N. 24 estate 2003

L’infedeltà della modernità

Molti ritengono che il fondamentalismo islamico e gli atti terroristici che esso promuove o induce a commettere siano una reazione all’imperialismo americano
È una spiegazione che coglie solo una parte della realtà.
L’imperialismo americano offre certamente buone ragioni e molti militanti nelle organizzazioni islamiche fondamenta-liste per giustificare le azioni terroristiche che essi compiono.
La spiegazione non tiene però conto del fatto che il fondamentalismo islamico, pur utilizzando il terrorismo come stru-mento di azione, è diverso da altri movimenti ideologici e da altre organizzazioni che, nel corso del tempo, hanno fatto ricorso a questo strumento per imporre la propria presenza e le proprie idee.
È diverso dal movimento anarchico che ha mietuto illustri vittime in tutto il mondo occidentale alla fine del diciannove-simo secolo.
È diverso dai vari movimenti di liberazione nazionale – compresi quelli del risorgimento italiano – che in quello stesso secolo hanno fatto ricorso al terrorismo per affermare i loro ideali.
È diverso anche dai movimenti che hanno lottato per la liberazione dei loro paesi dal dominio coloniale nella seconda metà del ventesimo secolo.
È diverso dalle Brigate Rosse e dalla RAF tedesca (per i quali il terrorismo divenne ben presto non lo strumento, ma il fine dell’azione politica).
È diverso infine dai movimenti palestinesi che ricorrono al terrorismo contro lo stato d’Israele.
Analogamente a ogni fondamentalismo religioso, il fondamentalismo islamico si propone di affermare e di difendere specifici valori etici ritenuti essenziali per l’individuo e per la comunità e percepiti in pericolo o minacciati di distruzio-ne. Non sono valori di uguaglianza, di indipendenza, di libertà, di tolleranza.
Sono il rispetto assoluto e acritico dei principi religiosi e dell’autorità religiosa che li enuncia e li custodisce, il rispetto della famiglia tradizionale, la supremazia del capofamiglia sulla moglie e sui figli e in generale dell’uomo sulla donna; il valore attribuito alla omogeneità di cultura (e di ignoranza) e il corrispondente rifiuto di qualsiasi infiltrazione prove-niente dall’esterno e di qualsiasi dialogo o confronto con la diversità.
Questi stessi principi, fino a non molto tempo fa, hanno dominato in molti paesi occidentali, sia pure in diverse versioni a seconda delle varianti locali della religione cristiana.
Nel mondo occidentale essi si sono via via affievoliti e disgregati per l’affermarsi di valori diversi: l’inesistenza di una morale unica, codificata e obbligatoria per tutti, la libera scelta individuale, l’autonomia e l’indipendenza delle scelte religiose, la laicità dell’organizzazione sociale, la tolleranza, l’uguaglianza, l’educazione diffusa ed estesa alle donne.
In molti altri paesi, questo fenomeno non si è ancora verificato.
Il fondamentalismo islamico è quindi, prima di tutto, antimoderno. Vuole evitare che questa disgregazione, che è il tipi-co prodotto della modernità, si estenda al suo mondo. Vuole evitare che il suo mondo si dissolva, così come la moderni-tà ha dissolto in occidente i mondi analogamente dominati e custoditi dal fondamentalismo religioso.
Chiunque difenda quei valori che in occidente hanno condotto alla disgregazione del fondamentalismo, chiunque vuole imporre la libera circolazione delle idee e la tolleranza, è automaticamente un nemico da distruggere.
L’emblema del nemico e della modernità sono sì gli Stati Uniti; ma non il loro rozzo imperialismo, bensì i principi di tolleranza e di libertà inseriti nella loro Costituzione e la loro way of life, gommosamente appiccicatasi a tutto il mondo occidentale.
Ha osservato in un suo recente volume (Terror and Liberalism, Norton, New York, 2003) uno dei più importanti studio-si della modernità, Paul Berman, che i paesi occidentali hanno avuto il grande torto di minimizzare la potenza intellet-tuale di questa ideologia, di non comprendere che essa affascina proprio perché è semplice, totalizzante e protettiva.
E, come è spesso accaduto in passato, a un certo punto c’è sempre qualcuno che comincia ad uccidere in nome di ideo-logie di questo tipo.
S.N

Irak, dieci anni dopo

Finita la guerra vera e propria, in poco tempo i ribelli costituirono alcune centinaia di gruppi di resistenza autonomi.
Si è calcolato che questi gruppi contassero oltre 80.000 combattenti. Almeno altrettanti erano coloro che facevano parte delle organizzazioni ausiliarie e dell’indotto: gli informatori, i vivandieri, gli agenti di collegamento, i familiari.
I ribelli godevano di una popolarità diffusa e crescente fra la gente: quando arrivavano nei villaggi, scendendo dalle montagne, erano accolti con grandi feste.
La maggior parte venne eliminata. Pochissimi furono incarcerati, a tempo indeterminato, senza processi, senza controlli. Fu uno sterminio di massa calcolato e portato a termine con barbarica efficienza e con disumana crudeltà.
Molti inviati speciali provenienti da altri paesi tentarono di fare un bilancio di questa guerra, mantenuta nascosta al resto del mondo civile.
Secondo un inviato francese in poco meno di un anno 8968 ribelli o presunti tali furono fucilati dopo processi sommari; 10.604 furono feriti negli scontri, 6112 furono i prigionieri.
Fra questi, vi erano 86 religiosi, 60 giovani sotto i 12 anni, 50 donne.
Le case distrutte furono 918, sei i paesi radicalmente cancellati dalla carta geografica.
Un’indagine ufficiale dell’epoca condotta nella provincia di *** riporta che in poco più di due anni furono eliminati ol-tre 7000 presunti ribelli, dei quali quasi 2000 fucilati.
Riferisce un noto storico, ***, che nei dieci anni successivi alla liberazione del paese, 154.850 guerriglieri caddero in combattimento con le truppe dei liberatori, 11.520 furono fucilati. Secondo un altro storico °°°, le vittime furono 180.000.
Altri, ma sono fonti di parte, ritengono che le vittime furono almeno 700.000.
Uno dei comandanti delle truppe d’occupazione riferì di aver personalmente condannato a morte “300 fra briganti e non briganti” affermando che non conveniva imprigionarli perché erano tutti giovani: mantenerli sarebbe stato troppo costo-so.
Ecco il suo proclama ai soldati: “un branco di quella progenie di ladroni ancor si annida sui monti. Snidateli! Siate ine-sorabili come il destino. Contro i nemici la pietà è delitto. Schiacceremo il vampiro che con le sue sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra”.
Dati, fatti, testi e testimonianze rispecchiano fedelmente la realtà.
Si riferiscono però non al periodo successivo alla guerra in Irak – come il titolo infedelmente induce il lettore a credere – ma ai dieci anni successivi all’annessione del Regno delle Due Sicilie da parte dei Piemontesi e del Regno d’Italia, portatore di libertà e civiltà ai popoli meridionali oppressi da un regime autocratico e primitivo.
La provincia *** è quella di Chieti. Lo storico *** è Alessandro Romano. Lo storico °°° è Roberto Martucci, in Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale. Regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio 1861-1865, Bologna 1980.
Altre fonti: DENIS MACK SMITH, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, Bari 1977, ANTONIO CIANO, I Savoia e il massacro del Sud, Roma 1996. Per una visione d’insieme, LORENZO DEL BOCA, Indietro, Savoia, Casale Monferrato 2003.

Disse Francesco II Borbone, al momento di lasciare il suo regno: “Cari sudditi, non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere.
In mezzo a continue cospirazioni dei piemontesi, non ho fatto versare una goccia di sangue e mi si accusa di debolezza. Ho fermato le mani dei miei generali per evitare la distruzione di Palermo, ed ora le città del mio regno sono distrutte dai liberatori.
Ho preferito abbandonare Napoli per non esporla ai bombardamenti.
Ho creduto che il re del Piemonte, che si diceva mio fratello e mio amico, che protestava contro il modo di agire di Garibaldi, che negoziava con me un’alleanza conforme agli interessi d’Italia non avrebbe rotto tutti i patti e violato tutte le leggi del diritto internazionale per invadere i miei stati”.

Due poesie di Sylvia Plath

Soliloquio

Io?
Cammino sola;
la strada a mezzanotte
si srotola sotto i miei piedi
quando i miei occhi sono chiusi;
tutte queste case sognanti sfumano via;
è solo per un mio capriccio
che la celeste cipolla della luna sta
sospesa sopra i tetti.

Io?
Faccio rimpicciolire le case
E ridurre gli alberi
Semplicemente allontanandomi:
il laccio del mio sguardo
Fa ballare la gente come marionette,
che ride, bacia e si ubriaca
senza accorgersi di ballare
e senza immaginare che
appena io batto le ciglia
muore.

Io?
Se sono allegra
Do all’erba il suo verde
Dipingo il cielo d’azzurro e do al sole
L’oro come dote;
ma, se sono triste, possiedo
il potere assoluto
di boicottare i colori e proibire
ai fiori di esistere.

Io
So che tu appari
Vivido al mio fianco
E neghi di essere saltato fuori dalla mia testa,
e sostieni che il tuo enorme amore
comprova che sei di carne e ossa,
ma è del tutto chiaro,
mio caro
che tutta la tua bellezza e tutto il tuo ingegno non sono che un
dono mio.

Il Calderaio Jack

Venga signora, mi porti quella pentola
Tutta nera e affumicata
Mi porti qualsiasi padella,
me la faccia aggiustare e riportare alla sua forma primitiva.
Eliminerò ogni tacca
Dai piatti d’argento
E luciderò quel bricco di rame
Accanto al fuoco
Rendendolo brillante come il sangue.

Venga signora, mi porti quel volto
Allontanatosi dal suo splendore primitivo.
Il fumo del tempo nell’occhio spento
Può ritrovare il suo luccichio
Per poco prezzo.
Non c’è forma troppo storta
Storpiata o ingobbita
Che Jack non rimetta a nuovo;
il calderaio Jack può ottenere
bellezza anche da una strega.
Qualsiasi segno
Inciso da fiamme divampanti
Jack lo ritocca e ripara.
Qualsiasi cicatrice scavata
In un cuore infranto
Jack la cancella.

Da SYLVIA PLATH, Collected Poems (a cura di Ted Hughes), 1981. Tutte le opera di Sylvia Plath sono state pubblicate da Mondadori nel 2002. La traduzione delle poesie è di Anna Ravano. Il bel saggio introduttivo è di Nadia Fusini.
Entrambe le poesie sono state composte nel 1956 e pubblicate nel 1957, la prima nella rivista Accent, la seconda nella rivista Granta.

Tre lettere di George Washington

I

Mia cara,
Sono qui a scriverti su un argomento che mi riempie di una inesprimibile ansia, enormemente aggravata quando penso agli effetti che tu dovrai subire.
Devi credermi, mia cara, quando ti assicuro solennemente che, ben lungi dal ricercare questo incarico, ho fatto tutto il possibile per evitarlo, non solo per il dispiacere che mi avrebbe prodotto stare lontano da te ma anche perché ritengo che esso sia troppo oneroso per le mie capacità e perché sono convinto che posso trovare molta più felicità stando per un mese a casa che non ricercando prospettive di successo lontane.
Ma, poiché il destino mi ha costretto a calarmi nello svolgimento di questo compito, spero almeno che i miei sforzi sia-no indirizzati ad ottenere dei buoni risultati.

II

Questo è il momento in cui gli occhi del mondo intero sono puntati su di noi.
Questo è il momento in cui assestare o distruggere il nostro carattere nazionale.
Questo è il momento fortunato per conferire al nostro governo una dignità idonea a dare risposta a tutte le richieste che provengono dalla collettività. Oppure è il momento sventurato per dissolvere i poteri del governo centrale e tutto ciò che ha tenuto insieme questa confederazione, consentendo agli stati europei di giocare uno stato contro l’altro per bloccare la loro prevedibile e crescente futura potenza.
Da ciò che sarà deciso in questo momento il nostro paese andrà incontro al successo o alla rovina.
È ancora da vedere quindi se la gloriosa rivoluzione che abbiamo vinto sia una fortuna o una disgrazia: non solo per noi, ma per le nostre generazioni future.

III

Non mi sono soltanto ritirato dalla vita pubblica; mi sono ritirato dentro me stesso, e spero che sarò capace di vedere il mio solitario cammino e il sentiero della mia vita privata che potrò ancora percorrere con accorata soddisfazione.
Non invidio nessuno, e intendo trovare soddisfazione in ogni cosa.
Questo, mio caro amico, è il programma della mia marcia.
Intendo procedere con dolcezza lasciandomi trascinare dalla corrente della vita, fino a che non troverò riposo con i miei antenati.

La prima lettera, del giugno 1775, è alla moglie Martha per informarla di essere stato nominato comandante in capo del-le forze armate dell’esercito di liberazione americano nella guerra contro la Gran Bretagna.
La seconda è una lettera-circolare agli Stati della federazione dopo la vittoria sugli inglesi, 12 marzo 1783.
La terza è una lettera al marchese di Lafayette del marzo 1784. Nel 1791 Washington sarà eletto primo presidente degli Stati Uniti.

Tre poesie dei bambini di Terezin

La farfalla

L’ultima, proprio l’ultima
Di un giallo così intenso, così
Assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
– così gialla, così gialla, così gialla –
l’ultima,
volava in alto leggera,
aleggiava sicura,
per baciare il suo ultimo,
il suo ultimo mondo.

Tra qualche giorno
Sarà già la settima settimana
Da quando mi hanno portato qui.
Qui mi hanno ritrovato i miei genitori,
e tutti i giorni mi mostrano
i fiori di ruta
e il bianco castagno nel cortile.

Ma qui non c’è nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta è stata proprio l’ultima. L’ultima.
Qui non vivono le farfalle.

A Olga

Ascolta,
fischia la sirena della nave.
Su, partiamo,
partiamo per porti sconosciuti.
Ecco,
è l’ora,
navigheremo lontano,
i sogni diverranno realtà.
Oh, dolce nome del Marocco!
Ecco,
è già l’ora.

Il vento ci porta canzoni
e profumi di paesi lontani.
Guarda il cielo
E pensa alle violette.

Ecco,
è giunta l’ora.
Partiamo.

Il giardino

È piccolo, piccolo il giardino
Profumato di rose,
è stretto, stretto il sentiero
dove corre il bambino.

È un bambino bellissimo,
come un bocciolo che si apre.

Quando il bocciolo si aprirà
Il bambino non ci sarà.

La prima poesia è di Pavel Friedmann, la seconda di Alena Synkovà, la terza di Franta Brass.
Sono tre dei bambini della Repubblica cecoslovacca deportati dai nazisti nel campo di concentramento di Terezin (The-resienstadt) e da lì successivamente inviati a Auschwitz.
Dal libretto curato da Haim Burstin in occasione della Giornata della memoria al liceo Berchet, 1\2\2003.

Una biografia di George Byron

Vita e poesia, realtà e leggenda, e poi avventure, viaggi, impegno politico, una tragica morte prematura in terre allora conisderate lontane e soprattutto amori tempestosi e relazioni proibite.
Questo è George Byron.
Avvolto da un alone mitologico che lui stesso in vita con compiaciuta ironia aveva cominciato a costruire e a diffondere – un mito che molti decenni dopo la sua morte aveva indotto dei suoi fans a scoperchiare il sepolcro dove era stato tumulato per poterlo toccare – è stato giudicato via via un genio, uno sbruffone, un pedofilo, un sovversivo, un omoses-suale represso, un dongiovanni impenitente, una vittima della codina morale vittoriana della società inglese del suo tempo e, secondo la definizione di Shelley, “un pellegrino dell’eternità”.
Non è quindi certo un caso che Byron abbia attratto, e continui ad attrarre, l’interesse di innumerevoli biografi.
Quasi tutti, però, hanno prestato attenzione ad uno o alcuni dei molti aspetti della sua personalità: per molti, la sua vita è stata più importante delle sue opere.
Un pellegrino lo fu davvero.
Partì nel 1809 dall’Inghilterra per il suo Grand Tour e dopo una sosta a Lisbona (dove fu l’amante di alcune duchesse) e poi a Siviglia e a Cadice, si fermò a Malta – dove, ci racconta, prese la dissenteria, lezioni di arabo, e un’amante (che poi era la moglie del governatore britannico) – si lanciò verso l’Albania e l’Impero ottomano, fermandosi a lungo a Atene (dove organizzava incontri di pugilato tra ragazzi cattolici e ragazzi ortodossi) e a Costantinopoli, ospite del Sulta-no. Di questo viaggio scrisse: “dopo essere vissuto tra maomettani, cattolici, ortodossi, ed essendo io protestante, mi so-no accorto che tutte le religioni sono egualmente vere, e quindi egualmente false”.
Un sovversivo, lo fu senz’altro.
Quando fu ammesso alla Camera dei Lords, prestò giuramento, chiese la parola e si dichiarò scandalizzato del fatto che in Inghilterra la nascita e la ricchezza potessero conferire dei diritti; chiese ai Lords di votare l’abolizione della Camera dei Lords come gesto riparatorio, depositò il suo progetto di legge, e se ne andò.
Nella Camera dei Lords non rimise più piede.
Solo per lanciarsi, prima, a Ravenna, nella partecipazione alle fasi iniziali del movimento carbonaro (protetto dalla sua cittadinanza inglese e dai suoi titoli nobiliari), poi, a Genova e in Grecia, nell’organizzare la lotta per l’indipendenza contro i turchi.
Sui suoi amori, la letteratura è sterminata.
Prima di abbandonare per sempre l’Inghilterra nel 1816, ebbe in pochi anni – secondo i suoi biografi – non meno di ottantasette amanti (tra cui la sorellastra) ed una moglie (nipote della sua amante più in vista, Lady Lamb).
La sua fama di dongiovanni era tale che Schopenhauer, trovandosi a Venezia con una sua giovane amica, così scrisse: “Stavamo passeggiando sulla spiaggia del Lido, io e Alina, quando sentimmo dietro di noi il trotto di due cavalli. Passò Lord Byron con un amico. L’incredibile bellezza della sua persona, lo sguardo penetrante e voluttuoso che lanciò su A-lina e il visibile effetto che quello sguardo ebbe su di lei mi fecero comprendere che il tradimento era già sicuro. L’indomani mattina ritenni prudente trovare riparo a Padova”.
Ma non bisogna dimenticare che Byron fu un grandissimo poeta che incantò Puskin, Stendhal, Goethe e l’Europa intera.
Di lui Tomasi di Lampedusa, nel suo compendio della letteratura inglese ad uso degli amici, ha scritto che è il perno alla letteratura moderna europea: sia che lo si stimi grande o piccolo, dopo di lui tutto è totalmente diverso.
Secondo Tomasi, la sua opera Don Juan è il suo poema perfetto: “una delle esperienze più deliziose che un uomo di cul-tura possa attraversare”.
Accanto a questo, altri poemi (Childe Harold innanzi tutto), molte poesie e molte novelle (per esempio Beppo) sono di grande bellezza.
È più che comprensibile quindi che non sia facile reperire una biografia che offra un quadro complessivo e bilanciato dell’uomo e del poeta.
L’opera più completa è comunemente – e probabilmente a ragione – considerata quella di Leslie Marchand, che risale al 1957 (Byron: A Biography), in tre volumi.
Assai utile, però, per un primo contatto con questo personaggio, è il volume di Fiona Maccarthy, Byron: Life and Le-gend (Farrar, Straus & Giroux, 2002).
Il libro è certamente meno impegnativo (ma sono sempre 700 pagine) dell’opera di Marchand.
Tuttavia è approfondito e documentato; soprattutto, mette con vigore in risalto le doti più particolari di Byron e quelle più apprezzate da coloro che lo conobbero: la sua onestà intellettuale, la sua immediatezza e la sua simpatia, la sua ca-pacità di comunicare e di stabilire relazioni di amicizia e di affetto con chiunque, in qualsiasi regione d’Europa. A que-ste doti si deve la sua abilità nel conquistarsi il rispetto e la stima di persone di ogni sesso e di ogni strato sociale.
Sono queste doti che rendono Byron un precursore, nei suoi comportamenti, nella sua pratica di vita e nella sua dimen-sione intellettuale, di una modernità che era, nei primi decenni dell’Ottocento, ai suoi albori.
Un anticipatore della modernità, anche se, per molti versi, un prodotto antico delle perversioni romantiche e delle inibi-zioni morali del suo tempo.
Soprattutto un moderno europeo, in un’epoca in cui l’Europa era ancora un sogno ben al di là dall’essere realizzata (sal-vo che nelle lugubri modalità della Santa Alleanza).
Byron fu il primo che riuscì a mettere di fronte all’Europa – all’opinione pubblica europea, allora in corso di formazio-ne – la sua forza e la sua debolezza.
Prima di tutto, la varietà dei popoli e delle culture da cui era composta, sottolineando però non quel che a tutti sembrava ovvio, e cioè le diversità, ma le somiglianze e i punti di contatto.
Poi, la diversità dei principi e delle regole che la governavano, smascherandone la comune grettezza e la caducità.
Il testo ha utilizzato oltre che le opere di Marchand e di Maccharty citate, la parte su Byron della Letteratura inglese di Tomasi di Lampedusa, nelle Opere complete pubblicate da Mondadori.
Don Juan è stato pubblicato, con il titolo Avventure di Don Giovanni, da Newton Compton, nella traduzione (con testo a fronte) di Franco Giovanelli.

Le vite di Lauren Van Der Post

Alla sua morte, nel 1999, Laurens van der Post – sudafricano di nascita, olandese di origine, e inglese di adozione – era considerato un eroe di guerra, un impavido esploratore, un conoscitore dei popoli africani e dei loro dialetti (e di molte altre lingue del mondo, tra cui il giapponese e il malese), un esperto ambientalista, e, infine, un abilissimo diplomatico, il cui intervento era stato prezioso in Rhodesia, in Sudafrica, e, prima ancora, nelle complesse e sanguinose trattative che hanno condotto all’abbandono da parte degli olandesi delle loro colonie indonesiane.
Ai suoi funerali avevano espresso il loro cordoglio personaggi pubblici di tutto il mondo: tra gli altri, Nelson Mandela (con un messaggio portato personalmente da Buthelezy), il principe Carlo d’Inghilterra (del quale van der Post era stato per vari anni il privilegiato consigliere privato nelle questioni ambientali), Margaret Tatcher e poi diecine e diecine di personaggi di rilievo della cultura e della politica di molti paesi.
Con i suoi volumi, Van der Post ha affascinato milioni di lettori.
Ha raccontato, con semplicità e schiettezza, conquistandosi la fedeltà e l’ammirazione di milioni di lettori, la sua giovi-nezza in Sudafrica, allevato da una balia Bushmen, le sue imprese di guerra, le sue avventure solitarie nel Kalahari e in Abissinia, i suoi colloqui con l’amico Carl Gustav Jung (del quale scrisse una nota biografia), le sue imprese dopo es-sersi arruolato allo scoppio della guerra in un famoso reggimento inglese, la sua prigionia a Giava nei campi di concen-tramento giapponesi.
Ebbene, dopo la sua morte, si scopre all’improvviso che van der Post aveva inventato tutto, o quasi tutto ciò che rac-contava di aver fatto.
Aveva inventato la sua vita.
Non c’era stata nessuna bambinaia Bushment dalla quale aveva imparato il dialetto di quel popolo (che gli era scono-sciuto alla pari degli altri dialetti africani, del malese e, salvo qualche parola, del giapponese), non c’era stato arruola-mento volontario allo scoppio della guerra (aveva continuato tranquillamente a lavorare come giornalista a Londra fino al 1942), non aveva fatto parte di alcun famoso reggimento inglese (fu arruolato nel corpo di polizia), niente gesti eroici o avventure in Africa.
Molti tendono a celare gli episodi sgradevoli o meschini della propria vita, o a ingigantire quelli meritori o degni di ammirazione; molti altri adattano episodi cui hanno preso parte in modo da far risaltare il loro comportamento e le loro virtù.
Ma questo caso è ben diverso.
Van der Post aveva scientificamente, fin dalla sua prima gioventù, creato una, anzi, molte vite sostitutive della sua vita effettiva; era riuscito a imporle sulla realtà, sia nei confronti delle persone più vicine (la moglie e i figli) sia nei con-fronti di tutti coloro che, affascinati, lo ascoltavano e lo leggevano e credevano a tutto ciò che egli raccontava, senza rilevare quelle che dopo la sua morte sono apparse evidenti contraddizioni cronologiche e materiali.
Alcune voci isolate, in realtà, avevano tentato di opporsi alla costruzione del mito, altre avevano contestato la veridicità delle affermazioni di van der Post; ma tutte erano state ridotte al silenzio dalle sue risposte sdegnate e dall’opinione pubblica che difendeva il suo idolo e il suo eroe.
Il risultato è stata una vita inventata con artistica e geniale meticolosità combinatoria.
Ma anche con un coraggio ed una sfrontatezza senza paragoni, sfidando centinaia e centinaia di testimoni che hanno mantenuto inspiegabilmente il silenzio.
La storia di questo inusuale personaggio è raccontata da JDF Jones, Storyteller. The Many lives of Laurens van der Post (Murray Londra 2001).

S.N.

Due poeti sudafricani

Devo solo aspettare

Dio, con le tue grandi tette
Fatte per nutrire tutte le tue creature
Devo proprio maledire la mia bocca,
così incapace di succhiarle
o devo maledire le mie mani
incapaci di tenerle ferme

Dio, con le tue grandi tette,
I miei occhi si stanno ormai arrossando
Mentre aspettano il tuo latte
Che va sempre in altre direzioni
Spinto dai venti verso ovest
E io sono qui solo schizzata dalle gocce
Incapace di calmare la mia fame

Dio con le tue grandi tette,
devo maledire il colore nero della mia pelle
che mi fa sentire sempre affamata
mentre questo paese strabocca
di oro e di gemme
e la campagna è verde
come la pelle di una rana

Ma forse devo solo aspettar

Il nostro villaggio

Da quel giorno
Quando sono arrivati due signori bianchi
Vestiti di bianco
Il nostro villaggio non è più lo stesso.
Hanno mandato via il nostro capo
Hanno allontanato I nostri anziani
Hanno parlato di una nuova vita per tutti
Una vita come è quella a casa loro
Libertà e democrazia
Hanno convinto tutti
Che sono venuti proprio per noi
E hanno fatto molta strada per aiutarci
Però il nostro villaggio non è più quello di prima
Da quando sono arrivati i due signori
Vestiti di bianco.

La prima poesia, del 1995, è di Simion R. Nkanunu. La seconda è di Wopko Jensma ed è pubblicata in Sing for our Execution. Poems and Woodcuts, Ravan Press 1973.

Crediti

Questo ventiquattresimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2002 in duecento copie non nume-rate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive. Alcuni mi hanno chiesto spiegazioni per questa condizione. Il motivo è triplice. Economico: evitare spese di stampa e spedizione inutili. Ambientale: risparmiare alberi. Sociale: evitare invasioni sgradite nella privacy altrui.
Il sito è curato e aggiornato da Stefano Rossi. L’inserimento dei Testi infedeli nel sito è stato curato anche da Beniami-no Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Marina Nespor, Pasquale Pa-squino.