato.
A un certo punto, mosso da un impulso incontrollabile, abbandonava il lavoro e si metteva in viaggio, così come era: senza un soldo, senza una meta. Si manteneva facendo qualche lavoretto lungo la strada, dormiva dovunque trovasse un riparo. Viaggiava come in stato di trance, percorreva anche 70 km al giorno; si ritrovava a Berlino, o a Mosca, o a Costantinopoli: non ricordava come era arrivato, né quanto aveva viaggiato. Con difficoltà riusciva a tornare, o, più spesso, veniva rimpatriato a forza.
Non sapeva quasi leggere e scrivere. Ma nessuno come lui sapeva viaggiare, confrontarsi con popoli e civiltà sconosciute, farsi accogliere e farsi voler bene dovunque andasse. Divenne famoso a un certo punto: gli fecero scrivere le sue memorie.
I dromomani sono durati dal 1886 – primo caso descritto dalla letteratura medico-scientifica – fino al 1908.
Sono stati al centro dell’annuale congresso di psicoanalisi tenutosi  a Parigi del 1889; tra gli altri c’erano Freud, Charcot, William James, Binet. Molte relazioni sono state presentate e molto si è discusso in quel congresso di dromomania.
Poi, così come sono comparsi, sono scomparsi.
Venti anni dopo, nel congresso di psicoanalisi del 1909, della dromomania non si è più parlato.
Erano scomparsi i dromomani o era scomparsa la malattia? Oppure era in quegli anni cambiato il giudizio sulla mobilità, considerata non più come fenomeno minaccioso ma come espressione di svago, da considerare benevolmente e anche da incoraggiare per favorire lo sviluppo della nascente industria turistica? Oppure la dromomania si era trasformata in una malattia diversa e non ancora individuata?

Da: Ian Hacking, Mad Travelers: Reflections on the Reality of Transient Mental Illnessess, Uni Press Virginia 1999; Philippe Tissié, Les Alienés voyageurs, Bordeaux, 1887; Charles B.Davenport, Nomadism, Or the Wandering Impulse, With Special Reference to Heredity, 1915; Tim Cresswell, Encoding the mobile body: the production of the tramp in http://oassis.gcal.ac.uk/Research/Conferences/RGS_IBG/Paper1-2.html; Mirella Serra, Il viaggiatore che non si fermava mai, in La Stampa Libri 15\6\2000.

Due poesie di Letizia Muratori

I

Sono ancora qui.
Per chi sa
Che la vita sta nascosta
Negli angoli

II

Si logora un rumore
Ma lontano.
Sbiadire è una quiete
Fastidiosa

Da Letizia Muratori, Luce intermedia, Fermenti Roma 1999.

Tre poesie di Anfrid Anstel

I

Ho avuto cattivi maestri.
È stata una buona scuola.

II

Mio caro San Martino,
un mezzo mantello
per un uomo nudo
non è stato un gesto
un po’ da  pidocchioso?

III

Scrivo e scrivo.
Tutto inutile.
Quelli contro cui scrivo
Non sanno leggere.

Da ARNFRID ASTEL, in Peter Hamm, Aussichten. Junge Lyriker des deutschen Sprachraums, Munchen 1965.

Come evitare brogli elettorali

Procedura per l’elezione del Doge di Venezia, introdotta nel 1249 dal doge Jacopo Tiepolo per evitare accordi clandestini o corruzioni.
Vengono estratti a sorte 30 cittadini tra tutti quelli di età superiore a 30 anni.
I 30 sono ridotti, per esclusione a sorte, a 9.
I nove eleggono a maggioranza 40 cittadini
I 40 sono ridotti, per esclusione a sorte, a 12
I 12 eleggono 25 cittadini con maggioranza e ballottaggi
I 25 sono ridotti con esclusioni a sorte a 9
I 9 eleggono 45 cittadini.
I 45 sono ridotti per esclusione a sorte a 11
Gli 11 nominano 41 cittadini e questi eleggono, con una maggioranza di almeno 25 voti, il Doge.

Creatori, creature, creazioni

I

Quante volte l’avevo detto che non avrebbe mai potuto funzionare. Anzi, ancor prima, lo avevo pregato di lasciar perdere: altri in passato avevano fatto degli universi: solo pochissimi stavano ancora insieme, richiedendo enormi fatiche, attenzioni e sacrifici ai loro creatori.
Ma lui ha insistito, ha insistito, sembrava che fosse una questione di vita o di morte, voleva a tutti i costi sentirsi onnipotente. Alla fine, lo ho lasciato fare.
All’inizio sembrava anche che le cose andassero bene. La creazione della luce e i big bang (soprattutto il secondo) sono stati effettivamente uno spettacolo superbo, che ha lasciato tutti a bocca aperta. Anche la formazione della materia  è stata senza dubbio la migliore tra tutte quelle che ho potuto vedere.
Le giornate seguenti, in cui si è dedicato ad alcuni pianeti, e soprattutto alla Terra, lasciavano sperare che questo universo potesse funzionare: in fondo, tutti dicevano con invidia, gli è servita l’esperienza fatta dagli altri. Lui poi per la Terra ha dimostrato subito una passione particolare, e,  quando ha fatto gli alberi e le piante, un vero pollice verde.
Poi, è arrivato l’errore fondamentale, quando è passato agli animali.
Mi ero accorto che aveva in mente di arrivare all’uomo. Gli ho detto subito, fermati, fermati adesso.
Se vai avanti sarai costretto a fare l’uomo e ti rovinerà tutto quello che hai creato sinora, lo sai benissimo, è andata sempre così. Lui niente, onnipotente e testardo, era sicuro di fare un uomo diverso e migliore di quello degli altri.
E adesso è lì che si rende conto che tutto sta andando in frantumi, che l’uomo sta effettivamente devastando tutto ciò che aveva fatto, proprio come avevo previsto.
Per di più, lo vedo triste e preoccupato, mi dicono che sta trascurando i suoi compiti importanti, e non fa neppure più nulla per evitare che il suo universo si sgretoli.
Speriamo almeno che tutto finisca in fretta.

II

Lo vidi finalmente da solo, senza nulla da fare. Presi il coraggio a quattro mani, e dissi: Ho deciso di fare degli esseri viventi sul mio mondo. Ancora con il tuo mondo. Ma non hai altro a cui pensare? E poi, non è questa grande trovata: li hanno fatti in tanti, mi rispose senza quasi guardarmi, quasi tutti sono finiti male. Per di più, lo sai, fare gli esseri viventi richiede tempo e attenzione, e tu hai molte altre cose da fare.
Sì, ma io voglio fare essere viventi che si riproducono da soli.
Si riproducono da soli? Che cosa vuol dire? Intendi dire che si fanno da soli senza che tu li crei?
Esattamente, e credo di aver escogitato un meccanismo abbastanza intelligente, a cui nessuno sinora a pensato.
Quando fai così, capisco quelli che ti dicono che credi di essere il Padreterno. Con tutti quelli che passano il loro tempo libero a fare mondi e a creare la vita, ti sembra possibile che nessuno abbia mai pensato, in tutto questo tempo, al tuo meccanismo? Noi abbiamo pensato a tutto e sappiamo tutto per definizione, lo sai bene.
Eppure, nessuno ci ha pensato. La mia idea è questa: io faccio due esseri viventi, e poi fanno tutto loro. Quando dico si riproducono, intendo dire che loro si mettono insieme, con modalità che non ho ancora ben messo a punto, e ne fanno altri, e quelli che vengono fatti si mettono insieme e ne fanno altri ancora, e così via. Io, dopo i primi due, non faccio più assolutamente niente: sto a guardare e vedo come va a finire.
A questo punto, lui rimase in silenzio a pensare. L’idea è buona, disse alla fine. Ma che vantaggio c’è con questo sistema, rispetto a quello che si usa di solito?
Gli altri fanno tanti esseri viventi sempre uguali. Magari di tipo diverso l’uno dall’altro, ma tutti sempre uguali. Io introduco qualcosa che fino ad oggi non c’è: il cambiamento. Due si mettono insieme, si riproducono, fanno un altro essere che è in qualche modo la loro combinazione: uguale a loro, ma anche diverso. In pratica io faccio lo start-up, e poi tutto va avanti.
Vuoi dire che poi tu stai lì e guardi come va a finire? E che divertimento c’è, allora?
Esatto: io vedo come va a finire. Per esempio, faccio i primi due esseri viventi uguali a me. Quindi semplicissimi, microscopici e unicellulari proprio come noi. Poi li lascio fare. Loro si riproducono. Un poco alla volta, cambiano. Facciamo passare del tempo.
Secondo te, resteranno sempre uguali a me? Oppure lentamente diventano sempre più diversi, magari più grandi, più complicati. Diventeranno più belli o più brutti di noi? Più buoni o più cattivi?
Insomma, riproducendosi per molte e molte volte, posso ottenere magari degli esseri viventi che sono meglio di noi?

III

Ricordate tutti quando venne da me e con fare risoluto mi disse: Ho deciso, a questo punto per i miei esseri viventi sulla Terra ci vuole l’anima.
Ci volle poco a fargli vedere che dare l’anima a tutti i suoi esseri viventi sulla Terra, senza bloccare la loro furia riproduttiva, avrebbe provocato l’esaurimento delle nostre scorte di anime in poco tempo.
Conti alla mano, riuscii a convincerlo. Alla fine, raggiungemmo un accordo. Avremmo dato l’anima in via sperimentale solo ad una delle tante specie con cui aveva popolato la Terra, agli uomini: erano quelli che gli erano più simpatici, sosteneva perfino che gli assomigliavano tutti un po’; poi, secondo i miei tecnici, non sarebbero durati a lungo. Dovetti però imporre una ulteriore limitazione: l’anima sarebbe stata erogata solo ad alcuni uomini di sesso maschile; io e i miei assistenti nel frattempo avremmo studiato come rimpolpare le scorte di anime e organizzare la produzione.
Riuscimmo anche a risolvere un problema tecnico non da poco, perché lui voleva assolutamente che l’anima arrivasse ai suoi esseri proprio nel momento in cui nascevano, né prima, né dopo (si oppose radicalmente a una mia proposta di dare l’anima solo agli esseri già adulti, in modo da non sprecare materia prima con quelli che morivano giovani), e per di più senza che nessuno se ne accorgesse.
Per un po’ l’operazione anima è andata bene. Poi, all’improvviso, si è dimenticato di tutte le promesse e gli accordi, e senza dirmi niente ha ordinato di inserire le anime in tutti gli esseri umani maschi, non solo quelli di colore bianco come avevamo stabilito (così è stata tutta inutile la fatica di ottenere uomini di colori diversi).
Poi, un giorno, mi sono accorto che da tempo erogava l’anima anche alle femmine: è un problema di eguaglianza, mi ha detto.
Consumava anime a un ritmo sempre crescente, e pareva non rendersi conto, nonostante la sua onniscienza, che prima o poi si sarebbero esaurite. Vedrai che quando le anime finiscono troveremo qualche cosa d’altro, mi diceva, come se tutto fosse sostituibile e rinnovabile.
Bene, adesso l’ultimo giacimento disponibile sta per finire. Tutto finisce, prima o poi. Lui è lì che si dispera, come faccio a dirlo adesso ai miei esseri umani, si chiede, come faccio a dirgli che fra poco non gli darò più l’anima?

***

I quattro racconti che ho riprodotto con qualche libertà, soprattutto per rendere di agevole lettura l’involuto tedesco seicentesco, fanno parte di una raccolta che ha lo stesso titolo che ho qui utilizzato: Schopfer, Geschopfte und Schopfungen.
In realtà il titolo è stato probabilmente aggiunto successivamente, allorché i racconti sono stati inseriti nel volume in cui io li ho casualmente trovati qualche tempo fa, frugando nel polveroso scantinato di un libraio di Jena.
Il libro è stato stampato nel 1653 ad Heidelberg. Sul volume non è indicato il nome del tipografo.
Questo certamente significa che esso è stato pubblicato clandestinamente (solo successivamente, nell’ultimo decennio del secolo, si diffonderà l’obbligo, penalmente sanzionato, di indicare il nome dello stampatore).
Il libro, stampato probabilmente in poche diecine di esemplari, è stato destinato ad una circolazione limitata a pochi fidati lettori rifugiatisi da varie parti d’Europa nella piccola città universitaria per sfuggire alle galere e ai roghi delle varie sette religiose cristiane riformiste e controriformiste, confidando nella relativa e sempre precaria libertà di opinione e di discussione concessa ai suoi sudditi dal principe Karl Ludwig, elettore palatino allevato e educato in giovinezza a Amsterdam, città che costituiva l’epicentro della tolleranza nel XVII secolo, dove era fuggito al seguito del padre dalla Germania durante la guerra dei Trent’anni.
Non va del resto dimenticato che questo sovrano  pochi anni dopo, nel 1673, con grande audacia intellettuale avrebbe offerto la cattedra di filosofia nella università già celebre della sua capitale a Baruch Spinoza.
Ma anche ad Heidelberg, come pressoché ovunque in Europa,  la stampa e la diffusione di testi come quelli qui ora pubblicati non  restava impunita. Ed infatti, l’ignoto tipografo, scoperto e espulso dalla città, andò incontro ad una tragica fine, come sappiamo da una nota posta come introduzione alla ristampa settecentesca di un altro volume originariamente stampato nella medesima tipografia (a pochi mesi di distanza da Creatori, creature e creazioni, ci precisa l’autore della nota), dal titolo Confutazioni sulla teoria della predestinazione, destinato sicuramente anch’esso a circolare nella medesima ristretta cerchia di liberi pensatori.
Sappiamo dunque da questa nota che lo sfortunato tipografo, avventuratosi per ragioni sconosciute a Ginevra (probabilmente attiratovi con l’inganno o trattovi a forza), venne lì sommariamente processato da un tribunale di teologi calvinisti per aver diffuso idee eretiche sulla creazione e sulla predestinazione e pubblicamente bruciato, insieme a una discreta quantità dei volumi da lui stampati.
Quasi certamente Heidelberg non era la prima città alla quale approdò il coraggioso tipografo, uno dei molti sconosciuti eroi della battaglia condotta in quel secolo contro il fanatismo religioso. Nella medesima nota introduttiva da cui riprendo tutte queste notizie gli viene infatti attribuita anche la stampa di Propostar contra a Tradicao, un volume in lingua portoghese apparso alcuni decenni prima, nel 1616, a Amburgo, contenente dieci tesi che criticavano e ridicolizzano la veridicità del Talmud.
Autore di questo volume, del quale ci rimangono alcuni esemplari, fu Uriel Da Costa, sul quale molto è stato scritto, anche per la influenza che il suo pensiero ha avuto, secondo molti studiosi, sul giovane Baruch Spinoza.
Da Costa apparteneva infatti, come Spinoza, alla fiorente comunità ebraica di origine portoghese insediatasi a Amsterdam nei primi anni del 1600, trovando lì protezione e accoglienza.
Nel libretto pubblicato ad Amburgo Da Costa sostiene che la credenza nell’immortalità dell’anima e quella nella salvezza eterna sono falsità inventate da preti e rabbini per soggiogare i fedeli. Osserva in proposito che la Bibbia non afferma mai né che l’anima sia immortale, né che vi siano premi per i giusti e punizioni per i malvagi nell’aldilà: la Bibbia dice invece che l’essere umano, e non solo il corpo umano, è polvere e ritorna polvere dopo la morte.
Queste tesi vengono ribadite da da Costa, in modo ancor più radicale, in un libro del 1624, Esame delle tradizioni farisaiche, pubblicato questa volta ad Amsterdam.
L’abbandono di Amburgo fu quasi certamente determinato dal fatto che il nostro tipografo venne scoperto e costretto ad abbandonare la città anseatica, trovando rifugio, come abbiamo visto, a Heidelberg.
Anche Da Costa del resto non ebbe vita facile: scomunicato dalla comunità israelitica, venne subito arrestato dal Governo della città e, seppur liberato dopo qualche tempo, non resse alla situazione di isolamento, di pesante pressione psicologica e di precarietà economica in cui si trovo’ ridotto e alla fine e si uccise nel 1640.
Ma torniamo al nostro volume.
La lingua tedesca del volume che ho potuto utilizzare per estrarre e tradurre i tre racconti non è certamente quella originaria. Essa è l’evidente frutto di una frettolosa e imprecisa traduzione dalla lingua spagnola, che non necessariamente è stata la lingua in cui il volume è stato composto dal suo Autore.
Sappiamo infatti che nei primi anni Quaranta del secolo circolavano versioni del libro, oltreché in tedesco e in spagnolo,  in latino, in olandese, in portoghese e anche in francese.
Merita di essere riferita la curiosa modalità con la quale abbiamo notizia della traduzione in questa ultima lingua: nel verbale della perquisizione effettuata dalla polizia segreta di Luigi XIV nell’abitazione di Franciscus van der Enden, si riferisce che è stato rinvenuto e sequestrato molto materiale criminale, tra cui un volumetto blasfemo “con storie fantastiche che ridicolizzano e pongono in dubbio eventi indubitabili per la nostra Fede quali l’unicità del mondo, la creazione divina e l’unicità di Dio, così come ci sono tramandate dalle Sacre Scritture”.
Del possessore del libretto sappiamo molto: si trasferì a Parigi nei primi anni Settanta per ivi svolgere la professione di docente di lingua latina, già in precedenza esercitata con successo a Amsterdam e tenne con la affascinante moglie un salotto ove si riuniva con pochi invitati per discutere di lettere, di morale, di filosofia e di politica.
In realtà, assai probabilmente van der Emden ricoprì anche un ruolo di agente segreto olandese (il cui territorio era parzialmente occupato all’epoca dalle truppe francesi) cercando di organizzare una insurrezione democratica e repubblicana in Francia (quasi un secolo in anticipo rispetto alle prime timide manifestazioni dell’Illuminismo: pensate quanto approssimative sono le categorie storiche ormai tradizionalmente fissate dalla cultura ufficiale). Per questa supposta – ma probabilmente effettivamente svolta – attività  van der Emden subì la perquisizione che ci ha permesso di apprendere la esistenza di una traduzione francese del nostro volume, venne arrestato con altri partecipanti al suo salotto (tra cui Chevalier Louis de Rohan). Dopo poche settimane venne impiccato. Gli venne negata la decapitazione (concessa invece a Louis de Rohan), in considerazione delle sue origini non nobili.
Mi sono soffermato forse troppo a lungo su van der Emden (notizie sul suo periodo francese possono essere reperite nelle memorie di Du Cause de Nazelle, dal titolo Memoirs du temps du Louis XIV, pagg.98 segg.); ma per una coincidenza che accompagna curiosamente tutta la storia di Creazioni, creature e creatori, anche van der Emden sta in relazione con Spinoza, essendo da molti considerato il suo maestro e padre spirituale.
Naturalmente, il volumetto e tutte le altre copie in lingua francese ritrovate nella cerchia degli amici di van der Emden vennero distrutti nel giorno della sua impiccagione.
Analoga sorte delle copie in francese e in tedesco subirono anche le copie diffuse in Olanda nelle altre lingue, in uno dei rari casi di roghi di scritti eretici là verificatisi. Il libro infatti fece enorme scalpore a Amsterdam, nonostante il clima liberale della città e l’assenza di fanatismi religiosi (pur essendo presenti frange di intransigenti calvinisti).
Anche per questo, ma il fatto è certamente straordinario e ha destato l’interesse di numerosi studiosi, l’autore del volume ci è a tutt’oggi ignoto.
Secondo alcuni, esso faceva parte della cerchia degli Arminiani o Rimostranti, che, seppur aderenti alla Riforma, contestavano l’eccessiva rigidità delle tesi sulla predestinazione: essi ebbero per tutta la prima metà del secolo XVII un seguito religioso e politico in Olanda, e furono tra i principali ispiratori delle ideologie di tolleranza e di apertura democratica assai diffuse nella città.
Secondo altri, faceva parte della Comunità israelitica portoghese  e da essa si era distaccato aderendo a quel gruppo di liberi pensatori di cui erano esponenti Da Costa, Da Silva (autore negli anni precedenti di un Trattato sull’immortalità), e duramente avverso alle idee di immortalità e di vita eterna ed anche Spinoza.
A sostegno di questa tesi,  viene addotto il fatto che una copia in lingua spagnola del volume venne rinvenuto nella biblioteca di Spinoza alla sua morte, come risulta dall’inventario redatto da Van der Spyck, da cui il filosofo aveva affittato una camera negli ultimi anni della sua vita.
Secondo altri ancora, era un Sociniano che aveva trovato rifugio ad Amsterdam dopo un lungo soggiorno in Moravia (comprovato da alcuni invero non perspicui riferimenti contenuti nel volume).
Ad alcuni non è parso improbabile che l’autore non sia rimasto ignoto per caso, ma per sua scelta, trattandosi di persona che per la posizione ricoperta o per la notorietà acquisita non voleva essere associata a un testo così provocatorio e pericoloso come Creatori, creazioni, creature. E forse, secondo i sostenitori di questa tesi, anche all’autore stesso o a suoi prossimi amici, oltreché ai roghi del fanatismo religioso, deve imputarsi parte della responsabilità della scomparsa del volumetto dalla circolazione, in tutte le sue numerose traduzioni.
Infatti, alle soglie del XIX secolo residuava una sola copia, quella amburghese che ho utilizzato per la mia traduzione.
Essa, attraverso vicende che sono riuscito faticosamente a ricostruire, ma che non possono essere qui descritte, pervenne negli anni Venti del secolo appena trascorso a  Dresda, dopo essere stata acquistata a Londra a un asta di Christie’s, da un facoltoso imprenditore della città sassone.
Ma scomparve durante la seconda guerra mondiale, distrutto probabilmente dal bombardamento che ridusse in rovina la città nel 1943.
Nessuna copia oggi più esiste di Creatori, creazioni e creature.

J.V.U.

***

Ho ritrovato questo manoscritto in uno dei quattro vecchi bauli collocati da anni nella cantina della casa abitata un tempo dai miei genitori.
Non so chi ne sia l’autore (nella pagina finale compaiono solo le iniziali che ho riportato, mentre il frontespizio è corroso dall’umidità e illeggibile), né chi lo abbia riposto nel baule, tra lettere, scritti e documenti che sto lentamente leggendo e catalogando.
Ho utilizzato uno dei racconti, modificandolo parzialmente e attribuendomene la paternità, per il volume pubblicato da Augusto Bianchi in occasione del decennale del suo ritrovo del giovedì.
S.N.

Benin

Dov’è il Benin? Pochi lo sanno, molti ne ignorano l’esistenza. Solo ai più anziani il nome Dahomey – l’antica denominazione del Benin – evoca incerti ricordi.
Questa ignoranza, forse più di ogni altro indicatore, dà il segno di che cosa sia l’Africa oggi nel nostro Paese: poco più di una macchia che si espande sul mappamondo, ove tutto è confuso e privo di interesse. Una macchia scura dalla quale emergono e approdano sulle nostre coste, privi di identità, di storia, di cultura esseri di incerta provenienza – etichettati come “extracomunitari” o “marocchini” – affamati e per lo più propensi al crimine.
Per molti, l’Africa si riduce ad alcune enclaves come Malindi, Hammamet o Sharm el Sheik, pochi ettari di terra trasformati in succursali balneari di Milano Marittima, dove i nostri connazionali riescono tardivamente a vivere l’ebbrezza un po’ stracciona del colonizzatore.
Eppure il Benin, uno Stato grande un po’ meno del Portogallo che si affaccia sul Golfo di Guinea, stretto tra il Togo e la Nigeria, colonia francese fino agli anni sessanta del secolo scorso, è stato il teatro di una tragedia di incomparabili proporzioni, i cui strascichi segnano tuttora la vita civile di molte nazioni.
Da questa costa Portoghesi, Inglesi, Francesi e Olandesi hanno deportato, tra la metà del quindicesimo e la metà del  diciannovesimo secolo, circa 10 milioni di esseri umani: più precisamente 9.391.100 schiavi, secondo i conti fatti da Philip Curtin nel 1969, con una indagine che tuttora rimane il riferimento dei successivi studi in materia (P.D.Curtin, The Atlantic Slave Trade: A Census,  University of Wisconsin Press). Attenzione però: in questo numero sono compresi solo gli schiavi effettivamente giunti a destinazione nei mercati di oltreoceano. Devono quindi aggiungersi tutti coloro che morivano durante il trasporto per mare – mediamente il 20% del carico – e tutti coloro che morivano, prima ancora, nel trasporto dal luogo di cattura al luogo di imbarco.
Complessivamente, le vittime della tratta di schiavi sono  state stimate in circa 15 milioni. Il che significa, nei periodi di maggiore domanda di schiavi, alcune migliaia di deportati al mese.
Ben più elevato è il numero delle vittime indirette: intere economie in precedenza floride sono state distrutte, vasti territori in precedenza popolati sono stati abbandonati. Recenti studi hanno dimostrato che nelle regioni che si affacciano sul Golfo di Guinea la scomparsa della foresta vergine non è avvenuta a quella velocità che finora era stata stimata, semplicemente perché la deforestazione non ha affatto riguardato una foresta vergine, ma una foresta sorta a seguito dello spopolamento di  territori prima coltivati o utilizzati a pascolo, provocato dalla tratta degli schiavi.
Soprattutto, si è accumulata in Africa e in tutti i paesi che hanno partecipato alle varie fasi dell’economia schiavistica  una pesante e irrisolta eredità di discriminazione, odio, paura, razzismo.
Sulla costa del Benin, proprio di fronte al mare, vicino a Ouidah (è obbligatorio l’invito alla lettura di un libro prezioso: il Viceré di Ouidah di Chatwin), l’Unesco ha ricordato questa tragedia, erigendo un arco, l’Arco del Non–Ritorno, per commemorare i milioni di esseri umani che l’avidità e la smodata predilezione sviluppata dagli europei per zucchero e caffè e per i vestiti di cotone hanno di lì trascinato verso un destino di sofferenza e di morte.
Poche centinaia di visitatori all’anno arrivano ai piedi di quell’Arco, e guardano verso il mare: al di là c’è l’America, terra di libertà e di ricchezza per molti, terra di terrore per quelli che da quelle zone vi erano trascinati.
Invece dovrebbe essere previsto, magari con il contributo dell’Unione europea (che tanto ha a cuore i diritti dell’uomo) l’obbligo di compiere un pellegrinaggio a Ouidah per ciascun alunno delle scuole europee: un viaggio di formazione e di riflessione sul passato, sulle origini del proprio benessere.

*

Cotonou, capitale del Benin. Si affaccia sul mare con un porto effervescente e in grande sviluppo.
È come tante città africane: il prodotto di una crescita disordinata e di uno sviluppo incontrollato (non bisogna dimenticare che tra il 1991 e il 1997 gli investimenti stranieri in Africa hanno reso mediamente di più che in ogni altro continente).
Come tante città africane, si addensano e si accavallano, nello spazio di pochi metri, l’Antico e il Moderno: il canto del gallo e il sibilo del condizionatore d’aria, odori di frutta decomposta e di gas di scarico, uffici in vetroresina e capanne di paglia. Nelle città africane i modi e gli stili di vita e le nuove tecnologie non sostituiscono quelle precedenti: il vecchio e il nuovo convivono e si sovrappongono, creando cortocircuiti spaziotemporali.
I veri protagonisti di Cotonou sono i ciclomotori giapponesi, nuovo simbolo dello sviluppo nella dimensione globale di sottosviluppo africano: migliaia e migliaia di Yamaha e Suzuki di piccola cilindrata si addensano ad ogni incrocio, stridendo e strombazzando, trasportando gruppi multicolori di persone, mai meno di due, spesso tre o quattro (ricordate la famiglia in Vespa nell’Italia pre-boom economico degli Anni Cinquanta?). Sono mototaxi, guidati da giovani in divisa, con tanto di numero di licenza esibito sulla giacchetta, che portano a destinazione per poche lire persone e non, come da noi, pacchetti. La scarsità di mezzi ha determinato  spontaneamente una soluzione che nelle città italiane si tenta di avviare per far fronte al congestionamento del traffico urbano prodotto dall’eccesso di benessere.

*

A Cotonou, e in qualsiasi città o villaggio del Benin ci sono mercati: permanenti, periodici, saltuari, o eccezionali, per commemorare qualche festività. In spazi appositamente riservati o sui bordi della strada, migliaia di persone vendono oggetti di prima necessità, prodotti agricoli e ortofrutticoli e – effetto della colonizzazione francese – stupende baguettes di pane profumatissimo.
Il mercato come luogo fisico di incontro della domanda e dell’offerta e di scambio di merce contro denaro, come esisteva nei paesi europei fino a qualche secolo fa, e come esiste, ma già idealizzato, nelle teorie economiche dei primi libero scambisti classici, è presente ormai solo in Africa, certamente in Benin.
Lì soltanto, non certo dalle nostre parti del mondo, dove la concorrenza e il libero mercato devono essere sostenuti, difesi, protetti e sovvenzionati, opera ancora quella mano invisibile che per Adam Smith costituiva il miracoloso regolatore e organizzatore della concorrenza e del progresso economico: lì soltanto la vecchia contadina che vende i suoi pomodori indica un prezzo dopo aver visto la quantità e la qualità di merce analoga in vendita,  ascolta le controproposte e fissa, guidata appunto dalla mano invisibile, il prezzo del giorno.

*

Man mano che si procede verso Nord, calano sempre più i segni della civiltà occidentale, i simboli del benessere occidentale: si fanno più rade le motociclette, scompaiono l’asfalto dalle strade, le costruzioni in muratura dalle città, le penne Bic  dalle cartelle dei ragazzi. Ci si muove nello spazio, ma è come fare un viaggio a ritroso nel tempo. Nell’estremo Nord del paese si entra nel territorio dei Somba, popolazione rimasta fortunatamente indenne dalla maggior parte degli effetti della colonizzazione.
Procedendo verso Nord, aumentano chiese, missioni, luoghi di incontro religiosi gestiti da organizzazioni gestite da preti, finti preti, ex-seminaristi, profeti e visionari. Su cartelli corrosi dalle piogge, impiantati alla bell’e meglio agli angoli delle strade, ai bordi della boscaglia, si succedono combinazioni fantasiose di Santi, cuori di Maria, soldati apostolici di Cristo, minacciose profezie di apocalissi e comandamenti  più o meno assurdi.
Dovunque sono reclamizzate organizzazioni per le quali la povertà costituisce non una situazione di necessità ma la risorsa da sfruttare, secondo il principio per cui l’aumento del bisogno materiale provoca la ricerca di compensazioni nell’Aldilà e quindi offre fertile terreno per chiunque venda prodotti immateriali e spirituali.
Tutta l’Africa è spolpata da migliaia di emuli di Credeonia Mwerinde. Questa, dopo aver condotto una vita di miseria nell’Uganda travolta dalla guerra civile – due volte vedova, molti figli, molti lavoretti (venditrice ambulante di banane, prostituta, piccolo contrabbando) –  vede nel 1988 la Madonna in una grotta  ed avvia la sua carriera di profetessa. La prima mossa è il reclutamento come aiutante profeta, consigliere e socio di Joseph Kibwetere, dotato di vasta esperienza nel settore dell’imbonimento religioso per aver svolto funzioni di ispettore dell’insegnamento cattolico. Sorge così il “Movimento per la restaurazione dei dieci comandamenti di Dio”: in pochi anni raccoglie migliaia di fedeli cui è promessa la salvezza eterna alla data ormai prossima dell’Apocalisse, a condizione che i loro beni terreni – un fazzoletto di terra, qualche risparmio – vengano lasciati al Movimento. La fede degli aderenti è ben ripagata: l’Apocalisse per loro arriva davvero, e tutti muoiono, avvelenati e felici, mentre Credeonia se la batte con il bottino.

Una versione ridotta e modificata di questo testo è stata pubblicata su Diario n.23\2000 con il titolo “La terra degli schiavi”.

Due recensioni in tema di globalizzazione

Marco d’Eramo, Lo sciamano in elicottero. Per una storia del presente, Feltrinelli 1999.

Mi raccontava mio padre che mio nonno, cittadino dell’impero austroungarico, si muoveva in gioventù – quindi, negli anni Settanta o Ottanta del secolo scorso –  per tutta Europa utilizzando l’unico documento che possedeva: il tesserino universitario.
Non c’erano, allora, né passaporti né carte di identità.
Il passaporto è divenuto uno strumento obbligatorio per muoversi da uno Stato all’altro in Europa solo alle soglie del Novecento. La carta di identità è a sua volta una trovata recentissima, introdotta dai regimi totalitari: in Italia, dal regime fascista con il testo unico di pubblica sicurezza del 1931 (prima era stata resa obbligatoria solo per i soggetti pericolosi o per i pregiudicati).
Solo da qualche anno, ma assai parzialmente, per effetto della globalizzazione, abbiamo raggiunto un obiettivo (muoversi senza passaporto, ma solo dentro la Comunità europea, e purché lo Stato membro sia in regola con il Trattato di Schengen) che era un patrimonio del cittadino europeo in un mondo pre-globalizzato, suddiviso in Stati, in nazioni rigidamente difese da frontiere.
La costruzione dell’identità personale come oggetto di documentazione e di verifica, come fenomeno del presente e come specifico prodotto della globalizzazione  è uno dei temi su cui si sofferma ampiamente Marco d’Eramo nel suo recente libro per evidenziare le contraddizioni e gli effetti perversi del processo di globalizzazione.
Si sofferma d’Eramo sul processo che si verifica in parallelo, e cioè la costruzione di una identità culturale di gruppo (lo Stato, l’etnia, la regione, la religione, le radici ecc.): un processo che esprime il rifiuto della libertà e della globalità. Per molti, la libertà è una catastrofe, e così si ricercano nuove prigionie: le sette, le religioni, le etnie, la regione, lo Stato-nazione di dimensioni microscopiche che fa sentire ciascuno a casa sua, le appartenenze, le squadre di calcio.
E non è chiaro se questa ricerca è l’effetto della globalizzazione che produce un mondo assai più piccolo, perché lo spazio non conta, è stato distrutto dai nuovi sistemi di comunicazione, o è l’effetto della globalizzazione che produce un mondo assai più grande, con molte dimensioni in più: siamo spettatori in tempo reale di realtà prima sconosciute, di delitti, massacri, rivoluzioni che accadono non più sotto casa, ma in luoghi dei quali fino a qualche decennio fa non avremmo neppure sentito parlare.
Essenziale per questo processo, osserva l’Autore, è anche la costruzione delle tradizioni.
Per sfuggire a un futuro globale, sono necessarie tradizioni che affondano nel passato. Se non ci sono, si inventano. In proposito, d’Eramo richiama l’opera di Hobsbawn The Invention of Tradition, che proprio dell’invenzione della tradizione in Gran Bretagna si occupa (dimostrando che, a partire dal kilt e dai clan scozzesi, fino al meticoloso cerimoniale della Corte inglese, la tradizione è un tipico prodotto dell’Ottocento).
Tutte queste osservazioni sullo strano fenomeno della globalizzazione che produce integrazione e disintegrazione, aggregazione e separazione, isolamento e comunione sono contenute in tre saggi finali del libro. La prima parte è una raccolta di decine di tracce di questo fenomeno: episodi, situazioni, anomalie apparenti, conflittualità che costituiscono tanti reperti raccolti in ogni parte del mondo, a seguito di osservazione diretta o di lettura di giornali locali (e tra questi reperti vi è anche la vicenda – incredibile incrocio tra passato, moderno e postmoderno – dei nomadi della Yakuzia che oggi commercializzano la polvere di corna di renna ricercata per le sue doti afrodisiache avvalendosi di elicotteri offerti dall’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite).
E sono questi reperti – in parte già pubblicati su Il Manifesto – che costituiscono il materiale che permette all’Autore di realizzare i suoi tre saggi conclusivi.
Per i cultori e i critici della globalizzazione, un libro da non perdere.

Victoria Glendinning, Jonathan Swift – A Portrait, Amer Ed., 1999.

Tutti conoscono Gulliver: è una delle immagini archetipiche del viaggiatore avventuroso.
Come Ulisse, e a differenza di Robinson Crusoe, creato dal contemporaneo e amico di Swift, Daniel Defoe, Gulliver ritorna sempre in patria, pronto per un altro viaggio.
Crusoe e Gulliver sono in fondo due facce di un’unica medaglia: il primo rappresenta la capacità di adattamento e di sopravvivenza dell’uomo bianco europeo, e la sua superiorità intellettuale rispetto ai “selvaggi” con i quali è costretto a confrontarsi; il secondo esprime l’ansia di ricerca e di dominio della società e del capitalismo inglese della prima parte del XVIII secolo, irridendone nel contempo le convinzioni eurocentriche, o meglio ancora anglocentriche: Gulliver nei suoi numerosi viaggi invariabilmente incontra popoli diversissimi dagli europei (è sempre più alto o più basso di quelli che incontra), provvisti di loro civiltà e di loro culture.
Se tutti conoscono almeno di nome Gulliver, sono pochi fuori dall’Inghilterra quelli che hanno letto Gulliver’s Travels nell’edizione integrale (e non in una delle diecine di riduzioni e rimaneggiamenti per ragazzi che infestano le biblioteche di tutto il mondo), e sono ancora meno quelli che conoscono l’Autore, Jonathan Swift e la sua enorme produzione letteraria come romanziere, poeta, saggista, polemista, politologo, difensore dei diritti degli Irlandesi.
Eppure Swift, dopo aver goduto di grande fama in vita, ha continuato a costituire un punto di riferimento per la letteratura inglese. Non solo per i suoi indubbi meriti, ma anche perché il suo nome è stato legato ad una celebre controversia giudiziaria promossa dall’amico Alexander Pope al fine di far riconoscere il copyright – istituto che allora si andava definendo in Inghilterra – anche sulle lettere, a favore dell’autore delle stesse e non a favore del destinatario, proprietario “al più” – osserva il Giudice, accogliendo la domanda di Pope – “della carta e dell’inchiostro”. E le lettere di cui si è discusso erano appunto quelle scambiate tra Pope e Swift.
Se tutto è noto della sua vita pubblica, molti misteri restano irrisolti per ciò che riguarda la sua vita privata.
Prima di tutto: Swift, prete anglicano, credeva in Dio? Era matto, o faceva solo finta di esserlo, per poter liberamente insultare e sbeffeggiare tutti i suoi numerosissimi nemici politici e avversari letterari? Si sposò davvero in segreto con Esther Johnson ed ebbe, come molti sospettavano, rapporti ben più che affettuosi con Vanessa, attuando così un arditissimo per l’epoca e l’ambiente menage a trois?
Fino ad oggi, i fans di Swift avevano a disposizione la impegnativa biografia in tre volumi di Irvin Ehrenpreis Swift, the Man, His Works and the Age. Oggi c’è anche – senza dover rinunciare ad altre letture per tutto il tempo considerevole che richiede la lettura dell’opera di Ehrenpreis – il libro di Victoria Glendinning (già autrice di una biografia di Anthony Trollope).
Il libro è agevolmente leggibile, affronta spavaldamente, anche se non sempre convincentemente, tutti i misteri della vita privata di Swift e cerca di dipanare, offrendo soluzioni spesso intuitive, gli enigmi di cui egli amava circondarsi.
Come dice il titolo, il libro è un ritratto dell’uomo più che una sua biografia. Ma è un ritratto che, in breve, in forma discorsiva e gradevole, permette di fare la conoscenza di questo straordinario ed elusivo personaggio.

Proverbio

Se non sai da dove sei venuto
Non puoi sapere dove stai andando

Proverbio della Sierra Leone

Questo diciassettesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 2000 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano, nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti, anche se spesso è stato rispettato – magari parzialmente – il pensiero dell’autore. Per la prima volta, ho inserito anche – ovviamente modificandoli – alcuni miei scritti già pubblicati su altre riviste.
Ringrazio per i consigli Maria Inglisa, Marina Nespor e Pasquale Pasquino.
Ricordo che il volume non sarà inviato (per effetto di una selezione automatizzata), a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli pubblicati dal 1992 possono essere letti nel mio sito www.nespor.com, progettato, predisposto e curato da Claudia Winkler e Beniamino Nespor.

N. 18 inverno 2000

Alle radici della cultura del mondo occidentale

Il magazziniere Gering del Senato cittadino; la vecchia signora Kanzler; la grassa moglie del sarto; la cuoca del signor Mengerdorf; uno straniero; una donna sconosciuta; Baunach, un membro del senato, il cittadino più grasso di Wurzburg; il vecchio fabbro del Tribunale; una vecchia signora; una piccola ragazza, di circa nove anni, la sorella, una ragazza più giovane, e la madre delle due; la figlia del signor Liebler; la figlia del signor Goebel, ritenuta la più bella ragazza di Wurzburg; un ragazzo che conosceva molte lingue straniere; due ragazzi di Munster, entrambi di dodici anni; la piccola figlia di Stepper; la signora che custodiva il passaggio del ponte; una vecchia donna; il figlio del segretario del consiglio comunale; la moglie di Knertz, il macellaio; la bambina del dottor Schultz; una ragazza cieca di otto anni; Schwartz, canonico presso Hach…

Questo è ciò che rimane di un elenco diligentemente conservato presso gli archivi ecclesiastici della città di Wurzburg. Sono indicate le persone condannate al rogo nell’anno 1528 perché accusate di stregoneria, quasi tutte per incontri notturni e clandestini con il demonio.
Sappiamo che nel corso dell’anno furono complessivamente bruciate 140 persone, a gruppi di 4 o 5: 28 pubblici roghi nella piazza del paese, uno ogni quindici giorni.
Un elenco a parte è riservato agli eretici, che erano bruciati separatamente, in occasioni di particolari feste religiose.
Naturalmente, ciò che accadeva a Wurzburg accadeva in ogni piccola o grande città d’Europa, ovunque il potere religioso estendesse il suo controllo.
Tra gli eretici bruciati nell’anno 1528 a Wurzburg vi era anche William Tyndale, accusato dalle gerarchie ecclesiastiche di aver progettato di tradurre in inglese e in tedesco il Nuovo Testamento, al fine di permettere alla gente una diretta lettura dello stesso. Prima di essere bruciato, Tyndale venne mutilato e strozzato.

Due poesie di Vikram Seth

I

Ti vedo sorridere mentre ti parlo al telefono
Tocco i tuoi cappelli vaporosi
Sento l’odore del tuo profumo
Pronto? C’è qualcuno in linea?

II

Dio ama tutti
O ama quelli che lo amano,
O quelli che lo amano e si comportano bene.
O almeno dovrebbe.

Da VIKRAM SETH, All You Who Sleep Tonight, Viking Penguin India, 1997.

Le due Sicilie

I

L’estate è giunta precoce. All’alba torrenti di frutta odorosa invadono la casa.
Lenòr sta abbastanza bene, potrebbe uscire. Ha ricevuto visite nei giorni scorsi: Sanges, Cuoco, Conforti, Pagano, e, tutti i giorni, Gennaro. Ha avuto notizie di Cimarosa che sta a Vienna a godersi il successo del Matrimonio segreto. Chiara la invita insieme a Gennaro e agli altri a trascorrere l’estate nella sua villa di Ercolano.
In agosto tutti spariscono.
“La rivoluzione va bene, ma fa troppo caldo. Rimandiamola all’autunno” ride Chiara.
Ma lassù, in Francia, la rivoluzione continuano a farla.
“Il popolo ha assalito le Tuileries. Ha imprigionato il re. Robespierre ha ottenuto la Convenzione”, informa Gennaro, agitando una copia del Moniteur che gli ha procurato il libraio-tipografo Guaccio, il quale dispone di una rete di contrabbandieri che vengono da Roma, Parma, Milano.
Ma Napoli, Napoli non sa nulla, se ne infischia, osserva lei sempre più stupita, mentre passeggia con Gennaro. Tutto va come sempre.
La città è splendida, fiorita, si diverte. Il mare azzurrissimo, liscio riflette come una specchiera il Vesuvio con il suo pennacchio barocco, la penisola di Sorrento, le case e gli alberi di Castellamare. Sulle spiagge di Santa Lucia, Chiaia, Mergellina, i lazzari nudi s’arrostiscono beati, sonnolenti, avvolti da nuvole odorose di salsedine e d’aglio provenienti dai banchetti ambulanti. Ostricari infaticabili spaccano conchiglie con coltellucci ricurvi. Nella Rotonda di Palazzo, tra i nobili, va di moda il marsala ghiacciato coi biscotti. Chi vuole può farci mettere un fiocco giallo, denso, di panna cremolata.
Non immagina Lenòr che fra non molto vedrà per l’ultima volta Gennaro, dritto, fermo, contratto, un poco tremante. Prima di avvicinarsi al ceppo la guarderà e le sorriderà. Lei gli manderà un bacio, forte, Gennaro mio, non soffrire, ti prego, non soffrire troppo. Poi non ha il coraggio di guardare la mannaia cadere.
Subito dopo, toccherà a lei: sarà impiccata vicino al cappio dal quale ancora penzola il corpo dell’arcivescovo di Vico, Monsignor Natali.

II

Osservò Consalvo Uzeda: “Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l’età nostra, né io penso che tutto vada per il meglio. Ma è certo che il passato pare a volte molto bello solo perché è passato.
Io rammento che nel Sessantuno, appena fatta l’Unità d’Italia, quando lo zio duca fu eletto per la prima volta deputato, mio padre mi disse ‘Vedi: quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora ci sono i deputati, e lo zio siede in Parlamento’.
Mio padre aveva ragione: un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo, e la differenza è più di nome che di fatto.
Certo, dipendere dal popolo non è piacevole; ma neppure molti di quei Sovrani erano stinchi di stanco.
E un uomo solo che tiene nelle proprie mani le redini del mondo e si considera investito di un potere divino e d’ogni suo capriccio fa legge è più difficile da portare dalla propria parte e da guadagnare alla propria causa che non il gregge umano, numeroso ma per sua natura servile.
Infine, il mutamento è più apparente che reale.
Anche i Viceré di un tempo dovevano comunque propiziarsi la folla; se no, erano semplici ambasciatori, che andavano a reclamare a Madrid.
Certo, una elezione oggi costa quattrini; ma anche il nostro antenato Lopez Ximenes dovette offrire trentamila scudi al Re Ferdinando per essere mantenuto al suo posto.. e fu cacciato via lo stesso. Oggi, almeno, si paga come allora, ma per qualche anno il risultato è garantito.
Certo, tra la Sicilia prima degli anni Sessanta ancora quasi feudale e questa di oggi pare che ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore.
Il primo eletto con il suffragio quasi universale non è stato un popolano, né un borghese, e neppure un democratico.
Sono stato io, Consalvo Uzeda principe di Francalanza.

III

I grandi boss della mafia passano la loro vita a casa, la piccola manovalanza passa la vita in strada.
La differenza di grado tra mafiosi e camorristi corrisponde a una diversa presenza sul marciapiede. Punti nevralgici della città, come il bar, la piazza, le sedi dei vari partiti, sono occupati dai gregari che stazionano in attesa di ordini. Man mano che si sale di grado, la presenza esterna diminuisce. Alcuni camorristi già all’età di 18, 19 anni dopo essersi distinti per crudeltà e sprezzo del pericolo non svolgono più la loro attività presso cantieri, ditte o negozi, ma stanno a casa in attesa che qualcuno porti quanto dovuto. Si fanno poi vedere ogni tanto, al bar, in un locale notturno, o nello struscio la domenica.
I boss arrivati non si fanno vedere quasi mai in pubblico. Stanno a casa in zoccoli e tuta da ginnastica, coltivano hobby svariati (pittura, lettura dei classici del pensiero cattolico, filatelia).
Unica eccezione, le pratiche religiose: la messa domenicale li vede sempre in prima fila, omaggiati dai presenti e riveriti dal prete. Naturalmente ingrassano, divengono trasandati, si fanno crescere la barba, così quando vengono catturati tutti si stupiscono della loro sciatteria e della loro bassa volgarità.

*

Gli uffici pubblici delle città del sud sono un giacimento archeologico.
Qualsiasi ufficio è infatti stratificato, e all’esperto è possibile dall’esame degli strati che si sono depositati, abbandonando qua e là impiegati e funzionari, individuare il succedersi degli eventi politici della recente storia d’Italia.
Dall’analisi di un singolo ufficio – mettiamo, un ufficio postale della periferia di una piccola città della Campania – con pazienza e abilità si possono ricostruire gli ultimi venti anni della politica locale, regionale e in parte nazionale.
Prima di tutto, i singoli dipendenti possono essere individuati politicamente dalla loro residenza, dalla città o dal paese o addirittura dalla frazione e dal quartiere dal quale provengono. Dalla data delle assunzioni si risale al politico che ha governato, ai rapporti clientelari, agli scambi di favori tra correnti e tra partiti amici o avversari.
Si può ipotizzare che un grande archeologo della burocrazia italiana possa, fra qualche centinaio d’anni, usando semplicemente le carte rimaste, ricostruire con precisione la politica italiana.
Inoltre, gli impiegati assunti per effetto di una raccomandazione, e cioè la maggior parte, sanno che prima o poi dovranno ricambiare. In attesa di farlo, passano il tempo a sdebitarsi. In occasione di qualsiasi festa, regalano doni agli assessori, al politico, al parlamentare.
E aspettano di poter ricambiare.
Questo fa ovviamente la fortuna dei commercianti e spiega perché in piccoli centri ci siano rigogliosi negozi di pasticceria, gioielleria o pellame. A Natale, questi negozi preparano pacchi meravigliosamente confezionati, di grandezza, consistenza e valore commisurata al grado dell’acquirente e al grado del destinatario.
Ogni assunzione raccomandata ha un immenso indotto e beneficia a cascata anche i meno fortunati: produce lavoro e posti di lavoro non solo nel settore del commercio.
Aumentano infatti le segreterie dei politici, perché servono persone che smistano ringraziamenti, regali, testimonianze; si sviluppano nei dintorni punti di ristoro, tavole calde; si organizzano le agenzie di pony-express, che offrono lavoro saltuario agli emarginati.

VI

L’ultima volta che sono stato al Comando alleato, verso la fine del 1944, con mia grande sorpresa mi hanno conferito un incarico ben definito: indagare sulle intenzioni di un partito politico clandestino che opera in Campania, ed ha la sua base operativa a San Marco dei Cavoti, un paese sui monti del Sannio a una trentina di chilometri da qui.
Ero stato varie volte in precedenza a San Marco: sembra scolpito nel cuore della montagna, un corallo umano, dove la vita di ciascuno e solo e soltanto lotta contro la miseria.
È un paese di pastori con facce da totem, uomini solenni e silenziosi nati in condizioni non molto diverse dalla schiavitù.
Con la benedizione degli Alleati, si sono a tutt’oggi costituiti sessantacinque partiti politici, i quali parteciperanno alla furiosa rissa democratica che prevedibilmente si scatenerà quando verranno indette le elezioni.
Oltre a questi raggruppamenti ufficiali, ci sono molti movimenti non riconosciuti che aspirano a restituire alla Nazione la sua grandezza, e cercano di conquistare adepti con promesse manifestamente impossibili da realizzare. I loro capi sono in gran parte farneticanti, come i separatisti di Lattarullo, che vogliono vestire la gente con tuniche romane, istituire un minimo legale di dieci figli per famiglia.
Ma vi sono movimenti che sono considerati più pericolosi e sinistri e tra essi quello su cui ero stato incaricato di indagare. Si chiama “Forza Italia” e si sospetta di simpatie neofasciste. I miei contatti con Benevento lo liquidano con disprezzo come l’ennesimo fanatico movimento di destra appoggiato dai proprietari terrieri e dalla mafia rurale, in questo caso capeggiata da un latifondista suonato che sostiene di essere la reincarnazione di Giuseppe Garibaldi.
Ad ogni modo, vogliono un rapporto. Sono venuto a sapere che per oggi era in programma un comizio a San Marco, ho chiesto in prestito una jeep ai Canadesi e ci sono andato. Sono partito alle sei e per le otto ero a San Marco.

I brani sono stati tratti nell’ordine da: ENZO STRIANO, Il resto di niente, Rizzoli 1998. Lenòr è Eleonora Pimentel Fonseca, Gennaro è Gennaro di San Cassano, trucidati entrambi, insieme a molti altri, a Napoli nel 1799. FEDERICO DE ROBERTO, I Viceré, (1894), Garzanti 1959. ANTONIO PASCALE, La città distratta, L’ancora, Napoli 1999. Alcuni amici hanno osservato che la stratificazione degli uffici pubblici del Sud si ritrova con poche varianti anche esaminando i docenti in servizio in molte Università del Nord. Infine NORMAN LEWIS, Napoli ’44, Adelphi 1998.

Tre poesie di Yehuda Amichai

I

Quando ero giovane, la gente continuava a dirmi:
Dove pensi di vivere? Quando vivrai nella realtà?
Così mi hanno detto genitori, maestri, amici.
Vivere nella realtà, quasi una condanna.
Che terribile peccato queste povere anime
devono aver commesso
per dover cominciare la loro esistenza
con la condanna alla realtà per la vita.

II

Ci sono giorni in cui ognuno
Dice subito: Io c’ero,
sono pronto a testimoniare
Ero a pochi passi dall’incidente,
Dal luogo dello scoppio della bomba,
dalla crocifissione,
quasi stavo per essere colpito, ferito,
crocifisso anch’io.
Ho visto Cesare accoltellato dai congiurati,
Ho visto cadere la testa di Robespierre,
Ho visto Dio.
E poi, ci sono giorni in cui tutto è un alibi:
non c’ero, non ho sentito, non ho visto niente.
Ho sentito l’esplosione ma ero distante,
ho visto il fumo ma stavo leggendo il giornale
Ho visto Cesare che camminava verso il tempio
ma sono rimasto fuori.
Ho visto Robespierre sul patibolo ma poi sono andato via
Non ho visto Dio, ho dei testimoni.

III

Quando Dio ha impacchettato tutto
E se ne è andato,
ha lasciato solo un libro.
Da allora, gli uomini hanno letto quel libro
Pensando che lo avesse lasciato per loro,
hanno pensato addirittura che lo avesse consegnato a Mosé;
hanno analizzato il libro per capire
dove Dio se ne era andato,
quando sarebbe tornato,
e che cosa voleva veramente dire, lasciando quel libro.
Ma Dio lo ha semplicemente dimenticato.
Il libro dice “Cerca Dio quando lo puoi trovare,
chiamalo quando ti è vicino”.
Ma Dio se ne è andato.

Da YEHUDA AMICHAI, Open Closed Open, la traduzione dall’ ebraico di Chana Bloch e Chana Kornfeld, Harcourt 2000.

Blu

Il colore blu non esiste nell’antichità. In greco, kianeos contraddistingue sia il blu degli occhi che il colore nero dei vestiti che si indossano per un lutto, mentre trasmette un’idea di pallore, ed è associato all’azzurro degli occhi, al verde delle foglie, al giallo del miele. In compenso, il cielo può essere bianco, rosso, nero, a secondo dei sentimenti di chi lo guarda e lo descrive: raramente è azzurro.
Lo stesso può dirsi per la Bibbia, per gli altri testi antichi, e per i Romani. Del blu non si parla praticamente mai: o non c’è, o è così sgradito da non essere menzionato.
Questa visione cromica priva di blu perdura fino a tutto il XII secolo. Anche il mantello della Madonna fino a questa data ha colori variabili, ed è più spesso verde o nero.
La rivoluzione cromica si delinea alla fine del XII secolo: in pochi decenni, si assiste all’affermazione del blu, che sostituisce e respinge ai margini gli altri colori.
La Madonna gotica si veste così di blu, e da allora resterà blu il suo mantello; i re – in particolare il re di Francia – cominciano a vestirsi di blu a partire dal XIII secolo, il blu diviene così il colore tipico dell’aristocrazia, penetrando perfino nel sangue.
In precedenza, i colori dei nobili erano il verde e il rosso: Carlo Magno per esempio si è sempre vestito con questi due colori, mai con vestiti blu; anche il suo sangue era rosso, non blu.
Il blu diviene anche il colore dell’onestà, virtù che per mezzo del colore è così associata alla nobiltà: la nobiltà ha dipinta in volto l’onestà, canta Don Giovanni per sedurre Zerlina.
A partire dal XVI secolo, il rosso è il colore perdente, rifuggito dalle persone per bene. Il rosso è diventato il colore della rivoluzione e dell’antagonismo sociale ed è stato scelto dai Giacobini nella Rivoluzione francese perché esprimeva già da tempo l’esclusione, il rifiuto.

Da una intervista di Natalie Levisalles a Michel Pastoreu, storico dei colori in Liberation 21\10\2000.

Una poesia di Elio Pagliarini

Carla Dondi fu Ambrogio
di anni diciassette, da Parabiago,
primo impiego stenodattilo
all’ombra del Duomo.
Sveglia alle sei, in ufficio alle otto.
Sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro.
Puntualità, prima di tutto: per essere puntuale,
arrivi sempre in anticipo.
Sia svelta, sorrida e impari le lingue.
Il mondo del lavoro è di chi conosce le lingue.
Le lingue qui dentro le lingue oggigiorno
capisce dove si trova? TRANSOCEAN LIMITED
qui tutto il mondo…
è certo che sarà orgogliosa.
Amore al lavoro è amore all’ambiente.
Perciò Signorina Dondi, noi siamo abbonati
alle Pulizie Generali, due volte
la settimana, ma il direttore, Signor Praték, è molto
esigente – amore al lavoro è amore all’ambiente – così
nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino:
sarà sua prima cura la mattina
pulire i pavimenti e spolverare le scrivanie.
Brava signorina, il mondo del lavoro la attende.
Colga tutte le opportunità che le offriamo
Noi della Transocean Limited
E questa grande città con il cuore in mano.

Da ELIO PAGLIARINI, Poesie

Indice degli autori pubblicati 1989 – 2000

Adorno, Theodor Wiesengrund 1994 Amichai, Yehuda Inverno 2000 Anderson, Maxwell Estate 1997 Anstel, Arnfrid Estate 2000 Atwood, Margaret 1992 Babel, Isaac Inverno 1999 Barenreiter, Victor Estate 1999 Bassani, Giorgio Inverno 1998 Benjamin Walter 1994 Bigongiari, Piero Estate 1995 Blok, Aleksandr 1993 Borchert, Wolfgang 1994 Borges, Jorge Luis Inverno 1996 Braun, Valerie 1992 Brecht, Bertolt 1989 Broch, Hermann Inverno 1999 Brodsky, Joseph Inverno 1997 Callois, Robert Inverno 1999 Calvino, Italo Estate 1996 Caproni, Giorgio Inverno 1998 Cardenal, Ernesto Estate 1996 Carrillon, Lucifer Pablo 1991 Cendrars, Blaise 1992 Chatwin, Bruce 1993 Cope, Wendy 1994 Coyaud, Silvie 1993 D’Eramo, Marco Estate 1996 D’ors, Miguel Inverno 1999 Diamond, Jared Estate 1995 Durrell, Lawrence 1993 Dylan, Bob Inverno 1996 Eichendorff, Joseph von Estate 1996 Einstein, Albert Estate 1997 Enzensberger, Hans Magnus Inverno 1996 Esenin, Sergej Aleksandrovic Estate 1997 Fedro Estate 1997 Fenton, James Inverno 1995 Filosofo confuciano cinese Estate 1996 Fleites, Alex Estate 1999 Fontane, Theodor Inverno 1995 Forti, Gilberto 1993 Franklin, Benjamin 1991 Fried, Eric 1992 Frost, Robert 1991 Galeano, Eduardo 1993 Garcia Lorca, Federico Inverno 1997 Gary , Romain 1989 Giacosa, A. 1993 Goethe, Wolfgang von 1991 Guillevic, Eugene 1992 Hacking, Ian Estate 2000 Halas, Frantisek 1991 Hassa, Ben Youssef 1993 Heidegger, Martin Inverno 1999 Heine, Heinrich 1989 Inverno 1996 Herbert, Zbgniew 1994 Hikmet, Hazim Estate 1995 Horvàth, Odon von Inverno 1998 Hukley, Aldous 1993 Irving, John Inverno 1995 Jacob, Francois Inverno 1996 Jaspers, Karl 1993 Jay Gould, Stephen 1992 Kadaré, Ismail Inverno 1999 Kavafis, Costantino Inverno 1997 Kennan, F. George 1993 Kraus, Karl Inverno 1999 Kristof, Agota Inverno 1995 Lambert, Jean-Clarence Inverno 1999 Landes, David Inverno 1999 Larbaud, Valery 1994 Levy Strauss, Claude Inverno 1998 Estate 1999 Manguell, Alberto Inverno 1999 Marx, Karl Estate 1997 Monod, Jacques 1990 Muratori, Letizia Estate 2000 Nash, Ogden Estate 1997 Nkruma, William 1992 O’Hara Frank 1990 Pagliarini, Elio Inverno 2000 Parise, Goffredo Inverno 1999 Parker, Dorothy Estate 1999 Pasternàk, Boris 1990 Patino Romero, Franklin Inverno 1999 Prokosch, Frederic Inverno 1995 Racconto popolare russo del secolo XIX Estate 1997 Rossetti, Jorge 1994 Runciman, Steven 1993 Sandburg, Carl 1990 Saramago, José 1994 Scanziani, Piero Inverno 1995 Scott Fitzgerald, Francis Inverno 1997 Seth, Vikram Inverno 2000 Shelly, Percy Bysshe Inverno 1996 Singleton, M. Inverno 1999 Somerset Maugham, William Estate 1996 Strachey, Litton Estate 1995 Striano, Enzo Inverno 2000 Szymborska, Wislava Inverno 1998 Tai Po, Chen Estate 1997 Tiepolo, Jacopo Estate 2000 Weinberg, Steven Inverno 1999 Zaimovic, Karim Inverno 1995 Zweig, Stefan 1991

Crediti

Questo diciottesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2000 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano, nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti, anche se spesso è stato rispettato – magari parzialmente – il pensiero dell’autore.
Ringrazio per i consigli Gianfranco Cocco, Maria Inglisa, Marina Nespor, e Gabriella Stansfield.
Il volume non sarà inviato a chi non invia ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli pubblicati dal 1992 possono essere letti nel sito www.nespor.com, progettato, predisposto e curato da Claudia Winkler e Beniamino Nespor.

N. 19 estate 2001

Elezioni

Molti pensano che esista un sistema elettorale che riflette correttamente la volontà degli elettori. Altri pensano che il sistema elettorale utilizzato non conta: proporzionale, maggioritario, uninominale, turno unico o doppio turno, chi deve vincere vince comunque. La verità è diversa e più sgradevole: a seconda di come si vota, i vincitori cambiano. In altri termini, chi sceglie il modo di votare, sceglie anche chi vince. Ecco un esempio. Ci sono quindici amici che, prima di passare una settimana insieme in barca, vanno a fare una buona scorta di vettovaglie. Decidono di acquistare una sola bevanda per tutti in grande quantità per ottenere uno sconto dal rivenditore. Stabiliscono di scegliere tra tre bevande: latte, birra, vino, indicando ciascuno le proprie preferenze. Sei indicano come preferenza il latte, seguito dal vino e dalla birra; cinque indicano la birra, seguita dal vino e dal latte; quattro indicano il vino, seguito dalla birra e dal latte. Bene, dice soddisfatto uno dei bevitori di latte, si ordina latte per tutti. Piano, dice uno dei bevitori di birra, non abbiamo finito, è necessario un ballottaggio. Altrimenti, vengono scorrettamente dispersi tra la birra e il vino i voti degli amanti delle bevande alcoliche. Bisogna escludere il vino che si è classificato ultimo, e attribuire i voti del vino alla birra. La birra quindi ha vinto.
Non sono d’accordo, osserva un sostenitore del vino. Per rispettare davvero il desiderio della maggioranza, bisogna verificare gli scontri diretti: vino contro latte, vino contro birra, birra contro latte. Sommando tutti i voti ricevuti da ciascuna bevanda, il vino risulta la bevanda più gradita alla maggioranza. Il vino ha vinto. Chi ha ragione? Secondo i matematici, il sistema che maggiormente si avvicina a rappresentare la volontà degli elettori è proprio l’ultimo: quello del confronto a coppie, anche se paradossalmente può vincere il candidato con il minor numero di prime scelte. Fu proposto nel 1770 da Jean-Charles de Borda per eleggere i membri dell’Accademia delle scienze francese. È però il sistema meno usato, solo perché tra i molti obiettivi perseguiti dalle competizioni elettorali quello di rappresentare la volontà dell’elettorato non è certo al primo posto. Altri obiettivi sono più importanti: la stabilità dell’esecutivo, la formazione di maggioranze parlamentari, la conservazione dei posti per i candidati eccellenti.

S.N. (da un articolo pubblicato su “The Economist”).

Una poesia di Eugenio Montale

La storia non è
Come una catena
Di anelli ininterrotta.
Anche perché
Molti anelli non tengono.
La storia non contiene
Il prima e il dopo.
Detesta il poco a poco.
Non procede né recede.
Non è prodotta
Da chi la pensa
Né da chi la ignora.
La storia non giustifica
E non deplora.
La storia non insegna
Niente che ci riguardi.
Conoscerla non serve
A farla più vera o
A farla più giusta.

Da EUGENIO MONTALE. La poesia è in Satura, inserita in Poesie complete, Mondadori 1994.

La Fede e il Denaro

I

Molti pensano che l’interesse e il culto per le reliquie si sia diffusa in Europa nel XIII secolo, a seguito del sacco di Costantinopoli da parte dei Crociati: in effetti, a partire dal 1204, migliaia e migliaia di reliquie di ogni tipo affluiscono in Occidente e invadono il mercato. In realtà, i cristiani cominciano a venerare i corpi dei santi già nel I secolo d.C. A differenza dei cadaveri comuni, considerati beni extra commercium, e quindi non trasferibili o vendibili, i cadaveri dei santi sono considerati un bene che appartiene alla comunità; ma presto, verso la fine del III secolo, comincia l’appropriazione dei corpi, o di parti dei corpi dei santi da parte di singoli fedeli: per egoismo, e cioè per non dividere con altri gli effetti benefici della reliquia, o, più spesso, a fini di lucro, e cioè per venderli o per ottenere un corrispettivo per permettere ad altri di vederli o toccarli. Alcuni protestano per questa appropriazione della santità: Ceciliano, vescovo di Cartagine, critica una certa Lucilla perché portava sempre con sé un pezzo del corpo di un santo locale per poterlo baciare e per farlo baciare a fronte di un piccolo compenso. Ma le proteste di pochi non frenano l’impetuoso sviluppo del mercato. Si diffonde la convinzione che non solo il cadavere intero del santo ma anche i suoi pezzi smembrati mantengano quel potere miracoloso che Dio aveva concesso di esercitare in vita e lo incanalino verso i fedeli.

Origene così afferma che le ossa dei santi valgono di più dell’oro o delle gemme. Questa è del resto l’opinione comune di tutti i teologi del IV secolo, tra cui Eusebio di Cesarea, Gregorio di Nazianzio, Gregorio di Nissa. Due fattori, tra VII e VIII secolo, determinano l’affermazione definitiva della reliquia come bene commerciale pregiato. Dapprima, al concilio di Nicea del 787 d.C., con una geniale intuizione imprenditoriale, si proibisce espressamente la consacrazione di nuove chiese ove non sia custodita almeno una reliquia. Possedere reliquie diventa una necessità per chiunque voglia organizzare nuove chiese o nuove comunità di fedeli. Poi, nel VIII secolo, il teologo Giovanni di Damasco formula una compiuta teoria della reliquia, stabilendo non solo che i corpi dei santi sono offerti da Dio ai Cristiani come strumento di salvezza, ma anche che qualsiasi pezzo di santo, per quanto piccolo, mantiene intatto il potere originario, ed è strumento di Dio. Sulla base di queste premesse – l’una rivolta a creare forzosamente la domanda, l’altra a sostenere il prodotto – la reliquia si pone al centro dell’economia medioevale. Il mercato ufficiale, strettamente controllato da esponenti della Chiesa, è alimentato moltiplicando il numero di santi, frazionandone i corpi in parti sempre più minuscole, e, ad un certo punto, estendendo i poteri miracolosi delle reliquie anche agli oggetti con i quali i santi sono venuti in contatto. Poi si sviluppa, spesso tollerato, un vastissimo mercato nero ove sono commerciate clandestinamente reliquie falsificate (che peraltro producono assai spesso i medesimi effetti miracolosi di quelle vere).

L’acquisto di una reliquia è una dimostrazione di devozione religiosa, ma anche di status sociale. È comunque sempre un ottimo investimento: le reliquie sono l’unico bene che aumenta continuamente di valore, e, soprattutto, in una economia non monetaria, è un bene facilmente commerciabile ovunque. È lo scisma luterano che crea un crollo del valore delle reliquie: una ampia parte del mercato ove fino a quel momento la domanda era stata sempre elevata cade infatti sotto il proibizionismo protestante. Basti pensare che, alla soglia del XVI secolo, appena prima della Riforma, la Schlosskirche a Wittenberg aveva ben 19.013 reliquie, mentre 21.483 si trovavano nella Schlosskirche di Halle. Un patrimonio inestimabile, oculatamente accumulato, mandato in fumo da Lutero.

II

Ecco un elenco ragionato di reliquie documentate da atti e transazioni commerciali realizzati tra il XIII e il XV secolo. Reliquie dal Vecchio Testamento (meno pregiate, ma commerciabili anche in territori non cristiani): Ramoscelli d’ulivo riportati dalla colomba dopo il diluvio; Avanzi di manna; Frammenti del trono di David; Tre trombe con cui Giosué fece crollare le mura di Gerico; Migliaia di frammenti di mura di Gerico crollate; La mensa di Abramo; Il coltello con cui Abramo aveva intenzione di sacrificare Isacco; La verga di Mosé; La scure con cui Noé costruì l’arca; Centinaia di pezzi di Arca.

Reliquie dal nuovo Testamento: Diecine di ampolle con il latte della Madonna (oggetto del costante sarcasmo di Calvino); Diecine di ampolle con l’ultimo respiro di San Giuseppe; Ampolle con sangue di martiri; Mangiatoia di Betlemme, in legno grezzo; Il dito dell’apostolo Tommaso; i denti di San Matteo; Cinque teste di San Giovanni decollato (quattro delle quali esibite al pubblico per secoli nelle chiese di Amiens, Soissons, Nemours e Roma; della quinta si perdono le tracce subito dopo l’arrivo in Europa); L’intero corpo di Giovanni di Compostella, ritrovato miracolosamente intatto; I corpi, anch’essi intatti, dei tre re magi, conservati dapprima a Milano e portati a Colonia da Federico I nel 1164. Reliquie riguardanti Gesù (assai pregiate): QQuattordici prepuzi (esibiti per lungo tempo nelle chiese di tutta Europa, tra cui Poitiers, Coulombs, Chavraux, Hildesheim, Le Puy en-Velay, Anversa, Roma, e poi pudicamente ritirati); Tre cordoni ombelicali (di varia lunghezza); Diecine di denti da latte; Frammenti di unghie; Peli di barba; Peli di baffo; La pietra dove fu battezzato; La pietra dove fu circonciso; Molte lettere autografe in varie lingue; I canestri utilizzati per la moltiplicazione dei pani; Il Santo Graal; Due catini usato per lavare i piedi agli apostoli; Tre panni usati per asciugare i piedi degli apostoli; La corona di spine; Il calco delle orme dei piedi di fronte a Pilato; La veronica con il suo volto; La punta della lancia del centurione; Il marmo su cui fu deposto il suo corpo; I segni delle lacrime della madonna sul marmo; Innumerevoli chiodi della croce; Tonnellate di frammenti lignei della croce, ma anche la croce, intera ed intatta.

Poi, si ha notizia certa di 43 sindoni, ma furono probabilmente centinaia. La maggior parte senza immagini (e considerate di scarso valore); alcune – si ha notizia certa di dodici, con immagini totali o parziali del corpo di Gesù. Molte sono andate distrutte da incendi, o sono state rubate e rimesse in circolazione. Una sindone miracolosa, custodita a Besancon, fu distrutta per ordine del Comitato di salute pubblica durante la rivoluzione francese. La sindone di Torino fa la sua comparsa per la prima volta nel 1353 a Troyes. È considerata subito di scarsissimo valore e – secondo molti esperti e certificatori di reliquie – è un falso grossolano. In effetti, l’immagine è stata grossolanamente realizzata secondo i canoni e le proporzioni dell’arte gotica contemporanea: figura verticale, gambe e piedi paralleli, tratti del viso caratterizzati. Nel 1389 il vescovo di Troyes Pierre d’Arcis – che pure collezionava reliquie di ogni tipo – risponde a una richiesta di informazioni del papa Clemente VII dichiarando, sulla base anche di indagini effettuate dal suo predecessore, Henri de Poitiers, che la sindone è falsa, ed era stata artificialmente dipinta in modo ingegnoso a puro scopo di lucro. Il papa emanò allora una bolla con la quale ordinava che ogni volta che il telo fosse stato esposto un banditore avrebbe dovuto annunciare ad alta voce che “la raffigurazione non è il vero sudario del nostro signore, ma una pittura o tavola fatta a imitazione del sudario”. Come è noto, lo scetticismo di Pierre d’Arcis e di papa Clemente sono stati pienamente confermati.

I test sul sangue effettuati dalla commissione presieduta dal cardinale Pellegrino nel 1973 hanno dimostrato che non vi è traccia di sangue umano, ma solo di tempera rossa. L’esame con il radiocarbonio (condotto contemporaneamente nei laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo) data la tela tra il 1260 e il 1390.

III

La vera croce di Gesù fu ritrovata, insieme alla corona di spine, nel 327 dall’imperatrice Elena: era nel fondo di una cisterna piena d’acqua, e si era conservata intatta per tre secoli. Un vero miracolo. L’Imperatrice Elena – certamente la maggior cacciatrice di reliquie dell’antichità – in pochi anni di ricerche individuò anche la tomba di Gesù, il Golgota, la caverna della natività, e perfino l’esatto luogo dell’ascensione al cielo (quest’ultimo rivelatole durante il sonno, secondo la biografia di Evelyn Waugh, dall’Ebreo errante). La santa imperatrice era certamente spinta, come osservò Gibbons, da un misto di fede e credulità. Ma fu senza alcun dubbio il primo grande imprenditore turistico della storia. A Elena si deve infatti l’invenzione del pellegrinaggio religioso organizzato (pochi secoli dopo sfruttata dai musulmani per spostare il flusso del pellegrinaggio turistico verso la Mecca). La croce e gli altri reperti furono subito esposti al pubblico e, anche per effetto di una sagace pubblicità, cominciarono ad attirare migliaia di pellegrini da tutto il mondo cristiano.

Il successo di Gerusalemme come principale polo turistico religioso – ma anche, purtroppo, la sua attuale sventura – cominciò così. Ne approfittò ben presto l’Ordine dei Templari, che organizzò l’agenzia viaggi monopolista del viaggio tutto compreso per il pellegrino europeo; ne approfittò Cook, nel XIX secolo, allorché avviò la sua attività di turismo d’élite a Gerusalemme. Una delle più astute trovate di Elena fu l’uso della reliquia per l’incremento del turismo: a ciascuno la sua reliquia fu la sua democratica visione commerciale. Così, la croce fu messa a disposizione per essere grattata, scavata, ridotta a pezzetti e smangiucchiata dai pellegrini che, baciandola, ne addentavano clandestinamente un pezzo per riportare a casa un souvenir. Ma durante la notte la croce ricresceva e ritornava intatta come quando era stata utilizzata. Un vero miracolo (e la fortuna di molti falegnami), detto della moltiplicazione della croce.

Testi utilizzati: OPTATUS, De schisma Donat., I, 16; ORIGENE, Exh. ad martyr., 50; GIOVANNI DI DAMASCO, De fide orthod., IV, 15; ALBERT HAUCK, Relics, in The Encyclopedia Britannica, vol.23, 13^ edizione, 1926; PIERGIORGIO ODIFREDDI, La sindone: un mistero per modo di dire, in “La Repubblica”, 25\11\2000 p.48; LUIGI GARLASCHELLI, Processo alla sindone, Avverbi 1998.

Il senso della guerra

I

Per molto tempo, le guerre hanno avuto un senso. Guerre contro i barbari, guerre di resistenza, guerre di religione, guerre di liberazione, guerre rivoluzionarie, guerre per costruire un mondo nuovo, guerre per difendere i vecchi valori. Poi, nel XX secolo, in tutte le guerre – dovunque fossero combattute, nelle Molucche, in Peru o nel Congo – il marxismo aveva permesso a ciascun combattente di credere che non si batteva e non moriva per niente: era parte, perfino senza saperlo o senza che gli altri lo sapessero, di un vasto disegno mondiale di liberazione. Tutto ciò è finito. Non c’è più il marxismo che dava un senso anche a qualcosa che non ne aveva alcuno, e cioè l’infinito dolore dell’uomo. È come una grande marea che si è improvvisamente ritirata, lasciando dietro di sé detriti, uomini e donne che continuano a combattere, magari più ferocemente di prima, ma senza poter invocare le promesse, i sogni, la coerenza di un tempo. Certo, ci sono ancora guerre fornite di senso. Secondo alcuni, è tale quella tra Israele e Palestinesi, dove le parti pensano che sia in gioco il destino del loro mondo. Ma sono sempre di più le guerre che hanno sciolto il legame con l’universale e dove ci si rende conto che, si vinca o si perda, nulla cambierà nelle sorti del pianeta.

Si muore, e all’orrore della morte si accompagna il fatto che si muore per niente, per arricchire qualche signore della guerra, qualche commerciante d’armi, qualche gioco di potere, qualche accumulatore di diamanti. Si muore nell’indifferenza globale. Dal fondo della notte, dall’Angola, dal Burundi, da Sri Lanka, dai Balcani, dalla Colombia emerge un mondo in cui grandi masse di persone sono trascinate in guerre e massacri senza scopo, senza presupposti ideologici, senza memoria, e per le quali è sempre più difficile distinguere la ragione dal torto, il vero dal falso. È il mondo del XXI secolo che si profila.

II

Non so esattamente quando la guerra è cominciata: è stato tanto tempo fa. Forse dei soldati governativi hanno rubato una pecora alle popolazioni Dinka. Forse i Dinka hanno sospettato che ciò fosse avvenuto. Naturalmente, qualsiasi cosa sia accaduta, era solo un pretesto. I padroni musulmani di Karthoum volevano impedire che i pastori neri del sud avessero gli stessi loro diritti. La gente del sud non sopportava che gli eredi degli schiavisti fossero i padroni del Sudan. Il Nord pretendeva di lottare per l’unità del paese. Il Sud, per l’indipendenza. Così cominciarono i massacri. Almeno un milione di vittime, a tutt’oggi.

Prima c’era uno spontaneo movimento di guerriglieri nel sud, Anya-Nya, poi, forse nel 1983, un colonnello Dinka, John Garang organizzò l’armata di liberazione del Sudan (SPLA), che ora controlla gran parte della regione. Così probabilmente cominciò la guerra. Nessuno si è occupato di scriverne la storia, di intervistarne gli attori. È una guerra che nasce e scompare giorno per giorno. Senza documenti, ordini scritti, mappe, giornali, lettere, diari. Non c’è carta. Non ci sono strade, scuole, ospedali, trasporti. Non c’è storia.

Il primo pezzo è da BERNARD-HENRY LEVY, Les damnés de la guerre, in “Le Monde” 30 maggio 2001; il secondo da RYSZARD KAPUSCINSKY, Death in Sudan, in New York Review of Books 26\4\2001 (il testo è del 1998).

Guerre, Peste e Tulipani

Gli anni trenta del XVII secolo furono un periodo di guerre, di conflitti religiosi, di fame in gran parte d’Europa. Anche in Olanda, travolta da una guerra contro la Spagna. Ma in Olanda, gli anni trenta furono soprattutto dominati dalla peste e dai tulipani. Nel solo biennio 1636/1637, morirono 25000 persone ad Amsterdam (il 20% della popolazione della città) e 18000 persone a Leida. Negli stessi anni, però, gli Olandesi trovarono il tempo di occuparsi di tulipani che, importati in Europa nel XVI secolo dalla Turchia, si rivelarono particolarmente adatti alla coltivazione nelle terre intorno ad Harleem. Verso il 1620 erano divenuti i fiori più amati dagli Europei; questo indusse dapprima i coltivatori olandesi a moltiplicare coltivazioni e varietà, poi tutti coloro che avevano un po’ di terra a lanciarsi in questa attività produttiva altamente remunerativa. A differenza di altri beni rari o ricercati, il cui commercio era monopolizzato dagli strati abbienti della popolazione, i tulipani offrivano democraticamente anche ai meno ricchi la possibilità di guadagnare qualcosa con poco sforzo: era sufficiente acquistare qualche bulbo, e lasciare che la natura lo trasformasse in magnifici fiori. Ben presto, mentre la peste e la guerra mietevano vittime ovunque, i bulbi di tulipano cominciano a scarseggiare e i fiori non soddisfano la richiesta; così, per la prima volta nella storia del capitalismo, sorge un mercato organizzato dei futures.

Si compravano, si vendevano e si impegnavano non solo i fiori, non solo i bulbi esistenti, ma i diritti sui bulbi futuri, quelli della stagione seguente e delle stagioni future. Ben presto, sia i tulipani che i bulbi erano divenuti oggetti privi di interesse. Ciò che importava ed era oggetto di scambio erano documenti, carte che conferivano la proprietà su bulbi futuri (e sui successivi tulipani): un mercato di fiori astratto, dematerializzato e virtuale che in poco tempo aveva spazzato via il mercato reale. Nel 1637, non erano più i prezzi dei bulbi, ma gli interessi sui prezzi pagati per bulbi futuri il vero oggetto di compravendita e di trasferimento: anche il metamercato dei futures era stato avviato. I prezzi dei tulipani aumentarono enormemente in tutta Europa. Ma, dopo un primo periodo di pazzie per il loro acquisto, gli acquirenti saggiamente rivolsero il loro interesse ad altri fiori, meno pregiati ma assai più a buon mercato. I tulipani cominciano ad appassire nei depositi olandesi, mentre la guerra si allontana e la peste diminuisce la sua violenza. Il disastro incombe sugli speculatori: si racconta che un commerciante avesse pagato per un solo bulbo pregiato da riprodurre 2500 fiorini. Il crollo si avvicina. Nell’aprile del 1637, la Corte Suprema olandese annulla tutti i trasferimenti di denaro connessi ai tulipani posti in essere dopo la semina del 1936.

Migliaia di famiglie furono gettate sul lastrico. I tulipani scomparvero per molto tempo dal mercato e dalle case europee.

Testi utilizzati: SIMON SCHAMA, The embarassment of Riches, University of California Press 1988; JONATHAN ISRAEL, The Dutch Republic: Its Rise, Greatness and Fall 1477 – 1806, Oxford University Press 1995; STEVEN NADLER, Spinoza: A Life, Cambridge University Press

Paesi Lontani

I

Queequeg era nativo di Kokòvoko,
un’isola assai lontana. Non è segnata su
nessuna mappa: i veri luoghi non lo sono
mai.

II

L’unico, quel
solo filo,
quel filo io tessi – dal filo
essendo interamente avvolto,
laggiù, nel lontano paese
nella libertà
nella repressione.
Grandi
Sono conficcati i fusi
Nel lontano paese che non c’è,
come alberi: è
Da sotto, una luce intessuta nel prato
D’aria, sul quale tu prepari la tavola,
per le sedie
Rimaste ormai vuote..

III

Così sto fermo, pietroso, di fronte
Al lontano paese
dove ti ho condotto
Dietro, incavato nella parete,
il gradino,
e sopra, rannicchiato, il ricordo.
Da lì
mormora, regalata dalla notte,
una voce.

IV

Dune bianche a forma di falce,
innumerevoli.
Sottovento, mille volte: tu.
Tu e il braccio
Con il quale nudo sono cresciuto
insieme a te
Ormai perduta.
Raggi bianchi. Ci ammucchiano
E noi portiamo il bagliore, il dolore e
il nome.
Bianco
è ciò che ci muove,
senza peso
è ciò che scambiamo.
Bianco e leggero.
Lascia che vada errando.
Paesi lontani, vicini alla luna, come
noi.
Costruiscono, costruiscono lo scoglio
Dove chi va errando si infrange,
e costruiscono
ancora:
con bianca schiuma di luce e onda
polverosa.
Tutto ciò che si è infranto sullo
scoglio,
dallo scoglio con un cenno richiama.
Dormi?
Dormi!

V

Non sono più in nessun posto.
Sono scomparsa in un paese che non
c’è.
Nessuno può trovarmi,
nessuno mi porterà indietro.

VI

Un mio antenato fu violinista,
fu domatore di cavalli,
e forse fu anche ladro.
Non sarà da lui che ho ereditato
la mia ansia di viaggiare verso paesi
lontani
Non sarà questa la ragione per cui i
miei capelli profumano di vento e di
mare?

Il primo pezzo è tratto da HERMAN MELVILLE, Moby Dick. Le tre poesie seguenti sono di PAUL CELAN, Gesammelte Werke in funf Banden, Suhrkampf, Francoforte 1983. Una edizione completa delle Poesie è stata pubblicata con testo a fronte da Mondadori (Meridiani) nel 1998. La prima poesia, Hawdalah, è tratta da Niemandsrose (1963), la seconda, Heute und Morgen, e la terza, Weiss und Leicht, da Sprachgitter (1959). Le ultime due poesie sono di MARINA CVETAEVA, oggi in Poesie scelte, Mosca 1998.

Il toro: due sonetti

I

Una mano fatta di nebbia e di paura
Arriva al tuo cuore, dolorosa e fredda,
E preme delicata, come farebbe
La brezza serena con la rosa.

La sua ombra, dolce e silenziosa,
Fa salire sui tuoi occhi un’onda di
tristezza,
E spegne il tuo coraggio sprezzante
Nella grigia arena, piena di rumore.

La pesante ferita della spada
Non ti lascia urlare una protesta,
E resta conficcata nel tuo corpo.

Tu vedi, lì vicino, quello che ti ha colpito
Lo guardi con lo sguardo che si vela,
Senza comprendere il perché.

II

Un tuono congelato è la tua testa
Incoronata da due luci spente
Due raggi silenziosi, assorbiti
Dalla morte che colma la tua fierezza.

Travolta cadde la tua potenza
Le tue ossa coraggiose, guardale, ormai
vinte
Guarda le onde del tuo sangue
trasformate
In un pianto immobile e inerte.

Già vedi la morte; un semplice suono,
Una mano tenace, febbrile, fredda,
Sopra il tuo cuore appassionato e vinto.

E guardala, come ha fatto confluire
Con crudeltà il tuo valore nell’oblio,
Inserendo dentro di te il nulla.

Da RAFAEL MORALES CASAS. I due sonetti, Agonìa del Toro e Toro muerto, sono tratti da Poemas del toro, Adonais, Madrid 1943.

Il trionfo del cavallo

C’erano oltre venti milioni di bisonti in un paese lontano, nelle praterie del Nordamerica verso il 1600. Non c’erano cavalli. I cavalli, importati nel Nuovo continente da Cortez nel 1519, cominciano a diffondersi nel Nordamerica solo a partire dal 1620. Solo verso il 1680 gli indiani imparano ad usare il cavallo per andare a caccia nelle grandi praterie. Inizia così la distruzione dei bisonti, vittime di una specie estranea al loro ambiente. La prateria è stata il trionfo del cavallo, il cavallo la rovina del bisonte. Quindi, è vero che gli europei hanno estinto i bisonti, ma non cacciandoli: semplicemente importando cavalli nel nuovo continente. Il cavallo trasforma in pochi anni la vita delle popolazioni del Nordamerica. Infatti gli indiani da centinaia di anni non erano più nomadi: erano coltivatori e sedentari. Con l’arrivo dei cavalli, molti indiani furono attratti dal movimento, dalla scoperta dei nuovi territori pianeggianti, dal fascino della vita nomade, e dalle possibilità che essa offriva in termini di sostentamento. Si mossero così verso il nord e cominciarono ad utilizzare il cavallo per percorrere le grandi praterie a caccia di bufali, fermandosi nei luoghi più propizi. La vita nomade è stata quindi non un punto di partenza, ma un punto di arrivo; non una costrizione, ma una scelta. Una scelta fortunata.

Mentre gli indiani rimasti sedentari e coltivatori muoiono in massa per le malattie contagiose contratte dai bianchi, che si diffondono agevolmente nei villaggi, gli indiani divenuti nomadi sfuggono a questa sorte: muovendosi a piccolissimi gruppi e mantenendo scarsi rapporti con i villaggi offrono maggiore resistenza alle epidemie. Tra il 1780 e il 1870, gli indiani coltivatori decrescono di circa l’80% soprattutto per le epidemie di vaiolo, mentre gli indiani divenuti nomadi sopravvivono per la maggior parte. Il cavallo, se è stato la rovina del bisonte, è stato la salvezza degli indiani.

Da ANDREW C.ISENBERG, The Destruction of the Bison: An Environmental History. 1750-1920, Cambridge University Press, 2000.

Figli Infedeli

I

Coro:
Piango per la madre vittima dei figli.
Distribuisce la giustizia Dio, quando giunge il momento.
Ma tu hai sofferto una morte orrenda.
Anche se tu pure avevi commesso delitti assai gravi.
Eccoli, i novelli assassini, del sangue della madre
Grondanti escono dalla soglia di casa.

Oreste:
Dio che tutto vedi e conosci
Guarda questo corpo sanguinante
Che giace al suolo:
io, io la ho uccisa
è stato il compenso per il mio soffrire.

Elettra:
Troppe lacrime, fratello.
Io, io sono l’unica colpevole.
Ho ucciso la madre
Che mi aveva generato.
Atroce destino, madre,
hai subito dai tuoi figli.
Ma giustamente paghi così i tuoi delitti.
Ecco, amata e odiata,
ti avvolgo con questo mantello,
è la fine delle sventure di questa famiglia.

II

Ho minacciato mio padre e mia
madre di bruciarli insieme con la loro casa.
Ma poi non lo ho fatto.

III

In una dolce penombra Jakob Apfelbock
Ammazzò il padre e la madre
E chiuse poi i corpi nel ripostiglio
E resto, tutto solo, nella casa.

Correvano le nuvole in cielo
E intorno alla casa soffiava mite il vento estivo;
in casa, lui se ne stava solo,
pochi giorni prima era ancora un
bambino.

Passavano i giorni e passavano le notti
Nulla era cambiato, salvo alcune cose
Seduto vicino ai genitori Jakob Apfelbock
Aspettava accada ciò che deve accadere.

La lattaia porta ancora il latte
Latte di prima qualità, dolce, grasso e fresco.
Jakob ne beve un po’, il resto lo butta
Perché Jakob Apfelbock non beve più molto latte.

Il giornalaio porta ancora il giornale
Con passo pesante verso sera
Lo getta rumorosamente nella cassetta
Ma tanto Jakob Apfelbock non lo legge.

E quando i cadaveri cominciarono a puzzare
Jakob si mise a piangere e stava male per l’odore,
ma poi, sempre piangendo, decise di trasferirsi
e da allora si mise a dormire sul
terrazzo.

Disse il giornalaio, che passava ogni giorno:
che cosa puzza così? Sento un puzzo di stantio.
Nella dolce penombra della sera, Jakob rispose:
è la biancheria sporca nel guardaroba

Disse la lattaia, che passava ogni giorno:
Che cosa puzza così? Sento un puzzo di morte.
Nella dolce penombra, Jakob rispose:
è il vitello che si frolla nella dispensa.

E quando poi andarono a guardare nel ripostiglio
Nella dolce penombra stava lì in piedi Jakob
E quando gli chiesero: ma perché lo hai fatto?
Rispose Jakob Apfelbock: Non lo so.

IV

Ho preso la falce, sono entrato in
casa, e ho compiuto l’orrendo crimine.
Li ho uccisi tutti: ho cominciato con
mia madre, poi ho proseguito con mia
sorella e con il mio fratellino più piccolo.
Poi ho rifatto il giro raddoppiando i colpi. A
un certo punto è entrata Maria, la
madrina di Nativel e mi disse, Ma che cosa
stai facendo, e io le risposi, Vattene
subito, se no o faccio fuori anche te.

V

Il giudice: E poi, dopo aver ucciso i
genitori, che cosa ha fatto?
L’imputato: Ho pulito per terra, ho
lavato il coltello, ho fatto la doccia e sono
andato con i miei amici in discoteca.

Il primo brano è tratto da Elettra di EURIPIDE. Il secondo brano è di ISAAC NEWTON, ed è tratto dall’elenco dei peccati commessi, contenuto nel Fitzwilliam Notebook (ora conservato a Oxford) compilato nel 1662 dallo stesso Newton diciannovenne. La poesia che segue è di BERTOLT BRECHT, in Hauspostille (pubblicato con testo a fronte in Poesie 1918-1933, Einaudi 1968. Spiega Brecht che questa poesia, come le altre contenute nella prima lezione, denominata Bittgange, si rivolge al sentimento del lettore; raccomanda di non leggere troppe pagine tutte di fila, e invita solo le persone in buona salute fisica a far uso di questa lezione, dedicata ai sentimenti. Jakob Apfelbock nacque a Monaco nel 1906 e uccise i genitori, con modalità simili a quelle descritte nella poesia, nel 1919.. Il quarto brano è da MICHEL FOUCAULT, Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère …. Un cas de parricide au XIXe siècle, Paris Gallimard, 1973. La traduzione italiana, di Pasquale Pasquino, è pubblicata da Einaudi. L’ultimo brano è tratto dalla deposizione di Maso al giudice istruttore, dopo l’assassinio dei genitori.

Il Tempo

Mio caro Lucilio:
Molti giorni ci vengono sottratti da occupazioni inutili, altri ci scappano di mano. Ma i giorni davvero perduti sono quelli che trascorrono senza che ce ne rendiamo conto. Una parte del nostro tempo trascorre poi senza fare nulla di buono o meritevole, ed un’altra parte nel fare cose diverse da quelle che dovremmo o potremmo. Fai tesoro di tutto il tempo che hai. Sarai meno schiavo del domani, se ti sarai reso padrone dell’oggi. Mentre rinviamo i nostri impegni, la vita passa. Se condurrai la vita con onestà non sarai mai povero; se invece seguirai il variare delle opinioni umane, non sarai mai ricco. Chi segue la sua strada ha sempre una meta da raggiungere, chi ha smarrito la retta via va errando all’infinito.

Da LUCIO ANNEO SENECA, Lettere A Lucilio.

Crediti

Questo diciannovesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 2001 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti, anche se spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli apparsi dal 1992 ad oggi possono essere letti nel sito internet www.nespor.com / www.testinfedeli.com, predisposto e curato da Claudia Winkler e Beniamino Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume, ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Pasquale Pasquino, Marina Nespor e Maria Inglisa.

N. 20 inverno 2001

Attualità
I

Il mondo sta correndo, e sta correndo verso
la sua fine.

II

Più dell’uomo nulla è temibile.
L’uomo supera i mari ventosi
ferisce ed affatica la Terra, suprema tra gli dei,
con i suoi strumenti,
Con scaltrezza insegue gli uccelli sereni,
Con la forza vince gli animali selvaggi,
con destrezza cattura i pesci guizzanti,
stringe nel giogo la criniera del cavallo
e piega l’infaticabile toro.
Si è dato la parola, l’uomo,
il pensiero che è come il vento,
si è dato il vivere civile.
Ma si è dato anche armi potenti
e, armato,
si volge crudelmente e ingegnosamente
ora al male ora al bene,
Ade soltanto l’uomo non riuscirà mai a sfuggire,

Il primo brano è dalle Prediche di Wulstan, Arcivescovo di York tra il 1002 e il 1004. Il secondo è tratto da Antigone di Sofocle (vv.421- 460).

Tre errori

Primo errore: pensare che il fondamentalismo islamico sia dalla parte degli oppressi perché è contro gli Stati Uniti e l’Occidente. Il fondamentalismo islamico è contro gli Stati Uniti e l’Occidente perché qui si aggirano quei principi fondamentali di cui tutti, ovunque nel mondo, vorrebbero usufruire: la liberta di espressione e di manifestazione delle proprie idee e del dissenso, la possibilità di autodeterminazione, e soprattutto la tolleranza. Sono principi che, in Europa e negli Stati Uniti, formano un patrimonio che è stato conquistato nei secoli con fatica e con lotte (anche se in molte occasioni sono stati e sono tuttora travolti, calpestati e ignorati). Il fondamentalismo islamico è contrario a tutti quei principi: non è quindi dalla parte degli oppressi, ma se mai di quelli che vogliono comprimere o limitare i loro diritti e le loro aspirazioni.

Secondo errore: pensare che gli Stati Uniti e l`Occidente difendono contro il fondamentalismo islamico la libertà e la tolleranza. Basti ricordare che al loro fianco marciano, come graditi e indispensabili alleati, paesi di di selvaggia repressione dei diritti di libertà, di espressione, di parità, come l’Arabia Saudita, il Kuwait, il Pakistan.

Terzo errore: pensare che l’islamismo (anche non fondamentalista) non si opponga alla tolleranza e alla libertà. L`islamismo è intollerante e illibertario, proprio come tutte le religioni monoteiste (comprese quelle fintamente tali, come la religione cattolica): tutte sono fondamentaliste non appena le circostanze e i tempi lo permettono, con le modalità e con i mezzi che sono consentiti dalle varie società in cui operano.

S.N.

Terrorismi

I

“All’improvviso, ho visto un missile contro il palazzo, tutto ha preso fiamme, ho visto gente che si buttava fuori dalle finestre e cadere, cadere; poi l’edificio è crollato. Sono morte centinaia di persone”.

II

Se morirò, è perché un bianco ha dato l’incarico a un nero, disse Lumumba.
Così accadde.
Gli esecutori dell’omicidio di Lumumba e di altri due membri del suo governo (eletto a seguito delle prime elezioni tenutesi nel Congo indipendente) furono alcuni militari agli ordini di Ciombé, su incarico del governo belga. Il governo belga naturalmente non ha agito da solo, ma con l’espresso appoggio dei governi di tutte le potenze occidentali e specificatamente di Stati Uniti, Francia e Inghilterra: tutti intendevano evitare che il Congo con le sue
risorse divenisse davvero indipendente. Per questo, lo hanno consegnato a Mobutu. Belgio, Stati Uniti, Francia e Inghilterra hanno organizzato e sponsorizzato l’assassinio di un innocente: un crimine per il quale nessuno ha mai pagato.

III

Tra le sue molte attività illegali:
a) ha sabotato i colloqui di pace per porre fine alla guerra in Viet-nam nel 1968, garantendo così agli Stati Uniti altri sette anni di
guerra, con migliaia di inutili morti; ha ordinato l’insensato bombardamento della Cambogia;
b) ha partecipato ad organizzare l’assassinio dell’Arcivescovo Makarios a Cipro;
c) ha avallato l’invasione di Timor Est da parte dell’amico indonesiano Sukarno;
d) ha attivamente organizzato il colpo di stato in Cile da parte del generale Pinochet, con le atrocità che sono seguite;
e) ha dato via libera all’assassinio dei generali cileni Letelier a Washington e Schneider in Cile.
Documenti e prove?
Si trovano negli atti del Governo degli Stati Uniti.
Ma chi è?
Il premio Nobel per la pace Henry Kissinger,
naturalmente.

IV

Chiunque, e qualsiasi governo, se dà appoggio a fuorilegge o assassini di innocenti, diventa fuorilegge e assassino.E prende questa strada a suo rischio e pericolo. Noi lo puniremo.

Il primo brano è tratto dalla testimonianza al quotidiano di Panama City La Prensa di Maria Virgen Castreras, una donna che ha assistito alla distruzione di un condominio residenziale nel centro di Panama City, colpito da una bomba nel dicembre del 1989 durante l’invasione degli Stati Uniti per catturare il presidente\delinquente Noriega, portato al potere dagli stessi Stati Uniti
in precedenza. Il secondo brano è tratto da LUDO DE WITTE, The assassination of Lumumba, Verso 2001. Il terzo brano è tratto da CHRISTOPHER HITCHENS, The Trial of Henry Kissinger, Verso 2001. Il quarto brano e tratto dalla dichiarazione in televisione del Presidente degli Stati Uniti George W. Bush il giorno dell’inizio del bombardamento dell’Afghanistan.

Tre poesie di Enzensberger

I

Ho appena chiamato la pietra pietra,
ed ecco che appare
sospettosa, spiritata,
un’altra, una seconda pietra,
molto più leggera,
facile da scambiare con la prima.
E come se fosse una sua ombra più chiara.
La raccolgo,
la getto lontano,
la riprendo, la getto ancora.
Mi appartiene. Mi obbedisce.
Non può ribellarsi.
Con la mia pietra
Faccio quel che mi pare.
Invece l’altra pietra, la prima,
è pesante,
non mi obbedisce come questa,
e all’improvviso
la vedo che arriva
non posso evitarla,
con forza alla testa mi colpisce.

II

Io diserto volentieri.
Che sia una premeditata strategia
O una piacevole abitudine,
non so dirlo.
Ma non è un effetto della vecchiaia.
Evitare molte sollecitazioni
Mi sembrava assolutamente opportuno
Già a quindici anni.
Allora mi dicevo:
un po’ di distacco non fa male.
Del resto la ritirata, secondo gli esperti,
è un’arte.
Altri la pensano diversamente,
vanno volentieri al fronte,
combattono coraggiosamente
battaglie vinte,
e battaglie perdute.
Non è facile dire che cosa è meglio.
Per ciò che mi riguarda,
preferisco sottrarmi
anche a me stesso.

III

Scegli con calma fra gli errori possibili
Che hai a disposizione.
Non fare
la cosa giusta
Nel momento sbagliato,
Ma non fare neppure
la cosa sbagliata nel momento giusto.
Devi sempre fare la cosa giusta
Nel momento giusto.
Attenzione,
Un passo falso
Non si riesce a rifare;
il giusto errore,
una volta fatto,
e il giusto momento,
una volta passato,
non torneranno facilmente.

Da HANS MAGNUS ENZENSBERGER, Leichter als Luft. Moralische Gedichte, Suhrkamp Verlag Francoforte 1999.

Piccole biografie: Edmund Halley

Edmund Halley era il figlio maggiore di un fabbricante di sapone londinese, proveniente da Derbyshire; nacque nella parrocchia di Shoreditch, in un posto chiamato Haggerston, proprio dietro Hogsdon. A nove anni qualcuno gli insegnò l’aritmetica e la geometria. Poi andò a scuola e si entusiasmò per l’astronomia. Divenne così esperto in globi celesti e planetari che Moxton, il famoso fabbricante di mappamondi, affermava che se in un globo c’era una stella fuori postoHalley se ne sarebbe accorto subito.
Andò poi a Oxford al Queen’s College e lì imparò il latino, il greco e l’ebraico. A diciannove anni risolse un utile problema astronomico: date tre distanze dal sole compresi gli angoli, trovare l’orbita. Calcolò anche l’orbita della cometa che poi prese il suo nome, osservandone il passaggio nel 1682: nel 1705 proclamò ufficialmente che essa avrebbe fatto ritorno nel 1758.
Allorché Isaac Newton pubblicò i Principia, esponendo la dimostrazione delle sue famose teorie sulla gravitazione universale, fu il primo nel 1687 a recensire l’opera (su Transactions, la rivista della Royal Society); l’anno dopo apparve la recensione di John Locke, a quel tempo ancora esule in Olanda).
Poi Halley partecipò a una spedizione scientifica e andò all’isola di Sant’Elena; lì rimase molti mesi per tracciare il globo celeste dell’emisfero meridionale, fino a quel momento assai approssimativo perché basato solo sulle osservazioni dei marinai.
L’accompagnarono nel viaggio una donna e suo marito che per tanti anni non avevano avuto figli. Prima di lasciare l’isola, la donna diede alla luce un bambino.Anche per questo, Flamsteed, il primo astronomo reale, disprezzava Halley, considerandolo un vanesio e libertino. Il disprezzo era però determinato da ragioni non solo etiche, ma anche professionali. Infatti allorché Halley fu nominato professore di geometria a Oxford, su raccomandazione di Newton (che aveva ottimi motivi per tenerselo buono), Flamsteed, che da tempo aspirava ad ottenere quello stesso posto, bollò Halley come un ignorante raccomandato. Nel 1712 Halley pubblicò una versione non autorizzata della Historia Coelestis elaborata da Flamsteed, ma da questi mantenuta segreta: quest’ultimo dichiarò che il suo lavoro era stato rovinato da un pigro e malizioso ladro. Nel 1722 Halley successe a Flamsteed come astronomo reale a Greenwich.

Da JOHN AUBREY, Vite brevi di uomini eminenti, Adelphi 1977; W.G.HISCOCK, Isaac Newton and Their Circle, Oxford Uni.Press 1937: FRANCIS BAILY, An Account of the Reverend John Flamsteed the First Astronomer Royal, London 1835.

Nulla dies sine linea. The Eustace Diamonds

Lord Fawn fece colazione con la madre e le annunciò la sua decisione di sposare Lady Eustace.
“Frederic, è davvero una grande decisione!” osservo la madre, versandogli una tazza di te.
“Davvero, mamma. Vorrei che tu la vedessi oggi o domani”
“Naturalmente”
“Magari puoi invitarla qui a casa”
“Devo invitare anche suo figlio?”
“Ma certo” disse Frederic, inghiottendo una cucchiaiata di uovo fritto.
“Devo invitare anche la governante?”
“No, lei no di certo. Non è lei che sposo”
“E quanto è il suo reddito, Frederic?”
“4000 sterline all’anno. Qualcosa di più, forse, ma 4000 sicure da spendere”.
“Ne sei certo, davvero?”
“Direi di sì”
“Ma sono 4000 sicure per sempre, o è un vitalizio?”
“Questo non lo so di preciso. Dovrò informarmi”.
“C’è una bella differenza, Frederic”.
“Certo. In ogni caso, lei è molto più giovane di me, sicché non dovrei avere problemi”.

ulla dies sine linea era il motto di Trollope. E infatti, scrivendo ogni giorno venti pagine, non una di più né una di meno, e sempre durante le ore di ufficio, Trollope ha inondato l’Inghilterra di romanzi a puntate, traendo grande fama e lauti guadagni. Trollope vive e scrive nello stesso periodo di Dickens e di Thackeray. Ha davanti la stessa realtà. Eppure, la differenza è enorme. In Trollope non c’è la partecipazione che Dickens ha per i suoi personaggi, non c`è lo sdegno per le ingiustizie; non c`è lo zuccheroso conflitto tra le classi che caratterizza la maggior parte dei romanzi di Dickens. Non c`è neppure il raffinato e cinico distacco di Thackeray nell`esaminare i personaggi che cala nei suoi romanzi. C’è solo la minuta osservazione della melmosa ricca amorale borghesia vittoriana. Quella di Trollope è una soap opera scritta nell’Ottocento, ma pronta per la televisione. Trollope, poi, non ama i suoi personaggi (Thackeray invece vuole bene alle sue creature, anche quelle più detestabili come Barry Lindon). Gli capitano, e lui, doverosamente, li descrive. In effetti, quasi tutti i personaggi di Trollope hanno qualcosa di spregevole: tutti voterebbero oggi in Italia per Berlusconi, ma solo per ottenere qualche favore, per servilismo, o per ammirazione del potere. The Eustace Diamonds è un romanzo della tarda maturità di Trollope. È una illustrazione scrupolosa di una società divenuta già a quel tempo mitica, la società vittoriana: quella società che il mondo ammira per le sue istituzioni, la sua democrazia, la sua tolleranza, ma della quale Trollope percepisce e descrive il vuoto morale e il precario e ingannevole equilibrio. Il centro focale della sua analisi non è più, come nella precedente serie di sei romanzi dedicata alla immaginaria contea di Barsetshire (Chronicles of Barset) e alla analisi della vita provinciale, dei comportamenti e dei rapporti sociali dei piccoli e grandi proprietari e del clero anglicano. È la ricca, amorale, ignorante, superba società londinese, basata sul matrimonio e sull’ansiosa ricerca del denaro e della rendita. In questa società le persone che contano non si sposano per amore; anzi, sposarsi per amore è una cosa che riguarda il popolo, di cattivo gusto; ci si sposa per denaro o per acquisire una posizione sociale. Naturalmente, come osserva la madre di Frederic,”Se un uomo si sposa per denaro, poi deve almeno trovare il denaro”. Anche il lavoro è qualcosa che riguarda le classi inferiori: non si acquisisce una posizione sociale lavorando, ma sposandosi. In questa società non ci sono sentimenti, passioni; non ci devono essere perché non sono previste dalle buone maniere, dalla convenienza dalle regole sociali. La regola è che bisogna sempre distinguere ciò che si dice, ciò che si deve dire, e ciò che si pensa. Per lo più, bisogna dire ciò che gli altri si aspettano che si dica, in quella occasione. La parola chiave del libro è verità: compare diecine e diecine di volte: ciò che è vero è sempre contrapposto a ciò che appare e a ciò che, secondo le convenzioni, deve apparire. Lady Eustace è l’unico personaggio che si comporta in modo naturalmente trasgressivo, che difende con ogni trucco quelli che ritiene i suoi diritti senza curarsi delle convenzioni e di ciò che gli altri pensano, è l’unico personaggio che litiga, che si approfitta, che vuole vincere ma è disposta a perdere e non si fa condizionare o ricattare dalle convenzioni. È un personaggio vittorianamente e perfidamente sessantottesco, antipatico, vendicativo e spregevole; ma pensate che cosa sono gli altri.

Da LIONEL ZANGARO, Trollope. An Essay, Whitman, London 1996.

Due poesie di Idea Vilarino

I

Questo povero mondo
Sta per andare in frantumi
Scoppierà come una bolla di sapone
O forse esploderà con un grande boato
O, più delicatamente,
scomparirà come se una spugna umida
lo avesse cancellato.
Ma può anche essere che la fine non sia
Così improvvisa;
può essere che questo povero mondo
resti lì al suo posto
continuando a ruotare, sterile e senza vita,
ricoperto da avanzi e rifiuti,
oppure, in modo ancor meno dignitoso,
si metta a vagare maleodorante per i cieli
imputridendo pian piano.

II

Ormai no.
Non vivremo insieme,
non ti sveglierò al mattino,
non saprai mai chi sono stata
ne quanti mi amarono.
Ed io, non saprò neppure dove vivi,
con chi,
e se ricordi.
Non ti abbraccerò,
non ti toccherò più
come questa notte.
Non ti vedrò morire.

Da IDEA VILARINO, Poesìas escogidas,Montevideo 1969.

L’osservatore

Faccio l’Osservatore. E’ il mio lavoro da molti anni. Ho lavorato in Cambogia, El Salvador, Nicaragua, Guatemala, Etiopia, Algeria, Sierra Leone, Liberia, Sud Africa, Bulgaria, Romania, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Iran, Iraq, Indonesia, Colombia, Yemen, Albania. Il mio non è un lavoro diffuso, anche se è in rapida crescita. Oggi noi Osservatori siamo otto o novemila in tutto il mondo: quando ho cominciato, quasi venti anni fa, eravamo non più di ottanta o novanta. Ho fatto l’Osservatore di Diritti Umani per la maggior parte delle organizzazioni internazionali ufficiali e non ufficiali: l’OSCE, il Consiglio d’Europa, l’ODIHR, l’ONU e il UNDP, la FAO, l’Unione europea, Amnesty International. Secondo alcuni, l’Osservatore è il prodotto dell’esplosione democratica della fine degli anni Ottanta. Non so dire oggi perché ho scelto di fare l’Osservatore, è una domanda che mi sono fatto molte volte senza riuscire a dare una risposta convincente. Ho cominciato con incarichi assai brevi, tre, quattro, cinque giorni al massimo, non riesco neppure a rendermi conto di come potessi svolgere correttamente il mio compito in così poco tempo. Poi, ci si è resi conto che, per fare bene il proprio lavoro, l’Osservatore deve stare più a lungo, quattro, cinque mesi, dipende dal paese, dalla situazione politica locale. E’ solo da pochi anni che gli Osservatori sono assegnati ad un incarico per uno o due anni. Il mondo ha un immenso bisogno di Osservatori. Un mio caro amico, Oliver Strudmayer, un Osservatore austriaco morto molti anni fa calpestando in Mozambico una mina antiuomo, era solito dire che il mondo sarebbe funzionato meglio se la nostra professione avesse avuto lo spazio e il ruolo che meritava, se ci fosse stato, in ciascun paese, almeno un Osservatore stabile ogni dieci abitanti. In ciascun paese, diceva Oliver, perché nessun paese rispetta i diritti umani, neppure i paesi che pensano di essere più civili e di poter esportare civiltà verso i paesi arretrati. Osservare è il mio lavoro. E’ un lavoro tranquillo, diceva il mio amico boliviano Carlos: non si deve fare praticamente niente. Fu fucilato in Iraq, nei giorni che precedettero le prime elezioni dopo la caduta di Saddam. Era boliviano, e – salvo la Bolivia – nessuno protestò. Il governo provvisorio aveva sostenuto che era una spia al servizio degli Stati Uniti e di Bin Laden. Non era vero. Carlos faceva solo il suo lavoro.

Da LEON OCTAVIO NEGROPONTE, Diario, Parigi 1998.

Il Diritto alla memoria

Mirabeau è il primo personaggio ad entrare nel Pantheon francese: lo inaugura trionfalmente nell’aprile del 1791 come eroe della rivoluzione. È il primo a entrare, ma è anche il primo ad uscire, il 21 settembre 1794, allorché emersero le prove che in realtà era un agente del re, e quindi un controrivoluzionario. Avrebbe potuto stabilire un record, essendo stato a un passo dal rientro su decisione del Direttorio nel 1797; nel frattempo però le sue spoglie erano scomparse, e non se ne fece niente. Non è l’unica scomparsa collegata al Pantheon. Anche Nicolas Joseph Beaurepaire, l’eroe di Verdun nel 1792, e Auguste-Marie- Henry Picot Dampierre, l’eroe di Valmy, pur risultando seppelliti con tutti gli onori all’interno del Pantheon, non sono stati più ritrovati. Nello stesso giorno dell’uscita di Mirabeau fa il suo ingresso Jean-Paul Marat (anticipando di poche settimane Jean Jacques Rousseau). Ma anche Marat ne esce meno di un anno dopo. Viene ricollocato lì vicino, nella chiesa di St Etienne du Mont, dalla quale erano stati in precedenza rimossi, bruciati e gettati nella Senna la maggior parte dei resti di Santa Geneviève, destinati originariamente proprio al Pantheon (costruito da Jacques Germain Soufflot su incarico di Luigi XVI come chiesa da dedicare alla santa). In effetti, pochi decenni dopo alcuni resti di St Geneviève furono traslati con grande pompa nel Pantheon, su disposizione di Napoleone III. Ma anche per lei il soggiorno fu di breve durata. Fu infatti nuovamente portata a St Etienne du Mont, dove ora riposa insieme a Marat e a Pascal, formando un improbabile e curioso terzetto.

II

L’idea del Pantheon è nel segno della continuità. Ciò che cambia è il criterio di selezione. Un tempo, illustri e degni di ricordo erano i nobili: “Sono morti Edoardo duca di York, il conte di Suffolk, sir Michael Kikely. Nessun altro di importante” riferiscono a Enrico V che si informa dell’esito della sanguinosa battaglia di Azincourt, (in Shakespeare, Enrico V, atto IV). Nel XIX secolo illustri e degni di ricordo divengono i meritevoli (finché sono considerati tali). Tutto cambia, all’improvviso, allorché nelle piazze di ogni singolo paese europeo compaiono lapidi e monumenti ove sono iscritti tutti i nomi dei caduti nelle battaglie della prima guerra mondiale (cui saranno aggiunti quelli della seconda). Tutti, indipendentemente dal merito. Purché militari. Il diritto alla memoria diviene più democratico, ma resta selettivo: restano escluse dal diritto al ricordo pubblico le vittime civili delle varie forme di stupidità bellica del XX secolo.

Il primo brano è tratto da AVNER BEN AMOS, Funerals, Politics and Memory in Modern France, 1789-1966, Oxford 2000; il secondo è di MARIANNE DIESKAUER, messaggio e-mail a Stefano Nespor.

Riflessione conclusiva

Le mucche non sanno che farsene della
coda, fino a che il macellaio non la taglia.

Proverbio nigeriano.

Crediti

Questo ventesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2001 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti, anche se spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli dal 1992 ad oggi possono essere letti nel sito www.nespor.com, predisposto e curato da Claudia Winkler e Beniamino Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Marina Nespor e Marianne Dieskauer.

N. 21 estate 2002

La morte di Visnu

Per evitare di disturbare Visnu nel caso che non fosse ancora morto, la signora Asrani discese in punta di piedi le scale fino al terzo scalino sopra il pianerottolo dove Visnu viveva, tenendo in mano la piccola teiera.
Visnu giaceva sul pavimento, il corpo sagomato sulla curva delle scale. I lacci di un paio di scarpe erano arrotolati intorno alle dita di una mano. L’altra mano era distesa, come per cercare di trascinare il corpo sul gradino appena sopra.
Durante la notte, osservò la signora Asrani con disgusto, Visnu aveva vomitato. Ma cercò di non guardare alla larga macchia che si era espansa intorno al suo corpo. Che disastro, pensò, l’uomo delle pulizie avrebbe dovuto essere chiamato per pulire tutto e certamente avrebbe voluto essere pagato in più rispetto al mensile che gli veniva versato, e qualcuno degli abitanti della casa avrebbe dovuto farlo.
Ma lei, adesso, che doveva fare della tazza di te che portava a Visnu ogni mattina?
Da un lato, era evidente che il poveretto non ne aveva bisogno: stava proprio morendo. Ieri si era appena mosso quando lei gli aveva riempito la tazza di plastica, e lei si era anche un po’ offesa per non essere stata salutata come al solito.
D’altro lato, l’offerta di una tazza di te a un uomo che muore era certamente una buona azione. E, poiché aveva assunto il compito di dargli una tazza di te tutte le mattine, sarebbe stato stupido smettere proprio ora, che il suo compito stava per finire e sarebbero state necessarie ancora pochissime tazze. Che conseguenze il destino le avrebbe riservato, se tradiva così proprio all’ultimo il proprio compito quotidiano?
Premendo l’angolo del sari contro il naso per non sentire la puzza di vomito, la signora Asrani si decise così a scendere verso il pianerottolo. Usando il pezzetto di giornale che aveva portato con sé come ogni mattina, tirò fuori la tazza di plastica dal mucchietto di oggetti che appartenevano a Visnu avendo cura di tenere la carta tra le dita e la tazza. Sistemò così la tazza sul gradino vicino a lei e versò il te dalla teiera. Si fermò un attimo, quando la tazza era mezzo piena, perché le spiaceva l’idea di sprecare del buon te, con quello che costava ormai, poi con un sospiro riprese a riempirla.
Poi risalì le scale e guardò.
La tazza era piena e fumante dove la aveva lasciata, e Visnu sembrava muovere la mano per raggiungerla, come un uomo nel deserto che cerca di raggiungere l’acqua che potrebbe salvarlo.
Pensò di scendere e di avvicinargli la tazza ma ormai il pezzo di carta era rimasto sul pianerottolo e lei non sapeva quale superficie avesse toccato la tazza e quale la sua mano, sicché non poteva più raccoglierlo. Non c’era più nulla da fare, così si voltò e continuò a salire verso la sua abitazione, mentre la mano di Visnu lentamente e inutilmente cercava di raggiungere la tazza di te.

Da MANIL SURI, The Death of Visnu, Bloomsbury 2001.
L’episodio si svolge sul pianerottolo di un povero ma dignitoso condominio a tre piani in un quartiere popolare di Bombay.

Parlano Dschelal-Eddin Rumi, Suleika e un mendicante

Dice Dschelal-eddin Rumi:
Ti fermi, e il mondo ti sfugge come un sogno
Viaggi, e il destino sceglie per te il luogo;
Né il caldo né il freddo,
Né il piacere né la bellezza potrai fermare,
ciò che ti sembra fiorire, subito sfiorisce.

Dice Suleika:
Lo specchio mi dice, sono bella.
Voi mi dite, il mio destino è invecchiare.
Ma davanti a Dio ognuno resta eterno.
Per ciascun istante di bellezza
In me dovete amare l’eternità.

Dice il mendicante:
Pensi davvero che ci penserei due volte
Dolce Suleika,
a donarti Buchara e Samarkanda?
Ma se una donna chiede al re,
donami Buchara e Samarkanda,
Lui, così ricco e potente
non dirà mai di sì
Per farlo, bisogna amare una donna come te
Ed essere un mendicante come me.

Dice Suleika:
Ho pensato – oppure ho sognato –
Di vedere di notte la luna;
mi sono svegliata
sorgeva indesiderato il sole.

Dice Dschelal-eddin Rumi:
Ogni vita si può decidere di vivere
Se non si smarrisce sé stessi.
Tutto si può smarrire di sé stessi,
Se si rimane ciò che si è.

Dice il mendicante:
Sulla polvere, un’ombra nera
Appare compagna dell’amata.
Mi sono trasformato in polvere.
L’ombra, a un certo punto, mi ha lasciato.

Da JOHANN WOLFGANG GOETHE, West-oestliche Divan, 1819.
L’ultima poesia è nei manoscritti, ma non è stata inclusa nell’opera data alla stampa.

Reincantamento tecnologico

Laura Zink – sposata, tre figli, lavora in un’agenzia turistica con il marito, vive a Bennington Vermont – vede nel 1994 per la prima volta l’Occhio onnisciente di Dio.
Da allora sente tutti i giorni la voce della Madonna. Nel dicembre del 1996 Gesù le ordina di iniziare la sua missione, consistente nel costituire un sito web su Internet, e lì inserire tutti i messaggi che avrebbe ricevuto.
Così Laura ha fatto. Il sito si chiama Messages from the High, l’indirizzo web è http://mfoh.com, e si possono leggere, in ordine cronologico, tutti i messaggi che quotidianamente la Madonna ha inviato a Laura Zink dal 17 dicembre 1997 a quello del giorno prima.

*

Joseph Reinholtz è un pensionato delle ferrovie, vive a Chicago Illinois. Semicieco da molti anni, dopo una visita a Medjugorje nel 1987 riacquista la vista.
E subito, tornato a casa, vede la statuetta della Madonna collocata nel suo salotto che sta piangendo. Poi, il 15 agosto 1990 la Madonna gli appare per la prima volta; riappare nel novembre, questa volta accompagnata da San Michele Arcangelo.
Da allora, Reinholtz vede la Madonna tutti i giorni, sola o con altri Santi, salvo il venerdì.
Un giorno la porta in giro in auto per Chicago, accompagnata da due angeli.

*

Sono due casi di visionarismo cattolico come tanti altri: ogni anno, alcune centinaia di persone, secondo stime assai prudenti, cominciano a vedere o a sentire la Madonna.
Questi due casi, come la maggior parte degli altri, hanno una caratteristica in comune: accadono negli Stati Uniti. Quasi tutti, poi, si concentrano nei paesi ricchi del globo (Stati Uniti, Europa, Australia e Canada).
La Madonna frequenta sempre meno il Terzo Mondo.
Alcuni ritengono che dipenda dal fatto che nei paesi ricchi la gente crede sempre meno, e quindi c’è più bisogno dell’intervento della Madonna e di visioni.
Certamente, dipende dal fatto che solo nei paesi ricchi è agevole l’accesso ai mezzi tecnologici – televisione, fax, cellulari, meccanismi di riproduzione digitale e soprattutto Internet – che hanno permesso la trasformazione del visionarismo cattolico da un fenomeno episodico e d’elite (Lourdes, Fatima) con funzione esemplare per i fedeli, strettamente controllato dalle gerarchie ecclesiastiche, in un fenomeno che è – da Medjugorje in poi – partecipativo, democratico e di massa, e quindi anche sempre più spontaneo e sottratto a controlli centralizzati.
Nel contempo le apparizioni si sono delocalizzate e diffuse e polverizzate sul territorio, concentrandosi soprattutto nelle periferie dei centri urbani.

Non più pochi centri isolati che divengono poli ufficiali di culto, ma la modesta stanza delle pareti domestiche (ove non manca mai la statuetta della Madonna lacrimante) dove è collocato il PC.
E proprio questo strumento ha trasformato alle radici il visionarismo, ponendosi come la porta sul mondo globale e sull’Aldilà e, nel contempo, come il punto di contatto con una rete di veggenti interattiva in continua attività, ciascuno con le sue esperienze visive, vocali, percettive.
Il PC sta ormai affiancando al viaggio reale verso il luogo sacro di pellegrinaggio (il santuario) il viaggio virtuale, e la riproduzione all’infinito dell’apparizione.
È lontano il tempo in cui la Madonna appare a una contadinella o a tre bambini per raccontare i suoi segreti: oggi, ben più democraticamente, appare e colloquia incessantemente con migliaia e migliaia di persone (purché dotate di PC e residenti in un paese ricco).
Proprio per questa sua disponibilità, la Madonna polarizza le visioni della maggior parte dei veggenti. Pochi sono quelli che vedono Gesù, pochissimi sono direttamente in contatto con Dio, solo alcuni intessono un complesso colloquio con tutta la Trinità; d’altro canto, il clamoroso successo di Padre Pio ha fatto sì che siano in continuo aumento i veggenti dotati di stimmate doloranti.

Naturalmente, i veggenti non sprovveduti sono dotati di un proprio sito Internet, ove raccontano le loro esperienze visionarie e raccolgono adesioni e seguaci. Ci sono poi centinaia e centinaia di altri siti web che offrono la possibilità di incontri tra veggenti o aspiranti tali: lì dialogano visionari sporadici o dilettanti.
L’effetto che si sta producendo è quello di un progressivo reincantamento globale della realtà.
Una volta, nei villaggi medioevali, la presenza di streghe, fate e folletti era componente essenziale di un patrimonio culturale comune.
Oggi, paradossalmente, Internet e le moderne tecnologie hanno permesso di reincantare un mondo ormai da tempo secolarizzato, ridotto a pura materia e privo di poesia: tutti, con poca spesa, possono essere costantemente in contatto con il soprannaturale, registrarne le voci e fotografarne le immagini (ovviamente, con tecniche digitali) e rendere partecipi gli altri delle proprie visioni.
La cultura del visionarismo si espande.

Da: PAOLO APOLITO, Internet e la Madonna: sul visionarismo religioso in Rete, Feltrinelli 2002. Per dati analitici sulle visioni ufficiali della Madonna si veda Index of Apparitions of the Blessed Virgin Mary in http://members.aol.com/UticaCW/Mar-vis.html

Quattro poesie di Vincenzo Cardarelli

Amicizia

Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
perduti nel tempo, alla incresciosa
nostra intimità.
Ci siamo sempre lasciati
Senza salutarci.
Ci siamo rispettati al passo,
bestie caute,
cacciatori affinati
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto,
di non ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato.

Passato

I ricordi, queste ombre troppo lunghe

Del nostro breve corpo,
questo strascico che lasciamo vivendo,
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Ora sì posso dire
Che m’appartieni,
e qualche cosa fra noi è accaduto.
Tutto finì, così rapido.
Precipitoso e lieve
Il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
Ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
Brucia la vita e fa volare il tempo.

Gabbiani

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
Com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.

E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

Alla deriva

La vita io l’ho castigata vivendola.
Fin dove il cuore mi resse,
arditamente mi spinsi.
Ora la mia giornata non è più
Che uno sterile avvicendarsi
Di rovinose abitudini
E vorrei evadere dal nero cerchio.
Quando all’alba mi riduco,
un estro mi piglia, una smania
di non dormire,
e sogno partenze assurde,
liberazioni impossibili.
Tutto il mio chiuso
E cocente rimorso
Altro sfogo non ha
Fuor che il sonno, se viene.
Invano, invano lotto
Per possedere i giorni
Che mi travolgono rumorosi.
Io annego nel tempo.

Da VINCENZO CARDARELLI, Poesie, Mondadori 2001.

Il prefetto Tarangolian

Il signor Tarangolian, il prefetto di Cernopol, veniva ogni tanto a trovare i nostri genitori.
D’estate arrivava su una carrozza tra le cui ruote posteriori sgambettavano due cani dalmati dal pelo macchiettato.
Era un uomo di media statura ma corpulento e imponente: quando scendeva appoggiandosi alle spalle del gendarme che lo accompagnava ovunque, le molle della carrozza si piegavano in maniera preoccupante per poi risollevarsi con un guizzo appena il piede del prefetto, calzato in una scarpa nera e lucida come la vernice del veicolo, aveva lasciato il predellino.
Il signor Tarangolian si tingeva i baffi, sempre perfettamente incerati e appuntiti alle estremità, e i folti sopraccigli per farli sembrare neri come il carbone; poiché il nero contrastava con il grigio dei capelli tagliati a spazzola, baffi e sopraccigli sembravano incollati sulla faccia e gli davano l’aria irreale di un mago da salotto. I sopraccigli poi erano indipendenti l’una dall’altro, e si agitavano sulla fronte come due grossi bruchi neri, per rendere più eloquente la mimica del loro padrone. I denti, perfettamente regolari e bianchi come perle, avevano tutta l’aria di essere falsi e noi aspettavamo sempre con impazienza che la dentiera riprendesse la propria libertà e si chiudesse di scatto, voracemente, durante uno dei baciamani che egli distribuiva a destra e a sinistra con generosità.

Gli aspetti più pericolosi della sua personalità non venivano però alla luce durante l’estate. Nel periodo estivo l’abito di seta greggia color crema e la larga cintura di pelle intrecciata gli conferivano l’aria di un tranquillo signore di campagna in vacanza: facevano pensare a passeggiate sulla sponda dell’Adriatico e a sieste sulla terrazza di un albergo all’ombra di agavi polverose.
D’inverno invece il signor Tarangolian appariva come un colosso che sprigionava intorno a sé una potenza primitiva e minacciosa. Solo allora si notava il taglio aspro del viso, con gli zigomi vigorosi che parevano partire direttamente dall’enorme bavero della sua pelliccia d’orso e ardevano nell’aria fredda come un samovar accesso.
Il ventre sporgente, che la cintura estiva aveva arginato con tutti i riguardi, aveva una gran voglia di far saltare in aria il pesante cappotto e lo tendeva come una grossa cotenna irta di setole. Di sotto a questa armatura affioravano la camicia bianca, il colletto rigido, i polsini inamidati, le scarpe lucidissime protette da ghette di feltro chiaro.
Portava con la pelliccia un berretto rotondo diviso a spicchi come un melone e munito di due paraorecchi sempre sollevati a metà e sporgenti come un paio d’ali. Era un incrocio architettonico tra una cupola e una pagoda e faceva pensare ai palazzi di Samarcanda e ai mongoli imbacuccati nelle loro giacche felpate che avanzavano curvi sotto i venti gelidi, spingendo avanti a sé yak e cammelli carichi di té.

Solo che al posto dei loro volti glabri, vecchi come i cumuli del Tibet, spuntavano i baffi marziali e i diabolici sopraccigli del prefetto, che ci venivano incontro inesorabili e terribili.
D’inverno il signor Tarangolian arrivava in slitta.
Sulla cassetta troneggiava il cocchiere, massiccio e irsuto come un mammut, accanto al quale sedeva il gendarme, livido di freddo nel suo leggero cappotto d’ordinanza. In seguito, quando sentivamo parlare delle sofferenze della armata di Napoleone inghiottita dal ghiaccio della steppa ci ritornava sempre davanti agli occhi il povero gendarme.
Il prefetto era invece sepolto sotto una montagna di pellicce, manicotti e coperte. Appena la slitta si fermava, il gendarme cominciava a toglierli con uno zelo che le dita intirizzite dal freddo rendevano vano; allora, se non riusciva a procedere con la necessaria sveltezza, si accaniva nella sua opera come uno scorticatore sulla spoglia di un orso abbattuto.
Il signor Tarangolian, appena liberato, si ergeva con un gemito di piacere, e posava la mano inanellata sulla spalla del gendarme per aiutarsi a scendere, scaricando così tutta la sua mole sul poveruomo e conficcandolo profondamente nella neve.
Noi assistevano alla scena dalla finestra della stanza, tutta ricoperta di arabeschi di ghiaccio tra i quali avevamo aperto con il fiato delle minuscole feritoie per poter spiare quel che accadeva fuori.

Così, la scena sembrava svolgersi in mezzo a uno scintillante bosco incantato, simile al groviglio dei tralci che decorano le pagine miniate, e sembrava uscire dalla realtà per assumere l’acutezza e la profondità di una parabola.

Da GREGOR VON REZZORI, Ein Hermelin in Tschernopol, Hamburg: Rowohlt, 1958, è tradotto in italiano da Gilberto Forti ed edito nel 1989 da Edizioni Studio Tesi.

Festa del perdono

Che io non sia più viva
quando i figli
di chi vi ha preso il padre,
forse sinceri,
forse spaventati
o soltanto abili
a fiutare il vento,
dagli scranni rossi di velluto
di chiese, tribunali e parlamento,
s’alzeranno
compunti
contriti
compresi
della solennità dell’ora
e con volto severo, telegenico, solleveranno occhi umidi al cielo
e piegando il ginocchio
davanti a voi, figli miei,
chiederanno perdono
per ciò che i loro padri hanno fatto al vostro.
Cerimonia sentita
preparata con cura,
talk show e tavole rotonde,
sondaggi, analisi
nobili appelli, accorate preghiere.

E per non guastar la festa
dite che sì,
perdonate, perdonate, perdonate
perché il passato è passato
e oggi siamo diversi
mai più simili orrori
l’odio non paga
si deve guardare avanti
e marciare uniti verso qualcosa.
Un abbraccio,
un altro ancora,
finché l’ultimo cameraman
non ha spento
l’ultima lampada.
E poi via, ognuno al suo posto
perché la vita continua
e la morte no.
Che io non sia più viva
nel giorno del perdono senza giustizia
quando,
nella folla intenta a girar pagina,
nel vostro viso vedrò,
figli miei,
l’amore mio d’un tempo.

FULVIO SCAPARRO

Capitalismo vittoriano: Mr Hancock e Mr Rothschild

I

“Tremo al solo pensiero del mio crimine, ma sarebbe assurdo esibire rimorso dopo che per anni ho continuato a comportarmi in un modo così detestabile.
Il mio suicidio è ora assolutamente necessario, e la mia colpa me lo impone: infatti non posso sopportare l’idea di incontrarvi dopo che per anni vi ho derubato, e no voglio affrontare l’inevitabile pubblico scandalo. Prima che voi riceviate questa lettera, le mie mani saranno divenute immobili, e certo sarebbe stato meglio se fossi morto molti anni orsono”.
Così scriveva nei giorni di Natale del 1798 William Hancock ai suoi datori di lavoro, Smith, Payne & Smith, una banca londinese di Lombard Street, poco prima che venisse predisposto il tradizionale inventario generale annuale.
Hancock, figlio di un negoziante del Berkshire, entrò nella banca come semplice impiegato nel 1773. Divenne in pochi anni funzionario capo. Viveva da solo in un modesto appartamente vicino alla banca, non aveva amici. Non si sposò mai. Conduceva una vita regolare e morigeratissima, scandita dagli orari dell’ufficio e dai riti della Chiesa Anglicana di cui era un devoto seguace.

Dal 1780, procedendo con alacrità e tenacia, cominciò a sottrare – o meglio, come scrissero poi i giornali, a defalcare – piccolissime somme di denaro sulle operazioni commerciali che seguiva per conto dei suoi fiduciosi datori di lavoro.
In pochi anni, riuscì a sottrarre una enorme quantità di denaro, mettendo a punto un particolare illecito bancario, basato sulla perseveranza, la competenza, il sangue freddo e sulla capacità di riscuotere fiducia da parte dei superiori che da allora in poi ha avuto una consistente diffusione.
Hancock però non si uccise in quel dicembre del 1798, non inviò la lettera, e nessuno si accorse degli ammanchi durante il consueto inventario annuale.
Così, egli continuò nella sua brillante carriera bancaria, e continuò anche a defalcare centesimo su centesimo, accumulando profitti.
Continuò anche a scrivere, ogni anno, in occasione delle feste di Natale e degli inventari, lettere analoghe a quella che ho ritrascritto, e a riporle, passato il pericolo, nel cassetto della scrivania del suo ufficio.
Nel 1805 decise di scegliere una soluzione meno definitiva e drammatica per porre fine alla propria attività: presentò una lettera di dimissioni. Ma i dirigenti della banca non ne vollero sapere di privarsi del funzionario più solerte della loro organizzazione: gli diedero un cospicuo aumento e lo costrinsero a restare.

Finalmente, nel gennaio del 1807, un martedì, superato ancora una volta l’abituale pericolo dell’inventario annuale Hancock non si presentò al lavoro, prese un treno per Brighton, inviò una delle sue consuete lettere alla banca, invitando i dirigenti a raccogliere tutto il loro sangue freddo prima di aprire il cassetto della sua scrivania. Poi si uccise.
Nel corso di quasi venti anni Hancock – soprannominato Defalcator – aveva sottratto oltre 4 milioni di sterline (in valore attuale).
Nessuno ritrovò mai il denaro.
Le inchieste che seguirono non riuscirono neppure ad appurare come Hancock avesse potuto utilizzarlo.

II

Messaggio della Segreteria della Regina Vittoria alla Segreteria del Primo Ministro Gladstone.
“La Regina è davvero dolente, ma non può davvero accogliere la richiesta di concedere un titolo di nobiltà al signor Lionel Rothschild, come richiestole dal primo ministro Gladstone.
Ciò dipende non solo dal fatto che le riesce impossibile ipotizzare che una persona di religione ebraica possa divenire un nobile inglese.
Dipende soprattutto dal fatto che non è accettabile attribuire un titolo di nobiltà a una persona che deve la sua ricchezza soltanto a fortunate speculazioni internazionali.
In definitiva, l’attività del signor Rothschild, consistente in operazioni finanziarie di carattere speculativo ovunque esse siano possibili, non è diversa dal gioco d’azzardo, condotto su scala globale.

È un’attività che non merita alcun apprezzamento, essendo ben diversa dall’attività commerciale che riscuote l’approvazione della Regina, con la quale i suoi sudditi si sono elevati con paziente alacrità e inflessibile moralità a posizioni di agiatezza e apprezzamento”.

Da DAVID KYNASTON, The city of London, vol.I (1815-1900), Random House, 1994; RICHARD DAVIS, The English Rothschilds, 1983.

Crediti

Questo ventunesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 2002 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi infedeli sono curati da Beniamino Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Marina Nespor, Pasquale Pasquino, Marco Santambrogio.

N. 23 inverno 2002

Un appello

È morta in ottobre Elsie Vaalboi.
Aveva di poco superato i 100 anni. Viveva in Sudafrica.
Era una delle due o tre persone conosciute ancora viventi che parlava la lingua !n\u, ultima sopravvissuta delle molte varianti del !Ui, la lingua degli San, cacciatori e raccoglitori che hanno popolato il Sudafrica da oltre 30.000 anni, ormai ridotti a poche centinaia di unità.
Da molti anni Elsie, aiutata dal Governo sudafricano e dal South African San Institute, cercava di insegnare ad altri la sua lingua per evitarne l’estinzione.
Non era un compito facile: l’ !Ui e la sua lingua gemella, la !Xoo, parlata dai San in Botswana, si basano su circa 140 fonemi fondamentali, mentre le lingue oggi diffuse ne usano non più di 60. Inoltre l’!Ui e la !Xoo utilizzano come fonemi suoni di arduo apprendimento, detti !click (per esempio, un !click bilabiale è il suono prodotto quando si manda un bacio a qualcuno, un !click palatale è il suono che si produce quando si incita un cavallo a muoversi, un !click alveolare corrisponde al suono con il quale si può esprimere in italiano un diniego senza parlare).
Così, quando Elsie è morta, nessuno è riuscito a dirle correttamente “!hoi ca”, e cioè arrivederci nella sua lingua.
Se c’è qualche persona anziana tra i vostri amici o conoscenti, tra i vostri fornitori, nel vostro condominio, che pensate sia in grado di parlare la lingua !n\u, segnalatelo immediatamente al San Institute di Johannesbourg. Sarà un prezioso contributo per evitare la scomparsa di una delle più antiche lingue africane.

S.N.

Il più grande caso di corruzione della storia repubblicana

Ero indeciso se il titolo dovesse essere “La madre di tutte le tangenti” oppure “Roma ladrona”. Poi, mi è sembrato che fosse più appropriata la definizione utilizzata da Cicerone in una sua lettera al fratello Quinto.
La storia si svolge a Roma. L’epoca è la fine della Repubblica, il primo secolo a.c. I personaggi, come è facile immaginare, sono faccendieri, avvocati, costruttori e, naturalmente, uomini politici.
Il personaggio centrale è Gaio Memmio, un rampante palazzinaro di buona famiglia, fornito di mezzi finanziari acquisiti con accorte speculazioni, che sceglie, come spesso accade, di lanciarsi in politica. Si schiera con il partito conservatore che fa capo al personaggio più potente del momento, Gneo Pompeo.
La scelta è giusta: viene eletto alla carica di Pretore nel 58 a.c. Diviene così influente negli ambienti che contano. Anche un poeta del calibro di Tito Lucrezio gli dedica il suo capolavoro, il De rerum natura, forse per ingraziarsi un personaggio di spicco, o per ripagarlo di favori ricevuti.
L’anno seguente Memmio è propretore nelle lontane province della Bitinia e del Ponto.
Non si tratta però di una punizione per traffici non del tutto trasparenti.
Al contrario. Si tratta di una usuale applicazione della prassi della Roma tardo repubblicana che assegna a chi cessa da incarichi elettorali (durano solo un anno proprio per impedire di utilizzare il periodo della carica per arricchirsi) una provincia: ufficialmente da governare, in realtà da spolpare, sia pure con discrezione, per ripagare i debiti contratti per finanziare la campagna elettorale.
Infatti chiunque aspirava a cariche pubbliche aveva bisogno di enormi quantità di denaro da prestare o da regalare ai propri potenziali elettori; aveva quindi bisogno di banchieri disponibili e di finanziatori occulti per sostenere la propria ascesa politica.
Oggi, la regola dei Romani non può più essere applicata per la mancanza di colonie. Così, le spese e i debiti contratti debbono essere ripagati durante lo svolgimento dell’incarico elettivo: esso quindi è necessariamente più lungo e, per molti, tende a diventare a vita.
Torniamo alla nostra storia. La Bitinia, ricca e fuori mano, era assai ambita: più la provincia è lontana, meno è probabile che le malefatte siano visibili al centro dell’impero.
Secondo la consuetudine si comporta Memmio: le popolazioni locali sono depredate con metodo e assiduità.
Un altro celebre poeta, suo amico, Catullo, lo segue nell’avventura. Non certo per amore dei viaggi, ma con la speranza di fare anche lui un po’ di quattrini.
Catullo si pente ben presto, e si lamenta del fatto che Memmio si accaparri tutto il frutto delle depredazioni, lasciando solo le briciole agli amici che lo avevano seguito (la protesta di Catullo riguarda naturalmente non l’accumulazione di illeciti profitti, ma solo gli ingiusti criteri di spartizione).
Poi Memmio torna, è riuscito a ripagare tutti i suoi debitori a spese dei Bitini, ed è pronto per puntare alla massima carica elettiva: il consolato. Ma per gli anni 55 e 54 l’elezione dei consoli è già prenotata dai triumviri (Cesare, Pompeo e Crasso). Non c’è posto per lui.
Dopo due anni di impaziente attesa, Memmio rompe gli indugi e decide di mettersi in gara per il consolato del 53. Ma il suo protettore Pompeo non lo appoggia, ha altri piani, e per di più perde terreno: il cavallo vincente appare a molti ormai Giulio Cesare.
Allora Memmio con un balzo uguale nelle finalità anche se inverso nel percorso (da destra a sinistra) a quello compiuto da molti noti personaggi attuali, abbandona il partito aristocratico di Pompeo e si schiera con i popolari e con Giulio Cesare.
La scelta viene premiata: Memmio ottiene da Cesare (ben noto per la sua sovrumana capacità di ottenere finanziamenti e crediti con ogni mezzo) un cospicuo appoggio finanziario.
Il progetto di Memmio così sembra realizzarsi: per il 53, Cesare organizza una cordata per il consolato, formata da sue creature: Memmio, appunto, e Gneo Domizio Calvino.
Il gruppetto promette una somma astronomica, dieci milioni di sesterzi, alle centurie che votano per prime (erano quelle che solitamente determinavano l’andamento elettorale).
La corruzione è di proporzioni inusuali anche per Roma, dove tutto ha un prezzo e tutto si può comprare: ricorda Sallustio che Giugurta, aveva osservato che Roma è una città che venderebbe anche sé stessa se trovasse un compratore.
A metà del 54, lo scandalo comincia ad emergere.
Cicerone, scrivendo al fratello, annuncia che sta per scoppiare “il più grande scandalo della storia repubblicana” .
La notizia rimbalza sugli ambienti economici e finanziari e il timore di perturbazioni politiche conseguenti determina un improvviso aumento dei prezzi delle importazioni e del tasso d’interesse (passa in poche settimane dal 4 all’8%), mettendo in serio pericolo gli equilibri dell’economia romana.
A settembre, poco prima delle elezioni per il consolato per l’anno seguente, il caso è sulla bocca di tutti, e non può più essere ignorato. Il Senato, che funge da giudice per questi casi, è sollecitato ripetutamente ad intervenire.
Scatta così per iniziativa di alcuni senatori l’operazione Mani Pulite dell’epoca.
Di fronte al Senato Memmio, dopo lunghi e estenuanti interrogatori, vuota il sacco.
Cicerone scrive che per i candidati corruttori e ai loro protettori (il riferimento, neppure troppo ambiguo, è a Cesare) non resta che suicidarsi o prendere il potere.
Ma ecco il colpo di scena.
Cesare, con un abile voltafaccia, simile a quello posto in essere qualche anno prima, quando aveva abbandonato Catilina (del quale, secondo molti, tra cui Catone, era stato compagno di congiura) riesce a tirarsi fuori, o viene benevolmente lasciato fuori da compiacenti giudici del Senato, per ingraziarsi i popolari che lo sostengono, e abbandona così Memmio al suo destino.
Cesare riesce così anche questa volta a salvarsi: non si suicida, come Cicerone aveva ipotizzato.
Prenderà di lì a poco il potere.
Per ragioni che ci sono sconosciute – ma la storia attuale ce le lascia immaginare – Memmio sfugge al processo per corruzione (dopo averne per vario tempo rinviato l’inizio sostenendo che i giudici non erano imparziali) e si rifugia ad Atene dove si dedica con successo al collezionismo di libri e manoscritti e alla sua antica vocazione, la speculazione edilizia.

Da: LUCIANO CANFORA, Giulio Cesare, Mondadori 1998; CATULLO, Carmi, 10 e 28; CICERONE, Lettere al fratello Quinto II, 14,4; Lettere ai famigliari, XIII,1.

Tre poesie di Mandelstam

I

Qui, sul luogo dell’incendio,
il tempo canta.
Taci. Non credo più a nulla.
Non sono che un passante.
Ma mi restituisce alla realtà
la tua bocca, attraente e minacciosa.

II

No, di nessuno sono contemporaneo,
Ho un omonimo, sgradito:
non sono io, è un altro.

Due mele di sonno ha il tempo sovrano
E una affascinante bocca d’argilla
Ma alla mano stanca dei suoi figli
si piega invecchiando.

Sollevo le palpebre stanche
Due mele di sonno
E fiumi in piena mi raccontano il corso
Delle dispute umane.
Nelle stanze afose, nei campi devastati
Il tempo agonizza – ma poi, poi
Due mele di sonno avvolgono gli occhi
E brillano di fuochi piumati.

III

La vita si è dissolta come un lampo
Come un goccio di acqua da un bicchiere
Ma io, corroso da illusioni e da menzogne
Non incolpo nessuno.

Vuoi un dolce notturno
Vuoi una bevanda fresca
Vuoi che ti tolga le scarpe
Vuoi che ti sollevi nell’aria come una piuma.

Dentro una ragnatela luminosa
Avvolto in morbide coperte di lana
Il raggio del lampione, laggiù
Lambisce il tuo corpo.

Solo un gatto trasale, e subito si trasforma
In lepre selvatica
La neve sulla strada, trapunta di passi,
si dissolve chissà dove…
Come stentava la tua voce
Mentre spudorata sorrideva
E il tuo volto avvampava
Di una incerta bellezza

Ma dietro i campi del casolare
Dietro il giardino schiumoso
Oltre il mare, si stende il paese
Dove finalmente staremo insieme.

Scegliendoci scarpe asciutte
Vestiti dorati
Cammineremo, mano nella mano,
lì, sulle strade di quel paese.

Senza guardarci intorno
Senza disturbare nessuno
Da un alba a un’altra alba.
Senza dover parlare.
Di niente, mai, a nessuno.

Da OSIP MANDELSTAM, Tutte le poesie, Mosca 1994. La prima poesia è un frammento delle poesie distrutte, composta probabilmente nel 1937 a Voronez, dove O.M. viveva in residenza coatta, e salvata dalla moglie di Mandelstam, Nazezda. La seconda poesia è del 1924. La terza del gennaio del 1925.

Il nemico dell’atmosfera

Thomas Medgely nacque in Beaver Falls, Pennsylvania, nel 1889, in una famiglia di inventori.
Laureatosi come ingegnere chimico, durante la prima guerra mondiale progettò bombe telecomandabili e un combustibile sintetico per aeroplani.
Finita la guerra, fu assunto dalla General Motors. Qui, nel 1921 si accorse che aggiungendo piombo tetraetile al combustibile i motori a scoppio funzionavano meglio.
Ecco pronta in pochi mesi la benzina addizionata di piombo: un dono di Dio, come spiegava la pubblicità della Dupont (la multinazione che è stata la principale produttrice mondiale di piombo tetraetile).
Nei cinquanta anni seguenti, sono stati bruciati oltre 25 miliardi di litri di benzina addizionata con piombo. Nonostante i preoccupanti dati che dopo pochi anni già emergevano sulla pericolosità di questo prodotto per la salute umana, la Dupont e la General Motors sono riuscite per decenni a impedire l’eliminazione del piombo come additivo per il carburante e a tenerne celati gli effetti dannosi.
Nel 1967 l’Unione Sovietica fu il primo stato a proibire l’uso di piombo nei combustibili.
Gli Stati Uniti lo fecero negli anni Settanta, il Giappone nel 1987. L’Europa arrivò al traguardo all’inizio degli anni Novanta.
Ma torniamo a Medgely il quale alla fine degli anni Venti lasciò i combustibili e cominciò a occuparsi di refrigerazione, un settore allora in enorme espansione negli USA.
E inventò il freon: una sostanza innocua per l’uomo e sulla terra assolutamente stabile, in quanto non reagiva con nessun altro prodotto. L’ideale per sostituire i gas tossici e infiammabili utilizzati per apparecchi di refrigerazione e per condizionatori d’aria.
Anche il freon ebbe un enorme successo: nel 1970 se ne vendevano oltre 750.000 tonnellate all’anno.
Fu solo nel 1974 che due scienziati si accorsero che lo strato di ozono che protegge la terra e i suoi abitanti dai raggi ultravioletti si stava assottigliando, al disopra di talune aree del pianeta – in particolare al di sopra dei Poli – con disastrose conseguenze per il plankton marino, la fotosintesi vegetale ed anche per gli esseri umani.
Ipotizzarono – e l’ipotesi venne presto confermata – che questo evento potesse essere causato proprio dalle molecole di freon, le quali, salendo verso le parti alte dell’atmosfera, si combinavano con le molecole di ozono, distruggendo così lentamente lo strato protettivo.
Per effetto di una convenzione internazionale (Montreal 1986) oggi la produzione di freon è cessata.
I paesi ricchi non lo usano più, avendo messo a punto prodotti sostitutivi altrettanto efficaci, e i paesi poveri stanno lentamente adeguandosi.
Ma le molecole di freon continueranno a danneggiare lo strato di ozono almeno fino al 2100.
Thomas Medgely non è stato testimone del disastroso esito delle sue due più celebrate invenzioni, essendo rimasto anzitempo vittima della sua sagacia inventiva.
Infatti, avendo contratto la poliomielite nel 1940, subito inventò una macchina basata su corde, cavi e pulegge per permettere agli inabili di sollevarsi da soli nel letto.
Fu la sua ultima invenzione e, esattamente come le altre, ebbe conseguenze tragiche e non previste.
La macchina lo strangolò nel 1944.
Fu ritrovato al mattino, appeso sul letto, paonazzo, col collo attorcigliato da cavi.

Da J.R.MCNEILL, Something new under the sun, Norton & Company, New York 2000.

Due poesie di Nanni Cagnone

I

Finché si era tutti
nel medesimo luogo,
giovani e noncuranti
delle differenze, brevi
barche ormeggiate
si urtavano talvolta
amichevolmente.

Ma per voi
un tortuoso scopo
oltremare. A me
bastava non comprendere
sonnolenza e collera
del mare.

II

Ingrandite
Finché sole, irreali,
rimasero indietro
distinte figure.
Si staccò dal seguirle
Il loro segreto – ombre
Nel vuoto chiarore,
nascoste nel vuoto
come solide assenza.

Esiguità, pensose
Fuorviate prove,
denti nella cenere.
Non è strano
Urtare, oscillare ombre,
credere più grande
colui che non si volge?

NANNI CAGNONE, Doveri dell’esilio, Night-Mail 2002

Petrolio

I

Quando la battaglia comincia, granate, colpi di mortaio e di mitragliatrice piovono sulla colonna di 1200 soldati governativi. Nuvole di fumo e di sabbia si sollevano ovunque; su un lato, si alza in volo uno stormo di uccelli impauriti.
Seduto sotto un albero, il comandante dei ribelli osserva un altro giorno di morte nel più grande paese e nella più lunga guerra del continente africano, il Sudan.
Siamo nella parte meridionale del paese.
Al governo, su a Karthoum, stanno gli arabi musulmani del nord: sono fondamentalisti, autocratici, schiavisti, odiati da tutti.
Il sud è invece popolato da neri, sono per lo più cristiani o animisti. Vaste zone sono sotto il controllo dello SPLA, l’Armata di liberazione del Sudan.
I soldati del governo avanzano di corsa. Quando sono a meno di ottanta metri di distanza, emergono dalla savana 3000 ribelli.
Comincia a questo punto il massacro.
In meno di mezz’ora, i pochi superstiti delle truppe governative sono in fuga.
Le perdite dei ribelli sono di trenta morti e 100 feriti.
Quelle delle truppe governative sono ben più consistenti, ma difficili da quantificare.
Molti dei feriti si rifugiano nella savana, e lì, dopo qualche giorno di agonia, muoiono.
Un soldato di 15 anni è appoggiato nell’ombra a un bambù, e fiotti di sangue escono dal fianco quando respira. Non può camminare, e sarebbe del resto inutile: il dottore più vicino è a centinaia di miglia di distanza.
Mentre la battaglia si svolge, il 21 agosto 2002, esponenti del governo e dei ribelli siedono intorno ad un tavolo in Kenya e discutono delle condizioni di pace.
Dopo gli incontri del luglio precedente, i rappresentanti del governo hanno promesso ai ribelli l’esenzione dalle leggi islamiche e forme non definite di autodeterminazione. Ora, le trattative riguardano le modalità di costruzione di un governo transitorio al quale esponenti delle due parti partecipino.
Nel frattempo, il governo sudanese cerca di impossessarsi di quanto più territorio è possibile, e la SPLA cerca di fermarlo.
Per questo c’è la battaglia.
La ragione è il petrolio, di cui il Sudan, in particolare il Sud, è ricco. I giacimenti sono ancora inesplorati proprio per il permanere della situazione di guerra.
Sono giacimenti sicuramente ingenti, secondo le prospezioni compiute dalle multinazionali del petrolio occidentali.
Però, memori dei conflitti insorti in Nigeria, vogliono le terre libere da popolazioni.
In quelle terre e quindi su quei giacimenti, vive molta gente, poverissima e non musulmana.
Le truppe governative, non appena riescono a eliminare o a scacciare gli abitanti, radono al suolo i villaggi con elicotteri e aerei che sganciano bombe incendiarie, per evitare che i villaggi siano ricostituiti.
Mentre le operazioni di pulizia territoriale sono in corso, il governo sudanese non permette alle agenzie internazionali e alle organizzazioni umanitarie di inviare propri esponenti, e neppure di inviare aiuti, medicinali o cibo.
Una volta compiute le operazioni di pulizia, il governo assicura le multinazionali del petrolio occidentale che i territori sono disabitati.
A questo punto rilascia le concessioni e incassa i compensi pattuiti con i quali compra armi e mezzi per proseguire nella sua opera di eliminazione.
I risultati sono assai positivi: per la fine del 2003, nonostante la situazione di guerra, sarà estratto il 35% in più di petrolio rispetto al 2000.
Mentre le multinazionali petrolifere occidentali spingono per ottenere nuove concessioni, e spingono il governo sudanese ad intensificare le operazioni di pulizia territoriale, i governi occidentali omertosamente sonnecchiano; poi spendono enormi somme di denaro per sostenere le popolazioni del sud e difendere i loro diritti.
Nello stesso tempo, ci sono mercenari russi che guidano gli aerei e gli elicotteri utilizzati dal governo sudanese per rendere disabitati i territori del petrolio.
Ma mercenari russi – secondo alcuni, gli stessi – sono poi impiegati anche dalle Nazioni Unite per sganciare medicinali e aiuti per le popolazioni in fuga.

II

“Petrolio? Avete fatto tutto questo per il petrolio?”

Il primo brano è da The Economist, 31 ago-7 settembre 2002; il secondo è tratto dal film “I tre giorni del Condor”: sono le parole che pronuncia alla fine Robert Redford.

Due poesie di Ernesto Cardenal

I

Ragazze che emozionate leggerete
Questi versi un giorno,
E sognerete un poeta:
sappiate che li ho composti
per una ragazza come voi,
e non sono serviti a niente.

II

Mi hanno detto
Che ti eri innamorata di un altro;
allora ho scritto questo articolo
contro il Governo
e adesso sono in prigione.

ERNESTO CARDENAL, Poesias escogidas, Managua 1985.

Un po’ di religione, come al solito

All’inizio dei tempi, gli uomini vivevano tutti intorno ad un grande albero nella giungla, e parlavano lo stesso linguaggio.
Stavano tutti lì, perché c’era uno di loro seduto su un ramo dell’albero, e non si muoveva mai: aveva le gambe infette da parassiti che gli impedivano di camminare.
L’odore delle gambe infette attirava gli animali della giungla: bastava che gli uomini stessero ad aspettare, e potevano uccidere gli animali man mano che giungevano.
Così, c’era sempre cibo per tutti.
Poi, un giorno, un uomo uccise un altro per avere la sua moglie per sé.
I parenti dell’uomo assassinato decisero di vendicare il delitto; a difesa dell’uccisore intervennero i suoi parenti.
Dopo una lunga battaglia, questi ultimi ebbero la peggio, e dovettero rifugiarsi tutti tra i rami dell’albero.
I parenti dell’uomo assassinato cominciarono allora a tirare le liane che pendevano dai rami, e a scrollare l’albero per far cadere i nemici.
Erano quasi riusciti a piegare il gigantesco albero fino a terra, ma a un certo punto le liane si spezzarono, e l’albero scattò all’indietro con una tremenda forza, spezzandosi.
L’assassino e i suoi parenti, ed anche l’uomo con l’infezione alla gambe, furono scagliati in aria in tutte le direzioni, e atterrarono così lontano che non riuscirono mai più a tornare, né a ritrovarsi l’uno con l’altro.
Con il tempo, anche i loro linguaggi cominciarono a diversificarsi. Ed è per questo che oggi si parlano così tante lingue diverse, per questo la gente non si comprende; è per questo che per i cacciatori è difficile trovare il cibo, e devono cercarlo qua e là nella giungla, invece che attendere sotto l’albero.

*

Così ebbe origine il linguaggio secondo i Sikari, una piccola tribù formata da seicento abitanti della Nuova Guinea orientale (la storia è stata raccolta dall’antropologo Jared Diamond.
I Non-Sikari naturalmente hanno forti dubbi che le cose siano andate effettivamente così.
Per esempio, tra i moltissimi Non-Sikari che popolano la terra, una gran parte (per esempio, un americano su quattro, secondo recenti sondaggi) ritiene che la Bibbia sia una cronaca vera, sicché i diversi linguaggi sono sorti a seguito della punizione di Dio nei confronti del velleitario ed empio tentativo di costruire una torre alta fino al cielo, la torre di Babele.
Analogamente, i Non-Mormoni non credono che Joseph Smith abbia visto l’angelo Moroni il 21 settembre 1823 e che l’angelo gli abbia confidato che alcune piastre d’oro contenenti rivelazioni di Dio erano sepolte nella sommità di una collina vicino a Manchester Villlage, nella parte occidentale dello Stato di New York.
I Non-Mormoni non credono neppure che l’angelo Moroni abbia ordinato a Smith di cercarle, di tradurle e di eseguire ciò che sulle piastre era scritto; non credono che Smith le abbia trovate e, con l’aiuto dell’angelo, sia riuscito a tradurle.
I Non-Mormoni non credono a questa storia, su cui si fonda la religione dei Mormoni, anche se ci sono ben otto dichiarazioni giurate di testimoni che hanno visto personalmente le piastre d’oro (Christian Whitmer, Hiram Page, e altri sei), prima della loro definitiva scomparsa.
Ma che differenza c’è tra la storia dell’albero e quella della torre, e tra la storia di Joseph Smith e, per esempio, quella di Mosé?
Consideriamo il secondo esempio.
Siamo in presenza, in entrambi i casi, di rivelazioni divine effettuate prescegliendo un destinatario esclusivo delle stesse.
In entrambi i casi, il prescelto si reca da solo su una sommità, in entrambi i casi ritorna con un oggetto consegnato da Dio o da un suo incaricato (l’angelo Moroni): due tavole nel caso di Mosé, le piastre nel caso di Smith.
Infine, in entrambi i casi, abbiamo delle versioni del fatto, riportate da terzi: la Bibbia per Mosé, otto testimoni per Smith.
Ovviamente, si può pensare che la Bibbia e gli otto testimoni siano inattendibili. Si può pensare, cioè, che Mosé alcune migliaia di anni fa, Smith meno di duecento anni or sono si siano inventati la storia dei loro rapporti con la divinità.
Questo dimostra che il successo di una religione non dipende dalla verità o dalla credibilità dei suoi contenuti.
Dipende dal fatto che i suoi contenuti e i suoi insegnamenti offrono un codice in base ai quali gli aderenti costruiscono un sistema sociale funzionante.
Anche contenuti totalmente incredibili e insensati possono avere successo, se determinano comportamenti che hanno successo nel mondo reale.
Anzi: molte religioni, e fra queste la religione cattolica, dimostrano che contenuti totalmente privi di senso, ma densi di aspetti simbolici, hanno più successo di quelli che tengono conto della realtà.

S.N.

Crediti

Questo ventitreesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2002 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.nespor.com (ove sono raccolti anche altri miei scritti e una scelta dei miei disegni).
Il sito è stato curato e aggiornato da Stefano Rossi. L’inserimento dei Testi infedeli nel sito è stato curato anche da Beniamino Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Marina Nespor, Ada Lucia De Cesaris, Pasquale Pasquino.

N. 24 estate 2003

L’infedeltà della modernità

Molti ritengono che il fondamentalismo islamico e gli atti terroristici che esso promuove o induce a commettere siano una reazione all’imperialismo americano
È una spiegazione che coglie solo una parte della realtà.
L’imperialismo americano offre certamente buone ragioni e molti militanti nelle organizzazioni islamiche fondamenta-liste per giustificare le azioni terroristiche che essi compiono.
La spiegazione non tiene però conto del fatto che il fondamentalismo islamico, pur utilizzando il terrorismo come stru-mento di azione, è diverso da altri movimenti ideologici e da altre organizzazioni che, nel corso del tempo, hanno fatto ricorso a questo strumento per imporre la propria presenza e le proprie idee.
È diverso dal movimento anarchico che ha mietuto illustri vittime in tutto il mondo occidentale alla fine del diciannove-simo secolo.
È diverso dai vari movimenti di liberazione nazionale – compresi quelli del risorgimento italiano – che in quello stesso secolo hanno fatto ricorso al terrorismo per affermare i loro ideali.
È diverso anche dai movimenti che hanno lottato per la liberazione dei loro paesi dal dominio coloniale nella seconda metà del ventesimo secolo.
È diverso dalle Brigate Rosse e dalla RAF tedesca (per i quali il terrorismo divenne ben presto non lo strumento, ma il fine dell’azione politica).
È diverso infine dai movimenti palestinesi che ricorrono al terrorismo contro lo stato d’Israele.
Analogamente a ogni fondamentalismo religioso, il fondamentalismo islamico si propone di affermare e di difendere specifici valori etici ritenuti essenziali per l’individuo e per la comunità e percepiti in pericolo o minacciati di distruzio-ne. Non sono valori di uguaglianza, di indipendenza, di libertà, di tolleranza.
Sono il rispetto assoluto e acritico dei principi religiosi e dell’autorità religiosa che li enuncia e li custodisce, il rispetto della famiglia tradizionale, la supremazia del capofamiglia sulla moglie e sui figli e in generale dell’uomo sulla donna; il valore attribuito alla omogeneità di cultura (e di ignoranza) e il corrispondente rifiuto di qualsiasi infiltrazione prove-niente dall’esterno e di qualsiasi dialogo o confronto con la diversità.
Questi stessi principi, fino a non molto tempo fa, hanno dominato in molti paesi occidentali, sia pure in diverse versioni a seconda delle varianti locali della religione cristiana.
Nel mondo occidentale essi si sono via via affievoliti e disgregati per l’affermarsi di valori diversi: l’inesistenza di una morale unica, codificata e obbligatoria per tutti, la libera scelta individuale, l’autonomia e l’indipendenza delle scelte religiose, la laicità dell’organizzazione sociale, la tolleranza, l’uguaglianza, l’educazione diffusa ed estesa alle donne.
In molti altri paesi, questo fenomeno non si è ancora verificato.
Il fondamentalismo islamico è quindi, prima di tutto, antimoderno. Vuole evitare che questa disgregazione, che è il tipi-co prodotto della modernità, si estenda al suo mondo. Vuole evitare che il suo mondo si dissolva, così come la moderni-tà ha dissolto in occidente i mondi analogamente dominati e custoditi dal fondamentalismo religioso.
Chiunque difenda quei valori che in occidente hanno condotto alla disgregazione del fondamentalismo, chiunque vuole imporre la libera circolazione delle idee e la tolleranza, è automaticamente un nemico da distruggere.
L’emblema del nemico e della modernità sono sì gli Stati Uniti; ma non il loro rozzo imperialismo, bensì i principi di tolleranza e di libertà inseriti nella loro Costituzione e la loro way of life, gommosamente appiccicatasi a tutto il mondo occidentale.
Ha osservato in un suo recente volume (Terror and Liberalism, Norton, New York, 2003) uno dei più importanti studio-si della modernità, Paul Berman, che i paesi occidentali hanno avuto il grande torto di minimizzare la potenza intellet-tuale di questa ideologia, di non comprendere che essa affascina proprio perché è semplice, totalizzante e protettiva.
E, come è spesso accaduto in passato, a un certo punto c’è sempre qualcuno che comincia ad uccidere in nome di ideo-logie di questo tipo.
S.N

Irak, dieci anni dopo

Finita la guerra vera e propria, in poco tempo i ribelli costituirono alcune centinaia di gruppi di resistenza autonomi.
Si è calcolato che questi gruppi contassero oltre 80.000 combattenti. Almeno altrettanti erano coloro che facevano parte delle organizzazioni ausiliarie e dell’indotto: gli informatori, i vivandieri, gli agenti di collegamento, i familiari.
I ribelli godevano di una popolarità diffusa e crescente fra la gente: quando arrivavano nei villaggi, scendendo dalle montagne, erano accolti con grandi feste.
La maggior parte venne eliminata. Pochissimi furono incarcerati, a tempo indeterminato, senza processi, senza controlli. Fu uno sterminio di massa calcolato e portato a termine con barbarica efficienza e con disumana crudeltà.
Molti inviati speciali provenienti da altri paesi tentarono di fare un bilancio di questa guerra, mantenuta nascosta al resto del mondo civile.
Secondo un inviato francese in poco meno di un anno 8968 ribelli o presunti tali furono fucilati dopo processi sommari; 10.604 furono feriti negli scontri, 6112 furono i prigionieri.
Fra questi, vi erano 86 religiosi, 60 giovani sotto i 12 anni, 50 donne.
Le case distrutte furono 918, sei i paesi radicalmente cancellati dalla carta geografica.
Un’indagine ufficiale dell’epoca condotta nella provincia di *** riporta che in poco più di due anni furono eliminati ol-tre 7000 presunti ribelli, dei quali quasi 2000 fucilati.
Riferisce un noto storico, ***, che nei dieci anni successivi alla liberazione del paese, 154.850 guerriglieri caddero in combattimento con le truppe dei liberatori, 11.520 furono fucilati. Secondo un altro storico °°°, le vittime furono 180.000.
Altri, ma sono fonti di parte, ritengono che le vittime furono almeno 700.000.
Uno dei comandanti delle truppe d’occupazione riferì di aver personalmente condannato a morte “300 fra briganti e non briganti” affermando che non conveniva imprigionarli perché erano tutti giovani: mantenerli sarebbe stato troppo costo-so.
Ecco il suo proclama ai soldati: “un branco di quella progenie di ladroni ancor si annida sui monti. Snidateli! Siate ine-sorabili come il destino. Contro i nemici la pietà è delitto. Schiacceremo il vampiro che con le sue sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra”.
Dati, fatti, testi e testimonianze rispecchiano fedelmente la realtà.
Si riferiscono però non al periodo successivo alla guerra in Irak – come il titolo infedelmente induce il lettore a credere – ma ai dieci anni successivi all’annessione del Regno delle Due Sicilie da parte dei Piemontesi e del Regno d’Italia, portatore di libertà e civiltà ai popoli meridionali oppressi da un regime autocratico e primitivo.
La provincia *** è quella di Chieti. Lo storico *** è Alessandro Romano. Lo storico °°° è Roberto Martucci, in Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale. Regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio 1861-1865, Bologna 1980.
Altre fonti: DENIS MACK SMITH, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, Bari 1977, ANTONIO CIANO, I Savoia e il massacro del Sud, Roma 1996. Per una visione d’insieme, LORENZO DEL BOCA, Indietro, Savoia, Casale Monferrato 2003.

Disse Francesco II Borbone, al momento di lasciare il suo regno: “Cari sudditi, non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere.
In mezzo a continue cospirazioni dei piemontesi, non ho fatto versare una goccia di sangue e mi si accusa di debolezza. Ho fermato le mani dei miei generali per evitare la distruzione di Palermo, ed ora le città del mio regno sono distrutte dai liberatori.
Ho preferito abbandonare Napoli per non esporla ai bombardamenti.
Ho creduto che il re del Piemonte, che si diceva mio fratello e mio amico, che protestava contro il modo di agire di Garibaldi, che negoziava con me un’alleanza conforme agli interessi d’Italia non avrebbe rotto tutti i patti e violato tutte le leggi del diritto internazionale per invadere i miei stati”.

Due poesie di Sylvia Plath

Soliloquio

Io?
Cammino sola;
la strada a mezzanotte
si srotola sotto i miei piedi
quando i miei occhi sono chiusi;
tutte queste case sognanti sfumano via;
è solo per un mio capriccio
che la celeste cipolla della luna sta
sospesa sopra i tetti.

Io?
Faccio rimpicciolire le case
E ridurre gli alberi
Semplicemente allontanandomi:
il laccio del mio sguardo
Fa ballare la gente come marionette,
che ride, bacia e si ubriaca
senza accorgersi di ballare
e senza immaginare che
appena io batto le ciglia
muore.

Io?
Se sono allegra
Do all’erba il suo verde
Dipingo il cielo d’azzurro e do al sole
L’oro come dote;
ma, se sono triste, possiedo
il potere assoluto
di boicottare i colori e proibire
ai fiori di esistere.

Io
So che tu appari
Vivido al mio fianco
E neghi di essere saltato fuori dalla mia testa,
e sostieni che il tuo enorme amore
comprova che sei di carne e ossa,
ma è del tutto chiaro,
mio caro
che tutta la tua bellezza e tutto il tuo ingegno non sono che un
dono mio.

Il Calderaio Jack

Venga signora, mi porti quella pentola
Tutta nera e affumicata
Mi porti qualsiasi padella,
me la faccia aggiustare e riportare alla sua forma primitiva.
Eliminerò ogni tacca
Dai piatti d’argento
E luciderò quel bricco di rame
Accanto al fuoco
Rendendolo brillante come il sangue.

Venga signora, mi porti quel volto
Allontanatosi dal suo splendore primitivo.
Il fumo del tempo nell’occhio spento
Può ritrovare il suo luccichio
Per poco prezzo.
Non c’è forma troppo storta
Storpiata o ingobbita
Che Jack non rimetta a nuovo;
il calderaio Jack può ottenere
bellezza anche da una strega.
Qualsiasi segno
Inciso da fiamme divampanti
Jack lo ritocca e ripara.
Qualsiasi cicatrice scavata
In un cuore infranto
Jack la cancella.

Da SYLVIA PLATH, Collected Poems (a cura di Ted Hughes), 1981. Tutte le opera di Sylvia Plath sono state pubblicate da Mondadori nel 2002. La traduzione delle poesie è di Anna Ravano. Il bel saggio introduttivo è di Nadia Fusini.
Entrambe le poesie sono state composte nel 1956 e pubblicate nel 1957, la prima nella rivista Accent, la seconda nella rivista Granta.

Tre lettere di George Washington

I

Mia cara,
Sono qui a scriverti su un argomento che mi riempie di una inesprimibile ansia, enormemente aggravata quando penso agli effetti che tu dovrai subire.
Devi credermi, mia cara, quando ti assicuro solennemente che, ben lungi dal ricercare questo incarico, ho fatto tutto il possibile per evitarlo, non solo per il dispiacere che mi avrebbe prodotto stare lontano da te ma anche perché ritengo che esso sia troppo oneroso per le mie capacità e perché sono convinto che posso trovare molta più felicità stando per un mese a casa che non ricercando prospettive di successo lontane.
Ma, poiché il destino mi ha costretto a calarmi nello svolgimento di questo compito, spero almeno che i miei sforzi sia-no indirizzati ad ottenere dei buoni risultati.

II

Questo è il momento in cui gli occhi del mondo intero sono puntati su di noi.
Questo è il momento in cui assestare o distruggere il nostro carattere nazionale.
Questo è il momento fortunato per conferire al nostro governo una dignità idonea a dare risposta a tutte le richieste che provengono dalla collettività. Oppure è il momento sventurato per dissolvere i poteri del governo centrale e tutto ciò che ha tenuto insieme questa confederazione, consentendo agli stati europei di giocare uno stato contro l’altro per bloccare la loro prevedibile e crescente futura potenza.
Da ciò che sarà deciso in questo momento il nostro paese andrà incontro al successo o alla rovina.
È ancora da vedere quindi se la gloriosa rivoluzione che abbiamo vinto sia una fortuna o una disgrazia: non solo per noi, ma per le nostre generazioni future.

III

Non mi sono soltanto ritirato dalla vita pubblica; mi sono ritirato dentro me stesso, e spero che sarò capace di vedere il mio solitario cammino e il sentiero della mia vita privata che potrò ancora percorrere con accorata soddisfazione.
Non invidio nessuno, e intendo trovare soddisfazione in ogni cosa.
Questo, mio caro amico, è il programma della mia marcia.
Intendo procedere con dolcezza lasciandomi trascinare dalla corrente della vita, fino a che non troverò riposo con i miei antenati.

La prima lettera, del giugno 1775, è alla moglie Martha per informarla di essere stato nominato comandante in capo del-le forze armate dell’esercito di liberazione americano nella guerra contro la Gran Bretagna.
La seconda è una lettera-circolare agli Stati della federazione dopo la vittoria sugli inglesi, 12 marzo 1783.
La terza è una lettera al marchese di Lafayette del marzo 1784. Nel 1791 Washington sarà eletto primo presidente degli Stati Uniti.

Tre poesie dei bambini di Terezin

La farfalla

L’ultima, proprio l’ultima
Di un giallo così intenso, così
Assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
– così gialla, così gialla, così gialla –
l’ultima,
volava in alto leggera,
aleggiava sicura,
per baciare il suo ultimo,
il suo ultimo mondo.

Tra qualche giorno
Sarà già la settima settimana
Da quando mi hanno portato qui.
Qui mi hanno ritrovato i miei genitori,
e tutti i giorni mi mostrano
i fiori di ruta
e il bianco castagno nel cortile.

Ma qui non c’è nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta è stata proprio l’ultima. L’ultima.
Qui non vivono le farfalle.

A Olga

Ascolta,
fischia la sirena della nave.
Su, partiamo,
partiamo per porti sconosciuti.
Ecco,
è l’ora,
navigheremo lontano,
i sogni diverranno realtà.
Oh, dolce nome del Marocco!
Ecco,
è già l’ora.

Il vento ci porta canzoni
e profumi di paesi lontani.
Guarda il cielo
E pensa alle violette.

Ecco,
è giunta l’ora.
Partiamo.

Il giardino

È piccolo, piccolo il giardino
Profumato di rose,
è stretto, stretto il sentiero
dove corre il bambino.

È un bambino bellissimo,
come un bocciolo che si apre.

Quando il bocciolo si aprirà
Il bambino non ci sarà.

La prima poesia è di Pavel Friedmann, la seconda di Alena Synkovà, la terza di Franta Brass.
Sono tre dei bambini della Repubblica cecoslovacca deportati dai nazisti nel campo di concentramento di Terezin (The-resienstadt) e da lì successivamente inviati a Auschwitz.
Dal libretto curato da Haim Burstin in occasione della Giornata della memoria al liceo Berchet, 1\2\2003.

Una biografia di George Byron

Vita e poesia, realtà e leggenda, e poi avventure, viaggi, impegno politico, una tragica morte prematura in terre allora conisderate lontane e soprattutto amori tempestosi e relazioni proibite.
Questo è George Byron.
Avvolto da un alone mitologico che lui stesso in vita con compiaciuta ironia aveva cominciato a costruire e a diffondere – un mito che molti decenni dopo la sua morte aveva indotto dei suoi fans a scoperchiare il sepolcro dove era stato tumulato per poterlo toccare – è stato giudicato via via un genio, uno sbruffone, un pedofilo, un sovversivo, un omoses-suale represso, un dongiovanni impenitente, una vittima della codina morale vittoriana della società inglese del suo tempo e, secondo la definizione di Shelley, “un pellegrino dell’eternità”.
Non è quindi certo un caso che Byron abbia attratto, e continui ad attrarre, l’interesse di innumerevoli biografi.
Quasi tutti, però, hanno prestato attenzione ad uno o alcuni dei molti aspetti della sua personalità: per molti, la sua vita è stata più importante delle sue opere.
Un pellegrino lo fu davvero.
Partì nel 1809 dall’Inghilterra per il suo Grand Tour e dopo una sosta a Lisbona (dove fu l’amante di alcune duchesse) e poi a Siviglia e a Cadice, si fermò a Malta – dove, ci racconta, prese la dissenteria, lezioni di arabo, e un’amante (che poi era la moglie del governatore britannico) – si lanciò verso l’Albania e l’Impero ottomano, fermandosi a lungo a Atene (dove organizzava incontri di pugilato tra ragazzi cattolici e ragazzi ortodossi) e a Costantinopoli, ospite del Sulta-no. Di questo viaggio scrisse: “dopo essere vissuto tra maomettani, cattolici, ortodossi, ed essendo io protestante, mi so-no accorto che tutte le religioni sono egualmente vere, e quindi egualmente false”.
Un sovversivo, lo fu senz’altro.
Quando fu ammesso alla Camera dei Lords, prestò giuramento, chiese la parola e si dichiarò scandalizzato del fatto che in Inghilterra la nascita e la ricchezza potessero conferire dei diritti; chiese ai Lords di votare l’abolizione della Camera dei Lords come gesto riparatorio, depositò il suo progetto di legge, e se ne andò.
Nella Camera dei Lords non rimise più piede.
Solo per lanciarsi, prima, a Ravenna, nella partecipazione alle fasi iniziali del movimento carbonaro (protetto dalla sua cittadinanza inglese e dai suoi titoli nobiliari), poi, a Genova e in Grecia, nell’organizzare la lotta per l’indipendenza contro i turchi.
Sui suoi amori, la letteratura è sterminata.
Prima di abbandonare per sempre l’Inghilterra nel 1816, ebbe in pochi anni – secondo i suoi biografi – non meno di ottantasette amanti (tra cui la sorellastra) ed una moglie (nipote della sua amante più in vista, Lady Lamb).
La sua fama di dongiovanni era tale che Schopenhauer, trovandosi a Venezia con una sua giovane amica, così scrisse: “Stavamo passeggiando sulla spiaggia del Lido, io e Alina, quando sentimmo dietro di noi il trotto di due cavalli. Passò Lord Byron con un amico. L’incredibile bellezza della sua persona, lo sguardo penetrante e voluttuoso che lanciò su A-lina e il visibile effetto che quello sguardo ebbe su di lei mi fecero comprendere che il tradimento era già sicuro. L’indomani mattina ritenni prudente trovare riparo a Padova”.
Ma non bisogna dimenticare che Byron fu un grandissimo poeta che incantò Puskin, Stendhal, Goethe e l’Europa intera.
Di lui Tomasi di Lampedusa, nel suo compendio della letteratura inglese ad uso degli amici, ha scritto che è il perno alla letteratura moderna europea: sia che lo si stimi grande o piccolo, dopo di lui tutto è totalmente diverso.
Secondo Tomasi, la sua opera Don Juan è il suo poema perfetto: “una delle esperienze più deliziose che un uomo di cul-tura possa attraversare”.
Accanto a questo, altri poemi (Childe Harold innanzi tutto), molte poesie e molte novelle (per esempio Beppo) sono di grande bellezza.
È più che comprensibile quindi che non sia facile reperire una biografia che offra un quadro complessivo e bilanciato dell’uomo e del poeta.
L’opera più completa è comunemente – e probabilmente a ragione – considerata quella di Leslie Marchand, che risale al 1957 (Byron: A Biography), in tre volumi.
Assai utile, però, per un primo contatto con questo personaggio, è il volume di Fiona Maccarthy, Byron: Life and Le-gend (Farrar, Straus & Giroux, 2002).
Il libro è certamente meno impegnativo (ma sono sempre 700 pagine) dell’opera di Marchand.
Tuttavia è approfondito e documentato; soprattutto, mette con vigore in risalto le doti più particolari di Byron e quelle più apprezzate da coloro che lo conobbero: la sua onestà intellettuale, la sua immediatezza e la sua simpatia, la sua ca-pacità di comunicare e di stabilire relazioni di amicizia e di affetto con chiunque, in qualsiasi regione d’Europa. A que-ste doti si deve la sua abilità nel conquistarsi il rispetto e la stima di persone di ogni sesso e di ogni strato sociale.
Sono queste doti che rendono Byron un precursore, nei suoi comportamenti, nella sua pratica di vita e nella sua dimen-sione intellettuale, di una modernità che era, nei primi decenni dell’Ottocento, ai suoi albori.
Un anticipatore della modernità, anche se, per molti versi, un prodotto antico delle perversioni romantiche e delle inibi-zioni morali del suo tempo.
Soprattutto un moderno europeo, in un’epoca in cui l’Europa era ancora un sogno ben al di là dall’essere realizzata (sal-vo che nelle lugubri modalità della Santa Alleanza).
Byron fu il primo che riuscì a mettere di fronte all’Europa – all’opinione pubblica europea, allora in corso di formazio-ne – la sua forza e la sua debolezza.
Prima di tutto, la varietà dei popoli e delle culture da cui era composta, sottolineando però non quel che a tutti sembrava ovvio, e cioè le diversità, ma le somiglianze e i punti di contatto.
Poi, la diversità dei principi e delle regole che la governavano, smascherandone la comune grettezza e la caducità.
Il testo ha utilizzato oltre che le opere di Marchand e di Maccharty citate, la parte su Byron della Letteratura inglese di Tomasi di Lampedusa, nelle Opere complete pubblicate da Mondadori.
Don Juan è stato pubblicato, con il titolo Avventure di Don Giovanni, da Newton Compton, nella traduzione (con testo a fronte) di Franco Giovanelli.

Le vite di Lauren Van Der Post

Alla sua morte, nel 1999, Laurens van der Post – sudafricano di nascita, olandese di origine, e inglese di adozione – era considerato un eroe di guerra, un impavido esploratore, un conoscitore dei popoli africani e dei loro dialetti (e di molte altre lingue del mondo, tra cui il giapponese e il malese), un esperto ambientalista, e, infine, un abilissimo diplomatico, il cui intervento era stato prezioso in Rhodesia, in Sudafrica, e, prima ancora, nelle complesse e sanguinose trattative che hanno condotto all’abbandono da parte degli olandesi delle loro colonie indonesiane.
Ai suoi funerali avevano espresso il loro cordoglio personaggi pubblici di tutto il mondo: tra gli altri, Nelson Mandela (con un messaggio portato personalmente da Buthelezy), il principe Carlo d’Inghilterra (del quale van der Post era stato per vari anni il privilegiato consigliere privato nelle questioni ambientali), Margaret Tatcher e poi diecine e diecine di personaggi di rilievo della cultura e della politica di molti paesi.
Con i suoi volumi, Van der Post ha affascinato milioni di lettori.
Ha raccontato, con semplicità e schiettezza, conquistandosi la fedeltà e l’ammirazione di milioni di lettori, la sua giovi-nezza in Sudafrica, allevato da una balia Bushmen, le sue imprese di guerra, le sue avventure solitarie nel Kalahari e in Abissinia, i suoi colloqui con l’amico Carl Gustav Jung (del quale scrisse una nota biografia), le sue imprese dopo es-sersi arruolato allo scoppio della guerra in un famoso reggimento inglese, la sua prigionia a Giava nei campi di concen-tramento giapponesi.
Ebbene, dopo la sua morte, si scopre all’improvviso che van der Post aveva inventato tutto, o quasi tutto ciò che rac-contava di aver fatto.
Aveva inventato la sua vita.
Non c’era stata nessuna bambinaia Bushment dalla quale aveva imparato il dialetto di quel popolo (che gli era scono-sciuto alla pari degli altri dialetti africani, del malese e, salvo qualche parola, del giapponese), non c’era stato arruola-mento volontario allo scoppio della guerra (aveva continuato tranquillamente a lavorare come giornalista a Londra fino al 1942), non aveva fatto parte di alcun famoso reggimento inglese (fu arruolato nel corpo di polizia), niente gesti eroici o avventure in Africa.
Molti tendono a celare gli episodi sgradevoli o meschini della propria vita, o a ingigantire quelli meritori o degni di ammirazione; molti altri adattano episodi cui hanno preso parte in modo da far risaltare il loro comportamento e le loro virtù.
Ma questo caso è ben diverso.
Van der Post aveva scientificamente, fin dalla sua prima gioventù, creato una, anzi, molte vite sostitutive della sua vita effettiva; era riuscito a imporle sulla realtà, sia nei confronti delle persone più vicine (la moglie e i figli) sia nei con-fronti di tutti coloro che, affascinati, lo ascoltavano e lo leggevano e credevano a tutto ciò che egli raccontava, senza rilevare quelle che dopo la sua morte sono apparse evidenti contraddizioni cronologiche e materiali.
Alcune voci isolate, in realtà, avevano tentato di opporsi alla costruzione del mito, altre avevano contestato la veridicità delle affermazioni di van der Post; ma tutte erano state ridotte al silenzio dalle sue risposte sdegnate e dall’opinione pubblica che difendeva il suo idolo e il suo eroe.
Il risultato è stata una vita inventata con artistica e geniale meticolosità combinatoria.
Ma anche con un coraggio ed una sfrontatezza senza paragoni, sfidando centinaia e centinaia di testimoni che hanno mantenuto inspiegabilmente il silenzio.
La storia di questo inusuale personaggio è raccontata da JDF Jones, Storyteller. The Many lives of Laurens van der Post (Murray Londra 2001).

S.N.

Due poeti sudafricani

Devo solo aspettare

Dio, con le tue grandi tette
Fatte per nutrire tutte le tue creature
Devo proprio maledire la mia bocca,
così incapace di succhiarle
o devo maledire le mie mani
incapaci di tenerle ferme

Dio, con le tue grandi tette,
I miei occhi si stanno ormai arrossando
Mentre aspettano il tuo latte
Che va sempre in altre direzioni
Spinto dai venti verso ovest
E io sono qui solo schizzata dalle gocce
Incapace di calmare la mia fame

Dio con le tue grandi tette,
devo maledire il colore nero della mia pelle
che mi fa sentire sempre affamata
mentre questo paese strabocca
di oro e di gemme
e la campagna è verde
come la pelle di una rana

Ma forse devo solo aspettar

Il nostro villaggio

Da quel giorno
Quando sono arrivati due signori bianchi
Vestiti di bianco
Il nostro villaggio non è più lo stesso.
Hanno mandato via il nostro capo
Hanno allontanato I nostri anziani
Hanno parlato di una nuova vita per tutti
Una vita come è quella a casa loro
Libertà e democrazia
Hanno convinto tutti
Che sono venuti proprio per noi
E hanno fatto molta strada per aiutarci
Però il nostro villaggio non è più quello di prima
Da quando sono arrivati i due signori
Vestiti di bianco.

La prima poesia, del 1995, è di Simion R. Nkanunu. La seconda è di Wopko Jensma ed è pubblicata in Sing for our Execution. Poems and Woodcuts, Ravan Press 1973.

Crediti

Questo ventiquattresimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2002 in duecento copie non nume-rate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive. Alcuni mi hanno chiesto spiegazioni per questa condizione. Il motivo è triplice. Economico: evitare spese di stampa e spedizione inutili. Ambientale: risparmiare alberi. Sociale: evitare invasioni sgradite nella privacy altrui.
Il sito è curato e aggiornato da Stefano Rossi. L’inserimento dei Testi infedeli nel sito è stato curato anche da Beniami-no Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Marina Nespor, Pasquale Pa-squino.