N. 25 inverno 2003

La tolleranza
La tolleranza è la virtù dei deboli, destinati a convivere con i propri simili. L’uomo, nonostante la sua intelligenza, è così limitato dai suoi errori e dalle sue passioni, che non è mai troppa la tolleranza di cui deve dar prova e della quale ha bisogno per evitare incessanti disordini e discordie.
In realtà, la ragione per cui tanti secoli sono stati l’onta e la sventura dell’umanità, va ricercata nel fatto che la tolleranza è stata bandita.
Non avendo la ragione umana una misura precisa e determinata, ciò che è evidente per l’uno è spesso oscuro per l’altro; giacché l’evidenza è una qualità relativa: può dipendere o dalla luce sotto la quale vediamo gli oggetti, o dal rapporto che esiste fra questi e i nostri organi, o da un’altra causa qualunque, onde un certo grado di luce, sufficiente a convincere l’uno, è insufficiente per un altro il cui spirito è meno vivo o diversamente sensibile. Ne segue che nessuno ha diritto di imporre il proprio pensiero, né di pretendere di assoggettare gli altri alle proprie opinioni. In realtà, volere che io creda in conformità al vostro giudizio sarebbe come esigere che io guardassi con i vostri occhi.
Vediamo tutti i giorni che non esiste verità tanto chiara che non vada incontro a qualche contraddizione; non esiste sistema, al quale non si possono opporre obiezioni spesso tanto valide quanto le ragioni su cui esso si fonda.

Ciò che è semplice ed evidente per l’uno sembra falso e incomprensibile all’altro: ciò accade non solo a causa del diverso grado di intelligenza, ma anche a causa della stessa varietà delle indoli.
La verità differisce dall’errore tanto nei suoi mezzi quanto nella sua essenza; dolcezza, persuasione, libertà sono i suoi divini caratteri; si offra dunque così ai miei occhi, e subito il mio cuore si sentirà attratto verso di essa; ma dove regnano la violenza e la tirannide, non vedo più lei, ma il suo fantasma.
Credete davvero che nella tolleranza universale, che vorremmo instaurare, ci preoccuperemo più dei progressi dell’errore che di quelli della verità?
Se tutti gli uomini, adottando i nostri principi, si concedessero un reciproco aiuto, rinunziassero ai loro pregiudizi e considerassero la verità un bene comune, del quale sarebbe egualmente ingiusto privare gli altri o ritenersi depositari esclusivi; se tutti gli uomini dico, deponendo le loro ostinate convinzioni, si spingessero fino ai confini del mondo per comunicarsi in pace sentimenti e opinioni, pesarli imparzialmente nella bilancia del dubbio e della ragione, non credete invece che, nel silenzio unanime delle passioni e dei pregiudizi, si vedrebbe la verità riprendere i suoi diritti, ampliare il suo potere, e le tenebre dell’errore svanire e fuggire davanti a lei, come ombre lievi che scompaiono all’approssimarsi della fiaccola del giorno?

Jean – Edme Romilly, voce Tolleranza, Encyclopédie di Diderot-D’Alembert, vol.16, Parigi 1765.

Tre poesie di Birago Diop

Sospiri

Ascolta le cose, non gli esseri.
La voce del fuoco, si intende,
ascolta la voce dell’acqua.
Ascolta nel vento
Il cespuglio che singhiozza:
sono il respiro degli antenati.

I nostri padri non sono scomparsi;
sono nell’ombra che si dirada
e nell’ombra che si ispessisce.
Non sono in cielo o sotto la terra;
sono nell’albero che freme,
sono nel bosco che geme,
sono nell’acqua che scorre,
sono nell’acqua che dorme
sono in mezzo alla folla.
I morti non sono morti.

Simpatia

Bagnati dagli stessi fiumi
Nutriti agli stessi banchetti
Vittime delle stesse sbronze
Abbiamo avuto lo stesso destino.
Ora, ammaccati, soli, e più saggi
Seduti a margine del lungo sentiero
Cerchiamo quei giovani volti
Che riscaldarono i nostri gioiosi mattini.
Ascoltiamo i passi strascicati e lenti delle ore
Che si muovono di sera nelle nostre case
Come fantasmi che ritornano
Cullando le nostre preoccupazioni assillanti.
E i silenzi della notte
Si sovrappongono ai rumori del giorno che fugge
E tessono sudari per le nostre illusioni.

Visione

Una figura indistinta si allontana
Nella trasparente oscurità del crepuscolo
E lentamente scende la notte
Che tutto avvolge di nero.
Lontano una lampada luccica
E penetra nella notte dove mi sembra di scorgere
Un’ombra che scivola senza rumore
Nella trasparente oscurità del crepuscolo
Dove la figura si allontana.

Birago Diop (Ouakani 1906 – Dakar 1989). Studia veterinaria in Francia. Conosce a Parigi Senghor. Lavora come veterinario in Sudan, Alto Volta (ora Burkina Faso) e Mauritania. Dal 1960 al 1965 è ambasciatore del Senegal in Tunisia; nel 1965 apre una clinica veterinaria a Dakar. E’ autore di raccolte di poesie (Leurres et Lueurs),, commedie, drammi, romanzi, racconti (Contes d’Amadou Koumba).

Storia di luce e di morte

Un monumento a Topsy è stato eretto, in occasione del centenario della sua morte, a Coney Island, l’isola davanti a Manhattan che ospita il parco dei divertimenti, proprio sul luogo dell’efferata esecuzione. “Questo episodio è una vergogna indelebile nella storia della nostra città”, ha detto il finanziatore del monumento.
Lavorava prima in un circo, poi, divenuto troppo anziano, in un’impresa di costruzioni, sempre a Coney Island.
Fu condannato a morte per aver preso a calci un passante che gli aveva infilato in bocca una sigaretta accesa.
Forse se la sarebbe cavata, se Thomas Alva Edison, il grandissimo ed instancabile inventore – “Invention is ninety-nine percent perspiration, and one percent inspiration” era il suo motto – non avesse fiutato il momento propizio per offrire una dimostrazione dello straordinario potere dell’elettricità e dei suoi innumerevoli impieghi oltre a quello, divenuto ormai di uso generalizzato, di portare ovunque la luce. Edison entrò così sulla scena proponendo un altro impiego di quell’invenzione che lui aveva insegnato come controllare e utilizzare.
L’elettricità portava luce e sicurezza; ma poteva portare anche morte: rapida, indolore e al passo con l’evoluzione tecnologica.

Niente grida, lamenti, spargimenti di sangue: niente più inaffidabili impiccagioni, sanguinose ghigliottine; no anche all’avvelenamento con morfina, in corso di sperimentazione, ritenuto troppo gradevole per il condannato.
La vera soluzione, il vero punto di equilibrio era l’elettricità.
Fino a quel momento, Edison si era limitato a dimostrare le sue teorie su cani e gatti; quella era la prima occasione per affrontare una prova su un corpo di giuste dimensioni e per aggiungere un altro brevetto a quelli già totalizzati (saranno ben 1093 alla sua morte).
Ci furono circa 1500 spettatori in quel freddo giorno di fine gennaio in cui Topsy, senza un lamento, proprio come Edison aveva previsto, esalò l’ultimo respiro e crollo rumorosamente al suolo. Ci furono anche molte proteste, a New York e in tutti gli Stati Uniti. Non rimasero inascoltate. L’opinione pubblica americana insorse. Le modalità con cui l’esecuzione fu condotta a termine furono pubblicamente censurate, e dichiarate una tortura sadica e inutile: non si uccidono così gli animali.
Neppure Topsy, un vecchio elefante omicida, ma solo perché indegnamente provocato, meritava una fine così crudele.
Da allora, l’elettricità non venne più utilizzata negli Stati Uniti per uccidere degli animali.
Fu riservata solo agli esseri umani.

Ma perché Edison si lanciò con tanto zelo in questa campagna?
Il suo piano, degno di un genio del marketing, era quello di dimostrare all’opinione pubblica che l’elettricità poteva essere un pericoloso strumento di morte; ma non quella a corrente continua che lui stesso aveva brevettato, ma quella a corrente alternata, sviluppata dal suo acerrimo concorrente Westinghouse.
In questo modo, l’elettricità prodotta da Westinghouse sarebbe stata collegata dall’opinione pubblica alle conseguenze mortali provocate, inducendo nel contempo una preferenza per la benigna corrente continua. Westinghouse si accorse immediatamente del tranello e, come contromossa, assunse a proprie spese i migliori avvocati per difendere il primo condannato a morte mediante sedia elettrica. Riuscì a condurre la difesa fino alla Corte Suprema.
Nel frattempo però, senza che i due litiganti se ne accorgessero, la nuova condanna fu eseguita su Martha Place, una donna ritenuta responsabile di aver ucciso il marito.
Fu usata la corrente alternata, secondo i piani di Edison.
Furono necessarie tre scosse e oltre un’ora di agonia per ottenere il risultato voluto.
Da Storie di Coney Island, New York 1957; Mark Essig, Edison and the Electric Chair: A story of Light and Death, Walker and Co., 2003.

Una poesia di David Diop

Rideva il sole nella capanna
le mie donne erano belle e flessuose
Come le palme nella brezza della sera;
i miei figli scivolavano sulle profondità del fiume,
Di notte, la luna accompagnava le nostre danze
Al ritmo frenetico e ossessivo del tam-tam,
tam-tam della gioia,
tam-tam della spensieratezza,
in mezzo a fuochi di libertà.

Poi un giorno, il silenzio.
Le mie donne premevano le bocche arrossate
Sulle labbra sottili del conquistatore bianco,
i miei figli lasciavano la loro tranquilla nudità
per marciare con vesti di ferro e di sangue.

Non ci siete più nemmeno voi,
tam-tam delle mie notti d’amore,
tam-tam dei miei giochi notturni,
i ferri della schiavitù mi hanno straziato il cuore.

La poesia, dal titolo “Tutto è perduto”, è di David Diop (1927-1960), uno dei più importanti rappresen-tanti della négritude. Lavorò come insegnante nel Senegal e in Guinea. Morì in un incidente aereo mentre portava con sé i manoscritti della maggior parte delle sue opere.

Nascita di una lingua

Quando e come è nata la prima scrittura?
Studiosi della preistoria, archeologi, filologi cercano da anni una risposta. Alcuni suppongono che i disegni geometrici che si vedono in molte grotte – con le forme più varie, di gazzella, di grillo, di tetto o di virgola – siano elementi di una lingua ormai scomparsa e indecifrabile. Se avessero ragione, si potrebbe forse avviare una analisi genetica a seconda dei tipi di scrittura utilizzati, dai geroglifici egiziani ai caratteri cinesi.
Altri preferiscono interrogare Frédéric Bruly Bouabré: uno dei rari artisti che hanno fatto della scrittura l’oggetto della sua riflessione, e l’unico che si è spinto ad inventare un linguaggio, svilupparlo, spiegarlo, diffonderlo. È il creatore dell’alfabeto bété, dal nome dell’etnia nella quale Bouabré è nato, in Costa d’Avorio nel 1923.
Fino al 1948 la sua vita non aveva avuto nulla di particolare: studi interrotti anzitempo essendo stato espulso dalla scuola, un arruolamento nelle truppe francesi durante la seconda guerra mondiale, un posto da piccolo funzionario statale dopo la Liberazione.
Ma il 1 marzo 1948, all’alba, mentre si recava al lavoro, è colpito da una visione: il sole si moltiplica davanti a lui in molti soli di varie dimensioni e di diversi colori.
Capisce che si tratta di un richiamo divino. Diviene così profeta e si fa chiamare Cheik il Rivelatore.

La sua missione diviene quella di rivelare all’Africa la scrittura che fino a quel momento non aveva avuto, restando condannata cosi a far uso della lingua dei colonialisti bianchi. Ma, come si poteva creare un alfabeto, un alfabeto africano?
In un decennio di lavoro la nuova lingua è pronta, partendo dall’osservazione di elementi naturali, sviluppandone le forme in modo simbolico, e tracciandone i segni con gessetti colorati su carta o cartone. A seconda della loro complessità e dei loro intrecci, i segni indicano una o più sillabe della lingua bété. Bruly Bouabré associa pittogrammi e calligrammi, procedendo da sinistra verso destra. Introduce anche dei simboli universali: la freccia, la stella, la luna, il serpente, attribuendo loro un significato. A molti sembra che nella lingua bété siano racchiuse tutte le lingue originarie e sia espresso l’ideale di una lingua universale, sintesi di storie e di culture di un intero continente..
Nel 1958, Théodore Monod, affascinato dalla costruzione della lingua bété, conosciuta allorché Bouabré partecipa all’esposizione sui Maghi della terra organizzata a Parigi, pubblica per la prima volta un saggio su questa lingua con le riflessioni dell’autore.
Attualmente al Museo Champollion a Figeac è esposta la versione intera dell’alfabeto bété, così come si presentava all’inizio degli anni Novanta.
Disposti su tre grandi pareti ci sono 449 strisce di cartone di 9,5 cm. di altezza e 15 cm. di lunghezza: ciascuna di esse riproduce la trascrizione di un suono in caratteri latini da un lato e in lingua bété dall’altro.

Sono anche esposti libri in lingua bété, tutti scritti integralmente da Bruly Bouabré con spiegazioni che si propongono di far comprendere il processo attraverso il quale la lingua si è lentamente formata ed è stata gradualmente rivelata: questo perché l’inventore di una scrittura non può astenersi dal vedere ovunque e senza soste – in un gruppo di rocce, in una nuvola passeggera – elementi che permettono, adeguatamente trasformati, di sviluppare e migliorare la sua lingua.

S.N.

Quattro poesie di Gertrud Kolmar

La poetessa

Mi tieni stretta nelle mani.
Il mio cuore batte nel tuo pugno
Proprio come quello di un uccellino.
Tu che leggi, fai attenzione:
Perché, vedi, non stai sfogliando solo carta,
ma un essere umano.
Anche se ti sembrano solo pagine stampate,
rilegate con cartone e un po’ di colla;
stai sfogliando un essere umano che rimane muto
e non ti vede con i suoi grandi occhi
Che guardano dalle righe stampate.
Ed è velato come una promessa sposa
E porta orecchini e collane, proprio come piace a te,
e chiede timidamente che tu scacci dalla tua mente,
solo per questa volta, indifferenza e noia.
Con fiori scuri, con catene d’argento, con sete
Sapeva molte cose belle quando era bambina,
ma le più belle ormai le ha dimenticate.
Questo libro è il vestito di una ragazza,
Che vorrebbe essere prezioso e rosso
e invece è povero e fragile.
E sotto dita amorose sopporta di essere sgualcito
E anche, talvolta, strappato.
Così me ne sto qui e rifletto su quel che mi è capitato.

La candeggina lo ha tutto pulito, questo vestito,
Ma le tracce non sono state davvero cancellate.
Così ti chiamo. Il mio appello è flebile e leggero.
Tu senti ciò che dico.
Capisci anche ciò che sento?

La viaggiatrice

Tutte le ferrovie sbuffano tra le mie mani,
tutti i grandi porti ospitano navi che mi aspettano
tutte le strade che si dipartono
precipitosamente verso terreni lontani
iniziano proprio qui; poi, dall’altra parte,
felice di festeggiarle, io le ricevo sorridendo.
Se riuscissi ad acchiappare un lembo di questo mondo
troverei anche gli altri tre,
e allora annoderei il mio foulard
lo metterei su un bastone
e poi lo porterei sulle spalle
con dentro tutta la palla terrestre
con le guance rosse
con i noccioli marroni e il sapore di mele.
Pesanti graticci di ferro strepitando
diffondono lontano il mio nome
Una casa diroccata spia i miei passi di nascosto,
ritornano sullo sfondo immagini
già disperse da tempo in lontananza
e nostalgia della cecità e desideri di paralisi;

crea il mio calice da viaggio: ed io bevo assetata.
Con nude, vigorose braccia
vado arando la profondità dei mari,
mentre nei miei occhi luccicanti assorbo il cielo.
Ci sarà un tempo per restarsene quieti
ricercando scarne provviste, poi ritornare a casa
e essere nient’altro che sabbia nelle scarpe.

La strega

Le lune sorgono, le lune tramontano;
Il mio giorno è sempre lo stesso giorno,
caro visetto. Ti inghirlandano canzoni colorate
l’azzurro suono della cinciallegra,
il cupo rumore del merlo.
Cupo rumore del merlo, un chiarore,
Argentate voci flautate, un fosco panorama.
Giovane donna del bosco,
I muschi ospitano le tue onde.
Alla tua fonte si chinano gli animali selvaggi,
Le teste brune con corna dirompenti.
Le tue notti sono tutte dense di rare grida
con colori del pavone
E del bisbigliare del vento giallo di ginestra.
Lucertola smeraldina. Piccole biscie dorate
Intorno alle quali è ancora visibile il bagliore delle foglie
Che, stanco dell’estate, si spegne
Là dove l’olmo si specchia sul laghetto
Che, insieme al silenzio,

scompare verso la valle.
La mia unica proprietà.
Tu, posso sempre cambiarti, stregarti.
Posso essere la tua strega.
Diventerò nel mio parco
un cespuglio con mandorle dolci.
Sul tavolo sarò
un bicchiere di vino color ambra pura.
O terra trasparente matura.
Avvicinati, voglio berti, mia forza.
E vedere un muro,
tirare la pesante maniglia di bronzo,
e trovarmi nuovamente sotto l’albero del paradiso.

Il cuore

Camminavo in un bosco.
Crescevano molti cuori
erano rossi per il dolore,
erano orgogliosi, verdi e freddi.
Grondavano e pendevano
Da scuri rami, rami di amarene.
Io li soppesavo densi di sole
E li lasciavo dolcemente tintinnare.
Poi ne ho colto uno
Assai scuro, sembrava ormai maturo:
insieme a un verde fiocco e a un fiore
mi ha fatto diventare bellissima.
Il cuore era un battito caldo.

Pensavo che pregasse.
Qualche volta, rossoscura come una granata
Spruzzava fuori una grande goccia.
E allora batteva da tormenti avvizziti
Un piccolo, piccolo cuore blu.

Gertrud Kolmar (Berlino 1894 – Auschwitz ?, 1943). Figlia di un noto avvocato, cugina di Walter Benjamin (con il quale intrattenne una folta corrispondenza), Gertrud Chodziesner sceglie per la sua attività letteraria lo pseudonimo Gertrud Kolmar, dal nome tedesco del piccolo villaggio polacco dal quale la sua famiglia proveniva. Pubblica il suo primo libro di poesie nel 1917. Insegna il francese e l’inglese, traduce dal russo e dal polacco.
Tra il 1930 e il 1931 scrive il suo unico romanzo, die judische Mutter, pubblicato per la prima volta nel 1965 con il titolo die Mutter. Appassionata della Rivoluzione francese, scrive nel 1933 un ” Ritratto di Robespierre” sotto la direzione di Albert Mathiez. Nel 1934 pubblica il ciclo poetico Preußische Wappen, nel 1938 la raccolta Die Frau und die Tiere. All’avvento del nazismo si rifiuta, insieme con il padre, di lasciare la Germania, e si rifugia nella casa di famiglia a Finkenkrug sul Falkensee. E’ inviata ai lavori forzati nel 1941 ; è deportata a Auschwitz nel 1943 e di lei non si hanno più notizie.

Non ci sono traduzioni italiane delle sue poesie. Sulla sua vita e le sue opere c’è un recente volume di Johanna Woltmann, Gertrud Kolmar, Leben und Werk, Surhrkamp 2001. C’è una traduzione francese con testo a fronte di alcune sue poesie: Gertrud Kolmar : Mondes – poèmes, con prefazione e traduzione di Jacques Lajarrige. Seghers, 2003.

Le sirene

Le Sirene nascono da un celebre vicenda di amore. Acheloo, figlio di Oceano (ma secondo altre fonti di Poseidone) e di Teti sfida a duello Eracle per contendergli Deianira. Dopo aver vanamente fatto ricorso alle sue capacità di trasformazione mutandosi prima in serpente, poi in toro, Acheloo viene sconfitto e Ercole, vittorioso, gli stacca un corno (donato in seguito proprio a Deianira, diviene un simbolo di fortuna, chiamato cornucopia). Dalle ferite subite da Acheloo (che andò a nascondersi per l’onta della sua dura disfatta tra le onde del fiume Toante che, poi prese il suo nome ed oggi si chiama Aspropotamo) cadono tre gocce di sangue, dalle quali sorgono le tre Sirene.
Secondo altre versioni le Sirene nascono invece da una sola madre: per Euripide sono nate direttamente dalla Terra, per altri la madre è Sterope, per altri ancora la musa Calliope. Quest’ultima versione sarà poi adottata nella mitologia latina.
In tutti questi casi, esse sono tra i primi cloni della storia.
Altri autori attribuiscono alle sirene origini ancora diverse: In Apollonio Rodio e in Nonno sono figlie di Achello e della musa Tersicore, in Sofocle sono figlie di Forco, in Platone sono generate da Forco e da Cheto, entrambe divinità marine.

Non solo le origini sono incerte, ma anche il loro numero. Non si sa infatti quante fossero: secondo Omero due, secondo altri tre o quattro; addirittura otto secondo Platone.
Erano tutte ottime musiciste: secondo Apollodoro, una suonava il flauto, l’altra cantava e la terza suonava l’aulo.
I nomi che ad esse la tradizione attribuisce riflettono per lo più questa loro dote. Si chiamano Imeropa (colei che con la voce suscita il desiderio), Thexiepeia, Thelxinae o Thelxiope (l’incantatrice), Aglaope, Aglaophonas o Aglaopheme (dalla splendida voce).
Nella Magna Grecia compare una triade di Sirene venerate sulla costa campana denominate Partenope, Keucosia e Ligea.
La raffigurazione più diffusa delle Sirene è quella di mostri ibridi con il corpo di pesce e la testa umana.
È in questa forma che le incontrano Ulisse nell’Odissea e Giasone dopo aver conquistato il Vello d’oro nelle Argonautiche.
Giasone e gli Argonauti resterebbero certamente vittime del loro canto se Orfeo, prudenzialmente imbarcato proprio con questo compito, non suonasse ancora più dolcemente di loro, e non impedisse così ai marinai di gettarsi in mare per raggiungerle (solo uno di loro soggiace al loro fascino, ma viene poi salvato da Afrodite).
Dopo questo smacco le Sirene si gettano dalla loro rupe nei flutti uccidendosi.

Ma, secondo altri, questo suicidio avviene solo una generazione dopo, al passaggio di Ulisse, vicenda che costituisce per le Sirene il secondo gravissimo insuccesso.
In realtà, il rapporto delle Sirene con l’ambiente marino sembra essere formata in tempi successivi. Secondo la tradizione più antica, le Sirene sono legate alla terra e alla morte. Sono psicopompe, cioè hanno il compito di incantare i defunti prima di introdurli al cospetto della regina degli Inferi, Persefone. L’accompagnamento delle anime dei morti nell’aldilà potrebbe essere stata la loro funzione originaria.
Igino racconta nelle sue Favole che esse originariamente erano donne, ed erano state trasformate in uccelli da Demetra per punirle del fatto che, pur presenti, non si erano opposte al ratto della figlia Persefone.
Secondo Ovidio, invece, erano amiche di Persefone che, disperate per la sua scomparsa, dopo averla cercata ovunque, alla fine chiedono agli dei di poter essere dotate di ali per proseguire più efficacemente la ricerca: è quindi per esaudire un loro desiderio, e non per punizione, che sono trasformate in uccelli.
In entrambi i casi, alle Sirene sono associate proprietà sapienziali: chi ascolta il canto delle sirene può vedere il passato e il futuro, può viaggiare con la mente in paesi lontani, può comprendere la verità prima e ultima del cosmo.

Racconta Platone nella Repubblica che le anime in viaggio nell’oltretomba vedono a un certo punto fusi incastrati l’uno nell’altro. Sono otto, e l’ultimo è posto al centro dell’universo. È mosso da Ananch, la necessità; sopra i fusi si muovono otto Sirene, trascinate dal moto circolare. Ognuna emette un canto di un solo tono, cosicché da tutte insieme esce una unica armonia.
Nella traduzione della Bibbia operata dai Settanta, troviamo menzionate le Sirene come traduzione di vocaboli che significano sciacallo e struzzo femmina. Questa traduzione dà luogo ad una serie di tentativi di spiegazione e di commentari nei quali lentamente si perde l’aspetto sapienziale ed emerge la componente sessuale, in precedenza assente.
In particolare nel Libro di Enoch si afferma che le donne che sedussero i figli di Dio diventeranno dopo la loro morte Sirene. La componente sessuale diviene prevalente in ambiente cristiano.
Clemente Alessandrino è il primo a fare delle Sirene il simbolo delle lusinghe del mondo e della voluttà carnale, e, più concretamente, dei pericoli legati all’eresia gnostica.
Nell’ideologia cristiana, soprattutto nei primi secoli, la tentazione sessuale è sempre abbinata alla tentazione intellettuale. Dalla voluttà alle passioni alla conoscenza (e viceversa) il passo è breve.
Secondo Sant’Ambrogio le Sirene esprimevano la lusinga della voluttà. Secondo Isidoro di Siviglia hanno ali e artigli perché l’amore vola e ferisce.

Le Sirene diventano così le grandi tentatrici, il simbolo dell’eresia e del peccato, creature malvage, incantatrici che fanno cadere gli uomini in tentazione illudendoli di poter trasmettere conoscenze al di fuori della portata dell’uomo.

Da Alfredo Cattabiani, Volario; Meri Lao Le Sirene, Roma 1985; e vari dizionari mitologici.

Il potere giudiziario

Due amici trovano un giorno per la strada una borsa con delle monete d’oro. Ciascuno dei due vuole appropriarsene, sostenendo l’una che spetta a chi l’ha vista per primo, l’altro a chi materialmente la ha raccolta. Mentre stanno litigando passa il giudice Nasroddin, e insieme gli chiedono di decidere a chi spetti la borsa.
Accetto l’incarico, dice Nasroddin, purché il mio arbitrato non venga contestato da nessuno dei due.
Entrambi si impegnano solennemente a rispettarlo.
Bene, cari amici, la soluzione migliore è che io per il momento trattenga la borsa con le monete d’oro. Poi, quando deciderò di consegnarvele, dovrete dividervi il tutto da buoni amici.

Da D. Leroy, La sagesse afghane du malicieux Nasroddine, Editions de l’aube, 2002, p. 49.

Crediti

Questo venticinquesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2003 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive. Alcuni mi hanno chiesto spiegazioni per questa condizione. Il motivo è triplice. Economico: evitare spese di stampa e spedizione inutili. Ambientale: risparmiare alberi. Sociale: evitare invasioni sgradite nella privacy altrui.
I Testi Infedeli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.nespor.com (ove sono raccolti anche altri miei scritti e una scelta dei miei disegni).
Il sito è curato e aggiornato da Stefano Rossi. L’inserimento dei Testi infedeli nel sito è stato curato in passato anche da Beniamino Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Marina Nespor, Pasquale Pasquino e Sigi Gruber (senza la quale non sarei mai riuscito a tradurre alcuni passaggi delle poesie di Gertrud Kolmar).