N. 16 inverno 1999

Verità

In greco, verità si dice ALHJEIA. Significa a-letheia, senza velo. Il nome vuol quindi significare che la verità è disvelamento, è un processo dall’esito imprevedibile, è un tentativo di far emergere, da sotto i veli dell’apparenza, ciò che è.
Solo dopo che il disvelamento è compiuto, la luce tocca integralmente la realtà, e realtà e apparenza coincidono. Può essere necessario del tempo: di solito, la verità emerge a poco a poco, gradualmente. Soprattutto, raramente è possibile sapere con certezza quando l’operazione può ritenersi compiuta. La verità è quindi il risultato spesso fortunato di un impegno, di un lavoro che ciascuno può compiere utilizzando i propri criteri e i mezzi culturali che ha a disposizione.
Non sempre si arriva allo stesso punto, non sempre la luce tocca l’essere allo stesso modo.
La verità è quindi sempre incertezza, è sempre dubbio, è sempre infedele a sé stessa. Per converso, la certezza raramente contiene ed esprime la verità. È probabile che chi afferma di essere assolutamente certo di un fatto sia solo all’inizio del processo, e non sappia ancora come quel fatto davvero è, come sarà quando il disvelamento sarà compiuto.
Questo modo di pensare scompare nel mondo romano, germanico e cristiano.
Per i Romani, verità è veritas, da verum:  per i tedeschi è Wahrheit. La radice indogermanica comune, ver, indica lo sbarramento contro ciò che è ostile, la barriera che impedisce l’accesso dall’esterno.
È da queste basi che noi traiamo il nostro concetto di verità: qualcosa che si possiede e si conosce ad un certo momento e che da quel momento in poi va protetto dagli assalti degli altri.
Non c’è ricerca di verità, non c’è fatica, non c’è paziente attesa nel mondo romano-cristiano e germanico.
C’è conoscenza a priori, intolleranza, mancanza di fatica e di confronto: la verità sta al proprio posto, stabile, eretta, intangibile. L’uomo può solo custodirla, non scoprirla.
La verità nel nostro mondo è ciò che per i Greci è il velamento, l’errore: ciò che i Greci pensano si debba togliere per trovare l’essere, per i romani e per i cristiani va tenuto e protetto.
Quando Gesù insegna (come molti altri profeti, prima e dopo di lui) “Io sono la via, la verità” indica proprio questa strada di intolleranza, di acquisizione una volta per tutte, e quindi di non-ricerca e non-fatica, di sbarramento per proteggere qualcosa e non di attività per disvelare.

Da MARTIN HEIDEGGER, Parmenide, Friburgo 1982.

Due preghiere

I

Vi aspettiamo nell’oscurità
Venite tutti voi che ascoltate
Aiutateci nel nostro viaggio notturno:
non c’è sole che brilli
non c’è stella che dia luce.
Venite, mostrateci il cammino.
La notte, la notte è nemica,
la luna, la luna è scomparsa.
Venite, vi aspettiamo nell’oscurità.

II

Siamo le stelle che cantano,
cantiamo con la nostra luce.
La nostra luce è il nostro suono.
È suono il nostro lento percorso.
Luce e percorso sono per gli uomini,
perché trovino la loro strada.

La prima preghiera è degli Indiani Irochesi, la seconda degli Indiani Algonchini. Entrambe sono state raccolte da Rober Callois e Jean-Clarence Lambert in Trésor de la poésie universelle, Gallimard\Unesco 1958.

Punti di vista

Si possono vedere gli oggetti costruiti dall’uomo come risposte più o meno efficaci a delle precise necessità: un vaso, uno scaffale, un volante assolvono a determinate e ben note funzioni, e sono realizzate in modo da svolgere nel miglior modo possibile.
Ma si possono anche vedere gli oggetti costruiti dall’uomo come l’espressione di scelte tecnologiche collettive e di visioni del mondo.
Se si adotta questo secondo atteggiamento, un mortaio non è più un moulinex primordiale, l’aratro non è il prototipo primitivo del trattore, il grammofono non è l’antecedente storico del lettore CD.
Il senso degli oggetti può essere compreso solo all’interno delle filosofie e delle pratiche che li hanno prodotti, e non in rapporto alle necessità di una condizione umana – in genere quella in cui si vive – che si assume ideale.
Lungi dall’essere risposte rudimentali a questioni cui il nostro tempo ha offerto soluzioni più efficaci, gli oggetti del passato esprimono valori e veicolano visioni incompatibili e irriducibili con  i nostri.
Di essi, riusciamo agevolmente a vedere le carenze rispetto agli oggetti analoghi di cui facciamo uso; ma non riusciamo a comprendere il senso e le ragioni per le quali erano considerati come prodotti ottimali da coloro che li usavano.
Sono segni non di ciò che abbiamo guadagnato, ma di ciò che abbiamo perduto.

Da M.SINGLETON, Saggio introduttivo del catalogo della mostra “Afriques”, Bruxelles, 1992; D.FORAY, Choix de techniques. Rendements décroissants et processus historiques, in J.Prades, La Technoscience. Les fractures de discours, Parigi 1992; S.J.Gould, …

Ciquita

“Deliziosa da mangiare, soffice da mordere, come se fosse un impasto di farina e burro; il profumo è come quello delle rose, il sapore è ancora migliore”. È, naturalmente, la banana, descritta nel 1601 da Pieter de Marees, un esploratore olandese, agli stupiti ascoltatori.
Da allora, la banana ha cominciato ad invadere l’Occidente.
Per coltivare banane da spedire sulle tavole europee sono stati stravolti i rapporti sociali, irreversibilmente alterati gli ambienti e trasformate le economie di diecine di paesi tropicali.
Quando si mangia una banana, si mangia inconsapevolmente un boccone di storia del capitalismo. Ma si mangia anche inconsapevolmente un boccone di democrazia.
All’inizio, ci sono lo zucchero il cotone e il caffè.
In poco più di un centinaio di anni, i territori coltivabili dei paesi tropicali sono stati radicalmente trasformati per inviare questi beni sulle tavole imbandite o nei ben forniti guardaroba  dei paesi europei.
Ma la produzione di questi beni richiede larghe coltivazioni, molta manodopera.
Al posto dei latifondi per la coltivazione della canna da zucchero, del caffè o del cotone, popolati da schiavi al servizio della tavola o del guardaroba dell’occidentale civile e rispettoso dei diritti umani, la banana ha permesso di ritagliare piccoli appezzamenti coltivabili da un piccolo proprietario: poca terra, anche un solo ettaro, permette al contadino di condurre una vita misera, ma autonoma e libera, perché la banana cresce in modo quasi autonomo, ha bisogno di poca forza lavoro, offre cibo nutriente.
Ma è un sogno che spesso non ha lunga durata.
La banana crea lavoratori liberi ma isolati, ricattabili, costretti a contrarre debiti se una sola annata produce meno del necessario.

Da JOHN READER, Africa, Vintage Books 1999; J.E.G.SUTTON, The Growth of Framing Communities in Africa from the Equator southwards, Azania (Nairobi), 1996.

La piramide

Una mattina d’autunno, il nuovo Faraone annunciò che avrebbe rinunciato a farsi costruire una piramide. I suoi ascoltatori, i ministri, l’astrologo di palazzo, il pontefice massimo e contemporaneamente architetto in capo si rabbuiarono come se stesse per verificarsi una catastrofe. Rimasero per un momento a scrutare attentamente il viso del sovrano: Cheope rimase impenetrabile. La loro speranza che si fosse trattato solo di una battuta o di parole non sufficientemente meditate si affievolì.
Anche Cheope li osservava, e il suo sguardo sembrava dire: come se si trattasse della vostra piramide, e non della mia.
Poi, silenzioso, si alzò e lasciò la riunione.
Tutti  si guardarono angosciati. Che cosa sta per succedere? Il pontefice massimo aveva le lacrime agli occhi. Un ministro ebbe un malore. Fuori, spirali di sabbia sollevate dal vento salivano verso il cielo. Le osservavano e i loro occhi sembravano dire: Senza piramide, come potrai salire in cielo e trasformati in stella come hanno fatto gli altri faraoni. Come potrai continuare a illuminarci?
Per convincere il faraone a cambiare idea, i suoi ascoltatori decisero che avrebbero dovuto comprendere tutto sulla piramide, e sulle reali ragioni per le quali, da tempo immemorabile, ciascun faraone se ne faceva costruire una.
Dopo mesi di studi e di ricerche tornarono dal faraone.
Disse il pontefice massimo, mentre Cheope ascoltava impassibile:
“L’idea della piramide ha visto la luce in un periodo di crisi. Il potere del faraone era indebolito, come raccontano le cronache del tempo. Non era la prima volta che ciò succedeva. Ma per la prima volta, la crisi non era provocata dalla penuria, da ritardi nella piena del Nilo, da malattie. Era provocata dall’abbondanza”.
“Dall’abbondanza” ripeté un ministro “Detta anche benessere”.
Le sopracciglia di Cheope si arcuarono.
“Il benessere” proseguì il pontefice massimo “rendendo la gente indipendente e libera di spirito, la faceva anche refrattaria all’autorità e al potere assoluto del faraone. E una questione drammatica si pose allora: come affrontare la crisi? Come abbattere il benessere?”
“Era necessario trovare qualcosa” si inserì l’architetto capo “che tenesse occupata la gente giorno e notte, un’opera che potesse essere realizzata o lasciata incompiuta, a seconda del grado di benessere raggiunto, un’opera che potesse essere sempre rinnovata, quando ve ne fosse stato bisogno. La risposta fu: un grande monumento funerario.
Ciascun faraone avrebbe avuto la sua piramide, e non appena una generazione avesse compiuto la sua fatica, un altro faraone sarebbe venuto, a richiedere una nuova fatica alla generazione seguente, proporzionale alla quantità di benessere da eliminare”.
Riprese il pontefice massimo: “Si comprese che così si sarebbe potuto contenere il benessere. La piramide è potere. E’ repressione, forza, ricchezza. Ma è anche annientamento del popolo, costrizione dello spirito, demolizione della volontà, monotonia e abbandono. La piramide è il guardiano più sicuro del trono del faraone. La sua polizia segreta. Più è alta, più i sudditi sono minuscoli. Più i sudditi sono minuscoli, più il faraone appare in tutta la sua grandezza”.
Aggiunse un ministro: “Se la piramide scompare, il potere del faraone crolla. Non discostarti dalla tradizione: sarebbe la tua rovina, quella di tutti noi, e quella dell’Egitto intero.
Cheope alzo la mano destra, e fece cenno che l’udienza era terminata. Poi pronunciò poche parole: “La piramide sarà costruita. La più alta di tutte”.

Da ISMAIL KADARÉ, La pyramide, Parigi Fayard 1993 (tradotto dall’albanese da Jusuf Vrioni).

Quattro ritratti

La dottoressa cinese

La dottoressa si sfila la maschera di garza. È una donna sui trentacinque anni, di statura piuttosto piccola, il capo chiuso nella cuffia, il corpo nascosto da camice, le gambe coperte da larghi pantaloni di tela blu.
È la donna più bella che mi sia capitato di vedere in Cina.
Vedo di lei il volto, le mani, le caviglie nei calzini bianchi di nilon, i piedi chiusi dentro scarpette basse di pelle nera come quelle delle bambole.
Il volto è pallido, lievemente solcato da qualche ruga agli angoli degli occhi, la fronte è alta, convessa e trasparente come quella dei neonati tanto che si vedono pulsare le vene azzurre che la percorrono dall’alto in basso.
Gli occhi neri sono dolcissimi, allegri e allo stesso tempo profondi e quasi addolorati. Le ciglia lunghe e nere, la bocca piccola, gonfia e palpitante anche quando, anzi, soprattutto quando sta in silenzio, i denti chiusi, perfetti e scintillanti, le guance appena rosee con la fossetta nel mezzo. Non un velo di trucco. Le mani sono molto curate, e sembrano sentire il contatto degli oggetti ancora prima di toccarli. Anche quelle palpitano.
Lo stesso per i piedi che appena toccano il terreno subito si rialzano in un altro passettino. Quando stanno fermi, lei li solleva di continuo, come e quando può: o appoggiandosi sul tallone, o sulla punta, o su un piede solo: il tempo di sosta di una farfalla.
Parla con voce tenue, a momenti sibilante e acuta: sibilante come il verso di un insetto e acuta come il suono di un grillo.
Una piccola ciocca di capelli neri, quasi blu, le attraversa una sopracciglio e la tempia. Siccome la tempia pulsa, anche i capelli si muovono impercettibilmente.
Questo è quanto di lei si vede o si ode.
Ma non è ancora la sua bellezza, perché la bellezza è sempre misteriosa.

Savitsky

Savitsky, comandante della VI Divisione della Cavalleria, scattò in piedi non appena mi vide. Rimasi stupito di fronte alla bellezza del suo corpo gigantesco.
Si mosse, tintinnarono sul suo petto le decorazioni luccicanti; contemporaneamente la lampeggiante porpora dei suoi calzoni da cavalleggero e il rosso del suo piccolo cappello posto di sghembo sui capelli biondi disegnarono un lampo attraverso la capanna, come una bandiera sventolante nel cielo.
Si sparse intorno un profumo dolciastro e fresco di  sapone. Le sue lunghe gambe erano come ragazze avviluppate fino al collo in luccicanti stivaloni.
Mi salutò con un secco sorriso e appoggiò con brusca dolcezza la frusta sul tavolo .

Francesco Giuseppe

Com’era?
Era stupido o era astuto?
Come provava i sentimenti?
Gli è veramente piaciuto qualcosa?
Era un corpo o solamente uno splendido vestito?
E, se era un corpo, c’era anche un’anima sotto la sontuosa uniforme?
E se c’erano il corpo e l’anima, era anche un personaggio, o soltanto il ritratto di un personaggio?
Fu un prodotto del suo paese, oppure fu lui a creare un paese che gli somigliava?
Chi lo conosceva, poteva davvero dire di conoscerlo?
Portava una faccia, o solo una barba?
Quando prendeva decisioni, rifletteva, o amava il rischio?
Avrà afflitto anche sé stesso come affliggeva tutti quelli che gli stavano intorno?
Voleva l’azione o l’atto?
Voleva la guerra o la pace?
Voleva soldati,
O dei soldati gli interessavano solo le divise,
O delle divise gli interessavano solo i bottoni?
Prevaleva in lui l’amore o la morte?
Mai più forte impresse sul suo tempo la propria immagine
L’impersonalità.

Il signor Von Pasenow

Il signor von Pasenow aveva settant’anni e la gente provava una inspiegabile antipatia quando lo vedeva passare per le vie di Berlino: tutti pensavano che dovesse essere un vecchio molto cattivo.
Piccolo ma di giuste proporzioni, non magro ma neppure obeso. Portava la barba alla Guglielmo I ma un po’ più corta; sulle guance non c’era però traccia della lanugine bianca che dava al sovrano un’aria affabile. I capelli, appena un po’ diradati, mostravano solo alcuni peli bianchi; per la maggior parte erano ancora di quel biondo rossastro che ricorda la paglia putrescente.
In effetti, quando si guardava allo specchio, il signor von Pasenow riconosceva immancabilmente il volto che già cinquant’anni prima aveva ricambiato il suo sguardo.
Ma se il signor von Pasenow non era scontento di sé, a molti dei suoi conoscenti proprio non piaceva; non capivano come aveva potuto trovare una donna che lo aveva guardato con occhi desiderosi, magari baciandolo e abbracciandolo; gli concedevano al più qualche scontato successo con le contadine polacche della sua tenuta, cui probabilmente si avvicinava con modi isterici e un po’ tirannici.
Il signor von Pasenow cammina con passo veloce e rettilineo, tenendo la testa alta e sporgendo un po’ in fuori il piccolo ventre: si potrebbe quasi dire che porta il ventre davanti a sé.
Accanto alle gambe, c’è sempre il bastone da passeggio che procede in cadenza, sollevandosi fin quasi all’altezza del ginocchio, indugiando al suolo con un colpetto secco e tornando a sollevarsi.
I piedi gli procedono accanto, sollevandosi più del dovuto: la punta si alza un po’ troppo, quasi volesse mostrare la suola a quelli che incontra e il tacco batte sul selciato con colpi ritmati.
Insomma, il signor von Pasenow sembra un treppiede che si è messo in movimento; e vien da pensare che quell’andatura a tre gambe deve essere falsa come quel procedere in linea retta: diretto al nulla.

Gli autori sono, nell’ordine: GOFFREDO PARISE, Cara Cina, in Opere complete, Mondadori 1996; ISAAC BABEL, Red Cavalry; KARL KRAUS, Die Fackel, 1920, p.551; HERMANN BROCH, Die Schlafwandler. 1888: Pasenow oder die Romantik, Rhein Verlag Zurigo 1931

Privilegi

Il mestiere del mare
È quello di essere sempre in movimento.
Il mestiere dell’uomo
È quello di guardarlo dalla spiaggia.
Il mare è sempre uguale a sé stesso
Ma per l’uomo sarà sempre diverso.
Purtroppo, distinguere ciascuna onda da un’altra
È un privilegio di personaggi marginali della storia.

Da FRANKLIN PATINO ROMERO, Parole di Lazzaro, Havana 1995.

Capitalismo

I

Ricordate i direttori della “Cyclops Steel and Iron Work”?
Sono quelli che hanno spiegato alla Commissione parlamentare istituita dalla Camera inglese per indagare sulle condizioni della vita in fabbrica che era necessario che i bambini di dodici anni  lavorassero alle macchine per turni di dodici ore consecutive, notte e giorno.
Chiede un componente della Commissione: “Ma non possono fare i loro turni di dodici ore solo di giorno?”. Risponde uno dei direttori, E.F.Sanderson, visibilmente sgomento: “Ma così ci sarebbe uno spreco dei nostri investimenti nei macchinari, che rimarrebbero fermi per tutta la notte!”.

II

Il mondo è diviso in tre tipi di stati: quelli dove la gente spende un sacco di soldi per mantenere la linea e dimagrire; quelli dove la gente mangia per vivere; infine quelli dove la gente non sa se riuscirà a mangiare qualche cosa il giorno dopo.
A queste differenze si accompagnano differenze nelle malattie e nella speranza di vita.
Nei paesi del primo gruppo la gente si preoccupa per la sua vecchiaia, che si prolunga sempre di più. Negli altri paesi, la gente cerca di sopravvivere. Non devono preoccuparsi del colesterolo o dei grassi, perché muoiono prima di avere i problemi che il colesterolo provoca.
Cercano di assicurarsi una vecchiaia tranquilla, se mai ci sarà, facendo molti figli, nella speranza che qualcuno sopravviva e mantenga una senso di obbligo filiale.
Queste differenze oggi stanno crescendo. La differenza tra le nazioni più ricche e quelle più povere  nel reddito pro capite – per esempio, tra Svizzera e Mozambico – e di 400 a 1.
Duecento anni fa, era di 5 a 1.
Molte nazioni povere non solo non stanno guadagnando terreno ma lo stanno perdendo, in termini assoluti e relativi.
Rendere più ricche la nazioni povere non è solo un obbligo morale delle nazioni ricche: è perseguire il proprio interesse. Se non viene fatto, le nazioni povere, non riuscendo a far quadrare i bilanci esportando beni e materie prime, esportano persone: la ricchezza è una calamita irresistibile.

Da DAVID S. LANDES, The Wealth and Poverty of Nations, Norton, 1999.

Il progettista

L’universo esprime un progetto, c’è un disegno?
Tutto può essere un progetto, anche la cosa più caotica e irrazionale.
Secondo alcuni (la Bibbia per esempio), chi ha progettato l’universo aveva un particolare interesse nell’uomo.
Ma sappiamo che non è così. L’uomo è frutto di un caso, c’è da poco e durerà probabilmente poco.
Se mai, l’ipotetico progettista aveva un particolare interesse per i dinosauri (che hanno dominato la terra per milioni di anni) o per i coleotteri (che durano da milioni di anni). In realtà è frutto di un caso anche la vita, animale e vegetale.
Secondo altri, chi ha progettato l’universo ha stabilito le regole del suo funzionamento, le regole dell’universo. Ma non sembra che ci siano regole particolari, anche se non le conosciamo. Se la vita si fosse verificata dovunque, forse si potrebbe pensare che c’è un progetto: l’universo è fatto per la vita, il progettista ha fatto un universo per noi.
Ma, per quanto si sa, la vita c’è solo qui. Quindi può benissimo essere frutto del caso.
Il vantaggio delle teorie religiose è che sono estremamente flessibili e adattabili; soprattuto, dimenticano in fretta e non si vergognano mai di ciò che hanno sostenuto come irrinunciabile fino a poco prima.
Per esempio, per la Chiesa fino a un certo punto la terra e l’uomo stanno al centro dell’universo, e tutto sulla terra è in funzione dell’uomo.
Poi, si scopre che la terra non è affatto al centro dell’universo. Dopo aver bruciato per secoli quelli che sostenevano questa eresia, la Chiesa si è perfettamente adattata: tutto funziona anche se la terra è in un angolo.
Poi, si scopre che anche l’uomo non è al centro della creazione, ma è un prodotto tardivo e casuale dell’evoluzione.
Non si poteva più bruciare nessuno a questo punto, ma quelli che sostenevano questa tesi non hanno avuto vita facile. Oggi, la Chiesa riconosce che forse l’uomo non è proprio al centro della creazione; ma poco importa: ciò che ha sempre sostenuto vale comunque. Perfino la teoria del Big Bang secondo Pio XII, dimostrerebbe la fondatezza della dottrina cattolica.
Se si dimostrerà che l’universo non ha regole particolari, la Chiesa si adatterà anche a questo, alla mancanza di un progetto. Siccome Dio può fare tutto, può fare anche universi non progettati.
Del tutto campata in aria è anche l’affermazione che il progettista è buono (secondo San Tommaso, solo un Dio buono può aver fatto il mondo).
Di certo avrebbe potuto essere molto più buono: molti di noi sarebbero stati più buoni nel progettare un mondo con la vita. Avrebbe potuto anche essere più cattivo, o molto più cattivo.
Una delle tesi più diffuse è che il male su questo mondo dipende dal libero arbitrio, che il progettista avrebbe concesso agli uomini perché la libertà è un bene.
Così, per proteggere il libero arbitrio degli europei, il progettista ha lasciato sterminare milioni di popoli in Africa e nel Terzo Mondo. Per proteggere il libero arbitrio dei cristiani, ha lasciato bruciare centinaia di migliaia di streghe. Per proteggere il libero arbitrio dei tedeschi, il progettista ha lasciato ammazzare sei milioni di ebrei. Tutto a fin di bene, naturalmente, e tutto previsto e progettato (perché tutte queste cose il progettista, che sa tutto, le sapeva fin dall’inizio, ma ha deciso che andava bene così).
La verità è che l’influsso delle idee religiose sul mondo (sia di quelle monoteiste come l’ebraismo o l’islamismo, sia di quelle politeiste come il cattolicesimo) è stato catastrofico.
Hitler non sarebbe esistito senza centinaia di anni di antisemitismo cristiano e cattolico (di cui è stato il prodotto più coerente e razionale).
La schiavitù in America è stata giustificata sulla base di considerazioni religiose: la schiavitù era il volere di Dio.
Sadat è stato ucciso da un fanatico musulmano, Rabin da un fanatico ebreo, Gandhi da un fanatico Hindu.
I buoni generalmente si comportano bene, i cattivi male.
La religione riesce spesso a far comportare male anche i buoni.

Da STEVEN WEINBERG, A designer Universe?, conferenza letta nell’aprile del 1999 alla Conference on Cosmic Design,  organizzata dalla American Society for the Advancement of Science in Washington DC.

Tre poesie di Miguel d’Ors

Chi sono?

Chi sono?
Questo intervallo di mistero
tra la rosa ardente che taglio per te
e la rosa triste che la mia mano ti tende

Contrasto

Coloro che possiedono
Auto decappottabili
Ville sul mare con piscina
Barche a vela sempre pronte
E ridono su terrazzi soleggiati
Portando alla bocca una coppa di champagne
E però non sono felici

E io, che non ho niente più che queste strade
Dove passeggio,
Che faccio fatica per pagare l’affitto
Del trilocale dove vivo
Con mia moglie e i miei due figli
Che mi vogliono bene
Neppure sono felice.

Insistenza

La mia vita: molti giorni
Lontano da Cuzco, da Siena o da Grenoble,
tanti aerei che passano senza che io li abbia presi
tante voci la cui dolcezza mai giunse al mio cuore.
Soltanto il tempo, vuoto,
solo il tempo, vedo solo
il succedersi
implacabile
di giorni
e di tubetti di Colgate.

Da MIGUEL D’ORS. Le prime due poesie sono tratte da Curso superior de ignorancia, la terza da Es cielo y es azul.

Verba volant scripta manent

Siamo stati abituati a pensare che questo detto esprima la forza di ciò che si scrive rispetto a ciò che si dice. Ciò che si scrive, rimane e vincola: non si può più smentire, e si può essere smentiti. Eppure, il detto ha un significato ben diverso reso evidente dalla attrattività del verbo volare, contrapposta alla pesantezza del verbo restare. Volare non è il contrario di restare. Il detto non dice che le parole scompaiono mentre gli scritti restano, così come noi lo interpretiamo abitualmente. Il detto contrappone movimento a immobilità, leggerezza a pesantezza, ariosità a terragnità, fantasia a prosaicità. Vuole affermare che la parola contiene in sé lo spirito che lo scritto perde. Esso risale a un tempo in cui la lettura non si fa leggendo da soli il proprio libro, si fa ascoltando, generalmente in gruppo, il lettore: leggere è udire. Udendo le parole lette e dette si comprende assai più che non leggendo le parole fissate senza sentimento sulla carta.

Da ALBERTO MANGUEL, A History Of Reading, Penguin 1997.

*
Gli uomini che cambiano corpo più di quattro volte nella loro vita non possono fare i monaci.

Regola tibetana.

Crediti

Questo sedicesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 1999 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano, nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti, anche se spesso è stato rispettato – magari parzialmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.