N. 13 estate 1998

Infedeltà del ricordo, infedeltà dell’oblio

“Ma perché fissare sulla carta, su pagine che nessuno leggerà mai, ciò che al contrario bisogna sforzarsi di dimenticare?” si chiede il curato di campagna di Bernanos,iniziando a scrivere il suo diario.
È una domanda che chiunque, in qualche occasione della vita, si è posto: che cosa va ricordato e che cosa è meglio dimenticare dando per scontato ovviamente che il ricordo non sia del tutto casuale: sia quindi, come la memoria, un’arte e possa essere il frutto di un addestramento)?
Ma è una domanda che ci si è posti anche a livello collettivo: in taluni frangenti della loro storia molti Stati hanno scelto di cancellare il loro passato in nome del presente.
La guerra civile inglese, per esempio, si è conclusa con un atto formale di rinnegazione del passato, con un atto di oblio. Un atto di oblio è stato previsto e richiesto specificatamente da molti trattati internazionali: a partire da quello stipulato nel 851 tra Lothar, Ludovico e Carlo, eredi dell’impero carolingio, per giungere al Trattato di Losanna del 1923.
Più recentemente, una scelta analoga è stata compiuta dalla Spagna per ciò che riguarda il periodo franchista: senza rifiuti, senza condanne, semplicemente facendo finta che quel mezzo secolo non ci sia mai stato. Commemorando il cinquantenario della guerra civile spagnola, il governo spagnolo ha proclamato che quel momento era finalmente storia e quindi non doveva essere più presente nella coscienza collettiva del paese.
Curiosamente, la strada della dimenticanza è stata imboccata anche per la ragione opposta, in quanto il passato sgradito, essendo troppo recente, non era ancora divenuto storia: è la soluzione scelta in Polonia, dal primo Governo non comunista (e successivamente abbandonata).
Vi sono poi anche scelte di dimenticanza attiva.
Su questa linea si sono messe, dopo la seconda guerra mondiale, la Francia, l’Austria e il Vaticano.
La prima ha sradicato le tracce del suo periodo collaborazionista (anche al prezzo di lasciare impuniti coloro che vi avevano attivamente preso parte).
L’Austria ha addirittura cercato di costruirsi un passato di vittima del nazismo, pur essendone stata una fervida e attiva sostenitrice.
Il Vaticano ha tentato con ciniche acrobazie di trasformare in tormentato e sofferto silenzio le gravi e criminose omissioni di denuncia di Pio XII in merito alle ben conosciute operazioni di deportazione nei campi di sterminio attuate dalla Germania di Hitler.
La scelta di dimenticanza attiva può divenire una vera e propria manipolazione del passato, quella che una felice espressione tedesca denomina Geschichtsaufarbeitung.
È una soluzione attuata sistematicamente per la prima volta nell’antico Egitto: dei Faraoni caduti in disgrazia veniva metodicamente cancellata ogni traccia, distrutta ogni statua, rasa ogni iscrizione recante il loro nome: è la sorte capitata a Tutankaton, odiato inventore del monoteismo.
La soluzione è stata ripresa dai Romani, creando uno specifico istituto giuridico, la damnatio memoriae, che prevede la cancellazione di ogni traccia dell’esistenza di coloro che si intendono punire: la storia avrebbe dovuto procedere come se quel personaggio non fosse neppure esistito.
Sulla scia degli Egiziani e dei Romani si è collocata l’Unione sovietica. Anch’essa ha tentato di riscrivere la propria memoria eliminando i personaggi sgraditi; manon si è resa conto che il passaggio da sistemi di registrazione del passato basati su papiro e pietra all’età attuale, che offre una enorme quantità di mezzi di fissazione del passato a basso costo e ad alta diffusione, avrebbero reso il compito impossibile.
Sono questi tutti casi in cui è stata in vario modo applicata la massima secondo la quale i momenti sgraditi del passato vanno dimenticati: casi di riproduzione del passato in funzione del presente, ricostruito infedelmente dal punto di vista di uno storico, ma fedelmente a quella che avrebbe dovuto essere la storia, e quindi a chi è in grado di manipolarla.
Ma neppure per gli Stati questo è l’unico modo di confrontarsi con il proprio passato.
C’è la strada del ricordo.
La Germania ha scelto, rispetto al periodo nazista, un percorso di ricordo attivo, e ha faticosamente ricostruito la sua identità attuale su un triste lavoro, sul ricordo martellante di un tragico periodo del suo passato.
Molti Stati passati da un regime (in genere totalitario) ad un altro negli ultimi trent’anni hanno istituito apposite Commissioni per la ricerca della verità, con il compito di fare chiarezza sul passato: ne sono state censite circa venti.
Così ha fatto il Sudafrica nero. Ma con una scelta coraggiosa e innovativa dalla quale il civile mondo dei bianchi avrebbe molto da imparare il Sudafrica ha istituito
una Commissione di riconciliazione nazionale, incaricata di raccogliere le dichiarazioni e le confessioni di tutti gli esponenti del passato regime razzista cui è imputabile qualche crimine. A tutti coloro che dichiarano e riconoscono le proprie responsabilità è stata garantita l’impunità.
Il Sudafrica si è reso conto che la memoria di un passato infelice serve per non ripetere gli stessi errori, ma si è reso conto anche che per punire i responsabili non sono sempre necessarie galere e patiboli.
Anche a livello individuale, la domanda iniziale può avere risposte divergenti.
La risposta più immediata è che vanno ricordati i momenti belli e vanno dimenticati quelli tristi.
Il motivo è, secondo alcuni, perché il ricordare momenti tristi del proprio passato rende triste il presente. secondo altri perché dimenticare è la punizione per avvenimenti o persone che ci hanno reso tristi nel passato.
In entrambi i casi, ricordare e dimenticare sono il risultato di una infedeltà: infedeltà alla propria storia così come è stata nel passato. Per chi sceglie queste risposte, la fedeltà alla propria identità presente costituisce sempre un coraggioso atto di infedeltà verso la propria identità passata.
Per questo, chi vuole davvero essere un serio storico di sé stesso, chi vuole ricordare sé stesso come è stato nello sviluppo del proprio passato è inevitabilmente condannato all’infelicità, perché deve essere vampiro infedele con il proprio presente, con sé stesso, carnefice e insieme vittima delle malie del passato.
Ma non è detto che sia proprio così. Infatti, è anche possibile e ragionevole una risposta diversa ed opposta: secondo il motto di Santayana, ricordare il passato significa impedire che il passato si ripeta: chi dimentica il passato è costretto a ripeterlo.
La storia è maestra di vita, ma solo per chi la sa.
Se si sceglie questa seconda risposta, ciò che va dimenticato sono proprio i momenti di felicità, mentre solo quelli infelici vanno ricordati: questa diventa la vera fedeltà a se stessi, l’arte di imparare a non ripetere attraverso il ricordo.
L’alternativa non è semplice, anche perché la scelta di essere infedeli con sé stessi nel presente per salvare il passato o infedeli per il passato senza salvare il presente è sempre ardua.

Da (non nell’ordine): BG.BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Plon Parigi 1936; NEIL J. KRITZ (a cura di) Transitional Justice: How emerging democracies reckon with former regimes, United States Institute of Peace, 1997; ANTONELLA TARPINO, Sentimenti del passato, Firenze 1997; T.G.ASH, The Truth about Dictatorship, in New York Review of Books 3,1998; F.YATES, Giordano Bruno e l’arte della memoria, Laterza 1985.

Due poesie di Jacques Supervielle

Il cavaliere che passa
Ricorda, non chiamare
il cavaliere che passa.
Se il cavaliere si volta,
cadrà la notte,
una notte buia, senza stelle,
e senza nuvole.
E che ne sarà
di tutto ciò che fa il cielo,
come la luna e il suo corso,
e le stelle,
e il bagliore del sole all’alba?
Al buio
dovrai attendere
che passi un altro cavaliere:
Ma, ricorda, non chiamarlo.

Progetti: Dio crea l’uomo

Dovrà naturalmente assomigliarmi
anche se non capisco ancora bene come,
visto che io sono tutto ciò che esiste
insieme e in ciascun suo momento.
Vorrei però separarlo da tutto il resto
e potermelo tenere fra le braccia,
in modo da poter esaminare i suoi gesti
almeno all’inizio.
Me lo immagino già alla finestra
mentre mi saluta con un fazzoletto,
anche se, a pensarci bene,
finestra e fazzoletto non esistono ancora.
Ecco, io lo tocco, lo tasto,
lo sto costruendo quasi senza volerlo,
che voglia ho di vederlo finito!
Lo guardo e lo rimiro,
per progettarlo meglio.
Nessuno mi guarda e mi controlla:
ma io voglio poterti vedere e controllare da lontano.
Visto che io sono muto da sempre,
voglio darti la parola.
Da sempre volo senza fissa dimora,
e sono dappertutto in ogni momento;
e allora voglio darti dei piedi
e sistemarti in un posto ben preciso.
Visto che sono più solo nell’universo
di un agnello sperduto in un bosco,
e non ho mai mangiato né bevuto
voglio farti sedere a una tavola imbandita
e mettere seduta davanti a te una donna.
Poi, visto che io sono inevitabilmente supremo
e non mi diverto mai se non con me stesso
e per di più sono anche eterno,
tu sarai mortale, mio piccolo amico,
e, quando morrai, ti sistemerò
in un caldo letto di terra da cui farò nascere gli alberi.

Da Jules Supervielle, Oeuvres Poétiques Complètes, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard. La seconda poesia è inserita nel ciclo La Fable du Monde, pubblicato nel 1937.

Una lettera

Mio caro amico,
La scomparsa di suo padre, appresa a mezzo della sua lettera, è stata per me una grave perdita.
Sono portato infatti a immaginare sempre in piena attività gli uomini che si sforzano sempre di accrescere le loro conoscenze e di ampliare le loro opinioni.
Purtroppo quando tra amici il silenzio comincia a insinuarsi, a causa anche della lontananza, fino a divenire totale, e per questo cominciano a nascere incomprensioni o risentimenti, dovremmo accorgerci che in ciò c’è qualcosa di sbagliato e di maldestro, e dovremmo studiarci di superare e eliminare questo inconveniente, come ogni altro errore.
Nella mia vita agitata e senza pace mi sono reso colpevole spesso di simili negligenze; anche con suo padre potrebbe essere successo qualcosa del genere.
Le assicuro tuttavia che per suo padre ho sempre provato ammirazione, interesse e simpatia; spesso ho pensato di interpellarlo su qualche argomento importante.
Ma la vita che passa avanti a noi rumoreggiando ha, fra le tante stranezze, anche questa, che, così impegnati in attività di studio e di ricerca, così avidi di conoscenza e di godimento, raramente sappiamo apprezzare e trattenere i particolari che l’attimo ci offre.
Così nella parte estrema dell’età ci rimane ancora il dovere di ricercare e riconoscere tutto ciò che è umano nelle sue peculiarità, e di consolarci riflettendo su tutte quelle mancanze che non possiamo evitare di imputarci.
Mi raccomando alla simpatia sua e dei suoi cari, suo

Johann Wolgang von Goethe.

La lettera è del 3 gennaio 1832. È una delle ultime lettere scritte da Goethe, morto il 22 marzo seguente.
Il destinatario è Moritz Seebeck che ha annunciato la morte del padre Thomas Seebeck, lo scopritore dei colori endottici. In questa scoperta Goethe individuò la prova della validità della sua teoria dei colori (contrapposta a quella di Newton).
Con Seebeck Goethe mantenne per molti anni intensi rapporti, poi divenuti più rarefatti a seguito del trasferimento del primo da Jena a Berlino.

La lettera è stata inserita da Walter Benjamin nel volume Deutsche Menschen. Eine Folge von Briefen, Suhrkampf, Francoforte 1962. Il volume è stato tradotto in italiano da Bovero e Castellani per Adelphi, Milano 1992.

Prigioni: due poesie

I

Non è il tetto che sgocciola
né le zanzare che ronzano
nella cella umida
non è la serratura che cigola
quando il secondino la chiude
non è la miserabile razione di cibo
non è il vuoto del giorno
che affonda nel nulla della notte
non è
non è
non è.
È la menzogna
tramandata da generazioni
è la codardia trasformata in obbedienza
è il giudice che ti condanna
a una pena che sa immeritata
è il secondino che ti picchia
solo per far piacere ai suoi capi
è la crudeltà trasformata in dovere
è l’indifferenza di chi sta fuori
è questo
è questo
è questo
che trasforma un mondo libero
in una sordida prigione.

II

Fuori colombe si posano sui tetti
è chiaro dal loro tubare di amore e di piacere
piacere come una frusta sul sonno del prigioniero
è chiaro
dal frullare di ali
ali come un ventaglio sul sonno del prigioniero
è chiaro
che fuori colombe si posano dovunque
La notte è giorno oltre le sbarre
qui il giorno è notte

La prima poesia è di Ken Saro-Wiwa, nigeriano, impiccato dal dittatore Shani Abacha il 10 novembre 1995 con altri otto compagni, arrestato perché aiutava gli Ogoni a opporsi alla devastazione del loro territorio da parte della Shell e del Governo nigeriano. La seconda poesia è di Reza Baraheni, iraniano, incarcerato e torturato nel 1973 dallo Scià. Entrambe sono pubblicate in Scrittori dal carcere, Antologia PEN di testimonianze, Feltrinelli 1996.

Mappe e infedeltà

Le mappe, come le fotografie, non dovrebbero mentire.
Eppure, non è così.
Le mappe subiscono una prima principale distorsione per ragioni politiche: le carte geografiche greche non indicano lo stato della Macedonia, le carte irachene non indicano il Kurdistan, e così via.
Politicamente, le mappe rappresentano ciò che desidera il potere del luogo dove vive l’autore della mappa e anche ciò che si vuol far credere a chi le osserva. Non sono mai casuali, ma sempre il frutto di un accurato e sofisticato complotto.
Durante tutta la guerra fredda, negli USA si è usata la carta del mondo basata sulla proiezione Van der Grimpen, che, ingrandendo le zone laterali, trasformava l’Unione sovietica in un mostruoso colosso incombente sull’Europa e sugli USA. A partire dal 1988, tramontato il pericolo rosso, ed iniziato il periodo del dominio planetario degli Stati Uniti, l’American National Geographic Society si è subito adeguata, ha abbandonato questo tipo di proiezione cartografica, sostituendola con una, attribuita a tale Mr. Robinson, che ha ridotto il territorio dell’ex Unione sovietica a dimensioni assai più contenute.
Più in generale, tutte le carte geografiche del mondo comunemente in commercio sono il risultato di proiezioni a distanze equivalenti. Questo significa che il rapporto tra due distanze tra punti diversi della mappa corrisponde a quello reale. È un tipo di proiezione assai utile per i viaggiatori, e si è infatti affermata con il consolidarsi degli imperi coloniali. Ma è un tipo di proiezione che ha anche il vantaggio, proprio perché rispetta le distanze reali, di occultare le proporzioni tra le aree dei vari Stati e dei vari continenti. Se si adotta una proiezione ad aree equivalenti, quale quella recentemente elaborata da Peters, il lettore scopre all’improvviso le reali dimensioni dei vari paesi: scopre l’immensità del continente africano rispetto alla minuscola Europa, e le insignificanti dimensioni della Gran Bretagna rispetto alle sue ex-colonie.
C’è poi il problema della riduzione in scala, che impone di indicare alcuni dati e di trascurarne altri. La scelta del cartografo non è mai casuale.
Le mappe sono fatte per i ricchi.
In una carta dell’Africa vengono sempre evidenziati i parchi nazionali; in una dell’Europa, i centri industriali e commerciali.
Nelle carte topografiche dei centri urbani, i campi di golf sono indicati sempre assai meglio che non gli slums.
Il geniale inventore dell’uso della mappa per ragioni di politica e di potenza è stato l’autore della proiezione ancora generalmente utilizzata: Gerardus Mercator. Nel 1492 Spagna e Portogallo decisero di spartirsi il mondo in due sfere d’influenza con un preciso confine e affidarono questo compito al Papa: al Portogallo toccò l’Est, alla Spagna l’Ovest.
Mercator progettò subito una proiezione geografica che permetteva di realizzare una carta che respingeva l’Est ai bordi e poneva invece le Americhe nella parte alta a sinistra della mappa, quella da cui si inizia a leggere. Mercator naturalmente era alle dipendenze del re di Spagna.

Da Jeremy Black, Maps and Politics, Reaktion Books, New York 1997.

Naufragi

Ho trovato su un vecchio giornale la storia
di un uomo che, a un certo punto, ha abbandonato la moglie.
Il fatto di per sé non è così insolito e neppure può essere a priori giudicato insensato o riprovevole. Ma, in questo caso, la vicenda è certamente tra le più bizzarre: è una storia che ciascuno di noi pensa che non potrebbe mai capitargli, pur pensando che potrebbe benissimo capitare a qualcuno che lui conosce.
La coppia viveva a Londra. L’uomo, con il pretesto di dover fare un breve viaggio di lavoro, uscì una mattina presto di casa e si sistemò in un appartamento sito nella strada vicina a quella della sua casa. All’inizio, pensava di rimanere nascosto per un paio di giorni, poi per una settimana, poi, al massimo, per un mese. Rimase in quella casa per quasi vent’anni, senza più aver la forza di tornare indietro, senza che nessuno lo riconoscesse o lo rintracciasse. Ogni tanto, nascosto sotto un ombrello o dietro un giornale spalancato, seguiva la moglie, sempre più triste e più curva, o così almeno gli appariva, o gli piaceva vederla.
Una sera, allorché era ormai sicuro che la sua morte fosse data per certa e che i suoi beni fossero stati suddivisi tra gli eredi, l’uomo si dirige verso la sua vecchia casa.
E’ una frizzante serata di autunno e comincia a piovere all’improvviso.
Fermandosi nei pressi della casa, alza gli occhi e scorge, al secondo piano, il riflesso del fuoco acceso nel caminetto.
Sul soffitto, si staglia l’ombra grottescamente deformata della moglie. Proprio in questo momento, uno scroscio di pioggia gli colpisce la faccia.
E lui, deve starsene lì fuori, fradicio e tremante, quando in casa sua c’è un fuoco che può scaldarlo e sua moglie può portargli dei caldi vestiti di lana? Senza esitare l’uomo sale le scale, pesantemente perché da quando le ha discese per l’ultima volta le sue gambe si sono indurite. Attento! Vuoi entrare così, all’improvviso, nella casa che hai da tanto tempo abbandonato? E’ come saltare nella fossa! Niente da fare, è ormai deciso a varcare l’uscio della sua vecchia casa. E si riesce a cogliere sul suo volto un sorriso simile a quello con il quale, molti anni prima, era uscito, pensando al piccolo scherzo che intendeva combinare.
Ma, proprio mentre sta girando con la mano la manopola della porta di ingresso, ecco all’interno del suo appartamento un suono, che avrebbe potuto essere simile ad una voce sconosciuta, e un rumore di passi, che gli parve dissimile da quello della moglie, che ben ricordava.
Istintivamente la mano si leva e rimane per un momento a mezz’aria. Poi, lentamente, l’uomo si gira, discende lentamente i gradini, e scompare nel buio e nella pioggia.
Nell’apparente confusione del nostro mondo, gli individui si adattano così bene a un sistema di relazioni, e ciascun sistema ad un altro, e all’insieme di tutti, che basta perdere contatto per un solo momento e si corre il rischio di perdere il proprio posto per sempre: si può divenire, all’improvviso, naufraghi nell’universo.

Da Nathaniel Hawthorne, Twice-told Tales, Viking Portable Library 1978

Libero arbitrio

La caratteristica fondamentale degli angeli, osserva un trascurato autore spagnolo medioevale, è quella di non avere alcuna possibilità di scegliere: sono così vicini a Dio, che conducono la loro esistenza (immortale, secondo molti, ma effimera secondo altri, che pensano che ci siano angeli la cui vita dura un solo istante) soddisfatti e felici da questo rapporto totalizzante, senza poter e senza dover scegliere: non ne hanno bisogno.
La possibilità di scelta segna l’imperfezione. Segna l’incertezza, segna l’infedeltà.
Eppure molti pensano alla possibilità di scelta, al libero arbitrio, come un dono: è il dono che Dio ha dato agli uomini, ed è per il libero arbitrio, ci insegnavano a scuola, che gli uomini sono superiori agli altri animali.
Ma anche per gli elefanti il vero unico privilegio degli esseri animati è l’essere dotati di proboscide: nel loro universo proboscidocentrico certamente Dio ne è dotato, mentre sono esseri inferiori tutti coloro che ne sono privi.
La realtà è che il libero arbitrio, la libertà di scegliere in ciascun momento, è solo un piccolo e illusorio risarcimento dato all’uomo per essere stato collocato al livello più basso dell’esistenza.
Il libero arbitrio è un surrogato del dono di non poter o dover scegliere che invece hanno ricevuto tutti gli altri esseri animati.
La possibilità di non scegliere accomuna tutti gli animali – salvo l’uomo – agli angeli.
Se è così, gli uomini sono riusciti a costruire come un privilegio il segno manifesto della loro inferiorità nella scala dell’esistenza e della loro distanza da Dio.

Collage celan

Con chiavi diverse
tu mi aprivi la casa dove
la neve trasportava il silenzio.
Cambia la chiave, cambia la parola,
portata dai fiocchi di neve.
Seguendo il vento che ti sospinge
si raccoglie intorno alla parola
la neve.
Non dormivamo più
e piegavamo le lancette dell’orologio
e esse si muovevano veloci all’indietro
e frustavano a sangue il tempo
e tu allora parlavi del crepuscolo crescente
e dodici volte io dissi tu alla notte delle tue parole
ed essa si sovrappose e rimase aperta
e una giovane saetta nuotò verso di noi

Bevevo dall’azzurro cercando ancora il tuo occhio
dalle tue orme bevevo e vedevo:
tu mi rotolavi tra le dita e crescevi.
Non cercare sulle mie labbra la tua bocca,
l’estraneo davanti alla porta
o nell’occhio la lacrima
ette notti più in alto migra rosso sul rosso
sette notti più in fondo bussa la mano sulla porta
sette rose più tardi mormora la fontana.

Corpo silente
giacevi sulla sabbia vicino a me
Un raggio di luce calò all’improvviso verso di me
era un bastone
calato su di noi
che luceva così?

Tu hai aperto gli occhi – io vedo vivere il mio buio.
Lo vedo fino in fondo:
anche lì è mio e vive.
La luce mi segue da vicino.

Colui che ci contò le ore.
continua a contare.
Che mai può contare, dimmi?
Mangiamo i frutti di chi tace.
Stare ritto nell’ombra
della ferita nell’aria.
Stare inutilmente ritto.
Non riconosciuto.
Per te
solo.
Con tutto ciò che lì ha spazio,
anche senza
parole.

Eternità, su di te
scivolano via,
una lettera tocca
le tue dita
non ancora ferite.

Bianche, bianche, bianche
si allineano le leggi
e marciano
dentro di noi.
La selvaggia convinzione
che tutto ciò che si dice
si debba dire
in modo diverso.

Da Paul Celan, Brani, frasi, parole e citazioni sono tratti (non nell’ordine) da: Marchio di fuoco, Tardo e profondo, Cristallo in Papavero e memoria; Fulgore, Di buio in buio, Colui che ci contò le ore, Con diverse chiavi in Di soglia in soglia; Stare ritto nell’ombra in Svolta del respiro, Eternità in Filamenti di sole, La selvaggia convinzione in Parte di neve.

Crediti

Anche in questo tredicesimo volume dei Testi Infedeli, come in tutti i volumi precedenti, i pezzi sono stati liberamente e infedelmente tradotti dall’originale.
Il volume è stato stampato nel giugno del 1998 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano, nella tipografia Cinque Giornate srl.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.