N. 21 estate 2002

La morte di Visnu

Per evitare di disturbare Visnu nel caso che non fosse ancora morto, la signora Asrani discese in punta di piedi le scale fino al terzo scalino sopra il pianerottolo dove Visnu viveva, tenendo in mano la piccola teiera.
Visnu giaceva sul pavimento, il corpo sagomato sulla curva delle scale. I lacci di un paio di scarpe erano arrotolati intorno alle dita di una mano. L’altra mano era distesa, come per cercare di trascinare il corpo sul gradino appena sopra.
Durante la notte, osservò la signora Asrani con disgusto, Visnu aveva vomitato. Ma cercò di non guardare alla larga macchia che si era espansa intorno al suo corpo. Che disastro, pensò, l’uomo delle pulizie avrebbe dovuto essere chiamato per pulire tutto e certamente avrebbe voluto essere pagato in più rispetto al mensile che gli veniva versato, e qualcuno degli abitanti della casa avrebbe dovuto farlo.
Ma lei, adesso, che doveva fare della tazza di te che portava a Visnu ogni mattina?
Da un lato, era evidente che il poveretto non ne aveva bisogno: stava proprio morendo. Ieri si era appena mosso quando lei gli aveva riempito la tazza di plastica, e lei si era anche un po’ offesa per non essere stata salutata come al solito.
D’altro lato, l’offerta di una tazza di te a un uomo che muore era certamente una buona azione. E, poiché aveva assunto il compito di dargli una tazza di te tutte le mattine, sarebbe stato stupido smettere proprio ora, che il suo compito stava per finire e sarebbero state necessarie ancora pochissime tazze. Che conseguenze il destino le avrebbe riservato, se tradiva così proprio all’ultimo il proprio compito quotidiano?
Premendo l’angolo del sari contro il naso per non sentire la puzza di vomito, la signora Asrani si decise così a scendere verso il pianerottolo. Usando il pezzetto di giornale che aveva portato con sé come ogni mattina, tirò fuori la tazza di plastica dal mucchietto di oggetti che appartenevano a Visnu avendo cura di tenere la carta tra le dita e la tazza. Sistemò così la tazza sul gradino vicino a lei e versò il te dalla teiera. Si fermò un attimo, quando la tazza era mezzo piena, perché le spiaceva l’idea di sprecare del buon te, con quello che costava ormai, poi con un sospiro riprese a riempirla.
Poi risalì le scale e guardò.
La tazza era piena e fumante dove la aveva lasciata, e Visnu sembrava muovere la mano per raggiungerla, come un uomo nel deserto che cerca di raggiungere l’acqua che potrebbe salvarlo.
Pensò di scendere e di avvicinargli la tazza ma ormai il pezzo di carta era rimasto sul pianerottolo e lei non sapeva quale superficie avesse toccato la tazza e quale la sua mano, sicché non poteva più raccoglierlo. Non c’era più nulla da fare, così si voltò e continuò a salire verso la sua abitazione, mentre la mano di Visnu lentamente e inutilmente cercava di raggiungere la tazza di te.

Da MANIL SURI, The Death of Visnu, Bloomsbury 2001.
L’episodio si svolge sul pianerottolo di un povero ma dignitoso condominio a tre piani in un quartiere popolare di Bombay.

Parlano Dschelal-Eddin Rumi, Suleika e un mendicante

Dice Dschelal-eddin Rumi:
Ti fermi, e il mondo ti sfugge come un sogno
Viaggi, e il destino sceglie per te il luogo;
Né il caldo né il freddo,
Né il piacere né la bellezza potrai fermare,
ciò che ti sembra fiorire, subito sfiorisce.

Dice Suleika:
Lo specchio mi dice, sono bella.
Voi mi dite, il mio destino è invecchiare.
Ma davanti a Dio ognuno resta eterno.
Per ciascun istante di bellezza
In me dovete amare l’eternità.

Dice il mendicante:
Pensi davvero che ci penserei due volte
Dolce Suleika,
a donarti Buchara e Samarkanda?
Ma se una donna chiede al re,
donami Buchara e Samarkanda,
Lui, così ricco e potente
non dirà mai di sì
Per farlo, bisogna amare una donna come te
Ed essere un mendicante come me.

Dice Suleika:
Ho pensato – oppure ho sognato –
Di vedere di notte la luna;
mi sono svegliata
sorgeva indesiderato il sole.

Dice Dschelal-eddin Rumi:
Ogni vita si può decidere di vivere
Se non si smarrisce sé stessi.
Tutto si può smarrire di sé stessi,
Se si rimane ciò che si è.

Dice il mendicante:
Sulla polvere, un’ombra nera
Appare compagna dell’amata.
Mi sono trasformato in polvere.
L’ombra, a un certo punto, mi ha lasciato.

Da JOHANN WOLFGANG GOETHE, West-oestliche Divan, 1819.
L’ultima poesia è nei manoscritti, ma non è stata inclusa nell’opera data alla stampa.

Reincantamento tecnologico

Laura Zink – sposata, tre figli, lavora in un’agenzia turistica con il marito, vive a Bennington Vermont – vede nel 1994 per la prima volta l’Occhio onnisciente di Dio.
Da allora sente tutti i giorni la voce della Madonna. Nel dicembre del 1996 Gesù le ordina di iniziare la sua missione, consistente nel costituire un sito web su Internet, e lì inserire tutti i messaggi che avrebbe ricevuto.
Così Laura ha fatto. Il sito si chiama Messages from the High, l’indirizzo web è http://mfoh.com, e si possono leggere, in ordine cronologico, tutti i messaggi che quotidianamente la Madonna ha inviato a Laura Zink dal 17 dicembre 1997 a quello del giorno prima.

*

Joseph Reinholtz è un pensionato delle ferrovie, vive a Chicago Illinois. Semicieco da molti anni, dopo una visita a Medjugorje nel 1987 riacquista la vista.
E subito, tornato a casa, vede la statuetta della Madonna collocata nel suo salotto che sta piangendo. Poi, il 15 agosto 1990 la Madonna gli appare per la prima volta; riappare nel novembre, questa volta accompagnata da San Michele Arcangelo.
Da allora, Reinholtz vede la Madonna tutti i giorni, sola o con altri Santi, salvo il venerdì.
Un giorno la porta in giro in auto per Chicago, accompagnata da due angeli.

*

Sono due casi di visionarismo cattolico come tanti altri: ogni anno, alcune centinaia di persone, secondo stime assai prudenti, cominciano a vedere o a sentire la Madonna.
Questi due casi, come la maggior parte degli altri, hanno una caratteristica in comune: accadono negli Stati Uniti. Quasi tutti, poi, si concentrano nei paesi ricchi del globo (Stati Uniti, Europa, Australia e Canada).
La Madonna frequenta sempre meno il Terzo Mondo.
Alcuni ritengono che dipenda dal fatto che nei paesi ricchi la gente crede sempre meno, e quindi c’è più bisogno dell’intervento della Madonna e di visioni.
Certamente, dipende dal fatto che solo nei paesi ricchi è agevole l’accesso ai mezzi tecnologici – televisione, fax, cellulari, meccanismi di riproduzione digitale e soprattutto Internet – che hanno permesso la trasformazione del visionarismo cattolico da un fenomeno episodico e d’elite (Lourdes, Fatima) con funzione esemplare per i fedeli, strettamente controllato dalle gerarchie ecclesiastiche, in un fenomeno che è – da Medjugorje in poi – partecipativo, democratico e di massa, e quindi anche sempre più spontaneo e sottratto a controlli centralizzati.
Nel contempo le apparizioni si sono delocalizzate e diffuse e polverizzate sul territorio, concentrandosi soprattutto nelle periferie dei centri urbani.

Non più pochi centri isolati che divengono poli ufficiali di culto, ma la modesta stanza delle pareti domestiche (ove non manca mai la statuetta della Madonna lacrimante) dove è collocato il PC.
E proprio questo strumento ha trasformato alle radici il visionarismo, ponendosi come la porta sul mondo globale e sull’Aldilà e, nel contempo, come il punto di contatto con una rete di veggenti interattiva in continua attività, ciascuno con le sue esperienze visive, vocali, percettive.
Il PC sta ormai affiancando al viaggio reale verso il luogo sacro di pellegrinaggio (il santuario) il viaggio virtuale, e la riproduzione all’infinito dell’apparizione.
È lontano il tempo in cui la Madonna appare a una contadinella o a tre bambini per raccontare i suoi segreti: oggi, ben più democraticamente, appare e colloquia incessantemente con migliaia e migliaia di persone (purché dotate di PC e residenti in un paese ricco).
Proprio per questa sua disponibilità, la Madonna polarizza le visioni della maggior parte dei veggenti. Pochi sono quelli che vedono Gesù, pochissimi sono direttamente in contatto con Dio, solo alcuni intessono un complesso colloquio con tutta la Trinità; d’altro canto, il clamoroso successo di Padre Pio ha fatto sì che siano in continuo aumento i veggenti dotati di stimmate doloranti.

Naturalmente, i veggenti non sprovveduti sono dotati di un proprio sito Internet, ove raccontano le loro esperienze visionarie e raccolgono adesioni e seguaci. Ci sono poi centinaia e centinaia di altri siti web che offrono la possibilità di incontri tra veggenti o aspiranti tali: lì dialogano visionari sporadici o dilettanti.
L’effetto che si sta producendo è quello di un progressivo reincantamento globale della realtà.
Una volta, nei villaggi medioevali, la presenza di streghe, fate e folletti era componente essenziale di un patrimonio culturale comune.
Oggi, paradossalmente, Internet e le moderne tecnologie hanno permesso di reincantare un mondo ormai da tempo secolarizzato, ridotto a pura materia e privo di poesia: tutti, con poca spesa, possono essere costantemente in contatto con il soprannaturale, registrarne le voci e fotografarne le immagini (ovviamente, con tecniche digitali) e rendere partecipi gli altri delle proprie visioni.
La cultura del visionarismo si espande.

Da: PAOLO APOLITO, Internet e la Madonna: sul visionarismo religioso in Rete, Feltrinelli 2002. Per dati analitici sulle visioni ufficiali della Madonna si veda Index of Apparitions of the Blessed Virgin Mary in http://members.aol.com/UticaCW/Mar-vis.html

Quattro poesie di Vincenzo Cardarelli

Amicizia

Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
perduti nel tempo, alla incresciosa
nostra intimità.
Ci siamo sempre lasciati
Senza salutarci.
Ci siamo rispettati al passo,
bestie caute,
cacciatori affinati
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto,
di non ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato.

Passato

I ricordi, queste ombre troppo lunghe

Del nostro breve corpo,
questo strascico che lasciamo vivendo,
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Ora sì posso dire
Che m’appartieni,
e qualche cosa fra noi è accaduto.
Tutto finì, così rapido.
Precipitoso e lieve
Il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
Ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
Brucia la vita e fa volare il tempo.

Gabbiani

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
Com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.

E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

Alla deriva

La vita io l’ho castigata vivendola.
Fin dove il cuore mi resse,
arditamente mi spinsi.
Ora la mia giornata non è più
Che uno sterile avvicendarsi
Di rovinose abitudini
E vorrei evadere dal nero cerchio.
Quando all’alba mi riduco,
un estro mi piglia, una smania
di non dormire,
e sogno partenze assurde,
liberazioni impossibili.
Tutto il mio chiuso
E cocente rimorso
Altro sfogo non ha
Fuor che il sonno, se viene.
Invano, invano lotto
Per possedere i giorni
Che mi travolgono rumorosi.
Io annego nel tempo.

Da VINCENZO CARDARELLI, Poesie, Mondadori 2001.

Il prefetto Tarangolian

Il signor Tarangolian, il prefetto di Cernopol, veniva ogni tanto a trovare i nostri genitori.
D’estate arrivava su una carrozza tra le cui ruote posteriori sgambettavano due cani dalmati dal pelo macchiettato.
Era un uomo di media statura ma corpulento e imponente: quando scendeva appoggiandosi alle spalle del gendarme che lo accompagnava ovunque, le molle della carrozza si piegavano in maniera preoccupante per poi risollevarsi con un guizzo appena il piede del prefetto, calzato in una scarpa nera e lucida come la vernice del veicolo, aveva lasciato il predellino.
Il signor Tarangolian si tingeva i baffi, sempre perfettamente incerati e appuntiti alle estremità, e i folti sopraccigli per farli sembrare neri come il carbone; poiché il nero contrastava con il grigio dei capelli tagliati a spazzola, baffi e sopraccigli sembravano incollati sulla faccia e gli davano l’aria irreale di un mago da salotto. I sopraccigli poi erano indipendenti l’una dall’altro, e si agitavano sulla fronte come due grossi bruchi neri, per rendere più eloquente la mimica del loro padrone. I denti, perfettamente regolari e bianchi come perle, avevano tutta l’aria di essere falsi e noi aspettavamo sempre con impazienza che la dentiera riprendesse la propria libertà e si chiudesse di scatto, voracemente, durante uno dei baciamani che egli distribuiva a destra e a sinistra con generosità.

Gli aspetti più pericolosi della sua personalità non venivano però alla luce durante l’estate. Nel periodo estivo l’abito di seta greggia color crema e la larga cintura di pelle intrecciata gli conferivano l’aria di un tranquillo signore di campagna in vacanza: facevano pensare a passeggiate sulla sponda dell’Adriatico e a sieste sulla terrazza di un albergo all’ombra di agavi polverose.
D’inverno invece il signor Tarangolian appariva come un colosso che sprigionava intorno a sé una potenza primitiva e minacciosa. Solo allora si notava il taglio aspro del viso, con gli zigomi vigorosi che parevano partire direttamente dall’enorme bavero della sua pelliccia d’orso e ardevano nell’aria fredda come un samovar accesso.
Il ventre sporgente, che la cintura estiva aveva arginato con tutti i riguardi, aveva una gran voglia di far saltare in aria il pesante cappotto e lo tendeva come una grossa cotenna irta di setole. Di sotto a questa armatura affioravano la camicia bianca, il colletto rigido, i polsini inamidati, le scarpe lucidissime protette da ghette di feltro chiaro.
Portava con la pelliccia un berretto rotondo diviso a spicchi come un melone e munito di due paraorecchi sempre sollevati a metà e sporgenti come un paio d’ali. Era un incrocio architettonico tra una cupola e una pagoda e faceva pensare ai palazzi di Samarcanda e ai mongoli imbacuccati nelle loro giacche felpate che avanzavano curvi sotto i venti gelidi, spingendo avanti a sé yak e cammelli carichi di té.

Solo che al posto dei loro volti glabri, vecchi come i cumuli del Tibet, spuntavano i baffi marziali e i diabolici sopraccigli del prefetto, che ci venivano incontro inesorabili e terribili.
D’inverno il signor Tarangolian arrivava in slitta.
Sulla cassetta troneggiava il cocchiere, massiccio e irsuto come un mammut, accanto al quale sedeva il gendarme, livido di freddo nel suo leggero cappotto d’ordinanza. In seguito, quando sentivamo parlare delle sofferenze della armata di Napoleone inghiottita dal ghiaccio della steppa ci ritornava sempre davanti agli occhi il povero gendarme.
Il prefetto era invece sepolto sotto una montagna di pellicce, manicotti e coperte. Appena la slitta si fermava, il gendarme cominciava a toglierli con uno zelo che le dita intirizzite dal freddo rendevano vano; allora, se non riusciva a procedere con la necessaria sveltezza, si accaniva nella sua opera come uno scorticatore sulla spoglia di un orso abbattuto.
Il signor Tarangolian, appena liberato, si ergeva con un gemito di piacere, e posava la mano inanellata sulla spalla del gendarme per aiutarsi a scendere, scaricando così tutta la sua mole sul poveruomo e conficcandolo profondamente nella neve.
Noi assistevano alla scena dalla finestra della stanza, tutta ricoperta di arabeschi di ghiaccio tra i quali avevamo aperto con il fiato delle minuscole feritoie per poter spiare quel che accadeva fuori.

Così, la scena sembrava svolgersi in mezzo a uno scintillante bosco incantato, simile al groviglio dei tralci che decorano le pagine miniate, e sembrava uscire dalla realtà per assumere l’acutezza e la profondità di una parabola.

Da GREGOR VON REZZORI, Ein Hermelin in Tschernopol, Hamburg: Rowohlt, 1958, è tradotto in italiano da Gilberto Forti ed edito nel 1989 da Edizioni Studio Tesi.

Festa del perdono

Che io non sia più viva
quando i figli
di chi vi ha preso il padre,
forse sinceri,
forse spaventati
o soltanto abili
a fiutare il vento,
dagli scranni rossi di velluto
di chiese, tribunali e parlamento,
s’alzeranno
compunti
contriti
compresi
della solennità dell’ora
e con volto severo, telegenico, solleveranno occhi umidi al cielo
e piegando il ginocchio
davanti a voi, figli miei,
chiederanno perdono
per ciò che i loro padri hanno fatto al vostro.
Cerimonia sentita
preparata con cura,
talk show e tavole rotonde,
sondaggi, analisi
nobili appelli, accorate preghiere.

E per non guastar la festa
dite che sì,
perdonate, perdonate, perdonate
perché il passato è passato
e oggi siamo diversi
mai più simili orrori
l’odio non paga
si deve guardare avanti
e marciare uniti verso qualcosa.
Un abbraccio,
un altro ancora,
finché l’ultimo cameraman
non ha spento
l’ultima lampada.
E poi via, ognuno al suo posto
perché la vita continua
e la morte no.
Che io non sia più viva
nel giorno del perdono senza giustizia
quando,
nella folla intenta a girar pagina,
nel vostro viso vedrò,
figli miei,
l’amore mio d’un tempo.

FULVIO SCAPARRO

Capitalismo vittoriano: Mr Hancock e Mr Rothschild

I

“Tremo al solo pensiero del mio crimine, ma sarebbe assurdo esibire rimorso dopo che per anni ho continuato a comportarmi in un modo così detestabile.
Il mio suicidio è ora assolutamente necessario, e la mia colpa me lo impone: infatti non posso sopportare l’idea di incontrarvi dopo che per anni vi ho derubato, e no voglio affrontare l’inevitabile pubblico scandalo. Prima che voi riceviate questa lettera, le mie mani saranno divenute immobili, e certo sarebbe stato meglio se fossi morto molti anni orsono”.
Così scriveva nei giorni di Natale del 1798 William Hancock ai suoi datori di lavoro, Smith, Payne & Smith, una banca londinese di Lombard Street, poco prima che venisse predisposto il tradizionale inventario generale annuale.
Hancock, figlio di un negoziante del Berkshire, entrò nella banca come semplice impiegato nel 1773. Divenne in pochi anni funzionario capo. Viveva da solo in un modesto appartamente vicino alla banca, non aveva amici. Non si sposò mai. Conduceva una vita regolare e morigeratissima, scandita dagli orari dell’ufficio e dai riti della Chiesa Anglicana di cui era un devoto seguace.

Dal 1780, procedendo con alacrità e tenacia, cominciò a sottrare – o meglio, come scrissero poi i giornali, a defalcare – piccolissime somme di denaro sulle operazioni commerciali che seguiva per conto dei suoi fiduciosi datori di lavoro.
In pochi anni, riuscì a sottrarre una enorme quantità di denaro, mettendo a punto un particolare illecito bancario, basato sulla perseveranza, la competenza, il sangue freddo e sulla capacità di riscuotere fiducia da parte dei superiori che da allora in poi ha avuto una consistente diffusione.
Hancock però non si uccise in quel dicembre del 1798, non inviò la lettera, e nessuno si accorse degli ammanchi durante il consueto inventario annuale.
Così, egli continuò nella sua brillante carriera bancaria, e continuò anche a defalcare centesimo su centesimo, accumulando profitti.
Continuò anche a scrivere, ogni anno, in occasione delle feste di Natale e degli inventari, lettere analoghe a quella che ho ritrascritto, e a riporle, passato il pericolo, nel cassetto della scrivania del suo ufficio.
Nel 1805 decise di scegliere una soluzione meno definitiva e drammatica per porre fine alla propria attività: presentò una lettera di dimissioni. Ma i dirigenti della banca non ne vollero sapere di privarsi del funzionario più solerte della loro organizzazione: gli diedero un cospicuo aumento e lo costrinsero a restare.

Finalmente, nel gennaio del 1807, un martedì, superato ancora una volta l’abituale pericolo dell’inventario annuale Hancock non si presentò al lavoro, prese un treno per Brighton, inviò una delle sue consuete lettere alla banca, invitando i dirigenti a raccogliere tutto il loro sangue freddo prima di aprire il cassetto della sua scrivania. Poi si uccise.
Nel corso di quasi venti anni Hancock – soprannominato Defalcator – aveva sottratto oltre 4 milioni di sterline (in valore attuale).
Nessuno ritrovò mai il denaro.
Le inchieste che seguirono non riuscirono neppure ad appurare come Hancock avesse potuto utilizzarlo.

II

Messaggio della Segreteria della Regina Vittoria alla Segreteria del Primo Ministro Gladstone.
“La Regina è davvero dolente, ma non può davvero accogliere la richiesta di concedere un titolo di nobiltà al signor Lionel Rothschild, come richiestole dal primo ministro Gladstone.
Ciò dipende non solo dal fatto che le riesce impossibile ipotizzare che una persona di religione ebraica possa divenire un nobile inglese.
Dipende soprattutto dal fatto che non è accettabile attribuire un titolo di nobiltà a una persona che deve la sua ricchezza soltanto a fortunate speculazioni internazionali.
In definitiva, l’attività del signor Rothschild, consistente in operazioni finanziarie di carattere speculativo ovunque esse siano possibili, non è diversa dal gioco d’azzardo, condotto su scala globale.

È un’attività che non merita alcun apprezzamento, essendo ben diversa dall’attività commerciale che riscuote l’approvazione della Regina, con la quale i suoi sudditi si sono elevati con paziente alacrità e inflessibile moralità a posizioni di agiatezza e apprezzamento”.

Da DAVID KYNASTON, The city of London, vol.I (1815-1900), Random House, 1994; RICHARD DAVIS, The English Rothschilds, 1983.

Crediti

Questo ventunesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 2002 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi infedeli sono curati da Beniamino Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Marina Nespor, Pasquale Pasquino, Marco Santambrogio.