I contratti ambientali: una rassegna critica

1.
A partire dalla fine degli anni Ottanta, gli strumenti autoritativi utilizzati al fine di ottenere dagli operatori privati il rispetto di prescrizioni o standard posti a tutela dell’ambente – i c.d. strumenti command and control – sono stati oggetto di serrate critiche, in Europa e negli Stati Uniti.
In sostanza, gli strumenti autoritativi affidati al potere legislativo o alla Pubblica Amministrazione sono stati ritenuti strumenti inefficaci, inidonei al raggiungimento degli obiettivi che si vogliono perseguire, costosi e inefficienti in sede di applicazione, e, secondo molti autori, anche non democratici .
Accanto alle critiche più propriamente giuridiche e di politica del diritto, sono state evidenziate da economisti, esperti di public choice theory e scienziati politici, soprattutto nella letteratura americana, i difetti e i pericoli dell’affidamento della gestione dell’attività privata alla politica, ai partiti, alla burocrazia, di cui, in vario modo, gli strumenti autoritativi sarebbero l’espressione.
Si è così diffusa l’opinione che, nonostante il variegato spiegamento dell’armamentario della metodologia del command and control – autorizzazioni, permessi, divieti, sanzioni previsti con disposizioni normative o regolamentari poste dall’Amministrazione pubblica – poco sia stato ottenuto per la tutela dell’ambiente e per contenere le varie forme di inquinamento, a fronte degli enormi investimenti effettuati in termini di risorse, organizzazione, mezzi .
Le critiche verso l’uso di strumenti command and control nella gestione dell’ambiente hanno trovato nel corso degli anni Novanta rinforzo e ulteriori motivi di fondamento nell’affermarsi delle ideologie di privatizzazione e di deregulation, e si sono così focalizzate intorno ad una richiesta di sostanziale riduzione della disciplina degli effetti dell’attività economica sull’ambiente (quando non di radicale ritirata dello Stato e della Pubblica amministrazione).

2.
Sono stati così proposti, e sono stati variamente sperimentati e messi in pratica, sistemi di tutela dell’ambiente tra loro assai diversi, ma collegati dal comune tentativo di sostituire agli usuali strumenti autoritativi “meccanismi privatistici” o “forme volontarie”: le espressioni utilizzate nella letteratura giuridica sul punto sono assai varie, spesso ambigue e ondeggianti tra concetti assai diversi tra loro quali partecipazione, collaborazione, accettazione preventiva, coinvolgimento e consenso.
In sostanza, l’obiettivo è quello di superare l’antitesi pubblico\privato su cui si basa il sistema command and control con strumenti di mercato, volontaristici, cooperativi e negoziali di tutela.
I vari sistemi possono essere in via di approssimazione ricondotti per comodità espositiva e per esigenze sistematiche all’interno di alcune generali categorie.

3.
Una prima categoria comprende tutti i programmi a base volontaristica (anche se per lo più incoraggiati o sussidiati dall’Amministrazione), cui le imprese sono libere di aderire o meno. Trattandosi di scelte puramente unilaterali, non vi è obbligo di adesione, né vi è sanzione per chi, avendo aderito, non rispetta gli impegni o non raggiunge gli obiettivi prefissati. Naturalmente gli obiettivi individuati da questi programmi non devono essere previsti come obbligatori da norme di legge o regolamentari, né devono essere attuati, come spesso accade, per evitare conseguenze risarcitorie in virtù dell’applicazione dei principi o delle norme vigenti in materia di responsabilità civile: in tutti questi casi, viene a mancare la “base volontaristica” e prevale il rispetto di disposizioni vigenti, sia pure a mezzo di azioni volontarie.
Fatte queste precisazioni, gli esempi di azioni che rientrano in questa prima categoria sono tuttavia numerosi.
In Europa il programma volontario più noto è stato realizzato in Olanda, ed è il Dutch Hydrocarbon 2000 Agreement: le imprese partecipanti si sono impegnate a consistenti riduzioni delle emissioni di talune sostanze, con obiettivi scaglionati entro il 2000 .
Negli Stati Uniti, i più importanti programmi volontari sono stati promossi e gestiti dall’Environmental Protection Agency (EPA) alla fine degli anni Ottanta.
Tra questi, si può ricordare il 33\50 Program, simile al programma olandese: le imprese aderenti avrebbero dovuto ridurre le emissioni di 17 sostanze del 33% entro il 1992 e del 50% entro il 1995. Il programma ha ottenuto buoni risultati, ma con una scarsa partecipazione: solo 1330 imprese hanno effettivamente aderito su 8000 invitate dall’EPA). Altri due programmi volontari organizzati negli Stati Uniti che hanno ottenuto notorietà sono Green Lights e Energy Star, con obiettivi in campo energetico.
Soprattutto negli ultimi anni, si sono intensificate le iniziative di carattere volontario nel quadro dei programmi di controllo delle emissioni e del cambiamento climatico.
Possono farsi rientrare in questa prima categoria anche le svariate iniziative pubbliche che richiedono forme di autoregolamentazione da parte delle imprese, accompagnate dall’obbligo di rendere pubbliche informazioni sugli effetti ambientali della propria attività e sui rischi generati sui processi di produzione utilizzati o dai prodotti immessi sul mercato (in modo da permettere un controllo diffuso da parte dell’opinione pubblica e degli utenti ed elevare l’effetto deterrente delle azioni giudiziarie di responsabilità) .
Particolarmente significativa di questo gruppo è l’esperienza australiana, e, in particolare, il Sustainable Energy Plan adottato nello Stato del New South Wales a livello regionale o locale per coinvolgere le imprese e i privati nell’adozione di misure idonee a ridurre gli effetti negativi sul cambiamento climatico .

4.
Una alterantiva all’uso degli strumenti command and control è costituita poi dall’utilizzazione dell’istituto della responsabilità civile, ricorrendo anche ad ipotesi di responsabilità oggettiva di coloro che svolgono attività potenzialmente produttive di danno all’ambiente (individuato come strumento per una efficiente internalizzazione dei costi delle attività) .
Molti Stati (tra cui l’Italia) hanno da tempo regimi di responsabilità civile per danni ambientali, con esiti peraltro non univocamente positivi.
Ma non va dimenticato che i presupposti per ottenere una effettiva ed efficace funzione deterrente sono un ampio accesso alla giustizia da parte dei danneggiati, risarcimenti congrui e tali da compensare pienamente i danni subiti, e, ovviamente, un celere e corretto funzionamento degli organismi giudiziari preposti alla decisione .
Altri paesi hanno avviato sperimentazioni e riforme rivolte ad una estensione del rgime della responsabilità del danno ambientale, con l’obiettivo di dare attuazione al principio chi inquina paga e al principio di precauzione: tra questi la Germania e l’Olanda in Europa. L’Australia offre un esempio assai significativo: due Stati, il New South Wales e il South Australia, hanno infatti istituito dalla fine degli anni Ottanta appositi Tribunali specializzati nella risoluzione di tutte le questioni di rilievo ambientale e in particolare nella determinazione della responsabilità per danni ambientali (con ampia discrezionalità nella fissazione dell’entità del risarcimento) .

5.
Vi sono poi sistemi alla cui base stanno pur sempre disposizioni normative o amministrative, ma consistenti non in autorizzazioni o divieti, bensì nella individuazione e fissazione di meccanismi di mercato, ai quali viene affidato il controllo degli effetti ambientali (c.d. market-based regulations).
In questo gruppo rientrano gli strumenti più noti e più sperimentati, quelli che – assegnando un valore a predeterminate unità di inquinamento – prevedono il pagamento del prezzo per chi inquini oltre una certa soglia, oppure la cessione o lo scambio di “diritti di inquinare” tra produttori, in modo da rispettare la soglia medesima (c.d. tradable environmental rights). In questo modo vengono premiati i produttori che predispongono mezzi e tecnologie per ottenere risultati ,migliori rispetto alla soglia, mentre vengono incoraggiati a adottare tecnologie più efficienti quei produttori che sono costretti a comprare diritti di inquinare.
Questi strumenti hanno avuto varie applicazioni, in particolare, negli Stati Uniti con gli “emissions trading schemes” predisposti dall’EPA . Assai positive sono stati considerati gli schemi di scambio di permessi d’emissione di diossido di zolfo nell’ambito del programma per il controllo del fenomeno delle piogge acide. Un altra esperienza nota e , sia pure in minor misura, positiva si è verificata in Nuova Zelanda, con uno schema di scambio di quote di pesca al fine di conservare il patrimonio ittico.
Il ricorso a strumenti di mercato è stato inoltre inserito (su sollecitazione, per ragioni diverse, di Stati Uniti, Giappone e Canada) nel Protocollo di Kyoto per il controllo del cambiamento climatico . In esso sono stati previsti tre diversi meccanismi con i quali gli Stati possono operare nel quadro del Protocollo: lo scambio internazionale delle emissioni o International Emissions Trading), che consiste nella possibilità di negoziare permessi di inquinamento; la Joint Implementation, e cioè la attuazione congiunta di un progetto specifico da parte di più stati industrializzati o rientranti nella categoria dei “paesi in transizione” , e il Clean Development Mechanism), in base al quale i paesi industrializzati o in transizione possono raggiungere obiettivi di riduzione delle emissioni sviluppando progetti in Paesi in via di sviluppo

6.
Abbiamo poi, ed è un ulteriore gruppo di strumenti sostitutivi del command and control, la c.d. regolamentazione o legislazione negoziata (i c.d. reg neg nella terminologia statunitense), che a partire dalla metà degli anni Ottanta ha riscosso un discreto successo sia nel settore ambientale che nel settore della tutela della salute e sicurezza pubblica.
Si tratta di una produzione di regole di provenienza non unilaterale (cioè, emanate soltanto dalla Amministrazione preposta al settore), ma frutto della trattativa con i destinatari delle regole stesse o con le associazioni che li rappresentano (in caso di regole con effetti ambientali, è obbligatoria la partecipazione delle organizzazioni ambientaliste e di tutti coloro che sono titolati di interessi contrapposti o comunque degni di tutela nella materia che si intende disciplinare).
Il presupposto è che, in questo modo, si ottengono disposizioni che non determinano conflitti interpretativi tra Pubblica amministrazione e soggetti privati (essendovi un preventivo accordo sul loro contenuto) e quindi non determinano ritardi o costi nell’applicazione.
Naturalmente, il dibattito teorico sull’ammissibilità dei reg-neg è assai aspro.
Da una parte, vi sono i sostenitori di questa procedura, che evidenziano le ragioni di efficienza, economicità e rapidità applicativa.
Dall’altra, coloro che ritengono che in questo modo venga attribuito a gruppi o interessi privati il potere di sostituirsi a valutazioni di interesse pubblico, che debbono restare affidate esclusivamente all’Amministrazione .
Dal 1982, sono stati avviati 67 procedimenti di negoziazione normativa sul territorio federale; 35 hanno prodotto norme che sono state effettivamente emanate dall’Amministrazione interessata. In campo ambientale, la EPA ha emanato 12 regolamenti ottenuti con la procedura reg neg. soprattutto nel settore del contenimento dell’inquinamento atmosferico.
Nel 1990, considerati i risultati positivi, il procedimento è stato oggetto di disciplina legislativa a livello federale: il Negotiated Rulemaking Act (NRA).

7.
Infine vi è la sostituzione dei meccanismo autoritativo con il meccanismo negoziale, e quindi la costituzione di rapporti di tipo contrattuale tra operatori privati (singoli o tramite associazioni rappresentative) e amministrazione pubblica aventi ad oggetto obbligazioni rilevanti per la tutela dell’ambiente. Sono i contratti ambientali.
Dei contratti ambientali molto si discute e si scrive soprattutto a partire dalla metà degli anni Novanta. A questo istituto sono stati dedicati in questi ultimi anni anche due importanti volumi.
Il primo, nel 1998, è costituito dai risultati di una ricerca raccolti e coordinati ad opera di un gruppo di giuristi dell’ambiente di estrazione prevalentemente europeo, Environmental Law Network International (ELNI); passa in rassegna le esperienze di contratti ambientali realizzate in Belgio Danimarca, Francia, Germania, Italia, Olanda, Polonia e Regno Unito . La ricerca costituisce anche la base di un Rapporto alla Commissione dell’Unione europea, pubblicato nel gennaio 2001 .
L’altro volume, pubblicato nel 2001, è scaturito da un progetto di ricerca avviato dalla Law School dell’Università di Pennsylvania; è curato da Eric W.Orts e Kurt Deketelaere (direttori di due centri di studi di diritto e economia ambientale, collocati l’uno in Belgio, l’altro in Pennsylvania) e si propone di offrire una analisi comparativa, sia giuridica che economica, delle esperienze in materia di contratti ambientali realizzate negli Stati Uniti e in Europa .

8.
Un primo problema si pone a livello di definizione e di identificazione del contratto ambientale.
Due requisiti sono pacifici.
Il primo è costituito dalla volontarietà della partecipazione o dell’adesione dell’impresa. Se il comportamento dell’impresa è vincolato, o comunque è l’effetto di disposizioni di legge, non c’è autonomia negoziale e non c’è libera manifestazione di volontà: ritorniamo nell’alveo dei meccanismi command and control.
Il secondo requisito è dato dalla presenza o dal coinvolgimento di una parte privata, che potrà essere un’impresa o un’associazione di imprese, è una parte pubblica, che potrà essere l’Amministrazione centrale, l’Amministrazione locale, o una Agenzia preposta alla tutela dell’ambiente.
Qui finiscono gli aspetti su cui vi è un generale accordo.
In merito ad altri due requisiti, infatti, vi sono opinioni discordanti.
Il primo riguarda la consistenza e il contenuto dell’ incontro di volontà tra le parti.
Molti includono nell’ambito dei contratti ambientali anche gli impegni unilaterali o comportamenti assunti volontariamente dalla parte privata , se essi sono posti in essere al fine o in vista di ottenere vantaggi o benefici dalla parte pubblica.
La casistica di questa tipologia è nutrita.
Per esempio, nel Regno Unito è stato costituito nel 1999 un Comitato, denominato Emissions Trading Group, costituito dall’associazione degli industriali, da un organismo del Ministero dell’Ambiente e da altri rappresentanti pubblici. Il comitato ha messo a punto e avviato un programma che prevede varie possibilità: una riduzione del 20% della specifica tassa prevista per l’adempimento degli obblighi di contenimento del cambiamento climatico oppure l’erogazione di un incentivo a fronte di una accettazione di obiettivi di contenimento energetico; l’acquisto da parte di organismi pubblici di diritti di emissione di CO2 da parte delle imprese che riducono sostanzialmente le loro emissioni.
Se gli impegni assunti non vengono soddisfatti, l’impresa viene assoggettata al pagamento integrale della tassa o alla restituzione dell’incentivo.
I contratti ambientali, se si includono fattispecie similia quella appena descritta , appaiono un istituto di ampia e crescente utilizzazione.
Ma questo risultato viene raggiunto ricomprendendo nella categoria ipotesi che di negoziale hanno ben poco: l’incontro di volontà è infatti ridotto ad una adesione ad un programma pubblico, che prevede benefici o incentivi predeterminati a chi rispetti obiettivi anch’essi prefissati.
Il secondo requisito riguarda gli effetti dell’accordo tra le parti.
Anche in questo caso, se si ritiene che sia sufficiente l’assunzione di obbligazioni non vincolanti, si può affermare che i contratti ambientali integrano gli strumenti command and control già da vari decenni, e stanno attualmente espandendosi.
Viceversa, se si ritiene che la sussistenza di un contratto ambientale in senso proprio richieda la vincolatività degli impegni assunti, e quindi conseguenze riparatorie o risarcitorie in caso di inadempimento, l’uso di questo istituto appare assai puiù limitato.
In conclusione, l’opzione per le due ipotesi più ampie – che in sostanza tende a far confluire nell’unica categoria dei contratti negoziali la maggior parte delle iniziative volontarie che abbiamo preso in considerazione – porta a rintracciare l’esistenza di una consistente quantità di contratti ambientali realizzati in Europa e negli Stati Uniti negli anni Novanta.
Viceversa, la scelta per le due ipotesi più rigorose riduce l’utilizzazione dei contratti ambientali a poche diecine di unità.
Emblematico è il caso dell’Italia: usando l’opzione ampia sono stati schedati 25 contratti nel decennio, che divengono addirittura zero utilizzando l’ipotesi più rigorosa .
A mio giudizio, pur senza sottovalutare l’importanza e l’efficacia di tutti gli strumenti negoziali sui quali ci siamo sinora soffermati, è opportuno verificare la reale applicazione dell’ipotesi più rigorosa, anche per evitare di sfumare la categoria in una moltitudine di comportamenti di incerto significato.
Con l’espressione contratti ambientali viene fatto quindi d’ora in poi riferimento esclusivamente a accordi vincolanti tra due o più parti, delle quali almeno una deve essere pubblica, aventi ad oggetto l’obbligo della parte o delle parti private a porre in essere specifici comportamenti di rilevanza ambientale a fronte di controprestazioni della parte pubblica.

9.
Uno degli aspetti più curiosi è dato dal fatto che in Europa si è convinti che la patria dei contratti ambientali – come di tutte le iniziative basate sul mercato, sulla domanda e sull’offerta, sull’iniziativa privata – siano gli Stati Uniti.
Così, è ricorrente in Europa la lamentela di operatori industriali e delle loro associazioni dell’eccessivo uso di strumenti autoritativi rispetto alla capacità americana di affrontare i problemi ambientali confidando nell’iniziativa e nella responsabilità dei privati.
Per converso, negli Stati Uniti gli esperimenti di contrattazione ambientale posti in essere sono stati considerati come tentativi di seguire i successi dell’esperienza europea in questo settore.
Queste opinioni contrapposte hanno due elementi in comune.
Il primo, quasi ovvio, è che entrambe le convinzioni riflettono un disagio comune ad entrambe le sponde dell’Atlantico e cioè l’insoddisfazione rispetto agli strumenti autoritativi tradizionali e l’aspirazione verso nuovi e non ben identificati meccanismi.
Meno ovvio il secondo elemento comune: esse sono entrambe errate, essendo il frutto di una sorta di doppio miraggio, di schnitzleriano Doppeltraum, fondato sulla (non inusuale) convinzione che il terreno del vicino sia più verde, e quindi, nella specie, più flessibile e propenso alla contrattualità che non il proprio.
In realtà, negli Stati Uniti i contratti ambientali costituiscono una esperienza assai ridotta quantitativamente e qualitativamente, e tutt’altro che positiva per ciò che riguarda i risultati.
D’altro canto, in Europa i successi del contratto ambientale in senso proprio così come sopra definito si limitano pressoché esclusivamente alla componente di lingua olandese dell’Unione europea, vale a dire l’Olanda e la parte fiamminga del Belgio.
Ecco una succinta rassegna della sperimentazione e della pratica in materia di contratti ambientali a partire dagli anni Novanta.

10.
I primi esperimenti negli Stati dell’Unione europea sono stati avviati in Francia e in Germania negli anni Settanta.
In Francia dapprima sono stati attuati i contrats de branche, stipulati tra Pubblica autorità e associazioni imprenditoriali, per disciplinare gli effetti ambientali di determinate attività produttive. Questi sono però stati messi fuori gioco dal sopravvenire della normativa comunitaria e dal conseguente divieto di misure atte a favorire le imprese nazionali. Sono seguiti i programmes de branche e i programmes d’enterprise, con carattere pianificatorio e non direttamente negoziale. Questi sono stati bloccati dopo alcuni anni da una decisione del Conseil d’Etat che li ritenne illegittimi per settori ove vi era una competenza normativa statale.
In Germania sono classificate come contratti ambientali le c.d. Selbsverpflichtungen, cioè le impegnative unilaterali di produttori o di loro associazioni, cui rimane estranea l’Amministrazione, per lo più assunte e il cui rispetto non può essere ottenuto per via giudiziaria o esecutiva (salvo che in sporadiche applicazioni).
Circa 80 sono attualmente vigenti. Esse, per quanto detto, non possono essere considerate come contratti ambientali in senso proprio.
Di particolare rilievo è l’impegno assunto nel 1995 dalle principali associazioni industriali di ridurre le emissioni di CO2, con riferimento agli impegni assunti dall’Europa con la sottoscrizione del Protocollo di Kyoto.

11.
Come accade in Germania, nella maggior parte degli altri Stati dell’Unione europea vengono spesso qualificati come contratti ambientali accordi che però non sono vincolanti, o dei quali non può essere ottenuto, o può essere ottenuto con estrema difficoltà, l’adempimento ; i risultati offerti dai contratti ambientali in senso proprio non sembrano incoraggianti (salvo che, forse, nel settore dei rifiuti).
È il caso dell’Italia ove negli anni Novanta sono stati stipulati numerosi accordi tra l’Amministrazione (e in particolare le Regioni) e associazioni industriali, tutti però non vincolanti. Tra questi, gli accordi con esiti più soddisfacenti hanno riguardato la raccolta di rifiuti (carta, cartone, vetro e plastica).
In Italia inoltre, come in altri paesi europei, sorgono e gradualmente si diffondono anche procedure basate su accordi, dapprima con la sola partecipazione delle varie parti pubbliche interessate alla gestione di uno specifico tema ambientale, poi estese – sotto forma di procedure negoziate – a forme di partecipazione delle parti private. È il caso di istituti quali l’accordo di programma, la conferenza di servizi, e altre procedure, tutte figure anomale sia da un punto di vista della tradizione pubblicistica, ma estranee anche alla metodologia privatistica. Come osserva Sabino Cassese in un suo recente , l’azione amministrativa non diviene una entità di diritto comune e, d’altro canto, il diritto amministrativo continua a svilupparsi, ma in forme privatistiche.
In particolare, l’introduzione della figura generale dell’accordo di programma risale alla legge 8 giugno 1990, n. 142 (art. 27), ed è stata inserita nel Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267 del testo unico sull’ordinamento degli enti locali (art. 34).
Successivamente, il Dlgs. 22/1997 ha previsto varie ipotesi di utilizzazione dell’accordo.
Il decreto ha stabilito che, ai fini dell’attuazione dei principi e degli obiettivi individuati dalla nuova disciplina sulla gestione dei rifiuti, il Ministero dell’Ambiente, di concerto con il Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato promuove accordi e contratti di programma con enti pubblici, con le imprese maggiormente presenti sul mercato o con le associazioni di categoria.
Ulteriore ricorso allo strumento dell’accordo è poi previsto al fine di promuovere l’utilizzo di sistemi di eco-label ed eco-audit, nonché di sviluppare e attuare programmi di ritiro dei beni di consumo al termine del loro ciclo di vita allo scopo specifico del riutilizzo, riciclaggio e recupero di materia prima (art. 25, commi 1 e 2, Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22). Il ricorso all’accordo di programma è infine previsto con riferimento alla gestione e smaltimento di beni durevoli a fine vita quali frigoriferi, surgelatori, congelatori, televisori, computer, lavatrici, lavastoviglie e condizionatori d’aria con lo scopo di istituire dei centri preferenziali di raccolta (art. 44, Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22).

12.
Diversi sono i casi dell’Olanda e del Belgio fiammingo.
In Olanda, l’utilizzazione dello strumento contrattuale in materia ambientale trova le sue origini in un Rapporto pubblicato nel 1988 dall’Istituto Nazionale olandese per la Sanità e l’Ambiente, denominato “Concern for Tomorrow”.
Tra le altre cose, il rapporto evidenziava che uno sviluppo sostenibile in Olanda sarebbe stato possibile solo se le emissioni di molti prodotti chimici fossero state drasticamente ridotte (dal 70% al 90%) entro pochi anni; evidenziava altresì che i tradizionali meccanismi command and control non avrebbero potuto da soli garantire il raggiungimento di questo obiettivo.
I contratti ambientali sono così divenuti il meccanismo aggiuntivo rispetto ai meccanismi tradizionali con il quale l’Amministrazione e le imprese si sono proposti di perseguire quegli obiettivi.
Essi vengono stipulati dall’Amministrazione con specifici settori produttivi, pongono obiettivi di riduzione delle emissioni riguardanti l’intero settore, affidando poi la trattativa concreta al livello provinciale o comunale e alla singola impresa.
Oggetto del contratto Il risultato è la formazione di un Piano ambientale d’impresa (Company environmental Plan) che costituisce la base per i seguenti rapporti tra l’impresa stessa e l’Amministrazione. Sulla base di questo piano, della sua effettiva applicazione e del suo rispetto da parte dell’impresa l’Amministrazione rilascia e gradua i permessi e le autorizzazioni richieste in materia ambientale per lo svolgimento dell’attività produttiva
Pertanto, i contratti ambientali utilizzati in Olanda:
a) sono contratti di settore;
b) non sostituiscono la regolamentazione o la normativa esistente, e non la rendono più flessibile, ma si pongono obiettivi:
– di maggiore efficienza o comunque superiori ai limiti normativamente fissati;
– di impedire l’adozione di norme vincolanti da parte dell’Amministrazione;
– di accelerare l’esecuzione di specifiche disposizioni normative;
I contratti ambientali sono vincolanti per tutte le parti in base alle disposizioni del codice civile, anche se a tutto il 1998 non risulta che ci siano state controversie giudiziarie conseguenti a inadempimenti o violazione degli accordi contrattuali.
Alla base dei contratti ambientali olandesi sta il comune intento dei produttori di internalizzare i costi ambientali, evitando così alterazioni della concorrenza interna, e di partecipare alla protezione dell’ambiente.
Più limitati sia quantitativamente, sia qualitativamente sono i contratti ambientali stipulati nella Regione fiamminga del Belgio.
Con decreto (atto avente forza di legge) del 15\6\1994 la (in base alla costituzione del Belgio, ciascuna delle tre regioni è responsabile anche legislativamente della tutela dell’ambiente) il Governo regionale ha introdotto i contratti ambientali.
Essi possono essere stipulati tra il Governo e una associazione di produttori al fine di prevenire l’inquinamento, limitarne le conseguenze o promuovere una corretta gestione dell’ambiente. I contratti non possono sostituire norme di legge, o prevedere disposizioni più favorevoli.
Durante l’efficacia del contratto, il Governo si impegna a non adottare disposizioni più vincolanti o restrittive.
Tutti i contratti realizzati in base a questa normativa attengono alla gestione dei rifiuti.

13.
L’Unione europea nel 1996, dopo molte esitazioni e con una profonda disomogeneità di vedute, si è schierata a favore dei contratti ambientali.
La Commissione, in una sua comunicazione, ha così evidenziato i numerosi vantaggi che essi potrebbero offrire quali, per esempio, promuovere una partecipazione cooperativa dell’industria nella tutela dell’ambiente, offrire soluzioni efficienti dal punto di vista economico e a costi ridotti, un più rapido raggiungimento degli obiettivi .
Nel 1997, il Consiglio ha adottato una risoluzione che accoglie i contratti ambientali tra gli strumenti a disposizione della politica ambientale comunitaria.
In effetti, a seguito di questi due atti, è stato raggiunto nel 1997 un accordo con alcune associazioni industriali per un contenimento energetico nei televisori, VCR, macchine lavatrici, e un altro accordo nell’ottobre 1998, ratificato dal Consiglio, con l’associazione dei produttori di automobili per la riduzione di emissioni di CO2, nel quadro degli adempimenti per l’attuazione degli impegni connessi con il Protocollo di Kyoto.
Peraltro gli effetti sembrano essere sinora scarsi .
Ciò può essere attribuito, secondo alcuni, alla dichiarata mancanza di entusiasmo da parte della Commissione per l’uso di questo strumento. Ma certamente dipende dall’impossibilità di dare attuazione alle direttive con strumenti diversi dal tradizionale command and control. In particolare, la posizione della Commissione, espressa nella Comunicazione del 1996, è che in tutti i casi in cui le Direttive creano diritti e obblighi per gli individui appartenenti all’Unione, la recezione deve avvenire con atti dotati di forza vincolante per la generalità dei destinatari e di adeguata pubblicità; di conseguenza, non possono essere utilizzate forme negoziali, che al più – se vincolanti – sarebbero comunque vincolanti solo per i contraenti .

14.
Negli Gli Stati Uniti l’utilizzazione di contratti ambientali ha avuto impulso soprattutto da parte del Governo Clinton, negli anni Novanta.
I progetti più importanti al riguardo sono stati Project XL (dove XL sta per excellence) avviato nel 1995, e Common Sense Iniziative.
Project XL, lanciato nel 1995, ha previsto la stipulazione di accordi tra EPA e una specifica impresa; gli accordi avrebbero potuto consentire all’impresa flessibilità nell’applicazione della normativa esistente, e quindi eventualmente deroghe rispetto ai limiti e agli standard previsti dalla normativa medesima, a fronte di un impegno dell’impresa di perseguire in settori predeterminati obiettivi di maggior tutela dell’ambiente di quelli richiesti dalla normativa.
Per esempio, una impresa potrà stipulare un contratto ambientale in base al quale l’Amministrazione concede di effettuare emissioni di un determinato prodotto in quantità superiore a quella consentita dalla legge (purché entro limiti prefissati), a fronte dell’impegno dell’impresa stessa di ridurre al di sotto dei limiti previsti dalla legge le emissioni di altri prodotti .
Se l’impresa non rispetta gli impegni, EPA impone l’applicazione delle regole che erano state contrattualmente derogate, e irroga le eventuali sanzioni per le violazioni. In questo modo, il problema della vincolatività del contratto non si pone, sussistendo per l’Amministrazione uno strumento di tutela efficace, e cioè l’applicazione della normativa contrattualmente derogata.
Project XL ha avuto scarsissima fortuna. L’obiettivo dell’Amministrazione Clinton era di realizzare 50 contratti all’anno a partire dal 1995.
Ne sono stati stipulati in tutto una diecina, e uno solo a partire dal 1996 .
Le ragioni dell’insuccesso sono state due.
In primo luogo, le critiche e le contestazioni da parte delle associazioni ambientaliste, per lo più contrarie non ai progetti XL in quanto tali, ma alle valutazioni in concreto dell’Amministrazione ed agli spazi di deroga concessi all’impresa aderente.
In secondo luogo, le proteste da parte delle imprese non aderenti al progetto, che ritenevano che i contratti ambientali, nella parte in cui derogavano a normative vincolanti, ponessero in essere una violazione della concorrenza e delle regole del mercato danneggiando le imprese che non intendevano partecipare al progetto.

15.
Come si vede, nonostante la diffusa sfiducia verso il command and control e la convinzione che gli strumenti negoziali siano più efficaci e meno costosi, l’utilizzazione di contratti ambientali in senso proprio non rappresenta un successo, né in termini quantitativi, né in termini di risultato, su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Le impressioni diverse e più positive sono in genere provocate – come si è visto – dall’inclusione nello stesso fascio di accordi vincolanti e di altre forme di impegno, non vincolanti per la parte privata, e comunque non consensuali.
Vi è, in Europa, la rilevante eccezione olandese, che meriterebbe ben maggiore attenzione per i positivi risultati conseguiti.
Ma i contratti ambientali sono lì utilizzati per raggiungere effetti diversi e ulteriori rispetto a quelli previsti o imposti dalle normative. Pertanto, in Olanda lo strumento negoziale si aggiunge nella maggior parte dei casi al command and control, e non lo sostituisce.
Del resto, in Europa, essendo la maggior parte della produzione di norme statali in materia ambientale di diretta o indiretta derivazione comunitaria, l’uso di strumenti non generali e vincolanti sembra essere precluso.
Negli Stati Uniti d’altro canto c’è, ed è oggetto di apposita disciplina normativa, una negoziazione in materia ambientale, ma attiene alla produzione di norme di carattere generale (che vengono poi emanate dall’Amministrazione competente) e non alla stipulazione di accordi privati.

16.
In definitiva, la realtà dimostra che il tradizionale sistema command and control è difficilmente sostituibile e che per tutti i modelli alternativi, e in particolare proprio per i contratti ambientali, c’è la tendenza a idealizzare e a generalizzare.
Nella pratica, inoltre, i vantaggi dell’uso degli strumenti negoziali possono rivelarsi assai inferiori di quelli ipotizzabili in teoria. Ed infatti, se si attenuano i tradizionali conflitti tra privato e pubblico, si determinano almeno due conseguenze negative.
In primo luogo, sorgono nuove possibilità di conflitto, non più solo tra privato e pubblico, ma anche tra privato e privato: è il caso, per esempio di tutti i profili di violazione delle regole di mercato e della concorrenza, già prospettati negli Stati Uniti – ma certamente proponibili, se la prassi dei contratti ambientali si estende, anche in Europa.
In secondo luogo, si determina uno spostamento dell’attenzione dall’importanza delle questioni e dei problemi ambientali da risolvere alla loro negoziabilità . In altri termini, questioni importanti o gravi, o comunque prevedibilmente altamente conflittuali, vengono accantonate in favore di questione risolvibili con una trattativa contrattuale.

17.
Infine, c’è un ulteriore aspetto da considerare.
Si è detto inizialmente che la richiesta dell’uso di strumenti contrattualistici e negoziali ha trovato spinta e alimento nell’affermarsi delle ideologie di privatizzazione e di deregulation.
Ma non bisogna dimenticare che, se si riducono le norme di origine pubblica, crescono le norme poste in essere dai privati, o con la loro partecipazione. Questi privati sono, per lo più i soggetti economicamente più forti, in grado di avere accesso e di contrattare con l’Amministrazione o il potere politico.
Si crea così un sistema dove si mescolano disposizioni normative e amministrative, regolamentazioni contrattate o intese tra privato e pubblico, prassi nazionali e sopranazionali.
Per ciò che specificatamente riguarda la disciplina dell’ambiente, questo non significa che scompaiono le regole; significa solo che le regole sono poste non da organismi pubblici che perseguono (o dovrebbero perseguire) l’interesse generale e operare in posizione di indipendenza e terzietà, ma dai quei soggetti economici che hanno la forza di negoziare i problemi ambientali con l’Amministrazione o che sono da quest’ultima prescelti.
Resta allora il serio di problema di individuare preventivamente gli spazi entro i quali permettere l’introduzione della flessibilità negoziale in materia ambientale, perché non si può accettare che le vicende ambientali e tutte le vicende ad esse collegate – tra cui le vicende economiche – si muovano in uno spazio svuotato di regole poste nell’interesse generale, e governato da regole confezionate nell’interesse o con la partecipazione dei soggetti privati dei più forti .
È vero che l’ambiente deve fare i conti con il mercato. Ma il mercato può fare a meno di un ambiente regolato e controllato?

Un trattato che è una pietra miliare

Il principio di precauzione applicato ai POP ha messo d’accordo organizzazioni internazionali, ONG e industrie
Il Trattato sulle sostanze organiche inquinanti persistenti, stipulato a Stoccolma il 21 maggio del 2001, costituisce il risultato di una elaborazione condotta a livello internazionale durata poco più di otto anni, ed è una prima, importante tappa per vietare la produzione, l’uso e la diffusione nell’ambiente di composti chimici tossici.
Esso ha individuato 12 POP (di cui otto pesticidi) la cui produzione dovrà cessare definitivamente entro termini variabili. In alcuni casi l’eliminazione dovrà essere immediata, in altri casi (per esempio il DDT) sarà graduale, in altri casi ancora (diossine, e esaclorobenzene) vi è un impegno più vago a ridurre l’immissione nell’ambiente, con l’obiettivo di una totale eliminazione. Inoltre, è stato fissato il criterio in base al quale in futuro dovranno essere individuati altri POP da assoggettare alle disposizioni del trattato. Esso è il principio di precauzione.
Ma – e questo è uno degli aspetti più significativi del Trattato – del principio è stata formulata un’applicazione innovativa. E’ stato così stabilito che gli interventi a tutela della salute e dell’ambiente volti a limitare o bandire determinate sostanze possono avere luogo anche allorché l’impatto del POP non sia pienamente conosciuto, purché vi siano sufficienti informazioni idonee a sollevare legittima preoccupazione.
Il trattato infine utilizza un meccanismo già sperimentato con il Trattato di Montreal per la messa al bando del CFC e degli altri prodotti che danneggiano la fascia di ozono, e previsto anche dal Protocollo di Kyoto, e cioè l’impegno da parte dei paesi sviluppati a finanziare gli interventi dei paesi in via di sviluppo rivolti all’eliminazione dell’uso dei POP.
La vicenda dell’elaborazione e della firma del trattato sui POP permette di trarre alcune considerazioni, sotto quattro diversi profili.
1. L’efficienza. Il trattato dimostra che la comunità internazionale, se sollecitata da esigenze reali e verificabili, e se messa di fronte a obiettivi realizzabili nel campo ambientale e della salute umana, riesce a raggiungere risultati concreti. Ma dimostra anche che i risultati, per quanto importanti, sono ridottissimi, rispetto alle questioni affrontate. Il graduale divieto di produzione e uso di alcuni dei più tossici prodotti chimici attualmente diffusi sul mercato costituisce un risultato significativo: ma centinaia di prodotti parimenti tossici, o dei quali non si conoscono i reali effetti sull’ambiente e sulla salute, restano in commercio, e centinaia di nuovi sono immessi in commercio ogni anno.
2. La velocità. L’intero processo di redazione del trattato, dalla prima informale e generica ipotesi alla conclusione dell’accordo, è durato poco più di otto anni. In questo spazio di tempo sono stati portati a termine studi e ricerche scientifiche su centinaia di prodotti da includere nella lista dei POP, sono state organizzate decine di incontri tra esperti e rappresentanti delle varie organizzazioni internazionali, statali e non governative. Ben poco tempo è stato sprecato. Tuttavia, otto anni, se sotto molti profili rappresentano un record di velocità, sono anche uno spazio di tempo assai lungo per affrontare e risolvere le questioni ambientali, tenuto conto che almeno altrettanti saranno necessari perché il trattato cominci a esplicare effetti positivi.
3. La partecipazione. All’elaborazione del trattato hanno partecipato non solo, in misura rilevante, gli stati, ma anche, a pieno titolo, diecine di organizzazioni non governative e numerose associazioni rappresentative dei produttori di prodotti chimici. E’ un ulteriore importante esempio del superamento del modello tradizionale che permetteva solo agli stati sovrani di gestire i temi internazionali, in quanto unici esponenti degli interessi delle collettività che essi rappresentano. Oggi la scena internazionale è popolata da un numero di soggetti non immaginabile solo mezzo secolo fa, e ciascuno di essi contribuisce – nei limiti delle proprie competenze – a realizzare meccanismi di governo globale dell’ambiente e dei rapporti economici e di sviluppo che la tutela dell’ambiente inevitabilmente implica.
4. La mediazione. La formulazione finale del Trattato è il frutto di una enorme attività di discussione e confronto, non tanto tra gli stati, quanto tra le organizzazioni rappresentative di interessi contrapposti. L’esempio è offerto proprio dalla formulazione del principio di precauzione. Da un punto di partenza che vedeva contrapposti gli ambientalisti e le organizzazioni dei produttori – i primi sostenitori della necessità di un divieto in mancanza della certezza scientifica dell’innocuità del prodotto, i secondi dell’ammissibilità del divieto solo se la nocività fosse stata provata scientificamente – e faceva ritenere impossibile qualsiasi accordo, è emersa una definizione applicativa che appare utilizzabile, e tale da offrire una base di accordo ragionevole. L’insegnamento del trattato è quindi quello dell’importanza della mediazione anche di fronte a temi in cui essa appare votata all’insuccesso.

Un cammino decennale

La storia della creazione del trattato merita di essere delineata. Il punto di partenza è costituito dal capitolo 19 dell’Agenda 21 approvata alla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 su ambiente e sviluppo, che così esordisce:”Un uso consistente di prodotti chimici è essenziale per raggiungere gli scopi economici e sociali della comunità mondiale. La pratica attuale dimostra che questi prodotti possono essere usati con diligenza e attenzione, tutelando la salute. Resta tuttavia molto da fare per assicurare una gestione ambientalmente corretta dei prodotti chimici tossici, compatibile con il principio dello sviluppo sostenibile”.
A questa generica indicazione seguono i programmi di azione. In particolare, il Terzo Programma di Azione individua la necessità di stabilire a livello internazionale procedure che garantiscano il consenso preventivo e informato (PIC) per il commercio di determinati prodotti chimici. In effetti, il PIC si afferma come principio autonomo in materia ambientale negli anni novanta, ed è oggi oggetto di un accordo internazionale: il Trattato sul consenso preventivo informato aperto per la sottoscrizione a Rotterdam nel 1998.
Il Quarto Programma di azione ha indicato la necessità di vietare gradualmente l’uso di prodotti chimici tossici (POP), individuati dalla presenza di quattro caratteristiche: la tossicità per l’uomo, la persistenza, e cioè la resistenza a operazioni di eliminazione o dissolvimento mediante altri composti chimici, l’accumulabilità nel corpo umano e la volatilità. Già nel 1994, al terzo meeting della Commissione delle Nazioni unite sullo sviluppo sostenibile, viene promossa l’attività per definire un accordo che rifletta i programmi di azione stabiliti a Rio.
Le basi per il futuro Trattato POP sono state però poste al Convegno di Manila del 1996 organizzato dall’Intergovernmental Forum for Chemical Safety – IFCS – costituito a Stoccolma nel 1994. Qui furono presentati e discussi due rapporti in merito ai possibili contenuti di un trattato sui POP. In particolare, i due rapporti hanno suggerito di concentrare le trattative sui POP ritenuti universalmente più pericolosi (per la maggior parte pesticidi), ponendo nel contempo le basi per un successivo incremento dei POP assoggettati a divieto.
Sulla base di queste indicazioni, il Consiglio dell’United Nations Environmental Programme – UNEP – ha costituito nel febbraio del 1997 una commissione con l’incarico di studiare e predisporre un trattato da sottoporre alla firma degli stati non oltre l’anno 2000. La commissione si è riunita otto volte, con la partecipazione di delegati di oltre cento stati, delle principali organizzazioni internazionali (OMS, FAO, Banca mondiale e altre), di diecine di organizzazioni non governative e di organizzazioni rappresentative delle industrie chimiche.
L’ultima riunione – svoltasi nel dicembre del 2000 a Johannesburg – ha condotto alla definizione del contenuto del trattato: erano presenti ben 122 stati, e la firma del trattato è avvenuta nel 2001 a Stoccolma.

Quella sporca dozzina

Le sostanze organiche inquinanti persistenti, o POP, sono composti chimici che persistono nell’ambiente, si accumulano negli organismi viventi attraverso la catena alimentare, e vi permangono per tempi lunghi, perché solubili nei grassi. attraverso il latte, passano dalla madre al figlio. I POP rappresentano un pericolo per la salute umana e per l’ambiente. Danneggiano i sistemi nervoso, immunitario e riproduttivo e sono cancerogeni. Il Trattato di Stoccolma ne ha messi al bando 12. Sono: i pesticidi aldrina, clordano, DDT, fieldrina, endrina, eptacloro, mirex e tossafene; i prodotti chimici industriali policlorobifenili ed esaclorobenzene; i sottoprodotti diossine e furani.

Articolo apparso su Scienzaesperienza, 1, 2003. <URL:http://www.scienzaesperienza.it/2003/new.php?id=0001>

Recensione di manuali di diritto dell’ambiente

STEFANO MARGIOTTA, MANUALE DI TUTELA DELL’AMBIENTE, IL SOLE 24 ORE, 2002, pagg. 664, euro 50; ROSARIO FERRARA – FABRIZIO FRACCHIA – NINO OLIVETTI RASON, DIRITTO DELL’AMBIENTE, LATERZA, 2000, pagg.244, euro 18,08; GIAMPIETRO DI PLINIO – PASQUALE FIMIANI (a cura di), PRINCIPI DI DIRITTO AMBIENTALE, GIUFFRE’, 2002, pagg. 187, euro 11,50; GIOVANNI CORDINI, DIRITTO AMBIENTALE COMPARATO, CEDAM, 2002, pagg. 357, euro 25,00; ANNA D’AMICO CERVETTI, ELEMENTI DI DIRITTO AMBIENTALE, GIUFFRE’, 2002, pagg. 301, euro 21,00; NICOLA LUGARESI, DIRITTO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2002, pagg. 258, euro 17,50; ANTONINO ABRAMI, STORIA, SCIENZA E DIRITTO COMUNITARIO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2001, pagg. 1145, euro 82,63; LUCA MEZZETTI (a cura di), MANUALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2001, pagg. 1210, euro 74,89; PAOLO DELL’ANNO, MANUALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2000, pagg. 736, euro 41,32; BENIAMINO CARAVITA, DIRITTO DELL’AMBIENTE, IL MULINO, 2001, pagg. 421, euro 24,79.
Davvero fuori dall’usuale la produzione di volumi di carattere manualistico in materia di diritto dell’ambiente tra il 2000 e il 2002: otto complessivamente, di cui uno nel 2000, due nel 2001 e ben cinque nel 2002.

Si tratta di una testimonianza del successo di questa disciplina giuridica e della sua stabile affermazione tra i corsi universitari di carattere istituzionale.

Tre dei volumi hanno come titolo “Diritto dell’ambiente”: gli autori sono Beniamino Caravita (che riprende in molte parti il fortunato “Diritto pubblico dell’ambiente” del 1990), Ferrara-Fracchia-Olivetti (giunto alla terza edizione) e Lugaresi; due “Manuale di diritto dell’ambiente” (Mezzetti, già brevemente recensito in questa Rivista e Dell’Anno giunto anch’esso alla terza edizione) un’altro Manuale di tutela dell’ambiente (Margiotta), poi un “Principi di diritto ambientale” (Di Plinio-Fimiani), e un “Elementi di diritto ambientale” (D’Amico Cervetti).

Insieme a questo gruppo, possiamo prendere in considerazione anche due opere che toccano due ampi settori del diritto dell’ambiente:”Diritto ambientale Comparato” di Cordini (che è in realtà alla terza edizione) e “Storia,scienza e diritto comunitario dell’ambiente” di Abrami.

Assai diversa è la mole dei volumi in esame.

Il Manuale di Mezzetti (che è un’opera collettiva con le varie parti affidate a esperti del settore, coordinate da Luca Mezzetti), con oltre 1200 pagine, offre la trattazione più ampia e circostanziata; lo segue, con poco meno di 1200 pagine, il testo di Abrami, che è però dedicato, come detto, prevalentemente al diritto ambientale comunitario. Il manuale di Dell’Anno, con poco meno di 750 pagine, oltre alla parte dedicata ai singoli profili settoriali, offre una trattazione della materia prevalentemente dedicata agli strumenti e alle competenze amministrative.

I Principi con circa 180 pagine offrono la trattazione più concisa, anche perché limitata, appunto ad un tema specifico (i principi che governano il diritto ambientale). Un po’ più lunga – circa 250 pagine – è la trattazione offerta dai volumi di Lugaresi e di Ferrara ed altri.

Ma per quest’ultimo va osservato che, nonostante il titolo di carattere generale, il contenuto copre solo alcuni degli argomenti e dei profili tradizionalmente inclusi nel diritto dell’ambiente.

Esso è infatti suddiviso in tre capitoli: il primo dedicato a considerazioni e valutazioni introduttive, cui seguono un capitolo dedicato all’organizzazione e ai soggetti istituzionali e un ultimo capitolo dedicato ai procedimenti amministrativi in materia di ambiente.

Analogo discorso può essere fatto per gli Elementi di D’Amico Cervetti: il volume da un lato tratta argomenti che non sono generalmente ricompresi nel diritto dell’ambiente (legislazione urbanistica e espropriazione), d’altro lato omette di trattare, o tratta molto sinteticamente, alcuni temi che al diritto dell’ambiente certamente appartengono (inquinamento atmosferico, inquinamento acustico, tutela di flora e fauna, attività industriali e incidenti rilevanti, energia).

In conclusione, la trattazione più completa – tra le opere brevi – è quella di Lugaresi che riesce con brevità e capacità sintetiche ad esaminare la maggior parte degli argomenti che compongono il diritto dell’ambiente.

Quest’ultima considerazione introduce una valutazione più generale e cioè che a titoli di carattere generale corrispondono contenuti sensibilmente diversi (ovviamente, nell’ambito di una disciplina comune e quindi di temi forzatamente omogenei), o l’attribuzione di peso e importanza sensibilmente diversi ai medesimi contenuti.

Sono differenze che riflettono la diversa origine e la diversa destinazione dei volumi (il volume di D’Amico è dichiaratamente concepito in funzione di un corso di laurea in scienze ambientali ad indirizzo marino dell’Università di Genova e i contenuti riflettono questa destinazione) oppure le diverse propensioni degli autori. Ma mettono in luce anche il diverso modo di concepire e ricostruire il diritto dell’ambiente, la sua funzione e i suoi obiettivi.

Per esempio, ai temi di carattere costituzionale e quindi al tema dell’ambiente nella Costituzione, seppur esaminato da tutti i volumi, dedicano due ampie specifiche parti solo il Manuale di Mezzetti e il testo di Caravita (quest’ultimo inoltre dedica una particolare attenzione ai profili costituzionali anche trasversalmente, allorché tratta i vari altri settori).

Il tema della storia del diritto ambientale, d’altro canto, che permette di collocare l’assetto attuale in una prospettiva evolutiva e storica, illuminando l’ascesa e l’affermazione di questo settore del diritto – e quindi la presa di coscienza del problema ambientale e l’uso degli strumenti giuridici per individuare delle soluzioni – è assente da tutte le opere generali.

È invece ampiamente trattato – risalendo, con qualche forzatura, sin al diritto romano e limitando l’indagine alla realtà europea o internazionale – dal solo Abrami, il quale è anche l’unico autore che dedica ampio spazio agli aspetti scientifici e strettamente ecologici.

Gli aspetti del Diritto internazionale e comunitario, che costituiscono il vero motore del diritto dell’ambiente anche a livello statale (quasi tutti gli Stati, senza l’impulso della comunità internazionale e dell’Unione europea, ben poco farebbero per conservare o migliorare il loro ambiente; molti sarebbero ben contenti di peggiorarlo) restano poco trattati, quando non completamente pretermessi.

Essi sono oggetto di una esauriente trattazione solo da parte del volume di Mezzetti ove la parte di diritto internazionale è affidata a Massimiliano Montini e quella di diritto comunitario a Giovanna Landi (ciascuna di circa 40 pagine).

La trattazione di questi aspetti è assai più ampia, in realtà, soprattutto nella parte comunitaria, nel volume di Cordini e in quello di Abrami (che offre anche utili appendici di documentazione cartacee, inserite anche nel CDROM).

Ma entrambi i volumi, come si è detto, pur proponendosi di offrire una visione generale, sono specificamente destinati ai profili sopranazionali del diritto dell’ambiente. Essi quindi sono rivolti a lettori che vogliono specificatamente approfondire questi aspetti.

Nessuno dei volumi esaminati, invece, tratta alcuni temi che pure sono attualmente al centro del dibattito del diritto ambientale: mi riferisco in particolar modo ai rapporti tra diritto ambientale e disciplina del commercio, del mercato e della concorrenza, sia a livello internazionale che a livello transnazionale e ai controversi rapporti tra diritto dell’ambiente, globalizzazione e global governance.

È vero che i volumi hanno carattere manualistico; tuttavia è un peccato che temi che sono oggetto di una vasto e multiforme dibattito a livello internazionale non siano sia pur succintamente accennati, anche perché gran parte delle questioni che pure vengono esaminate – dai rifiuti agli inquinamenti, alle varie disposizioni di protezione della natura e delle risorse – non possono essere correttamente comprese e inquadrate se non inserite appunto in una prospettiva che tenga conto dei conflitti con altre esigenze e altre discipline.

Considerazioni analoghe possono farsi per i principi di diritto ambientale.

La formazione di un sistema di principi generalmente riconosciuti è di grande importanza nel diritto dell’ambiente, sia per la mancanza di corrispondenti norme di diritto internazionale ambientale, sia perché essi consentono agli Stati adattamenti e un grado di flessibilità che altrimenti sarebbe impossibile.

Il tema non è però oggetto della dovuta attenzione da parte di buona parte dei volumi in esame.

Fanno eccezione il volume di Mezzetti e, naturalmente, il volume ad essi specificatamente dedicato a cura di Di Plinio e Fimiani.

Quasi tutti i volumi toccano solo superficialmente anche i temi di diritto civile e in particolare le problematiche connesse alla responsabilità per danno all’ambiente.

Tra tutti affrontano con maggiore attenzione il tema Margiotta e Caravita, al quale dedicano un intero capitolo. Anche Dell’Anno riserva una ampia trattazione al tema del danno all’ambiente e dei rimedi civilistici per il risarcimento dello stesso.

Poco spazio è dedicato dai diversi autori anche agli aspetti di diritto penale.

Tra i volumi che affrontano in modo più approfondito il tema, ma limitandosi sempre e comunque agli aspetti sanzionatori senza approfondire altre problematiche di rilievo (quali ad esempio quelle concernenti gli elementi identificativi del reato) è ancora il testo di Margiotta. Più didattico il Dell’Anno, che tratta l’aspetto sanzionatorio a chiusura di ogni capitolo della seconda parte dell’opera, ossia quella relativa all’analisi delle diverse discipline settoriali.

Il solo testo di Caravita dedica un capitolo alla questione, oggetto di ampio dibattito all’estero, della responsabilità penale della persona giuridica per reati ambientali.

Maggiore interesse, infine, suscita il tema delle associazioni ambientaliste.

Tutti i volumi lo affrontano, soprattutto in connessione con le problematiche relative alla tutela degli interessi ambientali nella loro qualificazione come interessi diffusi.

L’attenzione riservata alle associazioni ambientaliste dipende dalla difficoltà di individuare il presupposto della qualificazione e della differenziazione dell’interesse protetto e dunque della legittimazione ad agire in giudizio: problematiche che inevitabilmente riverberano i loro effetti sulla effettività della salvaguardia dell’ambiente.

Vi sono invece argomenti che sono trattati, sia pure dedicando spazio e attenzione diversi, da tutte le opere considerate: sono quelli che possiamo considerare il tradizionale “zoccolo duro” del diritto ambientale.

Tra questi rientrano gli inquinamenti (dei vari tipi), la valutazione di impatto ambientale, l’organizzazione amministrativa e gli strumenti.

In conclusione, non vi è un’opera che da sola offra una trattazione davvero completa delle varie materie che compongono il diritto dell’ambiente, nelle sue varie sfaccettature: tutte offrono trattazioni differenziate, ancorché manualistiche, e adatte a diverse esigenze di lettori e studenti.

Alcune di esse potrebbero essere concepite come opere complementari, da utilizzare congiuntamente, talvolta anche nella trattazione del medesimo argomento. Tutte, comunque, rappresentano un contributo interessate e di rilievo alla sistemazione di una materia complessa e con valenze giuridiche trasversali.

Introduzione al diritto dell’ambiente (Indice)


INTRODUZIONE AL DIRITTO DELL’AMBIENTE

INTRODUZIONE

PARTE
PRIMA IL DIRITTO DELL’AMBIENTE: ASPETTI GENERALI

1.
STORIA E AFFERMAZIONE DEL DIRITTO DELL’AMBIENTE

1.1.
L’uomo e l’ambiente

1.2. L’affermazione del diritto dell’ambiente

1.3. Il diritto dell’ambiente come strumento di
disciplina dell’intervento dell’uomo sull’ambiente

1.4. Diritto dell’ambiente e livello di benessere

1.5. Diritto dell’ambiente, povertà e uguaglianza

2.
DEFINIZIONI E CONTENUTO DEL DIRITTO DELL’AMBIENTE

2.1.
La definizione di ambiente in generale

2.2. Il diritto dell’ambiente nei vari ordinamenti giuridici

2.3. Il diritto dell’ambiente in Italia

3.
LE EMERGENZE AMBIENTALI E IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

3.1.
Premessa

3.2. Le reazioni della comunità internazionale alle emergenze ambientali.
La Convenzione di Montreal

3.3. Il cambiamento climatico e l’effetto serra

3.4. Il Protocollo di Kyoto: la riduzione delle emissioni di gas serra

3.5. Il Protocollo di Kyoto: il commercio delle emissioni e gli altri
meccanismi sostitutivi

3.6. Conclusioni

4.
GLOBALIZZAZIONE, FRAMMENTAZIONE, GLOBAL GOVERNANCE E AMBIENTE

4.1.
Che cosa è la globalizzazione?

4.2. Globalizzazione e ambiente

5.
EUROPA E AMBIENTE

5.1.
La tutela dell’ambiente nel Trattato

5.1.1. L’ambiente dal Trattato CE del 1957 all’Atto Unico Europeo

5.1.2. Dal Trattato di Maastricht al Trattato di Nizza

5.2. Le politiche comunitarie in materia di ambiente

5.2.1. Il quarto e il quinto programma di azione: lo sviluppo sostenibile

5.2.2. Il sesto programma di azione

6.
I PRINCIPI DEL DIRITTO DELL’AMBIENTE

6.1.
L’importanza dei principi nel diritto dell’ambiente

6.2. L’obbligo di non provocare danni all’ambiente

6.3. Il principio dello sviluppo sostenibile (o dello sviluppo ambientalmente
sostenibile)

6.4. Il principio chi inquina paga

6.5. Il principio di prevenzione

6.6. Il principio di precauzione

7.
L’AMBIENTE, IL COMMERCIO E IL MERCATO

7.1.
Il commercio e l’ambiente nell’economia globalizzata

7.2. Gli effetti del commercio sulla tutela dell’ambiente

7.3. Gli effetti della tutela dell’ambiente sul commercio

7.4. Il WTO e le regole del commercio internazionale

7.5. Le misure ambientali unilaterali con effetto sul commercio internazionale

8.
GLI ATTORI DEL DIRITTO DELL’AMBIENTE

8.1.
Premessa

8.2. Gli Stati

8.3. Le organizzazioni internazionali e transnazionali di Stati

8.4. Le agenzie internazionali

8.5. Le società multinazionali

8.6. Le organizzazioni ambientaliste

PARTE SECONDA IL DIRITTO DELL’AMBIENTE NELL’ORDINAMENTO NAZIONALE

1.
PRINCIPI GENERALI

1.1.
LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE AMBIENTALE: ORGANIZZAZIONE E COMPETENZE

1.1.1.
Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio

1.1.2. Le Regioni

1.1.3. I Comuni e le Province

1.1.4. I poteri sostitutivi

1.1.5. Gli enti e gli organi tecnici o consultivi nazionali

1.1.5.1. L’Agenzia per la protezione dell’ambiente

1.1.5.2. Gli altri organismi nazionali

1.2.
GLI STRUMENTI

1.2.1.
In generale: gli strumenti per la tutela dell’ambiente

1.2.2. Command and control o strumenti di mercato?

1.2.3. Gli strumenti di mercato

1.2.4. Gli strumenti per la gestione dell’ambiente e la loro evoluzione
in Italia

1.2.5. Gli strumenti autoritativi

1.2.6. Gli strumenti con partecipazione

1.2.7. Strumenti di gestione negoziata

1.2.8. Strumenti a tutela del cittadino

2.
LA PREVENZIONE DAGLI INQUINAMENTI

2.1.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO

2.1.1.
Premessa

2.1.2. Quadro normativo

2.1.3. Inquinamento atmosferico prodotto da impianti industriali: il d.p.r.
24 maggio 1988, n. 203 e le novità introdotte dal d.lg. 4 agosto
1999, n. 351

2.1.3.1. Profili funzionali, principi generali e ambito di applicazione

2.1.3.2. Valori di qualità dell’ambiente atmosferico e valori di
emissione

2.1.3.3. Criteri di ripartizione delle competenze amministrative

2.1.3.4. Il procedimento autorizzatorio degli impianti

2.1.4. Cenni sugli impianti termici a uso civile

2.1.5. Inquinamento atmosferico prodotto dal traffico veicolare

2.1.6. La gestione dell’emergenza

2.2.
INQUINAMENTO IDRICO E MARINO

2.2.1.
Premessa

2.2.2. La cosiddetta legge <<Merli>>: il primo tentativo del
legislatore italiano di tutela delle acque dall’inquinamento. Brevi cenni

2.2.3. Il d.lg. 11.5.1999, n. 152 e successive modifiche

2.2.4. Le ripartizioni delle competenze amministrative

2.2.5. Gli obiettivi di qualità ambientale

2.2.5.1. Gli obiettivi di qualità per specifica destinazione: acque
potabili, acque di balneazione, acque dolci idonee alla vita dei pesci,
acque destinate alla vita dei molluschi

2.2.6. La disciplina degli scarichi: definizione di scarico, classificazioni,
autorizzazioni, campionamento e controllo

2.2.7. I Piani e il bilancio idrico

2.2.8. Profili di connessione con la cosiddetta legge <<Galli>>.
Rinvio

2.2.9. Una necessaria rivalutazione della questione: la direttiva quadro
dell’Unione Europea sulle acque. Brevi cenni

2.3.
INQUINAMENTO DEL SUOLO E DEL SOTTOSUOLO

2.3.1.
Premessa

2.3.2.
RIFIUTI

2.3.2.1.
Dal d.p.r. 10 settembre 1982, n. 915 al decreto legislativo 5 febbraio
1997, n. 22

2.3.2.2. Le definizioni e in particolare la definizione di <<rifiuto>>
nel decreto Ronchi

2.3.2.3. Il campo di applicazione della normativa: classificazioni ed
esclusioni

2.3.2.4. I soggetti responsabili della gestione dei rifiuti

2.3.2.5. Gli adempimenti documentali a carico del produttore e dei gestori

2.3.2.6. Le regole per lo svolgimento delle attività di gestione

2.3.2.7. Le procedure semplificate

2.3.2.8. La localizzazione e l’autorizzazione alla realizzazione degli
impianti

2.3.2.9. Gli Imballaggi

2.3.3.
DIFESA DEL SUOLO

2.3.3.1.
La legge 18.5.1989, n. 183: introduzione dell’Autorità e dei piani
di bacino idrografico

2.3.3.2. Profili di connessione con la cosiddetta legge <<Galli>>

2.3.4.
PARCHI E AREE NATURALI PROTETTE

2.3.4.1.
Le origini

2.3.4.2. La nornmativa internazionale, con particolare riferimento a quella
riguardante l’Italia

2.3.4.3. La normativa comunitaria

2.3.4.4. La legge quadro sulle aree protette: l. 6.12.1991, n. 394. L’istituzione
dell’Ente Parco

2.3.4.5. La tutela delle zone montane. Breve commento alla legge 31.1.1994,
n. 97

2.4.
INQUINAMENTO ACUSTICO

2.4.1.
Premessa normativa

2.4.2. Il d.p.c.m. 1 marzo 1991

2.4.3. La legge quadro sull’inquinamento acustico e i provvedimenti di
attuazione

2.4.3.1. Principi fondamentali e ambito di applicazione della legge quadro

2.4.3.2. La legge quadro e il d.p.c.m. 14 novembre 1997. Definizione e
determinazione dei valori limite di qualità: regime definitivo
e regime transitorio

2.4.3.3. Criteri di ripartizione delle competenze. Il ruolo fondamentale
assegnato ai Comuni

2.4.3.4. La pianificazione acustica

2.4.3.5. Le ordinanze contingibili e urgenti

2.4.3.6. I provvedimenti di attuazione

2.5.
INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO

2.5.1.
I campi elettrici ed elettromagnetici e la tutela della salute

2.5.2. Il quadro normativo

2.5.2.1 Segue: le normative transitorie

2.5.2.2. La legge quadro

2.5.2.2.1 Segue: i piani di risanamento dall’inquinamento elettromagnetico

3.
LA VALUTAZIONE DI IMPATTO AMBIENTALE E LA PREVENZIONE DEL RISCHIO

3.1.
VALUTAZIONE DI IMPATTO AMBIENTALE

3.1.1.
La normativa comunitaria sulla valutazione di impatto ambientale

3.1.2 La VIA nazionale e la VIA regionale

3.1.2.1. Le fasi della procedura VIA nazionale

3.1.2.2. Le fasi della procedura VIA regionale

3.1.2.3. La procedura per le centrali elettriche e turbogas. Brevi cenni

3.1.3. La valutazione strategica ambientale nella gestione del territorio.
La nuova direttiva europea sulla VIA

3.2.
LA DISCIPLINA DEL RISCHIO INDUSTRIALE

3.2.1.
Premessa

3.2.2. La Direttiva Seveso n. 82/501/Cee e il d.p.r. 17 maggio 1998, n.
175

3.2.3. La Direttiva Seveso II n. 96/82/Ce

3.2.4. La disciplina nazionale vigente: il d.lg. 17 agosto 1999, n. 334

3.2.4.1. Natura, finalità e ambito di applicazione

3.2.4.2. Adempimenti imposti al <<gestore>> di stabilimento
o impianto in cui siano presenti le sostanze pericolose indicate nell’allegato
I del d.lg. n. 334/1999

3.2.4.3. Funzioni delle autorità competenti

3.2.4.4. La partecipazione della popolazione

3.3.
PREVENZIONE E RIDUZIONE INTEGRATE DELL’INQUINAMENTO

3.3.1.
Verso il superamento della prevenzione monofattoriale dell’inquinamento:
il d.lg. 4 agosto 1999, n. 372 di attuazione della Direttiva 96/61/Ce

3.3.2. Gli obblighi del gestore e le condizioni di autorizzazione degli
impianti. Domanda e contenuto dell’autorizzazione

3.3.3. Nuovi obblighi di verifica e di informazione per le imprese

4.
I RIMEDI CONTRO IL <<DANNO AMBIENTALE>> E L’INQUINAMENTO DELL’AMBIENTE

4.1.
L’azione di risarcimento del <<danno ambientale>> prevista
nell’art. 18 della legge n. 349/1986

4.2. Altri rimedi contro l’inquinamento dell’ambiente

4.2.1. Gli obblighi di bonifica dei siti inquinati imposti dall’art. 17
del d.lg. n. 22/1997

4.2.2. Gli obblighi di bonifica e risarcitori imposti dall’art. 58 del
d.lg. n. 152/1999

5.
BIBLIOGRAFIA

Indice tratto
da Introduzione al Diritto dell’Ambiente, di Stefano Nespor e
Ada Lucia De Cesaris, Mondadori, 2003

I contratti ambientali: una rassegna critica

Sommario:

1. Le critiche verso gli strumenti command and control

2. e le proposte di uso di strumenti privatistici sostitutivi

3. I programmi con adesione volontaria

4. La responsabilità civile come strumento di tutela
dell’ambiente

5. Gli strumenti economici (market-based regulations)

6. La c.d. regolamentazione o legislazione negoziata

7. I contratti ambientali

8. I requisiti del contratto ambientale

9. Dove si utilizzano i contratti ambientali?

10. Le origini: la Francia e la Germania

11. L’Italia

12. La vera patria dei contratti ambientali: l’Olanda
e il Belgio fiammingo

13. L’Unione europea

14. Gli Stati Uniti

15. Un bilancio

16. E’ sostituibile il command and control
in materia ambientale?

17. I pericoli della deregulation

Abstract

On both sides of the Atlantic command and control rules are deemed
inefficient and too rigid to encourage the potential of market forces.
However, legal experts on environmental matters are doubtful of the feasibility
of substituting the dominant system with voluntary agreements and, in
particular, with environmental contracts between private pèarties
and the Public Administration. The article, after a critical overview
of the principal tools used (or planned for use) included in the general
category of the voluntary agreements, selects and comments the specific
experience of environmental contracts in the United States and in the
European Union.

1. A partire dalla fine degli anni ottanta, gli strumenti
autoritativi utilizzati al fine di ottenere dagli operatori privati il
rispetto di prescrizioni o standard posti a tutela dell’ambente
– i c.d. strumenti command and control – sono stati oggetto
di serrate critiche, in Europa e negli Stati uniti.

In sostanza, gli strumenti autoritativi affidati al potere legislativo
o alla pubblica Amministrazione sono stati ritenuti strumenti inefficaci,
inidonei al raggiungimento degli obiettivi che si vogliono perseguire,
costosi e inefficienti in sede di applicazione, e, secondo molti autori,
anche non democratici. (1)

Accanto alle critiche più propriamente giuridiche e di politica
del diritto, sono state evidenziate da economisti, esperti di public choice
theory e scienziati politici, soprattutto nella letteratura americana,
i difetti e i pericoli dell’affidamento della gestione dell’attività
privata alla politica, ai partiti, alla burocrazia, di cui, in vario modo,
gli strumenti autoritativi sarebbero l’espressione.

Si è così diffusa l’opinione che, nonostante il variegato
spiegamento dell’armamentario della metodologia del command and
control – autorizzazioni, permessi, divieti, sanzioni previsti con
disposizioni normative o regolamentari poste dall’Amministrazione
pubblica – poco sia stato ottenuto per la tutela dell’ambiente
e per contenere le varie forme di inquinamento, a fronte degli enormi
investimenti effettuati in termini di risorse, organizzazione, mezzi.
(2)

Le critiche verso l’uso di strumenti command and control nella gestione
dell’ambiente hanno trovato nel corso degli anni novanta rinforzo
e ulteriori motivi di fondamento nell’affermarsi delle ideologie
di privatizzazione e di deregulation, e si sono così focalizzate
intorno ad una richiesta di sostanziale riduzione della disciplina degli
effetti dell’attività economica sull’ambiente (quando
non di radicale ritirata dello Stato e della Pubblica amministrazione).

2. Sono stati così proposti, e sono stati variamente
sperimentati e messi in pratica, sistemi di tutela dell’ambiente
tra loro assai diversi, ma collegati dal comune tentativo di sostituire
agli usuali strumenti autoritativi “meccanismi privatistici”
o “forme volontarie”: le espressioni utilizzate nella letteratura
giuridica sul punto sono assai varie, spesso ambigue e ondeggianti tra
concetti assai diversi tra loro quali partecipazione, collaborazione,
accettazione preventiva, coinvolgimento e consenso.

In sostanza, l’obiettivo è quello di superare l’antitesi
pubblico/privato su cui si basa il sistema command and control con strumenti
di mercato, volontaristici, cooperativi e negoziali di tutela.

I vari sistemi possono essere in via di approssimazione ricondotti per
comodità espositiva e per esigenze sistematiche all’interno
di alcune generali categorie.

3. Una prima categoria comprende tutti i programmi a
base volontaristica (anche se per lo più incoraggiati o sussidiati
dall’Amministrazione), cui le imprese sono libere di aderire o meno.
Trattandosi di scelte puramente unilaterali, non vi è obbligo di
adesione, né vi è sanzione per chi, avendo aderito, non
rispetta gli impegni o non raggiunge gli obiettivi prefissati. Naturalmente
gli obiettivi individuati da questi programmi non devono essere previsti
come obbligatori da norme di legge o regolamentari, né devono essere
attuati dal privato, come spesso accade, per evitare conseguenze risarcitorie
in virtù dell’applicazione dei principi o delle norme vigenti
in materia di responsabilità civile: in tutti questi casi, viene
a mancare la “base volontaristica” e prevale il rispetto di
disposizioni vigenti per effetto di forme di coercizione indiretta, sia
pure a mezzo di azioni formalmente volontarie.

Fatte queste precisazioni, gli esempi di azioni che rientrano in questa
prima categoria sono numerosi. A livello internazionale devono ricordarsi
almeno due iniziative.

Nel 1989, poco dopo il disastro ambientale provocato dal naufragio della
petroliera Valdez sulle coste dell’Alaska, fu istituito, ad iniziativa
dell’Associazione delle imprese petrolifere americane e dell’American
Petroleum Institute, il CERES, Coalition for Environmentally Responsible
Economies Principles, al fine di rendere maggiormente responsabili al
rispetto dell’ambiente le imprese del settore.
(3)

Di ben maggiore impatto è l’istituzione di Global Compact,
promossa dalle Nazioni unite (più specificatamente, direttamente
dal Segretario generale) nel luglio 2000. Si tratta anche in questo caso
di una associazione volontaria alla quale prendono parte attualmente centinaia
di imprese multinazionali di vari paesi impegnate a rispettare nove principi
fondamentali nello svolgimento delle rispettive attività, al fine
di promuovere i diritti umani e elevati standard di rispetto ambientale.

Più specificatamente, per ciò che riguarda il tema ambientale,
Global Compact richiede alle imprese aderenti il rispetto di tre principi:

a) applicare il principio di precauzione negli interventi di rilievo ambientale;

b) sostenere iniziative che promuovano elevati livelli di responsabilità
ambientale;

c) incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie ambientalmente
corrette (4).

In Europa il programma volontario più noto è stato realizzato
in Olanda, ed è il Dutch Hydrocarbon 2000 Agreement: le imprese
partecipanti si sono impegnate a consistenti riduzioni delle emissioni
di talune sostanze, con obiettivi scaglionati entro il 2000. (5)

Negli Stati Uniti, i più importanti programmi volontari sono stati
promossi e gestiti dall’Environmental Protection Agency (EPA) alla
fine degli anni Ottanta.

Tra questi, si può ricordare il 33/50 Program, simile al programma
olandese: le imprese aderenti avrebbero dovuto ridurre le emissioni di
17 sostanze chimiche inquinanti del 33% entro il 1992 e del 50% entro
il 1995. Il programma ha ottenuto buoni risultati, ma con una scarsa partecipazione:
solo 1330 imprese hanno effettivamente aderito su 8000 invitate dall’EPA.
Altri due programmi volontari organizzati negli Stati uniti che hanno
ottenuto notorietà sono Green Lights e Energy Star, con obiettivi
di riduzione dei consumi energetici.

Soprattutto negli ultimi anni, si sono intensificate le iniziative di
carattere volontario nel quadro dei programmi di controllo delle emissioni
e del cambiamento climatico.

Possono farsi rientrare in questa prima categoria anche le svariate iniziative
pubbliche che richiedono forme di autoregolamentazione da parte delle
imprese, accompagnate dall’obbligo di rendere pubbliche informazioni
sugli effetti ambientali della propria attività e sui rischi generati
sui processi di produzione utilizzati o dai prodotti immessi sul mercato
(in modo da permettere un controllo diffuso da parte dell’opinione
pubblica e degli utenti ed elevare l’effetto deterrente delle azioni
giudiziarie di responsabilità). (6)

Particolarmente significativa di questo gruppo è l’esperienza
australiana, e, in particolare, il Sustainable Energy Plan adottato nello
Stato del New South Wales a livello regionale o locale per coinvolgere
le imprese e i privati nell’adozione di misure idonee a ridurre
gli effetti negativi sul cambiamento climatico. (7)

4.
Una alternativa all’uso degli strumenti command and control è
costituita poi dall’utilizzazione dell’istituto della responsabilità
civile, ricorrendo anche ad ipotesi di responsabilità oggettiva
di coloro che svolgono attività potenzialmente produttive di danno
all’ambiente (individuato come strumento per una efficiente internalizzazione
dei costi delle attività). (8)

Molti Stati (tra cui l’Italia) hanno da tempo regimi di responsabilità
civile per danni ambientali, con esiti peraltro non univocamente positivi.

Ma non va dimenticato che i presupposti per ottenere una effettiva ed
efficace funzione deterrente sono un ampio accesso alla giustizia da parte
dei danneggiati, risarcimenti congrui e tali da compensare pienamente
i danni subiti, e, ovviamente, un celere e corretto funzionamento degli
organismi giudiziari preposti alla decisione. (9)

Altri Paesi hanno avviato sperimentazioni e riforme rivolte ad una estensione
del regime della responsabilità del danno ambientale, con l’obiettivo
di dare attuazione al principio chi inquina paga e al principio di precauzione:
tra questi la Germania e l’Olanda in Europa. L’Australia offre
un esempio assai significativo: due Stati, il New South Wales e il South
Australia, hanno infatti istituito dalla fine degli anni Ottanta appositi
Tribunali specializzati nella risoluzione di tutte le questioni di rilievo
ambientale e in particolare nella determinazione della responsabilità
per danni ambientali (con ampia discrezionalità nella fissazione
dell’entità del risarcimento). (10)

5.
Vi sono poi sistemi alla cui base stanno pur sempre disposizioni normative
o amministrative, ma consistenti non in autorizzazioni o divieti, bensì
nella individuazione e fissazione di meccanismi di mercato, ai quali viene
affidato il controllo degli effetti ambientali (c.d. market-based regulations).

In questo gruppo rientrano gli strumenti più noti e più
sperimentati: quelli che – assegnando un valore a predeterminate
unità di inquinamento – prevedono il pagamento del prezzo
per chi inquini oltre una certa soglia, oppure la cessione o lo scambio
di “diritti di inquinare” tra produttori, in modo da rispettare
la soglia medesima (c.d. tradable environmental rights). In questo modo
vengono premiati i produttori che predispongono mezzi e tecnologie per
ottenere risultati migliori rispetto alla soglia, mentre vengono incoraggiati
a adottare tecnologie più efficienti quei produttori che sono costretti
a comprare diritti di inquinare.

Questi strumenti hanno avuto varie applicazioni, in particolare, negli
Stati Uniti con gli emissions trading schemes predisposti dall’EPA.
(11) Assai positivi sono stati considerati gli schemi
di scambio di permessi d’emissione di diossido di zolfo nell’ambito
del programma per il controllo del fenomeno delle piogge acide. Un altra
esperienza nota e, sia pure in minor misura, positiva si è verificata
in Nuova Zelanda, con uno schema di scambio di quote di pesca al fine
di conservare il patrimonio ittico.

Il ricorso a strumenti di mercato è stato inoltre inserito (su
sollecitazione, per ragioni diverse, di Stati uniti, Giappone e Canada)
nel Protocollo di Kyoto per il controllo del cambiamento climatico.
(12) In esso sono stati previsti tre diversi meccanismi
con i quali gli Stati possono operare nel quadro del Protocollo: lo scambio
internazionale delle emissioni o International Emissions Trading, che
consiste nella possibilità di negoziare permessi di inquinamento;
la Joint Implementation, e cioè la attuazione congiunta di un progetto
specifico da parte di più Stati industrializzati o rientranti nella
categoria dei «Paesi in transizione», (13)
e il Clean Development Mechanism, in base al quale i paesi industrializzati
o in transizione possono raggiungere obiettivi di riduzione delle emissioni
sviluppando progetti in Paesi in via di sviluppo.

6.
Abbiamo poi, ed è un ulteriore gruppo di strumenti sostitutivi
del command and control, la c.d. regolamentazione o legislazione negoziata
(i c.d. reg-neg nella terminologia statunitense), che a partire dalla
metà degli anni ottanta ha riscosso un discreto successo sia nel
settore ambientale che nel settore della tutela della salute e sicurezza
pubblica.

Si tratta di una produzione di regole di provenienza non unilaterale (cioè,
non emanate soltanto dalla Amministrazione preposta al settore), ma frutto
della trattativa con i destinatari delle regole stesse o con le associazioni
che li rappresentano (in caso di regole con effetti ambientali, è
obbligatoria la partecipazione delle organizzazioni ambientaliste e di
tutti coloro che sono titolati di interessi contrapposti o comunque degni
di tutela nella materia che si intende disciplinare).

Il presupposto è che, in questo modo, si ottengono disposizioni
che non determinano conflitti interpretativi tra Pubblica amministrazione
e soggetti privati (essendovi un preventivo accordo sul loro contenuto)
e quindi non determinano ritardi o costi nell’applicazione.

Il dibattito teorico sull’ammissibilità e sulla utilizzabilità
dei reg-neg è assai aspro.

Da una parte, vi sono i sostenitori di questa procedura, che evidenziano
le ragioni di efficienza, economicità e rapidità applicativa.

Dall’altra, coloro che ritengono che in questo modo venga attribuito
a gruppi o interessi privati il potere di sostituirsi a valutazioni di
interesse pubblico, che debbono restare affidate esclusivamente all’Amministrazione.
(14)

Dal 1982, sono stati avviati 67 procedimenti di negoziazione normativa
sul territorio federale; 35 hanno prodotto norme che sono state effettivamente
emanate dall’Amministrazione interessata.

In campo ambientale, la EPA ha emanato 12 regolamenti ottenuti con la
procedura reg-neg, per la maggior parte concentrati nel settore del contenimento
dell’inquinamento atmosferico.

Nel 1990, considerati i risultati positivi, il procedimento è stato
oggetto di disciplina legislativa a livello federale: il Negotiated Rulemaking
Act (NRA).

7.
Infine vi è la sostituzione del meccanismo autoritativo con il
meccanismo negoziale, e quindi la costituzione di rapporti di tipo contrattuale
tra operatori privati (singoli o tramite associazioni rappresentative)
e Amministrazione pubblica aventi ad oggetto obbligazioni rilevanti per
la tutela dell’ambiente. Sono i contratti ambientali.

Dei contratti ambientali molto si discute e si scrive soprattutto a partire
dalla metà degli anni novanta. A questo istituto sono stati dedicati
in questi ultimi anni anche due importanti volumi.

Il primo, nel 1998, è costituito dai risultati di una ricerca raccolti
e coordinati ad opera di un gruppo di giuristi dell’ambiente di
estrazione prevalentemente europea, Environmental Law Network International
(ELNI); passa in rassegna le esperienze di contratti ambientali realizzate
in Belgio Danimarca, Francia, Germania, Italia, Olanda, Polonia e Regno
unito (15). La ricerca costituisce
anche la base di un Rapporto alla Commissione dell’Unione europea,
pubblicato nel gennaio 2001. (16)

L’altro volume, pubblicato nel 2001, è scaturito da un progetto
di ricerca avviato dalla Law School dell’Università di Pennsylvania;
è curato da Eric W. Orts e Kurt Deketelaere (direttori di due centri
di studi di diritto e economia ambientale, collocati l’uno in Belgio,
l’altro in Pennsylvania) e si propone di offrire una analisi comparativa,
sia giuridica che economica, delle esperienze in materia di contratti
ambientali realizzate negli Stati uniti e in Europa. (17)

8.
Un primo problema si pone a livello di definizione e di identificazione
del contratto ambientale.

Due requisiti sono pacifici. Il primo è costituito dalla volontarietà
della partecipazione o dell’adesione dell’impresa. Se il comportamento
dell’impresa è vincolato, o comunque è l’effetto
di disposizioni di legge, non c’è autonomia negoziale e non
c’è libera manifestazione di volontà: ritorniamo nell’alveo
dei meccanismi command and control.

Il secondo requisito è dato dalla presenza o dal coinvolgimento
di una parte privata, che potrà essere un’impresa o un’associazione
di imprese, e una parte pubblica, che potrà essere l’Amministrazione
centrale, l’Amministrazione locale, o una Agenzia preposta alla
tutela dell’ambiente.

Qui finiscono gli aspetti su cui vi è un generale accordo. In merito
ad altri due requisiti, infatti, vi sono opinioni discordanti. Il primo
riguarda la consistenza e il contenuto dell’incontro di volontà
tra le parti.

Molti includono nell’ambito dei contratti ambientali anche gli impegni
unilaterali o comportamenti assunti volontariamente dalla parte privata,
se essi sono posti in essere al fine o in vista di ottenere vantaggi o
benefici dalla parte pubblica. La casistica di questa tipologia è
nutrita. Per esempio, nel Regno Unito è stato costituito nel 1999
un Comitato, denominato Emissions Trading Group, costituito dall’Associazione
degli industriali, da un organismo del Ministero dell’ambiente e
da altri rappresentanti pubblici. Il Comitato ha messo a punto e avviato
un programma che prevede varie possibilità: una riduzione del 20%
della specifica tassa prevista per l’adempimento degli obblighi
di contenimento del cambiamento climatico oppure l’erogazione di
un incentivo a fronte di una accettazione di obiettivi di contenimento
energetico; l’acquisto da parte di organismi pubblici di diritti
di emissione di CO2 da parte delle imprese che riducono sostanzialmente
le loro emissioni.

Se gli impegni assunti non vengono soddisfatti, l’impresa viene
assoggettata al pagamento integrale della tassa o alla restituzione dell’incentivo.

I contratti ambientali, se si includono fattispecie simili a quella appena
descritta, appaiono un istituto di ampia e crescente utilizzazione.

Ma questo risultato viene raggiunto ricomprendendo nella categoria ipotesi
che di negoziale hanno ben poco: l’incontro di volontà è
infatti ridotto ad una adesione ad un programma pubblico, che prevede
benefici o incentivi predeterminati a chi rispetti obiettivi anch’essi
prefissati.

Il secondo requisito riguarda gli effetti dell’accordo tra le parti.

Anche in questo caso, se si ritiene che sia sufficiente l’assunzione
di obbligazioni non vincolanti, si può affermare che i contratti
ambientali integrano gli strumenti command and control già da vari
decenni, e stanno attualmente espandendosi.

Viceversa, se si ritiene che la sussistenza di un contratto ambientale
in senso proprio richieda la vincolatività degli impegni assunti,
e quindi conseguenze riparatorie o risarcitorie in caso di inadempimento,
l’uso di questo istituto appare assai più limitato.

In conclusione, l’opzione per le due ipotesi più ampie –
che in sostanza tende a far confluire nell’unica categoria dei contratti
negoziali la maggior parte delle iniziative volontarie che abbiamo preso
in considerazione – porta a rintracciare l’esistenza di una
consistente quantità di contratti ambientali realizzati in Europa
e negli Stati uniti negli anni novanta.

Viceversa, la scelta per le due ipotesi più rigorose riduce l’utilizzazione
dei contratti ambientali a poche diecine di unità.

Emblematico è il caso dell’Italia: usando l’opzione
ampia sono stati schedati 25 contratti nel decennio, che divengono addirittura
zero utilizzando l’ipotesi più rigorosa. (18)

A mio giudizio, pur senza sottovalutare l’importanza e l’efficacia
di tutti gli strumenti negoziali sui quali ci siamo sinora soffermati,
è opportuno verificare la reale applicazione dell’ipotesi
più rigorosa, anche per evitare di sfumare la categoria in una
moltitudine di comportamenti di incerto significato.

Con l’espressione contratti ambientali viene fatto quindi d’ora
in poi riferimento esclusivamente a accordi vincolanti tra due o più
parti, delle quali almeno una deve essere pubblica, aventi ad oggetto
l’obbligo della parte o delle parti private a porre in essere specifici
comportamenti di rilevanza ambientale a fronte di controprestazioni della
parte pubblica.

9.
Uno degli aspetti più curiosi è dato dal fatto che in Europa
si è convinti che la patria dei contratti ambientali – come
di tutte le iniziative basate sul mercato, sulla domanda e sull’offerta,
sull’iniziativa privata – siano gli Stati uniti.

Così, è ricorrente in Europa la lamentela di operatori industriali
e delle loro associazioni dell’eccessivo uso di strumenti autoritativi
rispetto alla capacità americana di affrontare i problemi ambientali
confidando nell’iniziativa e nella responsabilità dei privati.

Per converso, negli Stati uniti gli esperimenti di contrattazione ambientale
posti in essere sono stati considerati come tentativi di seguire i successi
dell’esperienza europea in questo settore.

Queste opinioni contrapposte hanno due elementi in comune.

Il primo, quasi ovvio, è che entrambe le convinzioni riflettono
un disagio comune ad entrambe le sponde dell’Atlantico e cioè
l’insoddisfazione rispetto agli strumenti autoritativi tradizionali
e l’aspirazione verso nuovi e non ben identificati meccanismi.

Meno ovvio il secondo elemento comune: esse sono entrambe errate, essendo
il frutto di una sorta di doppio miraggio, di schnitzleriano Doppeltraum,
fondato sulla (non inusuale) convinzione che il terreno del vicino sia
più verde, e quindi, nella specie, più flessibile e propenso
alla contrattualità che non il proprio.

In realtà, negli Stati uniti i contratti ambientali costituiscono
una esperienza assai ridotta quantitativamente e qualitativamente, e tutt’altro
che positiva per ciò che riguarda i risultati.

D’altro canto, in Europa i successi del contratto ambientale in
senso proprio così come sopra definito si limitano pressoché
esclusivamente alla componente di lingua olandese dell’Unione europea,
vale a dire l’Olanda e la parte fiamminga del Belgio.

Ecco una succinta rassegna della sperimentazione e della pratica in materia
di contratti ambientali a partire dagli anni novanta.

10.
I primi esperimenti negli Stati dell’Unione europea sono stati avviati
in Francia e in Germania negli anni settanta.

In Francia dapprima sono stati attuati i contrats de branche, stipulati
tra Pubblica autorità e associazioni imprenditoriali, per disciplinare
gli effetti ambientali di determinate attività produttive. Questi
sono però stati messi fuori gioco dal sopravvenire della normativa
comunitaria e dal conseguente divieto di misure atte a favorire le imprese
nazionali. Sono seguiti i programmes de branche e i programmes d’enterprise,
con carattere pianificatorio e non direttamente negoziale. Questi sono
stati bloccati dopo alcuni anni da una decisione del Conseil d’Etat
che li ritenne illegittimi per settori ove vi era una competenza normativa
statale.

In Germania sono classificate come contratti ambientali le c.d. Selbsverpflichtungen,
cioè le impegnative unilaterali di produttori o di loro associazioni,
cui rimane estranea l’Amministrazione, per lo più assunte
volontariamente e il cui rispetto non può essere ottenuto per via
giudiziaria o esecutiva (salvo che in sporadiche applicazioni).

Circa 80 sono attualmente vigenti. Esse, per quanto detto, non possono
essere considerate come contratti ambientali in senso proprio.

Di particolare rilievo è l’impegno assunto nel 1995 dalle
principali associazioni industriali di ridurre le emissioni di CO2, con
riferimento agli impegni assunti dall’Europa con la sottoscrizione
del Protocollo di Kyoto.

11.
Come accade in Germania, nella maggior parte degli altri Stati dell’Unione
europea vengono spesso qualificati come contratti ambientali accordi che
però non sono vincolanti, o dei quali non può essere ottenuto,
o può essere ottenuto con estrema difficoltà, l’adempimento;
(19) i risultati offerti dai contratti
ambientali in senso proprio non sembrano incoraggianti (salvo che, forse,
nel settore dei rifiuti).

È il caso dell’Italia ove negli anni novanta sono stati stipulati
numerosi accordi tra l’Amministrazione (e in particolare le Regioni)
e associazioni industriali, tutti però di carattere non vincolante.
Tra questi, gli accordi con esiti più soddisfacenti hanno riguardato
la raccolta di rifiuti (carta, cartone, vetro e plastica).

In Italia inoltre, come in altri Paesi europei, sorgono e gradualmente
si diffondono anche procedure basate su accordi, dapprima con la sola
partecipazione delle varie parti pubbliche interessate alla gestione di
uno specifico tema ambientale, poi estese – sotto forma di procedure
negoziate – a forme di partecipazione delle parti private. È il
caso di istituti quali l’accordo di programma, la conferenza di
servizi, e altre procedure, tutte figure anomale sia da un punto di vista
della tradizione pubblicistica, ma estranee anche alla metodologia privatistica.
Come osserva Sabino Cassese in un suo recente studio, (20)
l’azione amministrativa non diviene una entità di diritto
comune e, d’altro canto, il diritto amministrativo continua a svilupparsi,
ma in forme privatistiche.

In particolare, l’introduzione della figura generale dell’accordo
di programma risale alla l. 8 giugno 1990, n. 142 (art. 27), ed è
stata inserita nel d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 del testo unico sull’ordinamento
degli enti locali (art. 34).

Successivamente, il d.lgs. 22/1997 ha previsto varie ipotesi di utilizzazione
dell’accordo.

Il decreto ha stabilito che, ai fini dell’attuazione dei principi
e degli obiettivi individuati dalla nuova disciplina sulla gestione dei
rifiuti, il Ministero dell’ambiente, di concerto con il Ministero
dell’industria, del commercio e dell’artigianato promuove
accordi e contratti di programma con enti pubblici, con le imprese maggiormente
presenti sul mercato o con le associazioni di categoria.

Ulteriore ricorso allo strumento dell’accordo è poi previsto
al fine di promuovere l’utilizzo di sistemi di eco-label ed eco-audit,
nonché di sviluppare e attuare programmi di ritiro dei beni di
consumo al termine del loro ciclo di vita allo scopo specifico del riutilizzo,
riciclaggio e recupero di materia prima (art. 25, c.1-2, d.lgs. 22/97).
Il ricorso all’accordo di programma è infine previsto con
riferimento alla gestione e smaltimento di beni durevoli a fine vita quali
frigoriferi, surgelatori, congelatori, televisori, computer, lavatrici,
lavastoviglie e condizionatori d’aria con lo scopo di istituire
dei centri preferenziali di raccolta (art. 44, Dlgs. 5 febbraio 1997,
n. 22).

12.
Diversi sono i casi dell’Olanda e del Belgio fiammingo.

In Olanda, l’utilizzazione dello strumento contrattuale in materia
ambientale trova le sue origini in un Rapporto pubblicato nel 1988 dall’Istituto
nazionale olandese per la sanità e l’ambiente, denominato
Concern for Tomorrow.

Tra le altre cose, il rapporto evidenziava che uno sviluppo sostenibile
in Olanda sarebbe stato possibile solo se le emissioni di molti prodotti
chimici fossero state drasticamente ridotte (dal 70% al 90%) entro pochi
anni; evidenziava altresì che i tradizionali meccanismi command
and control non avrebbero potuto da soli garantire il raggiungimento di
questo obiettivo.

I contratti ambientali sono così divenuti il meccanismo aggiuntivo
rispetto ai meccanismi tradizionali con il quale l’Amministrazione
e le imprese si sono proposti di perseguire quegli obiettivi.

Essi vengono stipulati dall’Amministrazione con specifici settori
produttivi, pongono obiettivi di riduzione delle emissioni riguardanti
l’intero settore, affidando poi la trattativa concreta al livello
provinciale o comunale e alla singola impresa.

Il risultato è la formazione di un Piano ambientale d’impresa
(Company environmental Plan) che costituisce la base per i seguenti rapporti
tra l’impresa stessa e l’Amministrazione. Sulla base di questo
piano, della sua effettiva applicazione e del suo rispetto da parte dell’impresa
l’Amministrazione rilascia e gradua i permessi e le autorizzazioni
richieste in materia ambientale per lo svolgimento dell’attività
produttiva.

Pertanto, i contratti ambientali utilizzati in Olanda:

a) sono contratti di settore;

b) non sostituiscono la regolamentazione o la normativa esistente e non
la rendono più flessibile, ma si pongono obiettivi:

– di maggiore efficienza o comunque superiori ai limiti normativamente
fissati;

– di impedire l’adozione di norme vincolanti da parte dell’Amministrazione;

– di accelerare l’esecuzione di specifiche disposizioni normative;

I contratti ambientali sono vincolanti per tutte le parti in base alle
disposizioni del codice civile, anche se a tutto il 1998 non risulta che
ci siano state controversie giudiziarie conseguenti a inadempimenti o
violazione degli accordi contrattuali.

Alla base dei contratti ambientali olandesi sta il comune intento dei
produttori di internalizzare i costi ambientali, evitando così
alterazioni della concorrenza interna, e di partecipare alla protezione
dell’ambiente.

Più limitati sia quantitativamente, sia qualitativamente sono i
contratti ambientali stipulati nella Regione fiamminga del Belgio.

Con decreto (atto avente forza di legge) del 15 giugno 1994 il Governo
regionale ha introdotto i contratti ambientali (in base alla costituzione
del Belgio, ciascuna delle tre regioni è responsabile anche legislativamente
della tutela dell’ambiente).

Essi possono essere stipulati tra il Governo e una associazione di produttori
al fine di prevenire l’inquinamento, limitarne le conseguenze o
promuovere una corretta gestione dell’ambiente. I contratti non
possono sostituire norme di legge, o prevedere disposizioni più
favorevoli.

Durante l’efficacia del contratto, il Governo si impegna a non adottare
disposizioni più vincolanti o restrittive.

Tutti i contratti realizzati in base a questa normativa attengono alla
gestione dei rifiuti.

13.
L’Unione europea nel 1996, dopo molte esitazioni e con una profonda
disomogeneità di vedute, si è schierata a favore dei contratti
ambientali.

La Commissione, in una sua comunicazione, ha così evidenziato i
numerosi vantaggi che essi potrebbero offrire quali, per esempio, promuovere
una partecipazione cooperativa dell’industria nella tutela dell’ambiente,
offrire soluzioni efficienti dal punto di vista economico e a costi ridotti,
un più rapido raggiungimento degli obiettivi. (21)

Nel 1997, il Consiglio ha adottato una risoluzione che accoglie i contratti
ambientali tra gli strumenti a disposizione della politica ambientale
comunitaria.

In effetti, a seguito di questi due atti, è stato raggiunto nel
1997 un accordo con alcune associazioni industriali per un contenimento
energetico nei televisori, VCR, macchine lavatrici, e un altro accordo
nell’ottobre 1998, ratificato dal Consiglio, con l’associazione
dei produttori di automobili per la riduzione di emissioni di CO2, nel
quadro degli adempimenti per l’attuazione degli impegni connessi
con il Protocollo di Kyoto.

Gli effetti sembrano essere sinora scarsi. (22)

Ciò può essere attribuito, secondo alcuni, alla dichiarata
mancanza di entusiasmo da parte della Commissione per l’uso di questo
strumento. Ma certamente dipende dall’impossibilità di dare
attuazione alle direttive con strumenti diversi dal tradizionale command
and control. In particolare, la posizione della Commissione, espressa
nella Comunicazione del 1996, è che in tutti i casi in cui le Direttive
creano diritti e obblighi per gli individui appartenenti all’Unione,
la recezione deve avvenire con atti dotati di forza vincolante per la
generalità dei destinatari e di adeguata pubblicità; di
conseguenza, non possono essere utilizzate forme negoziali, che al più
– se vincolanti – sarebbero comunque vincolanti solo per i
contraenti. (23)

14.
Negli Stati uniti l’utilizzazione di contratti ambientali ha avuto
impulso soprattutto da parte del Governo Clinton, negli anni novanta.

I progetti più importanti al riguardo sono stati Project XL (dove
XL sta per excellence) avviato nel 1995, e Common Sense Iniziative.

Project XL, lanciato nel 1995, ha previsto la stipulazione di accordi
tra EPA e una specifica impresa; gli accordi avrebbero potuto consentire
all’impresa flessibilità nell’applicazione della normativa
esistente, e quindi eventualmente deroghe rispetto ai limiti e agli standard
previsti dalla normativa medesima, a fronte di un impegno dell’impresa
di perseguire in settori predeterminati obiettivi di maggior tutela dell’ambiente
di quelli richiesti dalla normativa.

Per esempio, una impresa potrà stipulare un contratto ambientale
in base al quale l’Amministrazione concede di effettuare emissioni
di un determinato prodotto in quantità superiore a quella consentita
dalla legge (purché entro limiti prefissati), a fronte dell’impegno
dell’impresa stessa di ridurre al di sotto dei limiti previsti dalla
legge le emissioni di altri prodotti. (24)

Se l’impresa non rispetta gli impegni, EPA impone l’applicazione
delle regole che erano state contrattualmente derogate, e irroga le eventuali
sanzioni per le violazioni. In questo modo, il problema della vincolatività
del contratto non si pone, sussistendo per l’Amministrazione uno
strumento di tutela efficace, e cioè l’applicazione della
normativa contrattualmente derogata.

Project XL ha avuto scarsissima fortuna. L’obiettivo dell’amministrazione
Clinton era di realizzare 50 contratti all’anno a partire dal 1995.

Ne sono stati stipulati in tutto una diecina, e uno solo a partire dal
1996. (25)

Le ragioni dell’insuccesso sono state due.

In primo luogo, le critiche e le contestazioni da parte delle associazioni
ambientaliste, per lo più contrarie non ai progetti XL in quanto
tali, ma alle valutazioni in concreto dell’Amministrazione ed agli
spazi di deroga concessi all’impresa aderente.

In secondo luogo, le proteste da parte delle imprese non aderenti al progetto,
che ritenevano che i contratti ambientali, nella parte in cui derogavano
a normative vincolanti, ponessero in essere una violazione della concorrenza
e delle regole del mercato danneggiando le imprese che non intendevano
partecipare al progetto.

15.
Come si vede, nonostante la diffusa sfiducia verso il command and control
e la convinzione che gli strumenti negoziali siano più efficaci
e meno costosi, l’utilizzazione di contratti ambientali in senso
proprio non rappresenta un successo, né in termini quantitativi,
né in termini di risultato, su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Le impressioni diverse e più positive sono in genere provocate
– come si è visto – dall’inclusione nello stesso
fascio di accordi vincolanti e di altre forme di impegno, non vincolanti
per la parte privata, e comunque non consensuali.

Vi è, in Europa, la rilevante eccezione olandese che meriterebbe
ben maggiore attenzione per i positivi risultati conseguiti.

Ma i contratti ambientali sono lì utilizzati per raggiungere effetti
diversi e ulteriori rispetto a quelli previsti o imposti dalle normative.
Pertanto, in Olanda lo strumento negoziale si aggiunge nella maggior parte
dei casi al command and control, e non lo sostituisce.

Del resto, in Europa, essendo la maggior parte della produzione di norme
statali in materia ambientale di diretta o indiretta derivazione comunitaria,
l’uso di strumenti non generali e vincolanti sembra essere precluso.

Negli Stati uniti d’altro canto c’è, ed è oggetto
di apposita disciplina normativa, una negoziazione in materia ambientale,
ma attiene alla produzione di norme di carattere generale (che vengono
poi emanate dall’Amministrazione competente) e non alla stipulazione
di accordi privati.

16. In definitiva, la realtà dimostra che il
tradizionale sistema command and control è difficilmente sostituibile
e che per tutti i modelli alternativi, e in particolare proprio per i
contratti ambientali, c’è la tendenza a idealizzare e a generalizzare.

Nella pratica, inoltre, i vantaggi dell’uso degli strumenti negoziali
possono rivelarsi assai inferiori di quelli ipotizzabili in teoria. Ed
infatti, se si attenuano i tradizionali conflitti tra privato e pubblico,
si determinano almeno due conseguenze negative.

In primo luogo, sorgono nuove possibilità di conflitto, non più
solo tra privato e pubblico, ma anche tra privato e privato: è
il caso, per esempio di tutti i profili di violazione delle regole di
mercato e della concorrenza, già prospettati negli Stati uniti
– ma certamente proponibili, se la prassi dei contratti ambientali
si estende, anche in Europa.

In secondo luogo, si determina uno spostamento dell’attenzione dall’importanza
delle questioni e dei problemi ambientali da risolvere alla loro negoziabilità.
(26) In altri termini, questioni importanti o gravi,
o comunque prevedibilmente altamente conflittuali, vengono accantonate
in favore di questione risolvibili con una trattativa contrattuale.

17. Infine, c’è un ulteriore aspetto da
considerare. Si è detto inizialmente che la richiesta dell’uso
di strumenti contrattualistici e negoziali ha trovato spinta e alimento
nell’affermarsi delle ideologie di privatizzazione e di deregulation.

Ma non bisogna dimenticare che, se si riducono le norme di origine pubblica,
crescono le norme poste in essere dai privati, o con la loro partecipazione.
Questi privati sono per lo più i soggetti economicamente più
forti, in grado di avere accesso e di contrattare con l’Amministrazione
o il potere politico.

Si crea così un sistema dove si mescolano disposizioni normative
e amministrative, regolamentazioni contrattate o intese tra privato e
pubblico, prassi nazionali e sopranazionali.

Per ciò che specificatamente riguarda la disciplina dell’ambiente,
questo non significa che scompaiono le regole; significa solo che le regole
sono poste non da organismi pubblici che perseguono (o dovrebbero perseguire)
l’interesse generale e operare in posizione di indipendenza e terzietà,
ma dai quei soggetti economici che hanno la forza di negoziare i problemi
ambientali con l’Amministrazione o che sono da quest’ultima
prescelti.

Resta allora il serio di problema di individuare preventivamente gli spazi
entro i quali permettere l’introduzione della flessibilità
negoziale in materia ambientale, perché non si può accettare
che le vicende ambientali e tutte le vicende ad esse collegate –
tra cui le vicende economiche – si muovano in uno spazio svuotato
di regole poste nell’interesse generale, e governato da regole confezionate
nell’interesse o con la partecipazione dei soggetti privati dei
più forti. (27).

È vero che l’ambiente deve fare i conti con il mercato. Ma
il mercato può fare a meno di un ambiente regolato e controllato?


NOTE

L’articolo
rielabora la relazione presentata
al Convegno di Gubbio
, Ambiente e Impresa, 8-9 novembre 2002


(1) Negli Stati Uniti, il punto di partenza
delle critiche nei confronti del sistema command and control in materia

ambientale risale al fondamentale scritto di B.A. Ackerman – R.B.
Stewart, Reforming Environmental Law, in Stanford

Law review, 1985, 1333. Per un esame delle critiche lì formulate
si veda J. Freeman, Collaborative Governance in the

Administrative State, in UCLA Law Review, 1997, 1 e spec. 2; negli Stati
uniti fin dall’inizio degli anni novanta

l’approccio autoritativo e strettamente normativo era qualificato come
“ossificato”: si veda T.O. McGarity, Some

Thoughts on “Deossifying” the Rulemaking Process, in Duke L.J.,
1992, 1385, 1397-98.

(2) Non è questo il luogo ove
discutere di queste affermazioni. Va però succintamente osservato
che questa

convinzione, ancorché attraente, è priva di fondamento.

Prima di tutto, essa appartiene al novero delle tesi che possono essere
liberamente sostenute senza correre il rischio di

smentita, essendo impossibile la verifica di quali sarebbero state le
condizioni dell’ambiente se, al posto degli strumenti

autoritativi, fossero state prescelte altre modalità di intervento.
Peraltro, nei circa tre/quattro decenni in cui, nei Paesi

maggiormente sviluppati, sono stati largamente – e in molti settori
quasi esclusivamente – impiegati strumenti

autoritativi, la tutela dell’ambiente ha segnato progressi significativi,
soprattutto laddove sono stati compiuti sforzi

economici e organizzativi adeguati per garantirne l’applicazione.

(3) A. Smith, The CERES Principles:
A Voluntary Code for Corporate Environmental

Responsibility, in YALE Journal of International Law, 1993, 307 ss.

(4) Dati e informazioni sull’iniziativa
Global Compact possono essere rinvenuti nel sito http://unglobalcompact.org/;

si veda anche M.Shaughnessy, The United Nations Global Compact and the
Continuing Debate about the Effectiveness

of Corporate Voluntary Codes of Conduct, in Colorado J. of Internat. Env.
Law and Pol., 2000, 159; L.A. Mowery,

Earth Rights, Human Rights: Can International Environmental Human Rights
Affect Corporate Accountability? In

Fordham Env. Law J., 2002, 343 ss.

(5) Su questo programma si veda P.E.
De Jongh, S. Captain, Our Common Journey: A Pioneering Approach to

Cooperative Environmental Management, London, 1999, spec. 230 ss.

(6) si vedano C.R. Sunstein, Informational
Regulation and Informational Standing, in Univ. Of Pennsylvania Law

Review, 1999, 613; P.R. Kleindorfer, E.W. Orts, Informational Regulation
of Environmental Risks, in Risks Analysis

1998, 155.

(7) P. Stein, Ecological Sustanability
– Turning Rhetoric Into Reality – Some Sustainable Energy
Initiatives In

Australia, in Riv. giur. amb., 2002, 847 ss.

(8) Sul punto L. Bergkamp, Liability
and Environment, The Hague, (L’AIA) Kluwer Law International, 2001, 5
e 73.

(9) Per un esame comparativo dei vari
regimi di responsabilità si veda M. Wilde, Civil Libility for Environmental

Damage, The Hague, Kluwer Law Intrernational, 2002.

(10) Nel New South Wales la Land and
Enviroment Court è stata istituita nel 1979. Nel South Australia
è stata istituita

nel 1993 la Environment, Resources and Development Court. Sulla prima,
si veda M. Pearlman, The Environmental

Jurisdiction of the Land and Environment Court of New South Wales, Australia,
sulla seconda C. Trenorden,

Environmental Law in South Australia: The Role and Jurisdiction of the
Environment, Resources and Development

Court. Entrambi sono in traduzione italiana su Riv. giur. Amb., 2002,
863 e 897.

(11) Una ottima analisi degli schemi
predisposti dall’EPA e della loro attuazione è in R. Hahn, G. Hester,
Where did

all the Markets Go? An Analysis of EPA’s Emissions Trading Program, in
Yale Journal on Regulation, 1989, 109 ss.

(12) Sul punto, vedi AA.VV, Nuove
prospettive del protocollo di Kyoto: meccanismi attuativi e impatto sulla

competitività, Milano, Ipaservizi Ed., 2002.

(13) In base agli accordi di Marrakesh,
i progetti avviati a partire dal 2000 possono essere riconosciuti come
Joint

Implementation se rispettano le regole stabilite nell’ambito del Protocollo.
Nel dicembre del 2000 è stato concluso il

primo accordo di Joint Implementation europeo tra Norvegia e Romania,
rivolto alla modernizzazione del sistema di

riscaldamento di una città rumena.

(14) Si veda W. Funk, When Smoke Gets
in Your Eyes: Regulatory Negotiation and the Public Interest – EPA’s

Woodstove Standards, in Env. Lawyer, 1987, 55; E. Siegler, Regulatory
Negotiations: A Practical Perspective, in Env.

Law Rep., 1992, 647.

(15) Environmental Law Network International,
Environmental Agreements: the Role and Effects in Environmental

Policies, Londra, Cameron May, 1998.

(16) G. Roller, B. Gebers (cur.),
New Instruments for Sustainability – The New Contribution of Voluntary
Agreements

to Environmental Policy, in Research on the Socio-economic Aspects of
Environmental Change. Summary Results –

Second Period 1996-1999, Bruxelles, editore?, 2001.

(17) E.W. Orts, K. Deketelaere (cur.),
Environmental Contracts.Comparative Approaches to Regulatory Innovation
in

the United States and Europe, The Hague, Kluwer Law International, 2001.

(18) È questo il caso del Rapporto
curato da G.Roller e B.Gebers, v. nota 9.

(19) Per una completa rassegna dei
contratti ambientali nell’Unione europea si veda G. Van Calster –
K. Deketelaere,

The Use of Voluntary Agreements in the European Community’sEnvironmental
Policy, in E.W. Orts, K. Deketelaere

(cur.), Environmental Contracts, cit., 199.

(20) S. Cassese, Le trasformazioni
del diritto amministrativo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2002, 27 ss. Per
una

ricostruzione storica dell’affermarsi del momento privatistico e negoziale
all’interno dell’azione amministrativa cfr. G.

Manfredi, Accordi e azione amministrativa, Torino, Giappichelli, 2002.

(21) Comunicazione della Commissione
al Consiglio e al Parlamento sui contratti ambientali,

COM(96)561

(22) G. Van Clster, K. Deketelaere,
The Use of Voluntary Agreements, cit., 232

(23) sul punto si veda G. Roller,
B. Gebers (cur.), New Instruments for Sustainability , cit., 411.

(24) per alcuni esempi di
contratti stipulati sulla base del Project XL, si veda J. Freeman, Collaborative
Governance,

cit., 17 ss.

(25) Maxwell, Lyon, An Institutional
Analysis Of Environmental Voluntary Agreements in the United States, in
E.W.

Orts, K. Deketelaere (cur.), Environmental Contracts, cit., 333.

(26) C. Coglianese, Is Consensus an
Appropriate Basis for Regulatory Policy?, in E.W. Orts, K. Deketelaere
(cur.),

Environmental Contracts, cit., 93.

(27) S. Rodotà, Se le leggi
del mercato minano il futuro della politica, in La Repubblica del 20/8/2002,
17.

Le lunghe estati calde. Il cambiamento climatico e il protocollo di Kyoto

Viene di seguito riportata l’introduzione del libro.

***

“Allarme, la terra ha la febbre”; “Un grado e mezzo al disastro”; “Vicini al punto di non ritorno”; “In Val Padana come ai Tropici”; “Incendi, alluvioni, frane e uragani inevitabili se il termometro continua a salire”. Titoli così, e molti altri simili, hanno riempito i quotidiani e i settimanali italiani e europei nella lunga estate calda del 2003. E poi, in Francia e in Italia, migliala e mi gliala di morti, soprattutto anziani; le strutture sanitarie pubbliche si sono in fatti trovate impreparate a fronteggiare Fimprevista emergenza climatica.
Imprevista, ma non del tutto imprevedibile, se si tiene conto che era stata preannunciata da quelle che erano già state definite le tré estati più calde del secolo nel 2002, nel 2001 e nel 1998. Il clima sta ovunque cambiando, questo sembra una dato ormai indiscusso.
Meno pacifico è se il cambiamento sia determinato da cause di lungo periodo o da fenomeni contingenti; ancor meno pacifico è se esso dipenda dall’uomo e dal modo di sviluppo avviato con la Rivoluzione industriale, dipendente essenzialmente dai gas – soprattutto anidride carbonica – emessi a seguito dell’utilizzazione di combustibili fossili, i cosidetti gas serra.
Sembra aver superato ogni dubbio la maggior parte degli scienziati e della comunità internazionale: siamo in presenza dei primi significativi effetti del cambiamento climatico provocato dall’attività umana.
Per far fronte a questa emergenza globale fin dalla fine degli anni Ottanta si sono mobilitate le Nazioni Unite. Dopo alcuni anni di studio, di approfondimento e di confronto tra i diversi soggetti coinvolti (gli Stati, le organizzazioni scientifiche, le imprese, le organizzazioni ambientaliste), nel 1992, in occasione del Convegno mondiale di Rio de Janeiro, è stata adottata la Convenzione quadro sul cambiamento climatico (indicata comunemente con il suo acronimo FCCC). La Convenzione è stata ratificata sino ad oggi da oltre 180 Stati, ed è così diventata il trattato internazionale ambientale che ha raccolto il maggior numero di adesioni. Ad essa è seguito, dopo anni di negoziati e di trattative, un accordo più preciso, che ha posto specifici obblighi per contenere il cambiamento climatico a carico dei paesi ricchi e maggiormente sviluppati: il Protocollo di Kyoto. Il Protocollo non è ancora entrato in vigore, non essendo ancora stata raggiunta una delle due condizioni previste: la ratifica da parte di un numero di Stati che totalizzi almeno il 55% delle emissioni globali di gas. Il Protocollo non è stato sottoscritto dagli Stati Uniti, che da soli sono responsabili del 36% delle emissioni dei paesi industrializzati e del 20% delle emissioni su scala globale, ne – nonostante gli impegni ripetutamente assunti dalla Russia, la cui adesione oggi potrebbe far scattare la condizione ancora non verificatasi.
E stato invece ratificato dalTUnione europea e da tutti gli Stati mèmbri del-rUnione.
Di grande importanza è quindi la nona conferenza degli Stati firmatari del la Convenzione (chiamata COP 9), che si terrà in Italia, a Milano, nel dicembre del 2003. Essa permetterà di fare il punto sullo stato di avanzamento dei lavori per Fattuazione del Protocollo di Kyoto, non ancora termalmente operativo e tuttavia già motivo di impegni e investimenti da parte degli Stati che vi hanno aderito (tra cui gli stati delTUnione europea). Permetterà soprattutto di comprendere se vi sono delle possibilità di rendere operativo un accordo che potrebbe essere decisivo per le sorti del clima sulla terra.
Questo volume, dopo aver esposto alcune informazioni di base sugli aspet ti di carattere tecnico-scientifico, offre un panorama del percorso compiuto dalla comunità internazionale a partire dalTinizio degli anni Novanta del secolo scorso per raggiungere Pobiettivo di controllare il clima globale. È un percorso sul quale le informazioni accessibili ai non addetti ai lavori sono carenti nonostante che la stampa e i media dedichino spazi crescenti a questo tema. E’ un percorso denso di negoziati, di successi, di fallimenti, di scontri, i cui momenti emergenti sono stati i due trattati cui abbiamo accennato – la Convenzione quadro del 1992 e il Protocollo di Kyoto del 1997. È un percorso av-viatosi nel segno della protezione dell’ambiente globale, ma ben presto trasformatesi m un impegnativo confronto che si è espanso verso temi diversi e più ampi: il senso e i costi dello sviluppo economico, il futuro delle politiche energetiche sinora seguite, e poi gli aspetti di responsabilità degli Stati più ricchi nei confronti degli altri Stati e nei confronti delle generazioni future.
Per coloro che volessero approfondire i diversi aspetti trattati abbiamo fornito una essenziale e aggiornata bibliografia, in grado di permettere anche un accesso diretto agli atti e ai documenti di cui si tratta. Da ultimo al lettore non potrà sfuggire il massiccio utilizzo di acronimi e/o abbreviazioni (che pure abbiamo cercato di limitare al massimo). E un uso ormai consolidato in sede internazionale, dove le istituzioni intergovernative e i governi abbondano in sigle e riferimenti sintetici. Per facilitare, anche in questo caso la lettura, è stato predisposto un apposito indice.
La nostra speranza è stata quella di rendere partecipe il lettore della grande avventura lanciata dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale per raggiungere un obiettivo di immensa difficoltà: quello di coinvolgere tutta la comunità internazionale in una impegnativa operazione di responsabilità e di solidarietà quale quella di porre le basi per controllare gli effetti sul clima delle attività umane. Non sappiamo ancora se questa avventura sarà coronata da successo. Ma certamente, essa lascerà un segno profondo nel futuro dei rapporti internazionali tra gli Stati.

Stefano Nespor Ada Lucia De Cesaris

da Le lunghe estati calde. Il cambiamento climatico e il protocollo di Kyoto, Bologna Gedit 2003.

La tutela internazionale dell’ambiente

La tutela internazionale dell’ambiente, Convegno di studi in ricordo di Enzo Capaccioli, ISLE – Camera dei deputati, 20 dicembre 2002

1. L’invito a partecipare a questo incontro per ricordare Enzo Capaccioli mi è particolarmente gradito. Infatti la Rivista Impresa Ambiente e Pubblica Amministrazione, che Capaccioli ha ideato fondato e diretto per molti anni, costituisce per molti versi la madre della Rivista Giuridica dell’Ambiente di cui sono il direttore.
Infatti, proposi a Gaetano Giuffré l’iniziativa di una rivista interamente dedicata al diritto dell’ambiente negli anni immediatamente successivi al 1982, data in cui Impresa Ambiente Pubblica Amministrazione (anch’essa pubblicata da Giuffré) cessava di esistere, sostenendo sia che il successo riscosso da quest’ultima costituiva un indice del fatto che i tempi anche in Italia erano ormai maturi, sia che la strada, ormai aperta da Capaccioli, non poteva essere abbandonata.
Il rischio, certo, era consistente in una situazione culturale italiana in cui i temi dell’ambiente scontavano un vistoso ritardo rispetto ad altri Paesi – gli Stati Uniti prima di tutto, ma anche la Germania e l’Inghilterra – e in una corrispondente situazione della cultura giuridica in cui ancora non esisteva una voce “Ambiente” nei Repertori maggiormente diffusi, né tantomeno esistevano corsi universitari o manuali in materia, sicché ben comprendo oggi, a tanti anni di distanza, le perplessità di Gaetano Giuffré. Poi, nel 1986, il disastro di Cernobil e la diretta conseguenza di lì a pochi mesi nell’ordinamento italiano, l’istituzione del Ministero dell’Ambiente, dissiparono gli ultimi dubbi. In quello stesso anno comparve il primo numero della Rivista giuridica dell’Ambiente.

2. Da allora sono trascorsi quasi venti anni: uno spazio di tempo molto breve nel mondo del diritto, che in nome della stabilità e della certezza tende a rifiutare i cambiamenti, oppure ad assorbirli e ricomporli all’interno delle categorie preesistenti.
Eppure, questo spazio di tempo ha testimoniato l’affermazione, senza precedenti quanto a rapidità, del diritto ambientale a livello nazionale e soprattutto – e questo è l’oggetto di questo mio breve intervento – a livello internazionale e transnazionale.
Il diritto ambientale, che nel corso di tutto il secolo passato aveva costituito nel diritto internazionale un tema di importanza secondaria, riservato ad esperti di nicchia, in questo breve tempo ne è divenuto il settore più prorompente e più innovativo, insieme, ma con ben minor peso, al settore dei diritti umani, sotto molti aspetti collegato (per esempio, la Carta africana dei diritti dell’uomo, adottata dagli Stati africani nel 1981, include specifiche disposizioni a tutela dell’ambiente considerato come un diritto dell’uomo e delle collettività che vi abitano).
Ciò conferma che a metà degli anni Ottanta i tempi erano maturi per una rivista di diritto dell’ambiente; conferma però anche la straordinaria e ben precedente intuizione di Capaccioli, alla soglia degli anni Settanta (allorché solo negli Stati Uniti si cominciava ad affrontare in modo organico il tema del diritto ambientale: del 1970 è appunto il National Environmental Policy Act di Nixon).
Può solo aggiungersi che il trinomio che costituisce il titolo della rivista fondata da Capaccioli, osservato nel suo versante internazionale e quindi sostituendo l’espressione Stato a quella Pubblica Amministrazione, coglie esattamente e con larghissimo anticipo il punto focale del dibattito attuale del diritto ambientale internazionale che è indirizzato alla ricerca di un non conflittuale coinvolgimento di pubblico e privato, di stato e impresa, nella soluzione dei problemi ambientali che si prospettano per il futuro: la dimostrazione è data dal fatto che nel convegno indetto dalle Nazioni Unite a Johannesbourg del 2002 nel quale alcune giornate sono state specificatamente dedicate all’apporto delle multinazionali per la tutela dell’ambiente.

3. A partire dal 1972 data del primo convegno (svoltosi a Stoccolma) organizzato dalle Nazioni Unite in materia di ambiente sono stati proposti, sottoscritti, ratificati e sono entrati in vigore diecine di trattati in materia ambientale, e centinaia e centinaia di cosiddetti MEA (Multilateral Environmental Agreements), accordi multilaterali con contenuti o obiettivi ambientali.
Ancor più impressionante è la produzione a livello transnazionale, ove il diritto ambientale occupa una parte significativa della produzione normativa dell’Unione europea (attualmente, sono emanate circa cento direttive all’anno in materia ambientale), e delle organizzazioni analoghe come Mercosur, NAFTA, OAU (Organisation of African Unity).
Se vogliamo ricercare le ragioni che hanno contribuito a determinare questo fenomeno, vediamo che sono molteplici e assai varie, ma possono essere ricondotte ad alcuni gruppi principali.
Vi sono prima di tutto le ragioni consistenti nelle spiegazioni più frequentemente ricordate dagli ambientalisti e direttamente riferite al contesto ambientale: la crescente importanza per l’opinione pubblica mondiale, e soprattutto dei paesi ricchi, della tutela dell’ambiente, l’accrescersi di emergenze e del deterioramento dell’ambiente a seguito dell’impatto delle tecnologie, l’aumento della popolazione e del diffondersi del benessere e dei consumi, l’intensificarsi dell’uso delle risorse disponibili.

4. Vi è poi un secondo gruppo di ragioni dell’affermazione del diritto ambientale internazionale di carattere istituzionale, in quanto affonda le radici nel modificarsi dell’assetto dell’organizzazione internazionale. Di particolare rilievo appare il triplice mutamento subito dalla posizione dello Stato sullo scenario internazionale.
Gli Stati contano meno: è un fenomeno ben noto – la c.d. crisi dello Stato – studiato e analizzato da oltre un decennio da giuristi, economisti e political scientist.
L’effetto è che molte competenze, una volta considerate come patrimonio indiscusso della sovranità di uno Stato, sono state risucchiate verso livelli sovrastatali e sono state attribuite alla competenza di organismi collocati in quel livello: gli Stati si limitano a recepire ed eseguire le decisioni assunte.
Paradossalmente e nello stesso tempo, gli Stati, a seguito della frammentazione verificatasi negli anni Novanta del secolo passato (si pensi solo agli effetti della dissoluzione del blocco sovietico), contano di più. Questo perché sono quantitativamente più numerosi, e ciò determina l’accrescersi dei conflitti interstatali, sicché ciò che in passato costituiva un dissidio regionale interno ed era risolubile con gli strumenti di carattere amministrativo o giurisdizionale previsti a livello statale, oggi richiede soluzioni che debbono essere necessariamente il frutto di attività sopranazionale. La gestione di risorse ambientali e la progettazione di meccanismi di sviluppo sostenibile in ambienti condivisi tra più stati, e segnati quindi da confini politici, costituisce quindi un argomento che ha assunto grande rilievo nel diritto ambientale internazionale.
A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso le aree di confine internazionalmente riconosciute sono cresciute da 280 a 315. La conseguenza è che, per esempio, i bacini idrici, che richiedono una attenta pianificazione di molteplici problemi ambientali, collocati sul territorio di più stati sono il 47% in più di quelli presenti negli anni Ottanta, con tutti i problemi e le difficoltà che ciò comporta.
Infine, ed è questo il terzo profilo, gli Stati non sono più soli.
Sono oggi affiancati da soggetti e entità presenti di pieno diritto e come protagonisti sullo scenario internazionale: oltre a organizzazioni internazionali con competenze generali, Organizzazioni non governative e Agenzie con competenze settoriali, Società multinazionali.
Ciò comporta l’ampliarsi, il diversificarsi e l’estendersi delle relazioni, delle trattative, degli accordi sopranazionali, che assumono forme e riguardano contenuti nuovi e diversi da quelli tradizionali della comunità internazionale.

5. Un terzo gruppo di ragioni è di carattere economico, e fa capo a quel fenomeno che, in modo forse ormai un po’ consunto, viene chiamato globalizzazione: è il fenomeno di privatizzazione dell’economia e di conseguente interconnessione e liberalizzazione dei mercati sviluppatosi a livello transnazionale e intercontinentale che racchiude molti aspetti diversi: operazioni di privatizzazione di settori dell’economia detenuti da organismi pubblici, abrogazione o attenuazione di norme di controllo o di coordinamento di attività economiche e finanziarie private, sostituzione di nuove regole flessibili alla regolazione pubblica del mercato da parte dello stato o di organismi pubblici, tutti inseriti in un complesso processo di integrazione sopranazionale dei rapporti e degli ordinamenti giuridici, usualmente denominato global governance.
Globalizzazione e global governance sono tra le cause dell’affermarsi del diritto internazionale dell’ambiente con le attuali modalità; ma ne sono in parte anche il prodotto, in quanto permettono di affrontare problemi e emergenze ambientali che sfuggono alla capacità di gestione delle singole unità statali, e non possono che essere affrontate a livello sovranazionale e, assai spesso, globale.
Questo aspetto apparve chiarissimo già verso la metà degli anni Ottanta, allorché la pubblica opinione mondiale si rese conto che il ridursi della fascia di ozono intorno alla terra era causato dall’uso di specifiche sostanze chimiche (CFC), e contemporaneamente del fatto che non vi era diretto collegamento geografico fra luogo in cui le sostanze chimiche erano utilizzate e riduzione dell’ozono: le bombolette spray usate a Milano non danneggiavano, cioè, la fascia di ozono collocata sopra la città, e neppure sopra l’Italia, ma erano trascinate dal vento e raggiungevano l’obiettivo in punti collocati a distanze anche enormi.
Nello stesso periodo di tempo (era il 1988), scoppiò il caso dei rifiuti tossici prodotti dall’inceneritore di Filadelfia, trasportati in precedenza da una nave norvegese in Guinea (dissimulati come materiale da costruzione) e l’analogo caso di rifiuti tossici prodotti in Italia e abbandonati a Koko Beach, in Nigeria.
Così, mentre l’emergenza ozono dimostrava che era ormai superato il principio tradizionale secondo cui ciascuno può inquinare il proprio ambiente, il caso dei rifiuti dimostrava che, senza una adeguata rete internazionale di controlli, ciascuno (o meglio, ciascun paese ricco) era ormai in grado di inquinare a piacimento l’ambiente altrui.
Il diritto internazionale dell’ambiente è quindi legato a doppio filo con la globalizzazione: sia perché l’ambiente è all’origine della globalizzazione e della global governance; sia perché è l’effetto di una economia, ma anche di istituzioni e di regole crescentemente globalizzate.

6. Ancora, un quarto gruppo di ragioni che spiega l’affermazione del diritto ambientale internazionale è costituito dal diffondersi a livello globale del bisogno di principi comuni per la gestione e il governo dell’ambiente.
I principi assumono importanza in questo settore del diritto sotto tre diversi aspetti.
Prima di tutto perché il diritto ambientale, per la rapidità della sua affermazione, in modo contemporaneo in molte svariate realtà culturali, istituzionali e giuridiche, ha bisogno di punti fermi generalmente condivisi e tendenzialmente stabili che permettano di organizzare e coordinare la materia.
Poi perché le disposizioni normative o regolamentari statali che si riferiscono direttamente o indirettamente all’ambiente costituiscono una massa in inestricabile e continua crescita (non solo in Italia, ma in tutti i paesi sviluppati) la cui organizzazione sistematica è assai ardua senza norme di livello indiscutibilmente superiore e di carattere generale che permettano un orientamento e una classificazione.
Infine, perché i principi, a differenza delle norme dotate di efficacia vincolante, sono formulati in modo sufficientemente astratto da permettere a ciascuno di sentirsi ad essi vincolato e di rispettarli – o più spesso di pretendere di rispettarli – senza incorrere in verifiche di carattere giurisdizionale o in sanzioni.
Ciò vale per tutti i principi di diritto ambientale più noti: il principio “chi inquina paga”, il principio di prevenzione, il principio di precauzione. Vale soprattutto per il principio attualmente più noto, quello dello sviluppo sostenibile. Il suo successo dipende proprio dalla sua ambiguità e dalla sua genericità.
Così, i paesi ricchi lo sostengono perché privilegiano l’aspetto della sostenibilità, i paesi in via di sviluppo perché sono soddisfatti dall’aspetto che garantisce lo sviluppo. Per entrambi i gruppi, offre una copertura alle scelte che vengono concretamente compiute.

7. Vi è poi un ultimo gruppo di ragioni che giustifica il successo del diritto internazionale ambientale, sul quale voglio brevemente soffermarmi, con un carattere prevalentemente politico.
Le decisioni che attengono alla difesa e alla conservazione dell’ambiente e ancor più quelle che si pongono come obiettivo di migliorarlo, sono economicamente e politicamente costose, difficili da assumere e ancor più difficili da realizzare per la presenza di interessi settoriali contrastanti. Lo sviluppo dell’industria, del commercio, del turismo, le esigenze dell’edilizia, del traffico e dei trasporti, dell’agricoltura, costituiscono tutti interessi di rilievo pubblico che, in un modo o nell’altro, possono essere danneggiati dal perseguimento di obiettivi ambientali.
Questo significa che le decisioni di carattere ambientale sono assai difficili da assumere per i rappresentanti eletti in una prospettiva di breve periodo, i pochi anni di durata di un mandato elettorale, essendo in genere il loro obiettivo quello di conseguire una rielezione. Sono decisioni che in genere non ripagano in termini di voti e di consensi.
È per questo che uno dei padri fondatori del diritto ambientale europeo, Ludwig Kramer, suole affermare che l’aspetto che accomuna tutti gli Stati membri dell’Unione è che nessuno di essi vuole difendere il proprio ambiente.
Lo spostamento delle decisioni ambientali a livello sopranazionale, e la trasformazione dell’attività dei governanti nazionali da scelte politiche in obblighi esecutivi è, sotto questo profilo, il fortunato stratagemma che permette la tutela dell’ambiente senza compromettere le sorti elettorali.

Más allá de Kyoto

Más allá de Kyoto: El presente y el futuro de los acuerdos sobre el contenimiento del cambio climático

1.- El efecto invernadero es una amenaza “peor que Al Qaeda”, advierte un reciente reporte del Pentágono, del cual se han ocupado ampliamente todos los órganos de prensa nacionales y extranjeros en el curso del mes de febrero 2004.

Siempre en los Estados Unidos, según el ultimo reportaje de la agencia americana Noaa (National oceanic and atmospheric administration) en el mes de enero del 2004 las temperaturas del suelo han resultado mucho más por ensima de la media (hasta + 5ºC) sobre gran parte de Asia centro-septentrional, de Europa Occidental (sobre todo en España y en Francia), y de Sur América (en Argentina).

El aspecto interesante de estas noticias, y sobre todo de los tonos alarmantes utilizados por el Pentágono, es que ellas llegan de un país –los Estados Unidos- cuya Administración es notablemente más escéptica en torno a las causa del efecto invernadero y a sus consecuencias sobre el clima: como se sabe, el Gobierno Bush – siguiendo por otro lado las indicaciones expresadas a unanimidad por el Senado- se ha refutado a ratificar el Protocolo de Kyoto y, por consiguiente, de confirmar la obligación, asumida al momento de estipulación del Protocolo, de reducir las emisiones propias de gas, idóneas a influir sobre el clima antes del 2012.

Bien diverso es la posición de esta parte del Atlántico. El consejo de Ministros del ambiente de la Unión europea en la reunión de marzo a todavía confirmado, superando el obstruccionismo italiano, en considerar la entrada en vigor del Protocolo de Kyoto sobre la contención del cambio climático y la realización de los objetivos en él establecidos como una “prioridad absoluta”.

De qué cosa dependen estos dos modos radicalmente diversos de afrontar la emergencia ambiental pues por el cambio climático?

2. Dos datos pueden considerarse fuera de toda discusión. El primero es que el clima está cambiando. El segundo es que la actividad del hombre y el mundo de desarrollo iniciado con la Revolución industrial, en consecuencia esencialmente los gases emitidos seguido a la utilización de combustibles fósiles, los llamados “gases invernadero” (sobre todo anhidrido carbónico) está entre las causas más importantes del cambio.

No es, por consiguiente, un caso que el cambio climático se haya impuesto en los años Noventa como la más importante emergencia ambiental.

En efecto, es la única emergencia ambiental – entre las muchas calificadas como tales en los últimos decenios – que puede a pleno título adquirir la calificación de global. Los efectos del cambio climático no están, en efecto, limitados al territorio donde se producen las causas del cambio o a los territorios circundantes, sino que se expanden a la entera atmósfera terrestre. Esto determina tres consecuencias:

En primer lugar, cada una de las áreas de la tierra resiente el cambio climático en medida diversa, según de su posición geográfica y de otras variables geofísicas, pero independientemente de la medida en la que contribuye al cambio.

En segundo lugar, los esfuerzos que cada país pone en ejercicio para contener el cambio climático producen efectos también para todos los otros países, mientras que la ausencia de esfuerzos tiene consecuencias negativas para todos.

En fin, en la medida en que existe una directa correlación entre nivel de desarrollo industrial y económico y producción de gas invernadero che provocan el cambio climático, los países ricos –per el solo hecho de ser ricos (es decir, desarrollados)- producen efectos dañosos sobre el clima mucho mayores que los países pobres, mientras estos últimos resienten de las consecuencias de tales efectos, a pesar de que contribuyen a ello en medida reducida.

3. Las consecuencias indicadas están en la base de los problemas y de los conflictos referidos a si y como el cambio climático debe ser afrontado y contenido.

Sobre un perfil económico, se trata de valorar la entidad de los costos de las operaciones para contener el cambio climático frente a los posibles beneficios que pueden obtenerse. El conseguimiento del objetivo de reducción del cambio climatico comporta en efecto la adopción de medidas que inciden sensiblemente sobre el modo actual de desarrollo de la economía mundial, basado esencialmente sobre el consumo de energía producida mediante la utilización de combustibles fósiles: son medidas que comportan, pera los países más desarrollados, una reconversión del sistema económico y productivo, con inevitables consecuencias sobre los niveles de vida y de bienestar de la colectividad y con recaídas imprevisibles sobre los equilibrios políticos internos e internacionales.

Para muchos expertos, este imponente esfuerzo no es justificado por los beneficios que presumiblemente puedan obtenerse de la reducción del cambio climático en los futuros decenios, sea porque los resultados podrían ser reducidos, si no insignificantes, sea porque muchos de los posibles daños podrían en todo caso ser evitables o atenuados por el desarrollo de adecuadas nuevas tecnologías en los próximos decenios. Este tipo de valoraciones ha influido de manera importante sobre la decisión de la Administración Bush de no ratificar el Protocolo de Kyoto, bloqueando también su entrada en vigor.

En cambio, según los sostenedores de las intervenciones para contener el cambio climático, las intervenciones son no solo justificadas, sino indispensables al fin de evitar los efectos desastrosos para las futuras generaciones determinadas por las modificaciones al clima –ya más evidentes- producidas por el actual modelo de desarrollo.

Existe también otra dificultad, y es la distribución –teniendo en cuenta la globalidad del problema- entre los distintos países de los costos y de los sacrificios necesarios para actuar la política de contener que sea aceptable por todos los países y, en particular, por aquellos a los cuales la solución propuesta impone mayores sacrificios (o acarrea menores beneficios).

Pero, como se sabe, la equidad es un concepto de muchas facetas sobre el cual es difícil encontrar un acuerdo, a falta de una autoridad que pueda imponer la cara que considera más justa que las otras.

El aspecto distributivo de los costos se ha revelado, al final, como aquel mas denso de obstáculos y el que mayormente ha bloqueado el esfuerzo de las Naciones Unidas y de la comunidad internacional para alcanzar un acuerdo internacional y para obtener la entrada en vigor del Protocolo de Kyoto.

4. Entre muchos problemas puestos de este aspecto, dos han sido de particular relieve: el criterio a utilizar para la distribución, y las modalidades con las cuales organizar la reducción de las emisiones. Entre ambas soluciones adoptadas por el Protocolo de Kyoto han sido duramente criticadas por los Estados Unidos.

Por aquello relacionado con los criterios, mochos abrían podido ser los utilizables.

Por ejemplo, se habrían podido graduar los costos del contenimiento con referencia a los beneficios producidos por la reducción de las emisiones.

Pero este criterio abría descargado la mayor parte de los costos sobre los países en vía de desarrollo (dotados de pocos medios económicos y tecnológicos para hacer frente a las emergencias climáticas) o pequeños países insulares ( cuya misma existencia podría ser amenazada por el cambio del clima): todos países imposibilitados por un lado a hacer frente a los costos, y de otro a contener los efectos del cambio, considerando la modesta contribución que ellos ofrecen al mismo en términos de emisión de gas invernadero.

O bien, se habría podido hipotizar un enlace entre costos del contenimiento y previsible incremento del uso de los gases invernaderos en los distintos países, en el curso de los próximos decenios.

Pero también este criterio ha sido descartado en cuanto –teniendo en cuenta la rígida relación entre incremento del uso de combustibles fósiles y desarrollo económico y productivo – habrían estado penalizados duramente los países orientados en la vía del desarrollo (India, China, Brasil en primer lugar), y habría sido, consecuentemente, solidificada y garantizada la posición de supremacía económica conquistada por los países ricos.

El criterio preelegido, por razones de equidad, se ha basado, en cambio, sobre el principio del derecho internacional ambiental de la responsabilidad común pero diferenciada de los Estados que forman parte de la comunidad internacional. Es un principio que impone che todos los Estados participen en los esfuerzos colectivos, en presencia de emergencias ambientales globales, pero en modo proporcional a sus capacidades económicas y a su grado de desarrollo.

Así se ha previsto en los acuerdos internacionales –antes por el Convenio marco sobre el cambio climático (Framework Convention on Climate Change, después por el Protocolo de Kyoto – che, por el primer período de actuación del Acuerdo (del 2008 al 2012), todos los costos habrían debido ser soportados solo por los países industrializados, es decir por aquellos históricamente responsables de la cantidad de GHG ya presentes y actualmente inmersos en la atmósfera y consecuentemente del cambio climático así como hoy es proyectable. A los países industrializados han sido asimilados los países del bloque soviético, los llamados EIT (economies in transition).

Los Estados Unidos, como se ha dicho, han considerado este criterio inaceptable, sosteniendo que el principio de la responsabilidad común pero diferenciada habría implicado imponer obligaciones graduadas y reducidas de contenimiento de las emisiones también a los países en vía de desarrollo y, en particular, a aquellos países que previsiblemente contribuirán en modo consistente a agravarse el efecto invernadero en los próximos decenios: India, China y Brasil sobre todo.

En efecto, según el criterio fijado por el Protocolo, los países en vía de desarrollo son libres hasta el 2012 de utilizar sin límites los combustibles fósiles que provocan el cambio climático, pero están –como se ha dicho- también estrechamente conexos con el desarrollo económico y productivo.

Se deriva que algunos países colocados entre aquellos en vía de desarrollo podrán alcanzar y superar al final del primer período de empeños (en el 2012) a muchos países industrializados en la cantidad de emisiones, si mantuvieran el actual ritmo de desarrollo económico y consecuentemente de incremento de las emisiones de gas invernadero. Así la reducción de emisiones obtenida por los Estados obligados podría ser, a escala global, en todo o en gran parte compensada por el aumento de las emisiones de Estados no obligados a adoptar alguna política de contención de las emisiones mediante un control del sistema productivo: un escenario que haría vano la consecución de los mismos objetivos ambientales de estabilización del clima que el Convenio persigue.

La adopción de los criterios de distribución fijados por el Protocolo determinará, en consecuencia con toda probabilidad, una alteración desfavorable a los países industrializados en la actual condición del mercado internacional y de las relaciones de intercambio: los efectos de las políticas de reducción de las emisiones sobre el sistema productivo pondrían, en efecto, a los países desarrollados en condiciones de desventaja competitiva respecto a los países no obligados más lanzados en la carrera del desarrollo y, en consecuencia, más prontos a aprovecharse de las favorables condiciones del mercado internacional. Esto significa que el criterio previsto puede transformar los acuerdos sobre el cambio climático de instrumento para la tutela del ambiente en instrumento de reequilibrio del desarrollo y del mercado internacional: para los países en vía de desarrollo los acuerdos sobre el clima pueden ofrecer la ocasión histórica de recuperar, en términos de desarrollo económico, el tiempo perdido en contraposición de los países ricos, y de conquistar nuevos espacios sobre el mercado internacional.

5. El otro nudo controvertido ha sido constituido por las modalidades con las cuales proceder a la reducción de las emisiones.

El modo predeterminado ha sido aquél de imponer a los países industrializados reducir gradualmente las emisiones, en modo de alcanzar en el 2012 con emisiones del nivel alcanzado en 1990.

Esta modalidad, considerada la más imparcial entre todas aquellas hipotéticamente utilizables, comporta sin embargo dos importantes lagunas. Por un lado, es punitiva de aquellos países –en particular, Estados Unidos y Japón- que hayan tenido un consistente desarrollo económico, y por consiguiente un correlativo aumento de las emisiones de gas invernadero –en los años sucesivos a 1990-. Por otro lado, ha dado una enorme ventaja a los países en los cuales, por razones de carácter político o económico, el desarrollo se haya parado o inclusive disminuido: es el caso de todos los países pertenecientes al ex bloque soviético, los cuales, por la caída de la producción industrial y la consecuente reducción de las emisiones a niveles ampliamente inferiores a aquellos de 1990, no solo no deben cumplir esfuerzo alguno de reconversión, sino que se encuentran con consistentes cantidades de “derechos de emisión” que –en virtud de los “mecanismos de mercado” previstos por el Protocolo de Kyoto – pueden ceder a los otros países industrializados che no logren respetar los límites.

Por efecto de estas modalidades los Estados Unidos y los otros países en los cuales se ha verificado un intenso desarrollo económico en los años Noventa, se encuentran en la imposibilidad de conseguir los objetivos de reducción fijados (que requerirían una insostenible reconversión del aparto industrial y productivo), se no adquiriendo enorme cantidad de derechos de emisión de los países del exbloque socialista (cuyo surplus, por lo demás, no es el fruto de una mirada política ambiental, sino simplemente de la caída del sistema político económico en el cual estaban inmersos).

6. Si es comprensible la posición de rechazo de parte de los Estados Unidos, debe decirse que la diversa elección operada en la Unión Europea, formada para sostener el Protocolo de Kyoto, no ha sido justificada, contrariamente a cuanto sostienen algunos observadores americanos, por la certeza de poder alcanzar los objetivos de reducción fijados por el Protocolo.

El alcance de los objetivos, si es extremadamente ardua para los Estados Unidos (que habría tenido que recurrir necesariamente a la adquisición de derechos de emisión sobre el mercado, inevitablemente de los países del exbloque socialista soviético), se prospecta más ágil, pero no sin notables dificultades para la Unión europea, che en efecto todavía hoy está bien lejos de haber sentado las bases para el cumplimiento de sus propias obligaciones (si no también ella recurriendo a la adquisición de derechos de emisión).

En cambio, la posición de la Unión europea es dispensada por tres ordenes de motivos.

En primer lugar, por la opinión difundida de la opinión pública europea (de algunos Estados en modo particular) y de un sincero sostén de los valores de cooperación internacional en materia ambiental.

Después, de la consideración que las dificultades sean económicas sean de imagen que los acuerdos de reducción de las emisiones habrían creado a los Estados Unidos no podían más que comportar consecuencias favorables a las economías europeas y ofrecer la ocasión para acentuar la competitividad sobre los mercados internacionales.

En fin de la posibilidad, visto que los Estados Unidos han rechazado la ratificación del Protocolo, de obtener el resultado, en una situación mundial crecientemente dominada por una única potencia mundial, de ponerse como entidad supranacional de referencia con la comunidad internacional para una visión de las relaciones y de las obligaciones internacionales basada sobre el multilateralismo y sobre los valores de la cooperación y de la tutela de los Estados menos privilegiados.

7. A este punto, después del sustancial fracaso de la COP 9 DE Milán, las previsiones sobre un suceso de la iniciativa de las Naciones Unidas de alcanzar un eficaz acuerdo global sobre reducción de las emisiones son en verdad modestas.

El protocolo en efecto no ha aún entrado en vigor, no habiéndose obtenido todavía una de las condiciones previstas: la ratificación de parte de un número de Estados que totalice al menos el 55% de las emisiones globales de gas. El rechazo de ratificación por parte de los Estados Unidos, que por sí solo es responsable de más de 1/3 de las emisiones globales de gas que provocan el cambio climático, ha implicado que conseguir aquél objetivo es una empresa extremamente ardua.

Desde el punto de vista de la tutela del ambiente es realista considerar que el entero recorrido de los acuerdos sobre el cambio climático haya fracasado sustancialmente, o esté próximo al fracaso

Como confirmación de esta conclusión está el informe difundido por el Secretario general de la Convención, de junio del 2003, según el cual, sobre la base de las proyecciones de las emisiones de gas invernadero no habrá una reducción, sino un aumento de las emisiones entre el 2000 y el 2010 estimado nada menos que en el 17%.

A pesar de ello, existen algunos motivos para ser optimista.

Primero que todo, el mismo comunicado del Secretario general de la FCCC, si bien denunciando la gravedad de la situación y el sustancial incumplimiento de los países ricos, por actos que han sido adoptados, o están en fase de adopción, de parte de muchísimos gobiernos, también a nivel regional y local, políticas dirigidas a contener de las emisiones (particularmente es significativa, por ejemplo, la normativa adoptada por California, en abierto disentimiento con la elección del Gobierno federal). En consecuencia, la comunidad internacional si ha puesto, si bien lentamente, en movimiento.

Otro aspecto positivo es dado por los desarrollos a nivel de relaciones internacionales y del derecho internacional ambiental. El rechazo de los Estados Unidos de ratificar el protocolo de Kyoto parecía debía señalar el fin de la tentativa de afrontar con instrumentos de derechos internacional el problema del cambio climático y de poner el clima sobre control con instrumentos de cooperación y solidaridad entre los Estados.

Sorprendentemente, la decisión americana ha tenido un efecto opuesto a aquél previsto. Varios Países han decidido a ratificar el Procolo de Kyoto propiamente para dar una demostración de la propia confianza en los organismos representativos de la comunidad internacional y de la propia solidaridad de frente a una emergencia ambiental. Esto ha evidenciado un dato importante, y es que hoy tenemos un sistema internacional en plena actividad, con organismos instituidos para esos efectos, encargado de presidir la estabilización del clima. Este sistema ha sido dotado de reglas y procedimientos flexibles, periódicamente renovables y por consiguiente también adaptables a los datos científicos que continúan siendo adquiridos y elaborados. Algunos comentadores han calificado este resultado como una victoria ideal de multilateralismo europeo sobre el unilateralismo americano.

Además, y este es un tercer aspecto a tomar en consideración, por primera vez en la historia de las relaciones internacionales encuentra concreta aplicación el principio del desarrollo sostenible: viene así puesto un freno al modo de desarrollo afirmado después de la revolución industrial, fundado sobre una unilateral utilización intensiva de los recursos naturales, de las materias primas y de las fuentes de energía no renovables.

Se trata de una señal importante: como quiera que procedan los acuerdos del clima, permanecerán seguramente sus efectos sobre el comportamiento y en el modo de pensar de los Estados que componen la comunidad internacional.

Sobre este último perfil, el Protocolo de Kyoto posee un valor simbólico de gran importancia.

———————————————-

Stefano Nespor, Conferenza presso l’ordine degli Avvocati di Costa Rica, marzo 2004

Oltre Kyoto: il presente e il futuro degli accordi sul contenimento del cambiamento climatico

1.
Nel primo semestre del 2004 l’allarme in merito agli effetti del cambiamento climatico ha trovato importanti e impreviste conferme.
Nel maggio John Lovelock, lo scienziato inglese ideatore della ipotesi di Gaia, cioè della terra che si autosostiene mediante l’azione congiunta di tutti gli organismi viventi, tra i primi a lanciare l’allarme sul cambiamento climatico, ha dichiarato che il surriscaldamento atmosferico procede con rapidità assai superiore a quella ipotizzata nei peggiori scenari dei documenti ufficiali e non ci sarà sicuramente il tempo per utilizzare modi di produzione dell’energia sostitutivi dei combustibili fossili, responsabili del cambiamento climatico. Lovelock ha quindi concluso che solo una massiccia reintroduzione dell’energia nucleare – che da questo punto di vista è energia assolutamente “pulita” – può frenare l’intensificarsi dell’effetto serra (le dichiarazioni sono riportate e commentate, con le critiche degli ambientalisti, in The Independent del 24 maggio 2004).
Pochi prima, nel febbraio, è stato reso pubblico un rapporto confidenziale del Pentagono dell’ottobre precedente secondo il quale l’effetto serra potrebbe rivelarsi una minaccia “peggiore di AlQaeda”. Il rapporto avverte che nei prossimi venti anni il cambiamento climatico potrebbe provocare imponenti disastri naturali nel nord-Europa e in Gran Bretagna; prende poi in particolare considerazione i possibili effetti per gli Stati Uniti di una modificazione della corrente del Golfo provocata dallo scioglimento della calotta polare: è l’ipotesi posta a base del film di catastrofismo ecologico L’alba del giorno dopo di Emmerich (si veda Mark Townsend – Paul Harris, Now the Pentagon tells Bush: Climate change will destroy us, in “The Observer” 22 febbraio 2004)
Ancora dagli Stati Uniti: l’agenzia federale National oceanic and atmospheric administration, NOAA, preposta all’osservazione e all’indagine di tutti i fenomeni climatici, avverte che nel mese di gennaio del 2004 le temperature al suolo sono risultate molto al di sopra della media (fino a +5 °C) su gran parte dell’ Asia centro-settentrionale, dell’Europa occidentale (soprattutto in Spagna e in Francia), e del sud America (in Argentina).

2.
A fronte dell’accumularsi di dati scientifici di conferma e di approfondimento del terzo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (noto con l’acronimo IPCC) l’organismo indipendente creato dalle nazioni Unite per lo studio del cambiamento climatico) pubblicato nel 2001 (consultabile on-line: http://www.grida.no/climate/ipcc_tar/vol4/english/index.htm), due punti sono possono ritenersi ormai fuori discussione.
Il primo è che il clima sta effettivamente cambiando. Il secondo è che l’attività dell’uomo e il modo di sviluppo avviato con la Rivoluzione industriale, quindi essenzialmente i gas emessi a seguito dell’utilizzazione di combustibili fossili, i cosiddetti gas serra (soprattutto anidride carbonica) sono tra le cause più importanti del cambiamento.
Non è quindi un caso che il cambiamento climatico si sia imposto negli anni Novanta come la più emergenza ambientale.
In effetti, è l’unica emergenza ambientale – tra le molte qualificate come tali negli ultimi decenni – che può a pieno titolo acquisire la qualifica di globale. Gli effetti del cambiamento climatico non sono infatti limitati al territorio ove le cause del cambiamento si producono o ai territori circostanti, ma si espandono all’intera atmosfera terrestre. Questo determina tre conseguenze.
In primo luogo, ciascuna area della terra risente del cambiamento climatico in misura diversa a seconda della sua collocazione geografica e da altre variabili geofisiche, ma indipendentemente dalla misura in cui la popolazione ivi insediata contribuisce al cambiamento.
In secondo luogo, gli sforzi che ciascun paese pone in essere per contenere il cambiamento climatico producono effetti anche per tutti gli altri paesi, mentre l’assenza di sforzi ha conseguenze negative per tutti.
Infine, poiché vi è una diretta correlazione tra livello di sviluppo industriale ed economico e produzione di gas serra che provocano il cambiamento climatico, i paesi ricchi – per il solo fatto di essere ricchi (perché sviluppati) – producono effetti dannosi sul clima assai maggiori dei paesi poveri, mentre questi ultimi risentono delle conseguenze di tali effetti, pur contribuendovi in misura ridotta. Sono per converso pressoché scomparsi, nel 2003, i sostenitori della non attendibilità dei dati scientifici offerti dall’IPCC, e quindi i sostenitori dell’inesistenza di un cambiamento climatico, o della irrilevanza delle attività umane sul cambiamento (per una posizione tuttora di rigida contestazione dei dati dell’IPCC si veda Fred Singer, autore di Hot Talk, Cold Science: Global Warming’s Unfinished Debate, California, 1999 e, per l’Italia, E.Gerelli, No a Kyoto. Non esistono previsioni certe. È solo inutile catastrofismo, in “Il Sole 24 Ore”, 11 dicembre 2003, pag.10; quest’ultimo, tra l’altro, argomenta l’impossibilità di prevedere il cambiamento climatico sulla base della imprevedibilità delle previsioni del tempo a distanza di pochi giorni, confondendo così concetti del tutto diversi).
Del resto, già dalla prima metà del 2002 il Governo Bush ha cambiato rotta: incalzato da molti organismi scientifici federali, primi fra tutti la National Academy of Science con un Rapporto del 2001 (richiesto proprio dal Governo americano per confutare i dati dell’IPCC, e rivelatosi, alla fine, una conferma degli stessi), dalla Environmental Protection Agency (EPA) con un preoccupato Rapporto del 2002 e dalla sopra citata NOAA, ha riconosciuto che il cambiamento climatico costituisce un problema serio. L’ opposizione alla ratifica del Protocollo di Kyoto è ora giustificata non più sulla base di una infondatezza dei suoi presupposti scientifici, ma solo con riferimento ai danni che la sua applicazione provocherebbe all’economia americana. Nel contempo, il Governo Bush ha avviato varie iniziative per promuovere un volontario contenimento delle emissioni di gas da parte dell’industria americana (la più importante tra queste iniziative è il progetto Clear Skies che assume come obiettivo una riduzione del 18% delle emissioni che provocano l’effetto serra nello spazio di dieci anni).

3.
Nonostante l’intensificarsi degli annunci che confermano la gravità del problema del cambiamento climatico, a quasi sette anni dalla sua stipulazione, nel dicembre del 1997, e a meno di quattro anni dall’inizio del periodo oggetto della sua regolamentazione (2008-2012), il Protocollo di Kyoto non è ancora entrato in vigore.
Pur essendo stato ampiamente raggiunto il primo requisito richiesto, consistente nella ratifica da parte di almeno il 55% degli Stati firmatari della Convenzione quadro sul cambiamento climatico, non è stato raggiunto il secondo requisito, in base al quale gli Stati ratificanti devono complessivamente rappresentare almeno il 55% delle emissioni di gas da sottoporre a controllo alla data del 1990 (art.23 del Protocollo): ad oggi, i 122 Stati che hanno ratificato raggiungono solo il 44,2% delle emissioni globali di gas calcolate nel 1990 (si veda per una rappresentazione grafica della situazione attuale il c.d. Kiotometro, http://unfccc.int/resource/kpthermo).
Due stati – Stati Uniti e Federazione Russa, le cui emissioni erano al 1990 rispettivamente il 36,1% e il 17,4% delle emissioni globali – da soli sarebbero sufficienti a raggiungere anche il secondo requisito, e a far scattare così l’entrata in vigore del Protocollo.
Ma il Governo Bush, come si è detto, si rifiuta di ratificare il Protocollo di Kyoto.
Il Governo Putin, dal canto suo, dopo molti ondeggiamenti, ha annunciato nel settembre del 2003 di non voler ratificare, adducendo motivazioni – “il cambiamento climatico potrebbe avere benefici effetti sull’agricoltura russa e ridurre la spesa per cappotti di pelliccia” – irrise come prive di senso e puerili dai climatologi di tutto il mondo. La partita con la Russia sembra però ancora aperta: molti ritengono che il governo russo stia solo tentando di alzare il prezzo delle concessioni che può ottenere dall’Unione europea in cambio della sua firma, prime fra tutte quelle concernenti le condizioni per il suo ingresso nel WTO: si veda in proposito Russian Reform, Mixed Signals, in “The Economist”, 29 maggio 2004 pag.30)).
Ben diverso è l’atteggiamento dell’Unione europea.
Il Consiglio dei ministri dell’ambiente dell’Unione nella riunione di marzo ha ancora una volta ribadito, superando l’ostruzionismo italiano, di considerare l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto sul contenimento delle modificazioni climatiche e la realizzazione degli obiettivi in esso stabiliti una “priorità assoluta”.
Successivamente, i Ministri degli esteri e dell’Ambiente di Francia e Germania hanno assunto una iniziativa senza precedenti: nel giugno hanno diffuso un comunicato congiunto che esordisce affermando che “bisogna avere coraggio di dire ai nostri concittadini: l’accelerazione del surriscaldamento del clima è divenuto ormai un dato strutturale del pianeta. Si tratta incontestabilmente della sfida più grave che l’umanità deve affrontare, sul lungo termine, per assicurare il suo avvenire. I fatti, sostenuti da numerosi studi scientifici, sono evidenti. E così pure i fenomeni climatici estremi” . Il comunicato prosegue avvertendo che “sono coinvolte sia le responsabilità collettive degli Stati sia quelle personali dei dirigenti politici, e la concertazione internazionale si impone come una necessità assoluta” e confermando la volontà dei due Paesi di rispettare gli impegni assunti con il Protocollo di Kyoto, malgrado l’ostruzionismo di alcuni Stati (il testo integrale del comunicato, ignorato dalla stampa italiana, può essere letto su Le Monde del 25 giugno 2004).
Nonostante gli sforzi dell’Unione europea, la sorte del Protocollo sembra al momento segnata, e sembrano destinati al fallimento gli enormi sforzi organizzativi e finanziari compiuti nel corso degli ultimi quindici anni dalla comunità internazionale, a meno di colpi di scena provocati dall’esito delle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti o da un ennesimo voltafaccia della Federazione russa.
A conferma di questa conclusione sta il rapporto diffuso dal Segretariato generale della Convenzione sul Cambiamento climatico nel giugno del 2003, secondo il quale, sulla base delle proiezioni delle emissioni di gas serra, vi sarà non un riduzione al di sotto del libello raggiunto nel 1990, ma un aumento delle emissioni tra il 2000 e il 2010 stimato addirittura del 17%.
È quindi il momento di fare il punto della situazione, anche per comprendere le prospettive e le reali esigenze di una sottoposizione a controllo del cambiamento climatico in assenza degli impegni posti alla comunità internazionale dal Protocollo di Kyoto.

4.
Se i dati sull’esistenza del cambiamento climatico e sulla responsabilità delle attività umane nel provocarlo possono considerarsi certi, restano oggetto di discussione l’entità degli effetti del cambiamento e, conseguentemente se e come il cambiamento climatico deve essere affrontato e contenuto.
Per ciò che riguarda gli effetti del cambiamento climatico alla fine del secolo, le previsioni contenute nel Rapporto dell’IPCC del 2001 – oggetto di vari differenti scenari, a seconda dell’entità del surriscaldamento ipotizzata – sono state sottoposte a serrate e crescenti critiche. In particolare, è stata segnalata l’omessa valutazione del prezzo fortemente decrescente delle energie rinnovabili, quale l’energia solare e la possibile reintroduzione dell’uso di energia nucleare, che potrebbero provocare una utilizzazione di combustibili fossili assai maggiore di quella stimata dall’IPCC (sul punto, si veda il dossier di Le Monde Les énergies renouvelables dans le monde, che dedica vari articoli alle iniziative in proposito dell’Unione europea). Un altro aspetto che è stato oggetto di forti contestazioni è dato dalla sovrastima operata dall’IPCC dell’incremento delle economie dei paesi sottosviluppati, con conseguente supervalutazione della quantità di emissioni (su quest’ultimo punto si vedano Hot potato revisited e Garbage in, Garbage out, in “The Economist” del 6 novembre 2003 e del 27 maggio 2004).
Le previsioni dell’IPCC potrebbero essere quindi errate per eccesso, e portare ad un aumento assai inferiore ai 2 gradi previsto come probabile nel 2100, con un impatto assai minore sulle economie locali e globale.
Sotto un profilo economico, si tratta di valutare l’entità dei costi delle operazioni di contenimento del cambiamento climatico a fronte dei possibili benefici che possono trarsi.
Il raggiungimento dell’obiettivo di riduzione del cambiamento climatico comporta infatti l’adozione di misure che incidono sensibilmente sull’attuale modo di sviluppo dell’economia mondiale, basato essenzialmente sul consumo di energia prodotta mediante l’utilizzazione di combustibili fossili: sono misure che comportano, per i paesi maggiormente sviluppati, una riconversione del sistema economico e produttivo, con inevitabili conseguenze sui livelli di vita e di benessere delle collettività e con imprevedibili ricadute sugli equilibri politici interni e internazionali.
Per molti esperti, questo imponente sforzo non è giustificato dai benefici che presumibilmente potranno trarsi dalla riduzione del cambiamento climatico ottenuta, sia perché i risultati potrebbero essere ridotti, se non insignificanti, sia perché molti dei possibili danni potranno comunque essere evitati o attenuati dallo sviluppo di adeguate nuove tecnologie nei prossimi decenni.
Bjorn Lomborg aggiunge, nel suo ormai famoso The Skeptical Environmentalist, una considerazione di “benefici comparativi” che induce a riflettere: secondo Lomborg, che si basa su dati UNICEF, il finanziamento necessario per l’attuazione del Protocollo di Kyoto per un solo anno potrebbe eliminare il problema dell’utilizzazione di acqua non potabile nel Terzo mondo, responsabile della morte di 2 milioni di persone all’anno (pag.80; i dati UNICEF sono riportati a pag.322).
Invece, secondo i sostenitori degli interventi di contenimento del cambiamento climatico (e tra questi, come abbiamo visto, stanno la maggior parte dei Governi dei paesi dell’Unione europea) gli interventi sono non solo giustificati, ma indispensabili al fine di evitare gli effetti disastrosi per le future generazioni determinati dalle modifiche al clima – già ora evidenti – prodotte dall’attuale modello di sviluppo.
C’è poi un’altra difficoltà che è diretta conseguenza della globalità del problema, e cioè la distribuzione tra i vari paesi dei costi e dei sacrifici necessari per attuare la politica di contenimento che sia accettabile da tutti i paesi e, in particolare, da quelli ai quali la soluzione proposta impone maggiori sacrifici (o arreca minori benefici).
L’aspetto distributivo dei costi si è alla fine rivelato quello più denso di ostacoli e quello che maggiormente hanno bloccato lo sforzo delle Nazioni Unite e della comunità internazionale per raggiungere un accordo internazionale e per ottenere l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto e quindi in uno scenario di una nuova “disciplina post-Kyoto”, è quello che ha più probabilità di essere ripensato.

5.
Tra i molti problemi posti da questo aspetto, due sono stati di particolari rilievo: i criteri da utilizzare per la distribuzione e le modalità con le quali organizzare la riduzione delle emissioni.
Per ciò che riguarda i criteri, molti avrebbero potuto essere teoricamente quelli utilizzabili.
Per esempio, si sarebbero potuti graduare i costi del contenimento con riferimento ai benefici prodotti dalla riduzione delle emissioni.
Ma questo criterio avrebbe scaricato la maggior parte dei costi su paesi in via di sviluppo (dotati di pochi mezzi economici e tecnologici per far fronte alle emergenze climatiche) o piccoli paesi insulari (la cui stessa esistenza potrebbe essere minacciata dal cambiamento del clima): paesi tutti impossibilitati da un lato a far fronte ai costi, dall’altro a contenere gli effetti del cambiamento, atteso il modesto contributo che essi offrono allo stesso in termini di emissioni di gas serra.
Oppure, si sarebbe potuto ipotizzare un raccordo tra costi del contenimento e prevedibile incremento dell’uso dei gas serra nei vari paesi, nel corso dei prossimi decenni.
Ma anche questo criterio è stato scartato in quanto – tenuto conto del rigido rapporto tra incremento dell’uso di combustibili fossili e sviluppo economico e produttivo – sarebbero stati pesantemente penalizzati i paesi avviati sulla via dello sviluppo (India, Cina, Brasile in primo luogo), e sarebbe stata conseguentemente solidificata e garantita la posizione di supremazia economica conquistata dai paesi ricchi.
Il criterio prescelto è stato invece basato sul principio del diritto internazionale ambientale della responsabilità comune ma differenziata degli Stati che fanno parte della comunità internazionale. È un principio che impone che tutti gli Stati partecipino agli sforzi collettivi, in presenza di emergenze ambientali globali, ma in modo proporzionale alle loro capacità economiche e al loro grado di sviluppo.
Si è così previsto dagli accordi internazionali – prima dalla Convenzione quadro sul cambiamento climatico (Framework Convention on Climate Change, poi dal Protocollo di Kyoto – che, per il primo periodo di attuazione dell’Accordo (dal 2008 al 2012), tutti i costi avrebbero dovuto essere sopportati solo dai paesi industrializzati, cioè da quelli storicamente responsabili della quantità di emissioni già presenti e attualmente immessi nell’atmosfera e quindi del cambiamento climatico così come oggi è prospettabile. Ai paesi industrializzati sono stati assimilati i paesi dell’ex blocco sovietico, i c.d. EIT (economies in transition).
Secondo il criterio fissato dal Protocollo i paesi in via di sviluppo sono quindi liberi fino al 2012 di utilizzare senza limiti i combustibili fossili che provocano il cambiamento climatico, ma sono – come detto – anche strettamente connessi con lo sviluppo economico e produttivo.
Ne segue che alcuni paesi collocati tra quelli in via di sviluppo potranno raggiungere e superare alla fine del primo periodo di impegno (nel 2012) molti paesi industrializzati nella quantità di emissioni, se manterranno l’attuale ritmo di sviluppo economico e conseguentemente di incremento delle emissioni di gas serra.
Così la riduzione di emissioni ottenuta dagli Stati obbligati potrebbe essere, su scala globale, in tutto o in gran parte annullata dall’aumento delle emissioni di Stati non tenuti ad adottare alcuna politica di contenimento delle emissioni mediante un controllo del sistema produttivo: uno scenario che vanificherebbe il raggiungimento degli stessi obiettivi ambientali di stabilizzazione del clima che la Convenzione persegue.
L’adozione dei criteri di distribuzione fissati dal Protocollo determina quindi una alterazione a sfavore dei paesi industrializzati della attuale condizione del mercato internazionale e dei rapporti di scambio: gli effetti delle politiche di riduzione delle emissioni sul sistema produttivo porranno infatti i paesi sviluppati in condizioni di svantaggio competitivo rispetto ai paesi non obbligati più lanciati nella corsa allo sviluppo e quindi più pronti ad approfittare delle favorevoli condizioni del mercato internazionale.
Questo, in altri termini, significa che il criterio previsto può trasformare gli accordi di Kyoto da strumento per la tutela dell’ambiente in strumento di riequilibrio dello sviluppo e del mercato internazionale: per i paesi in via di sviluppo si tratta di una occasione storica di recuperare, in termini di sviluppo economico, il tempo perduto a confronto dei paesi ricchi, e di conquistare nuovi spazi sul mercato internazionale. Per i paesi economicamente sviluppati si tratta invece di accettare queste conseguenze, in nome della protezione dell’ambiente globale.

6.
L’altro nodo controverso è stato costituito dalle modalità con le quali procedere alla riduzione delle emissioni.
Il modo prescelto è stato quello di imporre ai paesi industrializzati di ridurre gradualmente le emissioni, in modo da giungere alla data del 2012 con emissioni uguali o inferiori di una determinata percentuale al livello raggiunto nel 1990.
Questa modalità, considerata la più imparziale tra tutte quelle ipoteticamente utilizzabili, presenta però due difetti.
Da un lato, è pesantemente punitiva di quei paesi – in particolare, Stati Uniti e Giappone – che abbiano avuto un consistente sviluppo economico, e quindi un corrispondente aumento delle emissioni di gas serra – negli anni successivi al 1990.
D’altro lato, attribuisce un enorme vantaggio ai paesi nei quali, per ragioni di carattere politico o economico, lo sviluppo si sia fermato o addirittura sia diminuito: è il caso di tutti i paesi appartenenti all’ex blocco sovietico, i quali, per il crollo della produzione industriale e il conseguente ridursi delle emissioni a livelli ampiamente inferiori a quelli del 1990, non solo non debbono compiere alcuno sforzo di riconversione, ma si ritrovano con consistenti quantità di “diritti di emissioni” che – in virtù dei “meccanismi di mercato” previsti dal Protocollo di Kyoto – possono cedere agli altri paesi industrializzati che non riescano a rispettare i limiti.
Per effetto di queste modalità gli Stati Uniti e gli altri paesi in cui si è verificato un intenso sviluppo economico negli anni Novanta si trovano nell’impossibilità di conseguire gli obiettivi di riduzione fissati (che richiederebbe – su questo punto il Governo Bush ha ragione – una costosissima riconversione dell’apparato industriale e produttivo), se non acquistando enormi quantità di diritti di emissione dai paesi dell’ex blocco socialista (il cui surplus, peraltro, non è il frutto di una oculata politica ambientale, ma semplicemente della crollo del sistema politico economico in cui erano inseriti.

7.
L’atteggiamento di rifiuto da parte degli Stati Uniti, in un a ottica egoista dei rapporti internazionali, è comprensibile. Invece la diversa scelta operata dall’Unione Europea, schierata a sostegno del Protocollo di Kyoto non è stata giustificata, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni osservatori americani, dalla certezza di poter raggiungere gli obiettivi di riduzione fissati dal Protocollo .
Il raggiungimento degli obiettivi fissati dal Protocollo non è infatti certamente per l’Unione europea, a tutt’oggi ben lontana dall’aver posto le basi per l’adempimento dei propri obblighi (se non anch’essa ricorrendo all’acquisto di diritti di emissione).
La posizione dell’Unione europea è dipesa da tre ordini di motivi.
In primo luogo, dall’opinione pubblica europea (di alcuni Stati in modo particolare) e da un sincero sostegno dei valori della cooperazione internazionale nella materia ambientale. Ma questo non è stato certo il fatto determinante.
Più importante è stata invece la considerazione che le difficoltà economiche che l’applicazione del Protocollo avrebbero creato agli Stati Uniti non potevano che portare conseguenze favorevoli alle economie europee ed offrire l’occasione per accentuarne la presenza e la competitività sui mercati internazionali.
Ancor più importante è stata una considerazione strategica di immagine, e quindi di ottenere il risultato, in una situazione mondiale crescentemente dominata da un’unica potenza mondiale, di porsi come entità sopranazionale di riferimento con la comunità internazionale per una visione dei rapporti e degli obblighi internazionali basata sul multilateralismo e sui valori della cooperazione e della tutela degli Stati meno privilegiati.

8.
Nonostante il probabile fallimento del Protocollo di Kyoto, ci sono motivi per essere cautamente ottimisti.
Prima di tutto, lo stesso comunicato del Segretariato generale della Convenzione del giugno del 2003, cui abbiamo fatto sopra cenno, pur denunciando la gravità della situazione e la sostanziale inadempienza dei paesi ricchi, dà atto che sono state adottate, o sono in fase di adozione, da parte di moltissimi governi, ma anche a livello regionale e locale, politiche rivolte al contenimento delle emissioni.
Assai significative sono, sotto questo profilo, le iniziative legislative adottate autonomamente da vari Stati degli Stati Uniti – in primo luogo dalla California e dal Massachussetts – e da varie comunità a livello locale (il più importante tra questi è il Chicago Climate Exchange, che introduce una sorta di mercato locale delle emissioni, a somiglianza di quanto previsto a livello internazionale dal Protocollo di Kyoto).
Un altro aspetto positivo è dato dagli sviluppi a livello di relazioni internazionali e del diritto internazionale ambientale. Il rifiuto degli Stati Uniti di ratificare il protocollo di Kyoto sembrava dovesse segnare la fine del tentativo di affrontare con gli strumenti del diritto internazionale il problema del cambiamento climatico e di porre il clima sotto controllo con strumenti di cooperazione e di solidarietà tra gli Stati.
Sorprendentemente, la decisione americana ha avuto un effetto opposto a quello previsto. Vari Paesi si sono decisi a ratificare il Protocollo di Kyoto proprio per dare una dimostrazione della propria fiducia negli organismi rappresentativi della comunità internazionale e della propria solidarietà nei confronti di una emergenza ambientale. Questo ha evidenziato un dato importante e cioè che oggi vi è un sistema internazionale in piena attività, con organismi appositamente istituiti, incaricato di presiedere alla stabilizzazione del clima. Questo sistema è stato dotato di regole e procedure flessibili, periodicamente rinnovabili e quindi anche adeguabili ai dati scientifici che continuano ad essere acquisiti e elaborati. Alcuni commentatori hanno qualificato questo risultato come una vittoria dell’ideale di multilateralismo europeo sull’unilateralismo americano.
Inoltre, molte multinazionali ed imprese la cui produzione comporta l’emissione di gas che provocano il cambiamento climatico stanno adottando autonomamente misure per contenere le emissioni, rispondendo così alle pressioni degli azionisti, delle compagnie di assicurazione e, più in generale, dell’opinione pubblica.
In definitiva, il cambiamento climatico, in quanto emergenza globale, sta trovando delle risposte diverse da quelle inizialmente immaginate dalle Nazioni Unite, frammentarie e scoordinate, ma su scala altrettanto globale: si sta facendo lentamente strada una applicazione diffusa del principio dello sviluppo sostenibile, alla ricerca di alternative al modo di sviluppo affermatosi dopo la rivoluzione industriale, fondato su una utilizzazione intensiva delle fonti di energia non rinnovabile. Si tratta di un segnale importante: quale che sia la sorte degli accordi di Kyoto, ne resteranno sicuramente gli effetti nell’atteggiamento e nel modo di pensare degli Stati che compongono la comunità internazionale.

Stefano Nespor, “Il Mulino”, 4/2004, p.795

L’accesso alla giustizia nelle controversie giudiziarie in materia ambientale: considerazioni su due recenti volumi

ABSTRACT

L’articolo esamina i caratteri e i limiti dell’accesso alla giustizia delle associazioni e organizzazioni ambientaliste nell’ambito dell’Unione europea, utilizzando e ponendo a confronto i dati e i risultati che emergono da due volumi di recente pubblicazione: una ricerca condotta su numerosi paesi dell’Unione europea, e uno studio sulle controversie ambientali in India, Pakistan e Bangladesh.

This paper examines the content and the limits of the access to justice in environmental matters of the environmental organizations in the European Union. The exam is based on the comparative analysis of the results of two recent publications, the first concerning the access to justice of the environmental organizations in several countries within the European Union, the other the development of the environmental litigation in India, Pakistan and Bangladesh.

1.

Nel diritto ambientale internazionale con il termine PIEL (public interest environmental litigation) sono indicati i giudizi in materia ambientale promossi da persone fisiche o giuridiche (gruppi di cittadini, associazioni, organizzazioni ambientaliste, NGO) al fine di perseguire interessi generali, interessi diffusi o interessi di particolari categorie di soggetti che non sono in grado di agire in giudizio.
Uno dei temi più ricorrenti e più dibattuti ovunque questi giudizi siano ammessi è costituito dall’ampiezza e dai limiti dell’accesso alla giustizia di queste organizzazioni (quindi, i temi di legittimazione o di standing).
Una recente ricerca sull’accesso alla giustizia di organizzazioni ambientalistiche e di associazioni con finalità di carattere ambientale finanziata dall’Unione europea ha messo in evidenza caratteristiche e tendenze comuni, sia pur all’interno di differenze tra i paesi sottoposti ad esame , dipendenti dalle diverse culture e tradizioni giuridiche per ciò che riguarda gli aspetti processuali dell’ammissibilità delle azioni, dell’interesse e della legittimazione ad agire, ma anche per ciò che riguarda la stessa definizione di materia ambientale .
In particolare, dai vari studi settoriali è emerso che a partire dagli anni Ottanta in tutti gli Stati oggetto della ricerca sono state emanate norme volte ad agevolare con apposite regole l’accesso alla giustizia delle organizzazioni ambientaliste e si sono sviluppati – sia pure con rilevanti differenze tra stato e stato – orientamenti giurisprudenziali più favorevoli che non in passato all’ammissibilità di questi giudizi. La conseguenza è stata una crescita costante della quantità dei giudizi promossi da queste organizzazioni, secondo una linea di tendenza che non si è ancora esaurita.
Tuttavia – e contrariamente alle aspettative – questi giudizi sono tuttora, in tutti i paesi esaminati, in numero assai ridotto, e costituiscono anche una piccola percentuale delle complessive cause in materia ambientale. L’aspetto più interessante della ricerca è stato quindi che è risultata priva di fondamento la diffusa opinione secondo cui una agevolazione dell’accesso alla giustizia delle organizzazioni ambientaliste avrebbe prodotto una inflazione di giudizi in materia ambientale: il quantitativo di giudizi proposti non sembra infatti dipendere direttamente dalla normativa e dalla giurisprudenza in materia di accesso alla giustizia. Per esempio, assai ridotti di numero sono i giudizi proposti in Portogallo, ove attualmente vige una normativa estremamente tollerante in materia di ammissibilità delle azioni proposte dalle associazioni ambientaliste; anche nel Regno Unito (la ricerca non si è però estesa alla Scozia) ove si richiede soltanto la prova di un «sufficient interest» per proporre l’azione , i giudizi proposti sono in numero inferiore di quelli proposti in altri paesi (tra cui l’Italia), ove vigono criteri per l’accesso alla giustizia più restrittivi.
L’incremento dell’accesso alla giustizia delle associazioni ambientaliste sembra essere stata più seriamente influenzata – secondo il rapporto – da altri fattori di carattere concreto quali la capacità organizzativa e finanziaria e la credibilità delle associazioni ambientaliste, la durata e il costo dei giudizi, l’atteggiamento e la sensibilità dell’opinione pubblica (soprattutto a livello locale) verso i temi ambientali.
Infine, è risultato che in tutti i paesi esaminati le azioni promosse dalle organizzazioni ambientaliste hanno avuto un ruolo positivo.
Infatti, in una situazione di sostanziale disinteresse della maggior parte dei governi dei paesi dell’Unione europea per la protezione dell’ambiente – ancora recentemente l’Agenzia europea per l’ambiente ha confessato l’insuccesso degli sforzi compiuti dall’Unione per raggiungere l’obiettivo di una conservazione e una valorizzazione dell’ambiente europeo – queste organizzazioni hanno attivamente operato, promuovendo azioni giudiziarie e, prima ancora, per il solo fatto di poterle promuovere, nell’ottenere l’applicazione della normativa ambientale, soprattutto comunitaria.
Inoltre, svolgendo un ruolo di supplenza e di sostituzione degli organismi che istituzionalmente avrebbero dovuto occuparsene, hanno offerto anche due tipi di benefici economici): da un lato, assumendo a proprio carico costi di vigilanza, di controllo e di intervento di spettanza di organismi pubblici; d’altro lato, evitando danni all’ambiente spesso di rilevante impatto economico.
Infine, dal Rapporto è emerso che l’allargamento dell’accesso alla giustizia delle organizzazioni ambientaliste, verificatosi nel corso degli ultimi due decenni, ha contribuito ad accrescere e a potenziare la sensibilizzazione dell’opinione pubblica ai temi della tutela dell’ambiente e del territorio e al delicato rapporto tra tutela e esigenze di sviluppo oltre a promuovere meccanismi di partecipazione e di informazione con la Pubblica amministrazione .

2.

E’ proprio il dato sostanziale dell’importanza di questi aspetti positivi che è lentamente prevalso sulle innumerevoli questioni di carattere processuale nelle faticose e spesso tortuose storie dell’accesso alla giustizia delle organizzazioni ambientaliste della maggior parte dei paesi dell’Unione europea e del suo graduale allargamento.
Infatti, nonostante l’incompatibilità di fondo tra organismi (autoproclamatisi) rappresentativi di interessi generali e concezione della tutela giudiziaria basata su un diretto rapporto tra soggetto ammesso ad agire e interessi lesi, nonostante le indubbie difficoltà di calare le azioni proposte da questi soggetti nell’ambito di strutture processuali costruite senza prevederne l’esistenza (ed anzi, in modo da escludere rigidamente soggetti non previsti dall’accesso), e nonostante gli interrogativi che queste organizzazioni spesso pongono sul rispetto dei principi di democrazia all’interno della loro organizzazione, la tendenza legislativa e giurisprudenziale è stata ovunque – anche se tra mille esitazioni e ripensamenti – quella di riconoscere i benefici e l’efficacia dell’accesso alla giustizia delle associazioni ambientaliste come legittime rappresentanti dell’interesse in materia ambientale delle collettività interessate e di agevolarne, sia pure entro limiti predeterminati, l’accesso.

3.

L’affermazione di questa tendenza di fondo manifestatasi nei paesi dell’Unione europea (e, più in generale, nel mondo occidentale) si iscrive in un contesto assai più ampio di affermazione del valore fondamentale della tutela dell’ambiente, non solo nei suoi aspetti conservativi, naturalistici o patrimoniali, ma anche come fondamentale diritto dei singoli e delle collettività direttamente interessate.
In effetti, una valutazione globale del fenomeno permette di concludere che laddove si raggiungono le condizioni materiali, economiche e politiche che permettono il sorgere e il manifestarsi nelle collettività di un bisogno di tutela ambientale, lì cominciano ad essere presenti e a trovare sostegno e ascolto gruppi, associazioni e organizzazioni che rappresentano questi bisogni nei confronti dello Stato, delle istituzioni pubbliche e di enti privati; e a questo punto inevitabilmente e gradualmente si affermano soluzioni processuali che ammettono le PIEL, allargando i preesistenti criteri di legittimazione ad agire.
Proprio questa dimensione globale rende evidente che l’allargamento dell’accesso alla giustizia delle organizzazioni ambientaliste non costituisce – come molti ritengono, in modo troppo provincialmente eurocentrico – il punto di arrivo di una elaborazione normativa e giurisprudenziale propria dei paesi già sviluppati.
Al contrario vi sono molti paesi tradizionalmente collocati nella categoria dei paesi in via di sviluppo ove l’importanza dell’accesso alla giustizia delle organizzazioni ambientaliste è stata compresa con largo anticipo, nelle sue potenzialità di sostegno e di supplenza dell’azione pubblica, di freno a scelte di sviluppo distruttive dell’ambiente, e di garanzia del diritto all’ambiente sano e alla salute dei cittadini.

4.

Il caso più noto, e più attentamente studiato sotto questo aspetto, è quello dei paesi dell’Asia del Sud-est e, specificatamente, di India, Pakistan e Bangladesh. Questi tre paesi, e non gli Stati Uniti e l’Europa, secondo vari esperti, sono oggi all’avanguardia in materia di accesso alla giustizia .
Questa opinione trova conferma in un recente volume di un giurista inglese, Jona Razzaque, che offre una documentatissima, coinvolgente e approfondita analisi dello sviluppo e dell’affermarsi dell’accesso alla giustizia in questi tre paesi .
Razzaque evidenzia che all’origine di questo fenomeno nei tre paesi (prima fra tutti, in ordine di tempo e di intensità, l’India) stanno tre cause. In primo luogo, il rapido e devastante degrado ambientale verificatosi con l’avvio del processo di sviluppo industriale e le connesse forme di inquinamento, con l’espandersi dell’uso di sostanze chimiche per l’agricoltura, con l’intensa deforestazione e con la perdita di biodiversità (che per il Bangladesh supera il livello record del 90%). In secondo luogo, l’inefficienza e la mancanza di fondi e di personale delle Amministrazioni pubbliche centrali e locali, che determina enormi carenze nell’applicazione della legislazione ambientale esistente. In terzo luogo, le condizioni di povertà e di carenza di assistenza primaria in cui si trova gran parte della popolazione.
Ma queste cause, certamente importanti, non sono di per sé sufficienti a spiegare la straordinaria estensione che ha ricevuto in questi paesi l’accesso alla giustizia delle organizzazioni ambientaliste. Situazioni ambientali economiche e di organizzazione amministrativa analoghe in altri paesi asiatici (primo fra tutti la Cina) ed anche in taluni paesi dell’ex blocco sovietico sono rimaste senza apprezzabili conseguenze per ciò che riguarda l’accesso alla giustizia in materia ambientale.
Invece, l’elemento aggiuntivo che può spiegare la risposta offerta dal sistema giudiziario a quelle cause – posto in risalto da molti autori – è costituito dall’autonomia e dall’indipendenza del potere giudiziario nei tre paesi in considerazione (in India molti parlano di un governo del potere giudiziario ) e dall’importanza che lì riveste l’elaborazione giurisprudenziale sia per la comune derivazione dal sistema di common law inglese sia per l’ancora forte influenza esercitata dalla cultura giuridica precedente alla dominazione britannica.
La Corte Suprema indiana – coadiuvata e sostenuta da altre Corti degli Stati federati – ha infatti promosso, con la propria giurisprudenza e proprio consentendo ampio accesso alle istanze di associazioni e organizzazioni portatrici di interessi collettivi, numerose riforme da parte del potere legislative nel settore della protezione dei diritti umani.
L’opera della Corte si è inserita in una accresciuta sensibilizzazione verso i temi ambientali dell’opinione pubblica indiana e e degli organi legislativi nazionali e federali a seguito del disastro di Bhopal nel 1984, quando, in un incidente simile a quello verificatosi a Seveso poco più di dieci anni prima e consistente in una accidentale fuga di gas tossico da un impianto della multinazionale statunitense Union Carbide), oltre 2500 persone morirono e molte diecine di migliaia furono lese. È infatti del 1986 la legge quadro federale denominata Environment Act, con la quale venne anche istituito il Ministero dell’ambiente e delle foreste, seguita nel 1992 da altri interventi legislativi (il National Conservation Strategy and Policy Statement on Environment and Development e il Policy Statement for Abatement of Pollution) che hanno rafforzato gli strumenti per garantire l’applicazione delle normative ambientali e l’educazione in questa materia a livello scolastico.
In questo periodo, sotto la Presidenza Bhagwati J., si forma la giurisprudenza della Suprema corte che ritiene necessario che l’attore (persona fisica o giuridica) dimostri non più di aver anche indirettamente subito un danno (il c.d. test della «aggrieved person»), ma semplicemente un «sufficient interest» ad ottenere la decisione richiesta .
Il culmine di questo attivismo nel settore della protezione della salute e dell’ambiente è stato raggiunto probabilmente nel 1998 allorché la Corte suprema, su richiesta di alcune associazioni costituite allo scopo di tutelare la salute dei cittadini di New Delhi, ha emesso un’ordinanza con la quale imponeva all’Amministrazione della città la conversione del sistema di trasporti urbani da diesel a gas naturale .
Il libro di Razzaque evidenzia che la giurisprudenza della Corte Suprema federale indiana in materia di interesse ad agire in materia ambientale è attualmente seguita dalla maggior parte delle Corti supreme degli Stati che compongono la federazione indiana, ed ha esercitato un importante influsso nella giurisprudenza delle Corti Supreme degli Stati confinanti del Pakistan e del Bangladesh: entrambe applicano correntemente dall’inizio degli anni Novanta, al fine di verificare l’interesse ad agire, il criterio tradizionale della dimostrazione di aver subito un danno, ma con modalità così temperate da poter essere ricondotto al criterio del «sufficient interest» .

S. NESPOR, L’accesso alla giustizia nelle controversie giudiziarie in materia ambientale: considerazioni su due recenti volumi, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, Milano, Giuffrè, 2004, n. 6, pp. 861-867.