N. 14 inverno 1998

Guerre e guerre

Una volta c’era la guerra fredda.
L’Occidente produceva, commerciava e vendeva armi sempre più letali e sofisticate per conservare la pace: l’obiettivo era quello di essere più armati del Nemico.
La conservazione della pace comportava una vita sotto l’incubo della distruzione totale: ma era l’unico mezzo per evitare la guerra.
Mai è stato realizzato in modo così perfetto il mercato ideale: un meccanismo fine a sé stesso, inventato per produrre e vendere costosissime merci da non usare. Merci tanto più costose, quanto assolutamente inutili, perché progettate e realizzate per una guerra finta, una guerra che non ci sarebbe mai stata e non avrebbe mai potuto esserci, anche perché il Nemico, presentato assiduamente come forte, agguerrito, crudele, era debole, privo di risorse, tecnologicamente arretrato: gli mancava tutto, telefoni, cavi, computer.
Il suo crollo ha distrutto il mercato virtuale che per mezzo secolo ha reso ricchi e felici i produttori e i mercanti di armi e i governi occidentali che ufficialmente o clandestinamente li hanno sponsorizzati.
Fine dell’incubo, fine del pericolo di distruzione, inizio di un mondo di pace?
Assolutamente no: fine della guerra fredda e finta, ritorno alle guerre tradizionali, quelle calde e vere. È iniziato il riarmo: non si parla più di guerre stellari, si parla, tutti i giorni, di guerre.
È iniziata così una espansione della NATO, un organismo che avrebbe dovuto essere soppresso perché ormai totalmente inutile. Secondo Joel Johnson di Aerospace Industries la domanda di caccia da combattimento per il mercato NATO da sola vale attualmente più di 10 miliardi di dollari. Nello stesso tempo, la maggior parte dei paesi occidentali ha aumentato gli stanziamenti bellici nel proprio bilancio. L’Italia è in prima fila: la legge finanziaria del 1998 ha portato il bilancio del Ministero della Difesa da 26.000 miliardi a 31.000 di lire: un aumento di oltre il 20%, un record. Per di più, il costo per finanziare il caccia da combattimento Eurofighter 2000, pari a 928 miliardi di lire, è stato occultato nel bilancio del Ministero dell’Industria (furbissimi, non è vero, Prodi e D’Alema?).
Nessuno ne ha parlato.
La corsa al riarmo significa anche corsa al riarmo nucleare.
In questo settore, la scomparsa del Nemico ha segnato lo sblocco di una situazione di stallo che durava da vari anni e il rilancio della produzione di armi nucleari: il segnale è stato dato dalla Francia prima, da India e Pakistan più recentemente.
Ma, finita la guerra finta, le armi si possono vendere solo se c’è un numero sufficiente di guerre vere che permette di usarle e di consumarle.
La domanda va inventata, creata e incoraggiata.
Prima il compito dei produttori di materiale bellico e dei media era quello di convincere l’opinione pubblica che il Nemico era forte e minaccioso.
Oggi il compito è diverso: vanno costruiti tanti nemici e vanno dislocati in luoghi adatti, dove eventuali bombardamenti e massacri non diano noia al mondo ricco.
È un lavoro che richiede tempo e investimenti.
Non è un lavoro facile.
Bisogna convincere l’opinione pubblica mondiale che il capo di un piccolo paese sottosviluppato – ieri Nicaragua e Libia, oggi Irak – è una minaccia per il mondo intero, Stati Uniti compresi.
Ma il vero colpo di genio del marketing bellico – paragonabile quasi a quello della guerra fredda – è quello inaugurato con l’Irak, e cioè l’ispezione permanente: i nemici devono essere a disposizione per perlustrazioni continue a tempo indeterminato alla ricerca di armi, munizioni, industrie chimiche dissimulate, provette, carte.
Pensate quanto è stato investito in tempo e denaro per ottenere un vero mostro come Saddam Hussein, a confronto del quale Noriega, Ortega e perfino Gheddafi costituiscono dilettanteschi tentativi. Ma pensate anche quanto rende un piccolo, stupido, crudele criminale come Saddam Hussein in termini di produzione di armi, navi, aerei, bombe e in termini di occupazione per militari e attivisti bellici.
Il vero problema è però che, a differenza del vero Nemico, questi piccoli nemici si usurano velocemente e debbono essere prontamente sostituiti: siamo passati all’usa e getta. Quali saranno i prossimi?
*

Il libero mercato globale non ha distribuito benessere e uguaglianza; ha globalizzato morte e fame.
In Russia e in molti paesi asiatici la popolazione è stata severamente punita per aver creduto nelle promesse di un roseo capitalismo con il quale tutti avrebbero avuto automobili e forni microonde a portata di mano.
Il libero mercato ha globalizzato anche la disoccupazione, ovunque in aumento.
Nel contempo, si è globalizzata anche la sovrapproduzione: solo nel settore dell’auto vengono prodotti annualmente milioni di auto in eccesso.
Eppure secondo alcuni bisogna abbassare i salari per rilanciare l’economia. Perché i produttori dovrebbero assumere altri lavoratori anche se costano meno? C’è qualcuno che crede che se si dimezzano i salari la Fiat assumerà personale per fare un numero ancora maggiore di inutili automobili, magari a mano?
Abbassare i salari ha un solo effetto: demolisce il lavoro stabile a favore di quello instabile, ricattabile, infortunabile, trucidabile.
Ma, dicono quelli che lo propongono come rimedio, così facendo si diminuisce la rigidità del mercato del lavoro.
Ottima idea per un paese come l’Italia dove ci sono almeno 5 milioni di lavoratori in nero: un enorme mercato del lavoro superflessibile, che in molte zone del paese supera il mercato del lavoro ufficiale.
Cosa c’è di meno rigido del lavoro nero? Non sicuramente il sistema schiavistico, dato che i proprietari di schiavi dovevano nutrire i propri schiavi tutti i giorni e non potevano disfarsene licenziandoli.
Certo, flessibilità significa rendere legale il mercato del lavoro nero, o meglio rendere nero il mercato ufficiale, e poi rendere il tutto legale, ottenendo così centinaia di migliaia di posti di lavoro in più, tutti flessibilissimi.
In realtà, nei paesi occidentali siamo in presenza di una guerra unilaterale e globale contro i lavoratori garantiti e contro i livelli di sicurezza conquistati nel corso degli ultimi decenni. Una guerra che in Italia fa 1000 morti ufficiali l’anno (e due o tre volte tanto sommersi). Gli incidenti sul lavoro sono centinaia di migliaia l’anno, ma non se ne parla più (è un argomento archiviato insieme al comunismo, ai dischi di vinile e ai telefoni a manovella).

Odon Von Horvàth: tre pezzi e qualche dato

I

Ieri c’è stata la rivoluzione. Finalmente.
I Ministri sono stati tutti arrestati, salvo il Presidente del Consiglio che è fuggito all’estero, e il Ministro degli Interni fucilato in una osteria.
C’è gioia dovunque. Il popolo balla per la strada e si formano cortei qui e là. Dovunque la gente brucia e strappa le vecchie bandiere, mentre le nuove sventolano.
I militari sfilano; il nuovo Presidente ha le lacrime agli occhi.
La vecchia signora Hatschmaier ha avuto un infarto per la gioia.
Finalmente, finalmente il popolo ha vinto.
Sono scomparse le caste e le classi. C’è solo un popolo. Scomparsi anche i falsi dei. C’è solo la Nazione.
C’erano anche alcuni che dicevano, ma come un solo popolo, com’è questa storia della fratellanza e dell’uguaglianza, se alcuni continuano ad avere molto denaro e altri non ne hanno?
Sono stati subito fucilati.

II

Sul mio tavolo c’è un mazzo di fiori. Un regalo dei miei genitori: oggi è il mio compleanno. C’è un biglietto di mia madre: “Per il tuo trentaquattresimo compleanno ti auguro, mio caro figlio, ogni bene. Dio ti invii salute, fortuna e felicità!”. C’è anche un biglietto di mio padre: “Per il tuo trentaquattresimo compleanno ti auguro, mio caro figlio, ogni bene. Dio ti invii salute, fortuna e felicità!”.
La fortuna serve sempre, la salute c’è, ma felice proprio non lo sono. Ma forse nessuno lo è.
Mi siedo al tavolo, apro il calamaio con l’inchiostro rosso, sistemo davanti a me i ventisei compiti in classe che devo correggere, e penso: sono proprio stupido. Ho un posto sicuro con il diritto alla pensione, e questo è un bel successo oggigiorno, quando non si sa che cosa succederà domani. Quanti vorrebbero essere al mio posto! È davvero minuscola la percentuale di coloro che vogliono fare gli insegnanti che riesce a divenire di ruolo. C’è da ringraziare Dio che io lo sono diventato in un ottimo liceo e così posso divenire vecchio e stupido senza preoccupazioni. Posso arrivare anche a cent’anni, sempre con una pensione.
Comincio a correggere.
Ventisei ragazzi, di circa quattordici anni, hanno fatto un compito in classe di geografia (io insegno geografia e storia).
Il tema assegnato dalla scuola è “Perché dobbiamo avere delle colonie?”
Allora, Bauer (non ho allievi il cui cognome comincia per A), allora spiegami perché dobbiamo avere delle colonie.
“Abbiamo bisogno di colonie perché lì si trovano le materie prime con le quali facciamo funzionare le nostre industrie; senza le colonie non potremmo quindi offrire lavoro a tutti i nostri operai” – Giusto, Bauer – “Naturalmente, il problema non sono i lavoratori, è il popolo, perché anche loro, alla fin fine, appartengono al popolo”. Senza dubbio questa è alla fin fine una bella scoperta, caro Bauer. Ma so bene che è meglio non fare alcun appunto: è ciò che tutti i giornali ripetono. Non voglio irritarmi con i miei studenti, che, poveretti, non fanno altro che ripetere quello che sentono.
Vediamo che cosa scrive N.
“Abbiamo le colonie perché tutti i Negri sono falsi, fannulloni e ignoranti”.
Questo è troppo!
Sto già intingendo la penna nel calamaio, per scrivere: “Generalizzazione banale e priva di senso!”, poi mi fermo. Non ho appena sentito questa frase l’altro giorno da qualche parte? Sì, la ho sentita alla radio, mentre ero al ristorante, e mi era quasi passato l’appetito.
Lascio la penna: quel che la radio dice, non può essere censurato da un insegnante.
Passiamo al compito di S.

III

Sono nato il 9 dicembre del 1901 a Fiume sull’Adriatico.
Quando pesavo trentadue libbre, ho lasciato Fiume, e ho cominciato a girare tra Venezia e i Balcani.
Quando divenni alto 1,20 metri fui portato a Budapest, dove vissi fino a 1 metro e 21. Lì fui un visitatore accanito di spazi dedicati ai giochi per bambini, risultando sempre antipatico per il mio comportamento un po’ sognatore e un po’ dispettoso.
Ad un altezza di circa 1,52 metri si risvegliò in me l’Eros, ma senza procurarmi troppi fastidi.
Il mio interesse per l’arte e per la letteratura spuntò relativamente tardi, quando ero alto circa 1 metro e 70, ma solo quando raggiunsi 1,79 metri divenne una vera e propria irrefrenabile passione.
Quando scoppiò la guerra mondiale ero alto 1,67 e quando finì ero già arrivato a 1,80.
Tutti i miei ricordi d’infanzia sono andati perduti durante la guerra.
E poi, prima della guerra cambiavo città praticamente ogni anno; così ogni anno a scuola parlavo una lingua diversa. Quando giunsi in Germania la prima volta, non riuscivo neppure a leggere, nonostante la mia lingua materna fosse il tedesco, perché non conoscevo l’alfabeto gotico. Solo a quattordici anni scrissi la mia prima frase in tedesco.
Non chiedetemi perciò della mia patria. Posso solo rispondere: sono nato a Fiume, sono cresciuto a Belgrado, Budapest, Bratislava, Vienna e Monaco. Ho un passaporto ungherese. Patria? Non so che cosa vuol dire. Sono ungherese, croato, tedesco, ceco, il mio nome è ungherese, la mia lingua è il tedesco. Non ho patria, e non mi dispiace, anzi ne sono contento.
Naturalmente ci sono paesaggi, città, appartamenti, camere da letto dove mi sento a casa. Ho i miei ricordi: strade, piazze, stazioni ferroviarie, boschi, il mio primo amore con una donna che mi incontrò a Budapest e mi portò nella sua grande casa, dove viveva sola perché il marito era da tanto tempo in guerra, credo in Galizia; lei aveva voglia di essere amata.

IV

Odon von Horvàth: simpatico, modesto, pieno di charme, cavalleresco, ironico secondo Walter Mehring; sempre socievole e gaio secondo Hertha Pauli; gli piacevano la solitudine e le montagne, ma anche i mercati e le piazze piene di traffico, gli piaceva lo sport, soprattutto l’hockey su ghiaccio e la boxe, secondo Theodor Csokor. Dice Hans Geiringer che odiava i vestiti nuovi, lo smoking, i colletti duri, le scarpe di vernice; ciò nonostante era sempre elegante. Frequentava il salotto di Alma Mahler e quello di Max Reinhardt a Vienna. Gli piaceva la compagnia e riusciva a entrare in contatto anche con persone di cui non parlava la lingua.
Divenne famoso a Berlino per i suoi atti unici per teatro; ottenne il premio Kleist nel 1931.
Per i nazisti fu un rappresentante dell’arte degenerata.
Scrisse al suo carissimo amico Csokor nel novembre 1933: “Siamo ormai tutti prossimi ad emigrare, viviamo vicino alle nostre valige già pronte, impariamo freneticamente l’inglese, impariamo a cucire e a cucinare. E intanto, continuiamo a scrivere, a pensare, come se nulla fosse”.
Era a Vienna quando, nel marzo del 1937, l’Austria è occupata dai nazisti e annessa al Reich. Trova fortuitamente un posto su un autobus per Budapest. Da Budapest scrive a Csokor: “Capisco solo adesso che cosa vuol dire non poter più tornare indietro”.
Fugge da Budapest e si ferma per due settimane da una amica a Teplitz.
Riparte e va a Milano, si ferma tre giorni.
Di lì va a Zurigo.
Rimane due settimane, poi si ferma due ore a
Bruxelles. Poi ad Amsterdam.
Il 28 maggio arriva a Parigi. Ottiene un visto per gli Stati Uniti. Deve partire il 3 giugno.
Scrive a Csokor: “Sono felice: Adieu, Europa”.
Il 31 maggio festeggia la partenza con i suoi amici.
Si allontana alle sette di sera, vuole fare un’ultima passeggiata per gli Champs-Elisées.
C’è un improvviso temporale, un colpo di vento abbatte un vecchio castagno. Un ramo colpisce Horvàth.
Muore sul colpo.

Il primo pezzo è tratto da Die stille Revolution. Kleine Prosa, Suhrkamp 1975. Il secondo e il terzo da Ausgewahlte Werke, vol.2, Berlin (DDR) 1981. Le note biografiche sono tratte da varie fonti e dalle introduzioni dei curatori dei due volumi, Traugott Krischke e Hansjorg Schneider.

Dove sono gli Ilois

Gli Ilois erano gli abitanti dell’isola Diego Garcia. Non erano più di qualche migliaio, all’inizio degli anni Sessanta.
Diego Garcia è una colonia britannica, fa parte dell’Arcipelago delle Chagos.
Gli Ilois sarebbero dovuti divenire indipendenti nel 1965. Diego Garcia avrebbe dovuto formare un unico Stato insieme a Mauritius.
Mauritius è divenuta indipendente. Le isole Chagos e Diego Garcia no.
Sono state costituite in nuova colonia, denominata British Indian Overseas Territories, nonostante una risoluzione delle Nazioni Unite che diffidava formalmente la Gran Bretagna dal separare le isole Chagos da Mauritius.
Poi, le isole Chagos e i suoi abitanti sono scomparsi dalla carta geografica.
Non perché non valesse la pena di segnarle. Sono scomparse perché valgono troppo. Sono collocate a metà strada tra India e Medio Oriente, e la Gran Bretagna si è accorta che avrebbero presto avuto una enorme importanza strategica.
Così le ha affittate agli Stati Uniti, che le usano come base militare (e anche, visto che ci sono, come discarica di materiale radioattivo).
Da Diego Garcia nel 1991 sono partiti gli aerei utilizzati per bombardare l’Irak.
Ma che fine hanno fatto gli Ilois?
Le isole sono state consegnate agli Stati Uniti vuote, libere da persone o cose, come in ogni contratto di affitto che si rispetti.
Secondo il Ministero della Difesa della Gran Bretagna, gli Ilois “non sono mai esistiti”.
“Virtualmente disabitata” era Diego Garcia secondo il Ministero della Difesa degli Stati Uniti allorché ha fornito spiegazioni a una richiesta del Congresso in merito alla sorte degli abitanti.
Virtualmente.
Gli Ilois non ci sono più in Diego Garcia. Neppure uno.

Da: JOHN MADELEY, Diego Garcia. Report n.54. Minority Rights Groups, 1985; MARK CURTIS, The Ambiguity of Power: British Foreign Policy since 1945, Zed Books London 1995; JOHN PILGER, Hidden Agendas, Australia 1998.

Otto poesie di Giorgio Caproni

I

Devi perseverare
e usare molta pazienza
se vuoi arrivare
al punto di partenza.

II

Devi tornare.
Stai cercando davanti a te
ciò che hai lasciato alle spalle.

III

Calmati. Dove mai vuoi andare?
un punto è assodato.
non potrai mai arrivare
dove sei già arrivato.

IV

Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.

V

Tutti i luoghi che ho visto
che ho visitato,
ora so – ne sono certo:
non ci sono mai stato.

VI

Non chiedere nulla più.
Nulla per te qui resta.
Non sei della tribù.
Hai sbagliato foresta.

VII

Guardava il bicchiere. Fisso.
Quasi da ridurlo in schegge.
Capiva che il bicchiere dura
Più di chi lo regge.

VIII

Non portare con te nemmeno
la lanterna. Là
il buio è così buio
che non c’è oscurità.

Da GIORGIO CAPRONI. Le poesie sono tratte da: Il Franco cacciatore, Il muro della terra, Congedo del viaggiatore cerimonioso.

Il nuovo mondo

“Come stavo dicendo l’ultima volta che ci siamo visti”.
Così si rivolse ai suoi studenti, riprendendo il suo corso all’università di Salamanca al punto in cui lo aveva interrotto, l’umanista e poeta Luis de Leon.
L’interruzione, protrattasi per vari anni, fu dovuta all’incarceramento di de Leon su ordine della Santa Inquisizione.
Luis de Leon fu un uomo fortunato: fu incarcerato e ripetutamente torturato, ma non fu considerato sufficientemente eretico per essere bruciato.
Era il 1576.
Luis De Leon nelle sue lezioni parlava del Nuovo
Mondo, e parlava di coloro che abitavano in quei luoghi come esseri umani.
Parlava anche degli abitanti di Hispaniola (oggi suddivisa tra Haiti e Santo Domingo), diceva che erano uomini proprio come gli spagnoli.
Gli abitanti di Hispaniola furono assai meno fortunati delle popolazioni indiane delle aride zone dell’alta California e del Nevada, che vissero indisturbati fin oltre la metà del secolo scorso.
Scrisse Joseph Ives nel 1857, allorché la sua spedizione raggiunse il Grand Canyon: “La regione è totalmente priva di interesse; ci sono solo alcuni gruppi di selvaggi; una volta arrivati, l’unica cosa da fare è andarsene. Il gruppo di bianchi da me guidato è stato il primo, e certamente l’ultimo, a visitare questa località priva di qualsiasi utilità”. Per quei gruppi di selvaggi queste parole furono la salvezza. Per qualche decennio.
Hispaniola fu invece ritenuta subito interessante dai suoi primi visitatori. Così i suoi abitanti, circa centomila nel 1492 al momento dell’invasione spagnola, divennero duecento appena ottanta anni dopo.
Erano stati distrutti dalle malattie e dalle sevizie subite; ma forse ancor di più dal disgusto per quella civiltà rappresentata ai loro occhi dall’unione di conquistadores e di preti, di potere militare e poliziesco e potere religioso. È stato per entrambi i poteri un abbinamento di enorme successo, e solo da pochi secoli la Chiesa cattolica vi ha rinunciato, qui in Europa. Non vi ha invece mai rinunciato in America Latina: ne sono stati conferma e simbolo in un recente passato l’immondo pubblico incontro in Vaticano tra Woytila e Pinochet.
Mentre gli abitanti delle terre invase morivano, i colonizzatori inviavano commissioni di inchiesta per indagare sulla loro natura.
Erano uomini, o creature diaboliche?
I monaci spagnoli dell’ordine di San Gerolamo furono incaricati di effettuare un vero e proprio sondaggio, inviando un questionario ai coloni per sapere se essi li considerassero uomini.
Tutte le risposte furono negative.
Non erano uomini – secondo gli intervistati – “perché sfuggono gli Spagnoli, perché vanno in giro nudi, perché rifiutano di lavorare senza compenso, perché non hanno la barba, perché tagliano la barba quando cresce, perché regalano i loro beni agli amici, perché non scacciano i compagni a cui gli Spagnoli per punizione hanno tagliato le orecchie”.
Naturalmente, i monaci spagnoli dell’ordine di San Gerolamo non intervistarono Luis de Leon.
Così, per l’opinione pubblica europea del tempo, sapientemente orchestrata, costruita e alimentata dal potere politico, ecclesiastico e militare, questo era e doveva rimanere il Nuovo Mondo: popolato non da uomini, ma da mostri e da creature fantastiche, nemiche e diaboliche.
Alcuni hanno cercato di opporsi e di combattere queste menzogne e di svelarne i disegni di dominio e di sfruttamento.
Basta pensare alla Tempesta, composta da Shakespeare alcuni decenni dopo che Luis de Leon aveva ripreso le sue lezioni, ove l’atteggiamento dominante viene irriso e capovolto: Miranda, che da sempre vive con il padre Prospero in un’isola popolata solo da mostri e da creature fantastiche, reagisce con incontenibile stupore alla vista…. di un essere umano uguale a lei, con l’istintiva esclamazione (resa poi famosa da Huxley): “O Brave New World!”.

Da: CLAUDE LEVY STRAUSS, Tristes Tropiques, 1960; HENRY KAMEN, The Spanish Inquisition: A historical revision, Yale Uni Press 1998; STEPHEN J. PYNE, How the Canyon became Grand: A Short History, Viking 1998).

Tre poesie di Wislava Szymborska

La nuova stella

Hanno scoperto una nuova stella.
Ma non è che qui ci sia più luce di prima.
E prima di questa stella
non se ne sentiva la mancanza.
La stella è grande e lontana,
così lontana che sembra assai piccola,
più piccola di altre stelle
che in realtà sono molto più piccole di lei.

L’età   della   stella,  la   sua   massa,  la posizione
sono  state  l’argomento  per  una  tesi  di dottorato
e per un piccolo rinfresco:
c’erano  l’astronomo,  sua  moglie,  parenti, colleghi,
il   rettore   dell’università,   il ministro dell’educazione;
l’atmosfera era rilassata,
gli abiti informali
si parlava soprattutto di politica locale
si masticavano noccioline
bevendo l’aperitivo.

È una stella davvero magnifica,
ma senza conseguenze
sul tempo, sulla moda, sul governo,
sulla crisi in borsa e la crisi dei valori.
Non ha conseguenze neppure
Sull’industria pesante,
sulle trattative sindacali,
sulla globalizzazione.

È una stella in più
Per i giorni contati della vita.

Una stella nuova.
Mostrami dov’è.
Tra il bordo di quella nuvoletta grigia
e quel rametto d’acacia, sulla sinistra.
– Ah, eccola.

Un’altra guerra

Dopo ogni guerra
c’è chi deve pulire,
rimettere in ordine.
C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade,
c’è chi deve trascinare travi
per puntellare muri
c’è chi deve mettere i vetri alle finestre.
Ci vogliono anni.
Nel frattempo, gli altri sono già ripartiti
per un’altra guerra.
Bisogna ricostruire i ponti,
le stazioni, gli stadi,
cogliere l’occasione
perche’ tutto sembri più bello di prima.
C’è chi con la scopa in mano
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta annuendo.
Ma presto ci sarà chi si annoia.
Chi sapeva di che si trattava
fa lentamente posto a quelli
che ne sanno poco.
Poi a quelli che non ne sanno nulla.
Sull’erba che ha sepolto le cause e gli effetti
c’è chi sta disteso
con una spiga tra i denti
e fissa le nuvole.
Poi ci sarà un’altra guerra.

La moglie di Lot

Ho guardato indietro, è vero.
Dicono per curiosità.
Non pensano neppure che potessi avere altri motivi:
il rimpianto di una coppa d’argento
lasciata nella mia casa di Sodoma.
La voglia di non vedere più il mio probo marito
che mi camminava davanti.
La voglia di verificare se si sarebbe fermato,
qualora fossi morta (non si fermò).
La disubbidienza degli umili.
La speranza che Dio ci avesse ripensato,
e non facesse morire migliaia di innocenti.
La solitudine e la vergogna di fuggire così di nascosto.
Ma forse fu solo un colpo di vento
che mi sciolse i capelli
e che istintivamente mi fece girare la testa.
È possibile che io sia caduta, e poi divenuta di sale
con il viso rivolto alla città.

Da WISLAVA SZYMBORSKA. La prima poesia è tratta dalla raccolta Gente sul ponte; la seconda da La fine e l’inizio; la terza da Grande numero.

Voglio bene anche a loro

“Andiamo a dare un’occhiata a tombe di due o tremila anni fa” disse il padre “Tombe etrusche”.
“Papà” domandò la piccola Giannina “perché le tombe antiche fanno meno malinconia di quelle nuove?”
“Si capisce” rispose il padre “I morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti; è come se non fossero mai vissuti, e come se siano stati sempre morti”.
“Adesso che dici così” disse Giannina dopo qualche istante “mi fai pensare che anche gli etruschi sono vissuti, e voglio bene anche a loro come a tutti gli altri”.

Da GIORGIO BASSANI, Il giardino dei Finzi-Contini, in Opere, Mondadori 1998.

Crediti

Anche in questo quattordicesimo volume dei Testi Infedeli, come in tutti i volumi precedenti, i pezzi sono stati liberamente e infedelmente tradotti dall’originale.
Il volume è stato stampato nel dicembre del 1998 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio in Milano, nella tipografia Cinque Giornate srl.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.