I contratti ambientali: una rassegna critica

Sommario:

1. Le critiche verso gli strumenti command and control

2. e le proposte di uso di strumenti privatistici sostitutivi

3. I programmi con adesione volontaria

4. La responsabilità civile come strumento di tutela
dell’ambiente

5. Gli strumenti economici (market-based regulations)

6. La c.d. regolamentazione o legislazione negoziata

7. I contratti ambientali

8. I requisiti del contratto ambientale

9. Dove si utilizzano i contratti ambientali?

10. Le origini: la Francia e la Germania

11. L’Italia

12. La vera patria dei contratti ambientali: l’Olanda
e il Belgio fiammingo

13. L’Unione europea

14. Gli Stati Uniti

15. Un bilancio

16. E’ sostituibile il command and control
in materia ambientale?

17. I pericoli della deregulation

Abstract

On both sides of the Atlantic command and control rules are deemed
inefficient and too rigid to encourage the potential of market forces.
However, legal experts on environmental matters are doubtful of the feasibility
of substituting the dominant system with voluntary agreements and, in
particular, with environmental contracts between private pèarties
and the Public Administration. The article, after a critical overview
of the principal tools used (or planned for use) included in the general
category of the voluntary agreements, selects and comments the specific
experience of environmental contracts in the United States and in the
European Union.

1. A partire dalla fine degli anni ottanta, gli strumenti
autoritativi utilizzati al fine di ottenere dagli operatori privati il
rispetto di prescrizioni o standard posti a tutela dell’ambente
– i c.d. strumenti command and control – sono stati oggetto
di serrate critiche, in Europa e negli Stati uniti.

In sostanza, gli strumenti autoritativi affidati al potere legislativo
o alla pubblica Amministrazione sono stati ritenuti strumenti inefficaci,
inidonei al raggiungimento degli obiettivi che si vogliono perseguire,
costosi e inefficienti in sede di applicazione, e, secondo molti autori,
anche non democratici. (1)

Accanto alle critiche più propriamente giuridiche e di politica
del diritto, sono state evidenziate da economisti, esperti di public choice
theory e scienziati politici, soprattutto nella letteratura americana,
i difetti e i pericoli dell’affidamento della gestione dell’attività
privata alla politica, ai partiti, alla burocrazia, di cui, in vario modo,
gli strumenti autoritativi sarebbero l’espressione.

Si è così diffusa l’opinione che, nonostante il variegato
spiegamento dell’armamentario della metodologia del command and
control – autorizzazioni, permessi, divieti, sanzioni previsti con
disposizioni normative o regolamentari poste dall’Amministrazione
pubblica – poco sia stato ottenuto per la tutela dell’ambiente
e per contenere le varie forme di inquinamento, a fronte degli enormi
investimenti effettuati in termini di risorse, organizzazione, mezzi.
(2)

Le critiche verso l’uso di strumenti command and control nella gestione
dell’ambiente hanno trovato nel corso degli anni novanta rinforzo
e ulteriori motivi di fondamento nell’affermarsi delle ideologie
di privatizzazione e di deregulation, e si sono così focalizzate
intorno ad una richiesta di sostanziale riduzione della disciplina degli
effetti dell’attività economica sull’ambiente (quando
non di radicale ritirata dello Stato e della Pubblica amministrazione).

2. Sono stati così proposti, e sono stati variamente
sperimentati e messi in pratica, sistemi di tutela dell’ambiente
tra loro assai diversi, ma collegati dal comune tentativo di sostituire
agli usuali strumenti autoritativi “meccanismi privatistici”
o “forme volontarie”: le espressioni utilizzate nella letteratura
giuridica sul punto sono assai varie, spesso ambigue e ondeggianti tra
concetti assai diversi tra loro quali partecipazione, collaborazione,
accettazione preventiva, coinvolgimento e consenso.

In sostanza, l’obiettivo è quello di superare l’antitesi
pubblico/privato su cui si basa il sistema command and control con strumenti
di mercato, volontaristici, cooperativi e negoziali di tutela.

I vari sistemi possono essere in via di approssimazione ricondotti per
comodità espositiva e per esigenze sistematiche all’interno
di alcune generali categorie.

3. Una prima categoria comprende tutti i programmi a
base volontaristica (anche se per lo più incoraggiati o sussidiati
dall’Amministrazione), cui le imprese sono libere di aderire o meno.
Trattandosi di scelte puramente unilaterali, non vi è obbligo di
adesione, né vi è sanzione per chi, avendo aderito, non
rispetta gli impegni o non raggiunge gli obiettivi prefissati. Naturalmente
gli obiettivi individuati da questi programmi non devono essere previsti
come obbligatori da norme di legge o regolamentari, né devono essere
attuati dal privato, come spesso accade, per evitare conseguenze risarcitorie
in virtù dell’applicazione dei principi o delle norme vigenti
in materia di responsabilità civile: in tutti questi casi, viene
a mancare la “base volontaristica” e prevale il rispetto di
disposizioni vigenti per effetto di forme di coercizione indiretta, sia
pure a mezzo di azioni formalmente volontarie.

Fatte queste precisazioni, gli esempi di azioni che rientrano in questa
prima categoria sono numerosi. A livello internazionale devono ricordarsi
almeno due iniziative.

Nel 1989, poco dopo il disastro ambientale provocato dal naufragio della
petroliera Valdez sulle coste dell’Alaska, fu istituito, ad iniziativa
dell’Associazione delle imprese petrolifere americane e dell’American
Petroleum Institute, il CERES, Coalition for Environmentally Responsible
Economies Principles, al fine di rendere maggiormente responsabili al
rispetto dell’ambiente le imprese del settore.
(3)

Di ben maggiore impatto è l’istituzione di Global Compact,
promossa dalle Nazioni unite (più specificatamente, direttamente
dal Segretario generale) nel luglio 2000. Si tratta anche in questo caso
di una associazione volontaria alla quale prendono parte attualmente centinaia
di imprese multinazionali di vari paesi impegnate a rispettare nove principi
fondamentali nello svolgimento delle rispettive attività, al fine
di promuovere i diritti umani e elevati standard di rispetto ambientale.

Più specificatamente, per ciò che riguarda il tema ambientale,
Global Compact richiede alle imprese aderenti il rispetto di tre principi:

a) applicare il principio di precauzione negli interventi di rilievo ambientale;

b) sostenere iniziative che promuovano elevati livelli di responsabilità
ambientale;

c) incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie ambientalmente
corrette (4).

In Europa il programma volontario più noto è stato realizzato
in Olanda, ed è il Dutch Hydrocarbon 2000 Agreement: le imprese
partecipanti si sono impegnate a consistenti riduzioni delle emissioni
di talune sostanze, con obiettivi scaglionati entro il 2000. (5)

Negli Stati Uniti, i più importanti programmi volontari sono stati
promossi e gestiti dall’Environmental Protection Agency (EPA) alla
fine degli anni Ottanta.

Tra questi, si può ricordare il 33/50 Program, simile al programma
olandese: le imprese aderenti avrebbero dovuto ridurre le emissioni di
17 sostanze chimiche inquinanti del 33% entro il 1992 e del 50% entro
il 1995. Il programma ha ottenuto buoni risultati, ma con una scarsa partecipazione:
solo 1330 imprese hanno effettivamente aderito su 8000 invitate dall’EPA.
Altri due programmi volontari organizzati negli Stati uniti che hanno
ottenuto notorietà sono Green Lights e Energy Star, con obiettivi
di riduzione dei consumi energetici.

Soprattutto negli ultimi anni, si sono intensificate le iniziative di
carattere volontario nel quadro dei programmi di controllo delle emissioni
e del cambiamento climatico.

Possono farsi rientrare in questa prima categoria anche le svariate iniziative
pubbliche che richiedono forme di autoregolamentazione da parte delle
imprese, accompagnate dall’obbligo di rendere pubbliche informazioni
sugli effetti ambientali della propria attività e sui rischi generati
sui processi di produzione utilizzati o dai prodotti immessi sul mercato
(in modo da permettere un controllo diffuso da parte dell’opinione
pubblica e degli utenti ed elevare l’effetto deterrente delle azioni
giudiziarie di responsabilità). (6)

Particolarmente significativa di questo gruppo è l’esperienza
australiana, e, in particolare, il Sustainable Energy Plan adottato nello
Stato del New South Wales a livello regionale o locale per coinvolgere
le imprese e i privati nell’adozione di misure idonee a ridurre
gli effetti negativi sul cambiamento climatico. (7)

4.
Una alternativa all’uso degli strumenti command and control è
costituita poi dall’utilizzazione dell’istituto della responsabilità
civile, ricorrendo anche ad ipotesi di responsabilità oggettiva
di coloro che svolgono attività potenzialmente produttive di danno
all’ambiente (individuato come strumento per una efficiente internalizzazione
dei costi delle attività). (8)

Molti Stati (tra cui l’Italia) hanno da tempo regimi di responsabilità
civile per danni ambientali, con esiti peraltro non univocamente positivi.

Ma non va dimenticato che i presupposti per ottenere una effettiva ed
efficace funzione deterrente sono un ampio accesso alla giustizia da parte
dei danneggiati, risarcimenti congrui e tali da compensare pienamente
i danni subiti, e, ovviamente, un celere e corretto funzionamento degli
organismi giudiziari preposti alla decisione. (9)

Altri Paesi hanno avviato sperimentazioni e riforme rivolte ad una estensione
del regime della responsabilità del danno ambientale, con l’obiettivo
di dare attuazione al principio chi inquina paga e al principio di precauzione:
tra questi la Germania e l’Olanda in Europa. L’Australia offre
un esempio assai significativo: due Stati, il New South Wales e il South
Australia, hanno infatti istituito dalla fine degli anni Ottanta appositi
Tribunali specializzati nella risoluzione di tutte le questioni di rilievo
ambientale e in particolare nella determinazione della responsabilità
per danni ambientali (con ampia discrezionalità nella fissazione
dell’entità del risarcimento). (10)

5.
Vi sono poi sistemi alla cui base stanno pur sempre disposizioni normative
o amministrative, ma consistenti non in autorizzazioni o divieti, bensì
nella individuazione e fissazione di meccanismi di mercato, ai quali viene
affidato il controllo degli effetti ambientali (c.d. market-based regulations).

In questo gruppo rientrano gli strumenti più noti e più
sperimentati: quelli che – assegnando un valore a predeterminate
unità di inquinamento – prevedono il pagamento del prezzo
per chi inquini oltre una certa soglia, oppure la cessione o lo scambio
di “diritti di inquinare” tra produttori, in modo da rispettare
la soglia medesima (c.d. tradable environmental rights). In questo modo
vengono premiati i produttori che predispongono mezzi e tecnologie per
ottenere risultati migliori rispetto alla soglia, mentre vengono incoraggiati
a adottare tecnologie più efficienti quei produttori che sono costretti
a comprare diritti di inquinare.

Questi strumenti hanno avuto varie applicazioni, in particolare, negli
Stati Uniti con gli emissions trading schemes predisposti dall’EPA.
(11) Assai positivi sono stati considerati gli schemi
di scambio di permessi d’emissione di diossido di zolfo nell’ambito
del programma per il controllo del fenomeno delle piogge acide. Un altra
esperienza nota e, sia pure in minor misura, positiva si è verificata
in Nuova Zelanda, con uno schema di scambio di quote di pesca al fine
di conservare il patrimonio ittico.

Il ricorso a strumenti di mercato è stato inoltre inserito (su
sollecitazione, per ragioni diverse, di Stati uniti, Giappone e Canada)
nel Protocollo di Kyoto per il controllo del cambiamento climatico.
(12) In esso sono stati previsti tre diversi meccanismi
con i quali gli Stati possono operare nel quadro del Protocollo: lo scambio
internazionale delle emissioni o International Emissions Trading, che
consiste nella possibilità di negoziare permessi di inquinamento;
la Joint Implementation, e cioè la attuazione congiunta di un progetto
specifico da parte di più Stati industrializzati o rientranti nella
categoria dei «Paesi in transizione», (13)
e il Clean Development Mechanism, in base al quale i paesi industrializzati
o in transizione possono raggiungere obiettivi di riduzione delle emissioni
sviluppando progetti in Paesi in via di sviluppo.

6.
Abbiamo poi, ed è un ulteriore gruppo di strumenti sostitutivi
del command and control, la c.d. regolamentazione o legislazione negoziata
(i c.d. reg-neg nella terminologia statunitense), che a partire dalla
metà degli anni ottanta ha riscosso un discreto successo sia nel
settore ambientale che nel settore della tutela della salute e sicurezza
pubblica.

Si tratta di una produzione di regole di provenienza non unilaterale (cioè,
non emanate soltanto dalla Amministrazione preposta al settore), ma frutto
della trattativa con i destinatari delle regole stesse o con le associazioni
che li rappresentano (in caso di regole con effetti ambientali, è
obbligatoria la partecipazione delle organizzazioni ambientaliste e di
tutti coloro che sono titolati di interessi contrapposti o comunque degni
di tutela nella materia che si intende disciplinare).

Il presupposto è che, in questo modo, si ottengono disposizioni
che non determinano conflitti interpretativi tra Pubblica amministrazione
e soggetti privati (essendovi un preventivo accordo sul loro contenuto)
e quindi non determinano ritardi o costi nell’applicazione.

Il dibattito teorico sull’ammissibilità e sulla utilizzabilità
dei reg-neg è assai aspro.

Da una parte, vi sono i sostenitori di questa procedura, che evidenziano
le ragioni di efficienza, economicità e rapidità applicativa.

Dall’altra, coloro che ritengono che in questo modo venga attribuito
a gruppi o interessi privati il potere di sostituirsi a valutazioni di
interesse pubblico, che debbono restare affidate esclusivamente all’Amministrazione.
(14)

Dal 1982, sono stati avviati 67 procedimenti di negoziazione normativa
sul territorio federale; 35 hanno prodotto norme che sono state effettivamente
emanate dall’Amministrazione interessata.

In campo ambientale, la EPA ha emanato 12 regolamenti ottenuti con la
procedura reg-neg, per la maggior parte concentrati nel settore del contenimento
dell’inquinamento atmosferico.

Nel 1990, considerati i risultati positivi, il procedimento è stato
oggetto di disciplina legislativa a livello federale: il Negotiated Rulemaking
Act (NRA).

7.
Infine vi è la sostituzione del meccanismo autoritativo con il
meccanismo negoziale, e quindi la costituzione di rapporti di tipo contrattuale
tra operatori privati (singoli o tramite associazioni rappresentative)
e Amministrazione pubblica aventi ad oggetto obbligazioni rilevanti per
la tutela dell’ambiente. Sono i contratti ambientali.

Dei contratti ambientali molto si discute e si scrive soprattutto a partire
dalla metà degli anni novanta. A questo istituto sono stati dedicati
in questi ultimi anni anche due importanti volumi.

Il primo, nel 1998, è costituito dai risultati di una ricerca raccolti
e coordinati ad opera di un gruppo di giuristi dell’ambiente di
estrazione prevalentemente europea, Environmental Law Network International
(ELNI); passa in rassegna le esperienze di contratti ambientali realizzate
in Belgio Danimarca, Francia, Germania, Italia, Olanda, Polonia e Regno
unito (15). La ricerca costituisce
anche la base di un Rapporto alla Commissione dell’Unione europea,
pubblicato nel gennaio 2001. (16)

L’altro volume, pubblicato nel 2001, è scaturito da un progetto
di ricerca avviato dalla Law School dell’Università di Pennsylvania;
è curato da Eric W. Orts e Kurt Deketelaere (direttori di due centri
di studi di diritto e economia ambientale, collocati l’uno in Belgio,
l’altro in Pennsylvania) e si propone di offrire una analisi comparativa,
sia giuridica che economica, delle esperienze in materia di contratti
ambientali realizzate negli Stati uniti e in Europa. (17)

8.
Un primo problema si pone a livello di definizione e di identificazione
del contratto ambientale.

Due requisiti sono pacifici. Il primo è costituito dalla volontarietà
della partecipazione o dell’adesione dell’impresa. Se il comportamento
dell’impresa è vincolato, o comunque è l’effetto
di disposizioni di legge, non c’è autonomia negoziale e non
c’è libera manifestazione di volontà: ritorniamo nell’alveo
dei meccanismi command and control.

Il secondo requisito è dato dalla presenza o dal coinvolgimento
di una parte privata, che potrà essere un’impresa o un’associazione
di imprese, e una parte pubblica, che potrà essere l’Amministrazione
centrale, l’Amministrazione locale, o una Agenzia preposta alla
tutela dell’ambiente.

Qui finiscono gli aspetti su cui vi è un generale accordo. In merito
ad altri due requisiti, infatti, vi sono opinioni discordanti. Il primo
riguarda la consistenza e il contenuto dell’incontro di volontà
tra le parti.

Molti includono nell’ambito dei contratti ambientali anche gli impegni
unilaterali o comportamenti assunti volontariamente dalla parte privata,
se essi sono posti in essere al fine o in vista di ottenere vantaggi o
benefici dalla parte pubblica. La casistica di questa tipologia è
nutrita. Per esempio, nel Regno Unito è stato costituito nel 1999
un Comitato, denominato Emissions Trading Group, costituito dall’Associazione
degli industriali, da un organismo del Ministero dell’ambiente e
da altri rappresentanti pubblici. Il Comitato ha messo a punto e avviato
un programma che prevede varie possibilità: una riduzione del 20%
della specifica tassa prevista per l’adempimento degli obblighi
di contenimento del cambiamento climatico oppure l’erogazione di
un incentivo a fronte di una accettazione di obiettivi di contenimento
energetico; l’acquisto da parte di organismi pubblici di diritti
di emissione di CO2 da parte delle imprese che riducono sostanzialmente
le loro emissioni.

Se gli impegni assunti non vengono soddisfatti, l’impresa viene
assoggettata al pagamento integrale della tassa o alla restituzione dell’incentivo.

I contratti ambientali, se si includono fattispecie simili a quella appena
descritta, appaiono un istituto di ampia e crescente utilizzazione.

Ma questo risultato viene raggiunto ricomprendendo nella categoria ipotesi
che di negoziale hanno ben poco: l’incontro di volontà è
infatti ridotto ad una adesione ad un programma pubblico, che prevede
benefici o incentivi predeterminati a chi rispetti obiettivi anch’essi
prefissati.

Il secondo requisito riguarda gli effetti dell’accordo tra le parti.

Anche in questo caso, se si ritiene che sia sufficiente l’assunzione
di obbligazioni non vincolanti, si può affermare che i contratti
ambientali integrano gli strumenti command and control già da vari
decenni, e stanno attualmente espandendosi.

Viceversa, se si ritiene che la sussistenza di un contratto ambientale
in senso proprio richieda la vincolatività degli impegni assunti,
e quindi conseguenze riparatorie o risarcitorie in caso di inadempimento,
l’uso di questo istituto appare assai più limitato.

In conclusione, l’opzione per le due ipotesi più ampie –
che in sostanza tende a far confluire nell’unica categoria dei contratti
negoziali la maggior parte delle iniziative volontarie che abbiamo preso
in considerazione – porta a rintracciare l’esistenza di una
consistente quantità di contratti ambientali realizzati in Europa
e negli Stati uniti negli anni novanta.

Viceversa, la scelta per le due ipotesi più rigorose riduce l’utilizzazione
dei contratti ambientali a poche diecine di unità.

Emblematico è il caso dell’Italia: usando l’opzione
ampia sono stati schedati 25 contratti nel decennio, che divengono addirittura
zero utilizzando l’ipotesi più rigorosa. (18)

A mio giudizio, pur senza sottovalutare l’importanza e l’efficacia
di tutti gli strumenti negoziali sui quali ci siamo sinora soffermati,
è opportuno verificare la reale applicazione dell’ipotesi
più rigorosa, anche per evitare di sfumare la categoria in una
moltitudine di comportamenti di incerto significato.

Con l’espressione contratti ambientali viene fatto quindi d’ora
in poi riferimento esclusivamente a accordi vincolanti tra due o più
parti, delle quali almeno una deve essere pubblica, aventi ad oggetto
l’obbligo della parte o delle parti private a porre in essere specifici
comportamenti di rilevanza ambientale a fronte di controprestazioni della
parte pubblica.

9.
Uno degli aspetti più curiosi è dato dal fatto che in Europa
si è convinti che la patria dei contratti ambientali – come
di tutte le iniziative basate sul mercato, sulla domanda e sull’offerta,
sull’iniziativa privata – siano gli Stati uniti.

Così, è ricorrente in Europa la lamentela di operatori industriali
e delle loro associazioni dell’eccessivo uso di strumenti autoritativi
rispetto alla capacità americana di affrontare i problemi ambientali
confidando nell’iniziativa e nella responsabilità dei privati.

Per converso, negli Stati uniti gli esperimenti di contrattazione ambientale
posti in essere sono stati considerati come tentativi di seguire i successi
dell’esperienza europea in questo settore.

Queste opinioni contrapposte hanno due elementi in comune.

Il primo, quasi ovvio, è che entrambe le convinzioni riflettono
un disagio comune ad entrambe le sponde dell’Atlantico e cioè
l’insoddisfazione rispetto agli strumenti autoritativi tradizionali
e l’aspirazione verso nuovi e non ben identificati meccanismi.

Meno ovvio il secondo elemento comune: esse sono entrambe errate, essendo
il frutto di una sorta di doppio miraggio, di schnitzleriano Doppeltraum,
fondato sulla (non inusuale) convinzione che il terreno del vicino sia
più verde, e quindi, nella specie, più flessibile e propenso
alla contrattualità che non il proprio.

In realtà, negli Stati uniti i contratti ambientali costituiscono
una esperienza assai ridotta quantitativamente e qualitativamente, e tutt’altro
che positiva per ciò che riguarda i risultati.

D’altro canto, in Europa i successi del contratto ambientale in
senso proprio così come sopra definito si limitano pressoché
esclusivamente alla componente di lingua olandese dell’Unione europea,
vale a dire l’Olanda e la parte fiamminga del Belgio.

Ecco una succinta rassegna della sperimentazione e della pratica in materia
di contratti ambientali a partire dagli anni novanta.

10.
I primi esperimenti negli Stati dell’Unione europea sono stati avviati
in Francia e in Germania negli anni settanta.

In Francia dapprima sono stati attuati i contrats de branche, stipulati
tra Pubblica autorità e associazioni imprenditoriali, per disciplinare
gli effetti ambientali di determinate attività produttive. Questi
sono però stati messi fuori gioco dal sopravvenire della normativa
comunitaria e dal conseguente divieto di misure atte a favorire le imprese
nazionali. Sono seguiti i programmes de branche e i programmes d’enterprise,
con carattere pianificatorio e non direttamente negoziale. Questi sono
stati bloccati dopo alcuni anni da una decisione del Conseil d’Etat
che li ritenne illegittimi per settori ove vi era una competenza normativa
statale.

In Germania sono classificate come contratti ambientali le c.d. Selbsverpflichtungen,
cioè le impegnative unilaterali di produttori o di loro associazioni,
cui rimane estranea l’Amministrazione, per lo più assunte
volontariamente e il cui rispetto non può essere ottenuto per via
giudiziaria o esecutiva (salvo che in sporadiche applicazioni).

Circa 80 sono attualmente vigenti. Esse, per quanto detto, non possono
essere considerate come contratti ambientali in senso proprio.

Di particolare rilievo è l’impegno assunto nel 1995 dalle
principali associazioni industriali di ridurre le emissioni di CO2, con
riferimento agli impegni assunti dall’Europa con la sottoscrizione
del Protocollo di Kyoto.

11.
Come accade in Germania, nella maggior parte degli altri Stati dell’Unione
europea vengono spesso qualificati come contratti ambientali accordi che
però non sono vincolanti, o dei quali non può essere ottenuto,
o può essere ottenuto con estrema difficoltà, l’adempimento;
(19) i risultati offerti dai contratti
ambientali in senso proprio non sembrano incoraggianti (salvo che, forse,
nel settore dei rifiuti).

È il caso dell’Italia ove negli anni novanta sono stati stipulati
numerosi accordi tra l’Amministrazione (e in particolare le Regioni)
e associazioni industriali, tutti però di carattere non vincolante.
Tra questi, gli accordi con esiti più soddisfacenti hanno riguardato
la raccolta di rifiuti (carta, cartone, vetro e plastica).

In Italia inoltre, come in altri Paesi europei, sorgono e gradualmente
si diffondono anche procedure basate su accordi, dapprima con la sola
partecipazione delle varie parti pubbliche interessate alla gestione di
uno specifico tema ambientale, poi estese – sotto forma di procedure
negoziate – a forme di partecipazione delle parti private. È il
caso di istituti quali l’accordo di programma, la conferenza di
servizi, e altre procedure, tutte figure anomale sia da un punto di vista
della tradizione pubblicistica, ma estranee anche alla metodologia privatistica.
Come osserva Sabino Cassese in un suo recente studio, (20)
l’azione amministrativa non diviene una entità di diritto
comune e, d’altro canto, il diritto amministrativo continua a svilupparsi,
ma in forme privatistiche.

In particolare, l’introduzione della figura generale dell’accordo
di programma risale alla l. 8 giugno 1990, n. 142 (art. 27), ed è
stata inserita nel d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 del testo unico sull’ordinamento
degli enti locali (art. 34).

Successivamente, il d.lgs. 22/1997 ha previsto varie ipotesi di utilizzazione
dell’accordo.

Il decreto ha stabilito che, ai fini dell’attuazione dei principi
e degli obiettivi individuati dalla nuova disciplina sulla gestione dei
rifiuti, il Ministero dell’ambiente, di concerto con il Ministero
dell’industria, del commercio e dell’artigianato promuove
accordi e contratti di programma con enti pubblici, con le imprese maggiormente
presenti sul mercato o con le associazioni di categoria.

Ulteriore ricorso allo strumento dell’accordo è poi previsto
al fine di promuovere l’utilizzo di sistemi di eco-label ed eco-audit,
nonché di sviluppare e attuare programmi di ritiro dei beni di
consumo al termine del loro ciclo di vita allo scopo specifico del riutilizzo,
riciclaggio e recupero di materia prima (art. 25, c.1-2, d.lgs. 22/97).
Il ricorso all’accordo di programma è infine previsto con
riferimento alla gestione e smaltimento di beni durevoli a fine vita quali
frigoriferi, surgelatori, congelatori, televisori, computer, lavatrici,
lavastoviglie e condizionatori d’aria con lo scopo di istituire
dei centri preferenziali di raccolta (art. 44, Dlgs. 5 febbraio 1997,
n. 22).

12.
Diversi sono i casi dell’Olanda e del Belgio fiammingo.

In Olanda, l’utilizzazione dello strumento contrattuale in materia
ambientale trova le sue origini in un Rapporto pubblicato nel 1988 dall’Istituto
nazionale olandese per la sanità e l’ambiente, denominato
Concern for Tomorrow.

Tra le altre cose, il rapporto evidenziava che uno sviluppo sostenibile
in Olanda sarebbe stato possibile solo se le emissioni di molti prodotti
chimici fossero state drasticamente ridotte (dal 70% al 90%) entro pochi
anni; evidenziava altresì che i tradizionali meccanismi command
and control non avrebbero potuto da soli garantire il raggiungimento di
questo obiettivo.

I contratti ambientali sono così divenuti il meccanismo aggiuntivo
rispetto ai meccanismi tradizionali con il quale l’Amministrazione
e le imprese si sono proposti di perseguire quegli obiettivi.

Essi vengono stipulati dall’Amministrazione con specifici settori
produttivi, pongono obiettivi di riduzione delle emissioni riguardanti
l’intero settore, affidando poi la trattativa concreta al livello
provinciale o comunale e alla singola impresa.

Il risultato è la formazione di un Piano ambientale d’impresa
(Company environmental Plan) che costituisce la base per i seguenti rapporti
tra l’impresa stessa e l’Amministrazione. Sulla base di questo
piano, della sua effettiva applicazione e del suo rispetto da parte dell’impresa
l’Amministrazione rilascia e gradua i permessi e le autorizzazioni
richieste in materia ambientale per lo svolgimento dell’attività
produttiva.

Pertanto, i contratti ambientali utilizzati in Olanda:

a) sono contratti di settore;

b) non sostituiscono la regolamentazione o la normativa esistente e non
la rendono più flessibile, ma si pongono obiettivi:

– di maggiore efficienza o comunque superiori ai limiti normativamente
fissati;

– di impedire l’adozione di norme vincolanti da parte dell’Amministrazione;

– di accelerare l’esecuzione di specifiche disposizioni normative;

I contratti ambientali sono vincolanti per tutte le parti in base alle
disposizioni del codice civile, anche se a tutto il 1998 non risulta che
ci siano state controversie giudiziarie conseguenti a inadempimenti o
violazione degli accordi contrattuali.

Alla base dei contratti ambientali olandesi sta il comune intento dei
produttori di internalizzare i costi ambientali, evitando così
alterazioni della concorrenza interna, e di partecipare alla protezione
dell’ambiente.

Più limitati sia quantitativamente, sia qualitativamente sono i
contratti ambientali stipulati nella Regione fiamminga del Belgio.

Con decreto (atto avente forza di legge) del 15 giugno 1994 il Governo
regionale ha introdotto i contratti ambientali (in base alla costituzione
del Belgio, ciascuna delle tre regioni è responsabile anche legislativamente
della tutela dell’ambiente).

Essi possono essere stipulati tra il Governo e una associazione di produttori
al fine di prevenire l’inquinamento, limitarne le conseguenze o
promuovere una corretta gestione dell’ambiente. I contratti non
possono sostituire norme di legge, o prevedere disposizioni più
favorevoli.

Durante l’efficacia del contratto, il Governo si impegna a non adottare
disposizioni più vincolanti o restrittive.

Tutti i contratti realizzati in base a questa normativa attengono alla
gestione dei rifiuti.

13.
L’Unione europea nel 1996, dopo molte esitazioni e con una profonda
disomogeneità di vedute, si è schierata a favore dei contratti
ambientali.

La Commissione, in una sua comunicazione, ha così evidenziato i
numerosi vantaggi che essi potrebbero offrire quali, per esempio, promuovere
una partecipazione cooperativa dell’industria nella tutela dell’ambiente,
offrire soluzioni efficienti dal punto di vista economico e a costi ridotti,
un più rapido raggiungimento degli obiettivi. (21)

Nel 1997, il Consiglio ha adottato una risoluzione che accoglie i contratti
ambientali tra gli strumenti a disposizione della politica ambientale
comunitaria.

In effetti, a seguito di questi due atti, è stato raggiunto nel
1997 un accordo con alcune associazioni industriali per un contenimento
energetico nei televisori, VCR, macchine lavatrici, e un altro accordo
nell’ottobre 1998, ratificato dal Consiglio, con l’associazione
dei produttori di automobili per la riduzione di emissioni di CO2, nel
quadro degli adempimenti per l’attuazione degli impegni connessi
con il Protocollo di Kyoto.

Gli effetti sembrano essere sinora scarsi. (22)

Ciò può essere attribuito, secondo alcuni, alla dichiarata
mancanza di entusiasmo da parte della Commissione per l’uso di questo
strumento. Ma certamente dipende dall’impossibilità di dare
attuazione alle direttive con strumenti diversi dal tradizionale command
and control. In particolare, la posizione della Commissione, espressa
nella Comunicazione del 1996, è che in tutti i casi in cui le Direttive
creano diritti e obblighi per gli individui appartenenti all’Unione,
la recezione deve avvenire con atti dotati di forza vincolante per la
generalità dei destinatari e di adeguata pubblicità; di
conseguenza, non possono essere utilizzate forme negoziali, che al più
– se vincolanti – sarebbero comunque vincolanti solo per i
contraenti. (23)

14.
Negli Stati uniti l’utilizzazione di contratti ambientali ha avuto
impulso soprattutto da parte del Governo Clinton, negli anni novanta.

I progetti più importanti al riguardo sono stati Project XL (dove
XL sta per excellence) avviato nel 1995, e Common Sense Iniziative.

Project XL, lanciato nel 1995, ha previsto la stipulazione di accordi
tra EPA e una specifica impresa; gli accordi avrebbero potuto consentire
all’impresa flessibilità nell’applicazione della normativa
esistente, e quindi eventualmente deroghe rispetto ai limiti e agli standard
previsti dalla normativa medesima, a fronte di un impegno dell’impresa
di perseguire in settori predeterminati obiettivi di maggior tutela dell’ambiente
di quelli richiesti dalla normativa.

Per esempio, una impresa potrà stipulare un contratto ambientale
in base al quale l’Amministrazione concede di effettuare emissioni
di un determinato prodotto in quantità superiore a quella consentita
dalla legge (purché entro limiti prefissati), a fronte dell’impegno
dell’impresa stessa di ridurre al di sotto dei limiti previsti dalla
legge le emissioni di altri prodotti. (24)

Se l’impresa non rispetta gli impegni, EPA impone l’applicazione
delle regole che erano state contrattualmente derogate, e irroga le eventuali
sanzioni per le violazioni. In questo modo, il problema della vincolatività
del contratto non si pone, sussistendo per l’Amministrazione uno
strumento di tutela efficace, e cioè l’applicazione della
normativa contrattualmente derogata.

Project XL ha avuto scarsissima fortuna. L’obiettivo dell’amministrazione
Clinton era di realizzare 50 contratti all’anno a partire dal 1995.

Ne sono stati stipulati in tutto una diecina, e uno solo a partire dal
1996. (25)

Le ragioni dell’insuccesso sono state due.

In primo luogo, le critiche e le contestazioni da parte delle associazioni
ambientaliste, per lo più contrarie non ai progetti XL in quanto
tali, ma alle valutazioni in concreto dell’Amministrazione ed agli
spazi di deroga concessi all’impresa aderente.

In secondo luogo, le proteste da parte delle imprese non aderenti al progetto,
che ritenevano che i contratti ambientali, nella parte in cui derogavano
a normative vincolanti, ponessero in essere una violazione della concorrenza
e delle regole del mercato danneggiando le imprese che non intendevano
partecipare al progetto.

15.
Come si vede, nonostante la diffusa sfiducia verso il command and control
e la convinzione che gli strumenti negoziali siano più efficaci
e meno costosi, l’utilizzazione di contratti ambientali in senso
proprio non rappresenta un successo, né in termini quantitativi,
né in termini di risultato, su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Le impressioni diverse e più positive sono in genere provocate
– come si è visto – dall’inclusione nello stesso
fascio di accordi vincolanti e di altre forme di impegno, non vincolanti
per la parte privata, e comunque non consensuali.

Vi è, in Europa, la rilevante eccezione olandese che meriterebbe
ben maggiore attenzione per i positivi risultati conseguiti.

Ma i contratti ambientali sono lì utilizzati per raggiungere effetti
diversi e ulteriori rispetto a quelli previsti o imposti dalle normative.
Pertanto, in Olanda lo strumento negoziale si aggiunge nella maggior parte
dei casi al command and control, e non lo sostituisce.

Del resto, in Europa, essendo la maggior parte della produzione di norme
statali in materia ambientale di diretta o indiretta derivazione comunitaria,
l’uso di strumenti non generali e vincolanti sembra essere precluso.

Negli Stati uniti d’altro canto c’è, ed è oggetto
di apposita disciplina normativa, una negoziazione in materia ambientale,
ma attiene alla produzione di norme di carattere generale (che vengono
poi emanate dall’Amministrazione competente) e non alla stipulazione
di accordi privati.

16. In definitiva, la realtà dimostra che il
tradizionale sistema command and control è difficilmente sostituibile
e che per tutti i modelli alternativi, e in particolare proprio per i
contratti ambientali, c’è la tendenza a idealizzare e a generalizzare.

Nella pratica, inoltre, i vantaggi dell’uso degli strumenti negoziali
possono rivelarsi assai inferiori di quelli ipotizzabili in teoria. Ed
infatti, se si attenuano i tradizionali conflitti tra privato e pubblico,
si determinano almeno due conseguenze negative.

In primo luogo, sorgono nuove possibilità di conflitto, non più
solo tra privato e pubblico, ma anche tra privato e privato: è
il caso, per esempio di tutti i profili di violazione delle regole di
mercato e della concorrenza, già prospettati negli Stati uniti
– ma certamente proponibili, se la prassi dei contratti ambientali
si estende, anche in Europa.

In secondo luogo, si determina uno spostamento dell’attenzione dall’importanza
delle questioni e dei problemi ambientali da risolvere alla loro negoziabilità.
(26) In altri termini, questioni importanti o gravi,
o comunque prevedibilmente altamente conflittuali, vengono accantonate
in favore di questione risolvibili con una trattativa contrattuale.

17. Infine, c’è un ulteriore aspetto da
considerare. Si è detto inizialmente che la richiesta dell’uso
di strumenti contrattualistici e negoziali ha trovato spinta e alimento
nell’affermarsi delle ideologie di privatizzazione e di deregulation.

Ma non bisogna dimenticare che, se si riducono le norme di origine pubblica,
crescono le norme poste in essere dai privati, o con la loro partecipazione.
Questi privati sono per lo più i soggetti economicamente più
forti, in grado di avere accesso e di contrattare con l’Amministrazione
o il potere politico.

Si crea così un sistema dove si mescolano disposizioni normative
e amministrative, regolamentazioni contrattate o intese tra privato e
pubblico, prassi nazionali e sopranazionali.

Per ciò che specificatamente riguarda la disciplina dell’ambiente,
questo non significa che scompaiono le regole; significa solo che le regole
sono poste non da organismi pubblici che perseguono (o dovrebbero perseguire)
l’interesse generale e operare in posizione di indipendenza e terzietà,
ma dai quei soggetti economici che hanno la forza di negoziare i problemi
ambientali con l’Amministrazione o che sono da quest’ultima
prescelti.

Resta allora il serio di problema di individuare preventivamente gli spazi
entro i quali permettere l’introduzione della flessibilità
negoziale in materia ambientale, perché non si può accettare
che le vicende ambientali e tutte le vicende ad esse collegate –
tra cui le vicende economiche – si muovano in uno spazio svuotato
di regole poste nell’interesse generale, e governato da regole confezionate
nell’interesse o con la partecipazione dei soggetti privati dei
più forti. (27).

È vero che l’ambiente deve fare i conti con il mercato. Ma
il mercato può fare a meno di un ambiente regolato e controllato?


NOTE

L’articolo
rielabora la relazione presentata
al Convegno di Gubbio
, Ambiente e Impresa, 8-9 novembre 2002


(1) Negli Stati Uniti, il punto di partenza
delle critiche nei confronti del sistema command and control in materia

ambientale risale al fondamentale scritto di B.A. Ackerman – R.B.
Stewart, Reforming Environmental Law, in Stanford

Law review, 1985, 1333. Per un esame delle critiche lì formulate
si veda J. Freeman, Collaborative Governance in the

Administrative State, in UCLA Law Review, 1997, 1 e spec. 2; negli Stati
uniti fin dall’inizio degli anni novanta

l’approccio autoritativo e strettamente normativo era qualificato come
“ossificato”: si veda T.O. McGarity, Some

Thoughts on “Deossifying” the Rulemaking Process, in Duke L.J.,
1992, 1385, 1397-98.

(2) Non è questo il luogo ove
discutere di queste affermazioni. Va però succintamente osservato
che questa

convinzione, ancorché attraente, è priva di fondamento.

Prima di tutto, essa appartiene al novero delle tesi che possono essere
liberamente sostenute senza correre il rischio di

smentita, essendo impossibile la verifica di quali sarebbero state le
condizioni dell’ambiente se, al posto degli strumenti

autoritativi, fossero state prescelte altre modalità di intervento.
Peraltro, nei circa tre/quattro decenni in cui, nei Paesi

maggiormente sviluppati, sono stati largamente – e in molti settori
quasi esclusivamente – impiegati strumenti

autoritativi, la tutela dell’ambiente ha segnato progressi significativi,
soprattutto laddove sono stati compiuti sforzi

economici e organizzativi adeguati per garantirne l’applicazione.

(3) A. Smith, The CERES Principles:
A Voluntary Code for Corporate Environmental

Responsibility, in YALE Journal of International Law, 1993, 307 ss.

(4) Dati e informazioni sull’iniziativa
Global Compact possono essere rinvenuti nel sito http://unglobalcompact.org/;

si veda anche M.Shaughnessy, The United Nations Global Compact and the
Continuing Debate about the Effectiveness

of Corporate Voluntary Codes of Conduct, in Colorado J. of Internat. Env.
Law and Pol., 2000, 159; L.A. Mowery,

Earth Rights, Human Rights: Can International Environmental Human Rights
Affect Corporate Accountability? In

Fordham Env. Law J., 2002, 343 ss.

(5) Su questo programma si veda P.E.
De Jongh, S. Captain, Our Common Journey: A Pioneering Approach to

Cooperative Environmental Management, London, 1999, spec. 230 ss.

(6) si vedano C.R. Sunstein, Informational
Regulation and Informational Standing, in Univ. Of Pennsylvania Law

Review, 1999, 613; P.R. Kleindorfer, E.W. Orts, Informational Regulation
of Environmental Risks, in Risks Analysis

1998, 155.

(7) P. Stein, Ecological Sustanability
– Turning Rhetoric Into Reality – Some Sustainable Energy
Initiatives In

Australia, in Riv. giur. amb., 2002, 847 ss.

(8) Sul punto L. Bergkamp, Liability
and Environment, The Hague, (L’AIA) Kluwer Law International, 2001, 5
e 73.

(9) Per un esame comparativo dei vari
regimi di responsabilità si veda M. Wilde, Civil Libility for Environmental

Damage, The Hague, Kluwer Law Intrernational, 2002.

(10) Nel New South Wales la Land and
Enviroment Court è stata istituita nel 1979. Nel South Australia
è stata istituita

nel 1993 la Environment, Resources and Development Court. Sulla prima,
si veda M. Pearlman, The Environmental

Jurisdiction of the Land and Environment Court of New South Wales, Australia,
sulla seconda C. Trenorden,

Environmental Law in South Australia: The Role and Jurisdiction of the
Environment, Resources and Development

Court. Entrambi sono in traduzione italiana su Riv. giur. Amb., 2002,
863 e 897.

(11) Una ottima analisi degli schemi
predisposti dall’EPA e della loro attuazione è in R. Hahn, G. Hester,
Where did

all the Markets Go? An Analysis of EPA’s Emissions Trading Program, in
Yale Journal on Regulation, 1989, 109 ss.

(12) Sul punto, vedi AA.VV, Nuove
prospettive del protocollo di Kyoto: meccanismi attuativi e impatto sulla

competitività, Milano, Ipaservizi Ed., 2002.

(13) In base agli accordi di Marrakesh,
i progetti avviati a partire dal 2000 possono essere riconosciuti come
Joint

Implementation se rispettano le regole stabilite nell’ambito del Protocollo.
Nel dicembre del 2000 è stato concluso il

primo accordo di Joint Implementation europeo tra Norvegia e Romania,
rivolto alla modernizzazione del sistema di

riscaldamento di una città rumena.

(14) Si veda W. Funk, When Smoke Gets
in Your Eyes: Regulatory Negotiation and the Public Interest – EPA’s

Woodstove Standards, in Env. Lawyer, 1987, 55; E. Siegler, Regulatory
Negotiations: A Practical Perspective, in Env.

Law Rep., 1992, 647.

(15) Environmental Law Network International,
Environmental Agreements: the Role and Effects in Environmental

Policies, Londra, Cameron May, 1998.

(16) G. Roller, B. Gebers (cur.),
New Instruments for Sustainability – The New Contribution of Voluntary
Agreements

to Environmental Policy, in Research on the Socio-economic Aspects of
Environmental Change. Summary Results –

Second Period 1996-1999, Bruxelles, editore?, 2001.

(17) E.W. Orts, K. Deketelaere (cur.),
Environmental Contracts.Comparative Approaches to Regulatory Innovation
in

the United States and Europe, The Hague, Kluwer Law International, 2001.

(18) È questo il caso del Rapporto
curato da G.Roller e B.Gebers, v. nota 9.

(19) Per una completa rassegna dei
contratti ambientali nell’Unione europea si veda G. Van Calster –
K. Deketelaere,

The Use of Voluntary Agreements in the European Community’sEnvironmental
Policy, in E.W. Orts, K. Deketelaere

(cur.), Environmental Contracts, cit., 199.

(20) S. Cassese, Le trasformazioni
del diritto amministrativo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2002, 27 ss. Per
una

ricostruzione storica dell’affermarsi del momento privatistico e negoziale
all’interno dell’azione amministrativa cfr. G.

Manfredi, Accordi e azione amministrativa, Torino, Giappichelli, 2002.

(21) Comunicazione della Commissione
al Consiglio e al Parlamento sui contratti ambientali,

COM(96)561

(22) G. Van Clster, K. Deketelaere,
The Use of Voluntary Agreements, cit., 232

(23) sul punto si veda G. Roller,
B. Gebers (cur.), New Instruments for Sustainability , cit., 411.

(24) per alcuni esempi di
contratti stipulati sulla base del Project XL, si veda J. Freeman, Collaborative
Governance,

cit., 17 ss.

(25) Maxwell, Lyon, An Institutional
Analysis Of Environmental Voluntary Agreements in the United States, in
E.W.

Orts, K. Deketelaere (cur.), Environmental Contracts, cit., 333.

(26) C. Coglianese, Is Consensus an
Appropriate Basis for Regulatory Policy?, in E.W. Orts, K. Deketelaere
(cur.),

Environmental Contracts, cit., 93.

(27) S. Rodotà, Se le leggi
del mercato minano il futuro della politica, in La Repubblica del 20/8/2002,
17.