Gli incidenti rilevanti e il concetto di rischio

1. Considerazioni introduttive.
Questo articolo espone le modalità normative con le quali l’Italia ha dato attuazione alla seconda direttiva Seveso concernente il controllo del rischio di incidenti rilevanti per l’uso di sostanze pericolose.
Si tratta di modalità che inducono a considerazioni sconsolanti, anche perché non sembra che sia servita l’esperienza, e cioè la fallimentare attuazione della prima direttiva Seveso.
Invece di attuare una semplificazione della normativa, perseguendo così lo scopo espressamente individuato dalla seconda direttiva dell’Unione Europea, il legislatore italiano è riuscito a rendere più astrusa e inutilizzabile la già barocca normativa precedente. A ciò va aggiunto che (come sarà esposto nella parte che segue) la normativa primaria prevede, per divenire concretamente operativa, l’adozione di diecine di decreti di attuazione.
Ad un anno di distanza, solo uno è stato emanato.
Questo significa che, se si passa dal piano delle norme al piano della realtà, che è quello in cui gli incidenti si verificano, praticamente nulla è stato fatto: la seconda direttiva Seveso non ha modificato, nel nostro Paese, il rischio che la collettività corre di danni alla salute, alla persona o ai beni per il verificarsi di rischi rilevanti per l’uso di sostanze pericolose.
A questo punto, però, una domanda può sorgere spontanea: che è successo negli altri Paesi dell’Unione europea?
La risposta può determinare qualche magra consolazione.
Sia pure con differenze anche significative che dipendono da molti fattori – il livello di attuazione della prima direttiva, l’efficienza della Pubblica amministrazione nei settori coinvolti, la partecipazione dell’opinione pubblica, l’autoresponsabilizzazione del ceto produttivo – non vi è paese che possa affermare di aver dato attuazione alla direttiva in modo da concretamente limitare i rischi industrialmente rilevanti della popolazione interessata.

2. Perché è difficile prevenire il rischio industriale?
La triste e generale constatazione appena effettuata può indurre a considerazioni interessanti per spiegare questa difficoltà di attuare una politica di prevenzione dei rischi industriali (chiamiamoli per comodità in questo modo, anche se una delle innovazioni più importanti della seconda direttiva Seveso estende gli obblighi di controllo e prevenzione a tutte le attività che comportano l’uso di sostanze pericolose): sono considerazioni che esulano dagli scopi di questo commento, alle quali pertanto accenniamo assai brevemente.
A. Da un punto di vista più di breve periodo, le difficoltà riscontrate nell’attuare una politica di prevenzione e controllo dei rischi industrialmente rilevanti in un’area – quella dei paesi europei che fanno parte dell’Unione – intensamente industrializzata, ma anche assai attenta alle problematiche ambientali (se non altro per i gravi incidenti verificatisi negli ultimi decenni, a partire da quello di Seveso), dipendono principalmente da due cause connesse.
In primo luogo, la forza coriacea e stratificata del principio che si oppone a quello del controllo dei rischi industriali, e cioè il principio del segreto delle attività produttive industriali, ancorché ad alto rischio per i lavoratori e per la popolazione. Al diritto di conoscere, al principio di trasparenza per ciò che concerne la salute e la qualità della vita, si contrappone costantemente il diritto al segreto delle attività produttive.
In secondo luogo, la caparbia, ma non disinteressata, indifferenza dell’industria per i problemi di sicurezza e per il rischio che l’attività produttiva può indurre sulle collettività: le necessità del mercato, gli obblighi imposti dalla competizione nazionale o internazionale, i vincoli posti dai prezzi o dai costi sono tutti elementi che vengono variamente addotti per razionalizzare questo disinteresse.
Ciò che manca sotto questo primo aspetto, non è un intervento normativo: è una seria politica di informazione, di sensibilizzazione, di educazione che permetta di attenuare il principio del segreto e il disinteresse dell’industria per gli aspetti della prevenzione dei rischi rilevanti.
B. Ma le difficoltà riscontrate nell’attuare una politica di prevenzione e controllo dei rischi industrialmente rilevanti dipendono anche dalla indeterminatezza del concetto di rischio, sotto almeno sei profili.
a. Sotto un profilo storico-evolutivo.
Come osserva in un recente volume Anthony Giddens, il Direttore della London School of Economics and Political Sciences , si tratta di un concetto che emerge – contrariamente a quanto si pensa – solo da pochi secoli, da quanto le società europee sono divenute orientate verso il futuro, con l’affermarsi dell’idea di progresso: in sostanza, dalla Rivoluzione industriale. Ma il rischio, proprio per queste sue origini, ha sempre rappresentato un elemento positivo, enucleando la capacità di una organizzazione sociale di liberarsi del passato, dei vincoli delle tradizioni, e rappresentando un aspetto intimamente connesso con lo sviluppo capitalistico, nel quale viene premiato chi accetta il rischio.
b. Sotto un profilo delle cause.
Al rischio prodotto dall’uomo si contrappone il rischio naturale, quello cui l’uomo è stato sottoposto fin dalle origini: pestilenze, alluvioni, terremoti.
È non è solo il primo che oggi si vuole controllare: è esperienza comune quella degli sforzi che vengono compiuti per porre sotto controllo ed eliminare il rischio naturale, ma anche la propensione – tutta moderna – di voler considerare ogni rischio naturale come determinato dall’uomo: non c’è caso di disastro provocato da forze naturali in cui non si tenda a ravvisare negligenze, omissioni o difetti di previsione da parte delle Autorità.
c. Sotto un profilo delle scelte.
Tra i rischi prodotti dall’uomo vi sono rischi che vengono scelti, e attività che piacciono proprio perché sono rischiose, o anche se sono rischiose: è il caso di molte attività sportive, ma anche del gioco d’azzardo, della motocicletta, del fumo. Altri rischi sono imposti, vengono subiti ma non scelti. È questo il caso del rischio industriale, per le popolazioni che vivono in prossimità di stabilimenti con attività a rischio. Non tutti i rischi, ma solo gli ultimi sono quelli sgraditi.
d. Sotto un profilo degli effetti.
Vi sono rischi istantanei (l’esplosione, la fuoriuscita di gas tossici, ecc.) e rischi di lungo periodo, come l’esposizione prolungata a materiali tossici, le forme di inquinamento idrico o atmosferico. Questa distinzione ha importanti conseguenze, per esempio in termini di responsabilità e di rapporto causale: è agevole individuare il responsabile nel primo caso, è assai più arduo nel secondo, anche perché è difficile a distanza di tempo determinare con sicurezza un rapporto tra la causa e gli effetti nocivi.
d. Sotto un profilo valutativo.
Il concetto di rischio contiene un elemento di ineliminabile parte di soggettività. Questo significa che soggetti o collettività diverse valutano diversamente diversi tipi di rischio. Per esempio, oggi in Italia la maggior parte degli abitanti dei grandi centri urbani è disposto ad investire assai più per ridurre la criminalità che non per ridurre il rischio industriale. Questo atteggiamento – del tutto legittimo, proprio per il carattere soggettivo del rischio – determina ovviamente conseguenze sulle politiche del Governo e della Amministrazione, rivolte con maggiore intensità ad aumentare il quantitativo e l’efficienza delle forze dell’ordine e delle carceri che non degli ispettori o dei sistemi di controllo sulle attività a rischio rilevante.
e. Sotto un profilo economico.
Infine, vi è un aspetto economico che coinvolge anche il principio di precauzione, affermatosi negli ultimi decenni proprio per evitare il rischio.
Il rischio è intimamente connesso all’innovazione, al progresso tecnologico, alla capacità – già evidenziata – di una società di affrontare il futuro e di garantire livelli di benessere adeguati. Ovviamente, tutto ciò ha aspetti positivi e aspetti negativi. Ma non è detto che il rifiuto dell’innovazione, in nome del principio di precauzione, non determini rischi maggiori: la tecnologia esistente, anche se accettata, può essere più rischiosa della tecnologia nuova.
In conclusione, la disciplina e la prevenzione del rischio industriale cala all’interno di un complesso quadro di elementi interconnessi e talvolta contrapposti che vanno presi in considerazione e vanno valutati, alla luce degli orientamenti prevalenti in un determinato contesto sociale.

3. Le direttive europee
Dopo 16 anni dall’adozione della direttiva 82/501/CEE (1) concernente i rischi di incidenti rilevanti, il Consiglio dell’Unione Europea adotta una nuova direttiva la 96/82/CE del 9 dicembre 1996(2) al fine di garantire una più efficace prevenzione degli incidenti e una migliore gestione dei rischi.
Obiettivo principale della nuova direttiva è introdurre un sistema di controllo per tutte le attività che prevedono l’utilizzazione di sostanze pericolose. Il presupposto è che la presenza di sostanze pericolose in uno stabilimento (industriale o non) comporta un rischio che deve essere valutato e gestito al fine di prevenire ogni possibile incidente.
Sulla base di questo nuovo obiettivo la direttiva del 1996 ha introdotto due elementi innovativi rispetto alla disciplina precedente.
Il primo concerne la disciplina del cd. “effetto domino” e cioè la gestione di quei casi in cui la pericolosità è data non dalla sola utilizzazione di sostanze pericolose in uno stabilimento, bensì anche dalle caratteristiche di una particolare realtà nella quale si trovano più attività industriali che insieme costituiscono elemento di rischio e pericolo. Il secondo elemento volto a garantire il controllo dell’urbanizzazione e cioè l’introduzione, nelle politiche che riguardano l’urbanizzazione, la destinazione e l’utilizzazione dei suoli, di obiettivi di prevenzione degli incidenti e di scelte che ne limitino al massimo le conseguenze.
In questa nuova cornice vengono ridefiniti gli adempimenti sulla base di un chiaro intento semplificatore.
L’Allegato 1 della direttiva individua due diversi scenari che si riferiscono a due diversi livelli di pericolosità, ai quali corrispondono specifici comportamenti. Per il primo livello è prevista la redazione del rapporto di sicurezza, mentre per il secondo è stabilito l’obbligo di notifica, oltre alla redazione di un documento concernente la politica di prevenzione degli incidenti rilevanti.
La direttiva rimette poi alla discrezionalità degli Stati membri la possibilità di individuare altre ipotesi di possibile pericolo da controllare.
Il termine ultimo per il recepimento da parte degli Stati membri della direttiva 96/82/CE era il dicembre 1999.

4. La normativa italiana
L’ordinamento italiano ha recepito la prima direttiva, la 82/501/CEE, con il DPR 17 maggio 1988, n. 175 (3). Il DPR 175 ha subito numerose modifiche, alcune delle quali ad opera di decreti-legge mai convertiti. Infine, con l’approvazione della legge 19 maggio 1997 n. 137 si arriva ad un punto fermo, che da una parte provvede a sanare tutte le attività poste in essere durante la vigenza dei decreti-legge, dall’altra introduce un regime transitorio che avrebbe dovuto permettere alla normativa di operare sino all’approvazione di una nuova disciplina, volta alla semplificazione delle procedure e delle competenze (così come previsto dalla legge 15 marzo 1997, n. 59).
La reiterazione dei decreti-legge e successivamente l’approvazione della legge 137/1997 hanno rappresentato il tentativo (peraltro non felice) di porre rimedio ad un sistema normativo dimostratosi assolutamente fallimentare.
I problemi principali riguardavano da una parte l’eccessiva complicazione del quadro delle competenze e dall’altra la definizione di procedimenti esageratamente complessi, aggravati e rallentati dai conflitti tra le diverse amministrazioni.
In questo scenario non poteva non considerarsi occasione ghiotta la necessità, derivante dalla riforma introdotta dall’Unione europea, di rinnovare il quadro normativo, per renderlo conforme alla nuova direttiva del 1996.
Gli ingredienti c’erano tutti: la nuova direttiva da recepire e l’approvazione del D.lgs 112/1998, con il quale sono state conferite alle Regioni le competenze amministrative in materia di industrie a rischio di incidenti rilevanti.
A ciò si aggiunga che la abrogazione direttiva del 82/501 da parte della direttiva 96/82 avrebbe consentito di abrogare anche la normativa nazionale, eliminando una volta per tutte un fardello pieno di lacune.
Certo la novità della assegnazione di un ruolo centrale alle Regioni non era da sola sufficiente a mettere ordine tra le diverse competenze, che inevitabilmente vengono coinvolte nella gestione di una attività industriale a rischio. Il riordino delle competenze rappresentava quindi l’impegno più complesso nell’attuazione della delega conferita con la legge 24 aprile 1998 (la legge comunitaria 1995 – 1997), volta a garantire il recepimento della direttiva 96/82/CE. Si è detto infatti che la direttiva si mostra invece chiara nella definizione delle situazioni di pericolo e nella individuazione dei comportamenti e degli adempimenti da parte dei soggetti coinvolti, per questi aspetti quindi sarebbe stato sufficiente un attento recepimento del testo normativo comunitario.
Qualcosa però, ancora una volta, non ha funzionato e il nuovo testo normativo adottato con il D.lgs 17 agosto 1999, n. 334 (4) dimostra che l’occasione è andata perduta.
La complessità del quadro delle competenze non cambia, anzi in parte ci si dimentica anche della nuova competenza regionale e si rafforza il potere centrale, chiamando nuovamente ad intervenire anche il Ministro della Sanità (annullando così quelle poche semplificazioni che si erano riuscite ad inserire con la modifica al previgente DPR 175/88).
Il giudizio negativo non concerne solo il quadro delle competenze, ma coinvolge tutto il sistema delineato, ancora una volta privo di elementi di coordinamento e eccessivamente burocratico e complesso.

5. In particolare: il D.lgs 17 agosto 1999, n. 334
a) Un efficace e elevato livello di protezione.
Scopo della direttiva 96/82/CE è “la prevenzione degli incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose e la limitazione delle conseguenze per l’uomo e per l’ambiente, al fine di assicurare in modo coerente ed efficace un elevato livello di protezione in tutta la Comunità”.
Il D.lgs n. 334/99, nell’art. 1, dedicato alle “finalità”, al primo comma reca: “Il presente decreto detta disposizioni finalizzate a prevenire incidenti rilevanti connessi a determinate sostanze pericolose e a limitarne le conseguenze per l’uomo e per l’ambiente”: l’ultima parte dello scopo indicato dalla direttiva è stata cassata.
Potrebbe trattarsi di uno scherzo dell’inconscio del legislatore che non è riuscito a non far trapelare che la nuova normativa nazionale si dimostra ancora una volta non in grado di garantire un efficace e elevato livello di protezione e infatti ad oltre un anno dalla sua entrata in vigore, si sta ancora discutendo sulla sua interpretazione (5).
b) Le definizioni.
Piccole, ma rilevanti, imprecisioni si trovano innanzitutto nella parte dedicata alle definizioni.
La direttiva ne detta otto, asciutte e stringate; otto (indicate con lettere) sono anche le definizioni del D.lgs 334/99, alcune di queste tuttavia presentano ingiustificate omissioni e altre non tengono conto della peculiarità della normativa nazionale.
La direttiva ad esempio definisce cosa debba intendersi per “stabilimento”, definizione di rilievo se si considera che l’ambito di applicazione della direttiva stessa sono gli “stabilimenti in cui sono presenti sostanze pericolose in quantità uguale o superiori …..”. A questi stabilimenti, così come definiti nel punto 1 dell’art. 3 della direttiva, si riferiscono gli adempimenti e gli obblighi normativi.
Nella normativa nazionale si è riprodotta la definizione di stabilimento contenuta nella direttiva, senza tenere conto che nel suo ambito di applicazione il DPR 334/1999 introduce una ulteriore distinzione tra stabilimenti e stabilimenti industriali.
La definizione di questi ultimi non è stata inserita e quindi non solo non si sa cosa si intenda esattamente con stabilimenti industriali, ma soprattutto non si può sapere in cosa i essi si differenziano dagli altri stabilimenti, non industriali, e dagli stabilimenti in generale cui fa riferimento la disciplina della direttiva.
Quanto rilevato per la definizione di stabilimento si ripropone anche per la definizione di incidente rilevante e di sostanze pericolose.
Ambedue le definizioni sono infatti l’esatta riproposizione di quelle dettate dalla direttiva, manca però il collegamento con gli elementi ulteriori introdotti dal D.lgs 334/1999; una discrepanza che pone non pochi problemi interpretativi.
Diverso invece è quanto accaduto con la definizione di “gestore”. La direttiva con questa definizione ha infatti inteso risolvere il problema dell’individuazione del soggetto responsabile degli adempimenti nell’ambito dello stabilimento.
Importante, in particolare, è il riferimento alla “… persona cui è stato delegato, ove ciò previsto dalla legislazione nazionale, un potere economico determinante in relazione al funzionamento tecnico dello stabilimento o dell’impianto.”
In tal modo si è inteso superare il problema della sempre troppo difficile individuazione dei soggetti chiamati a rispondere degli eventuali incidenti o comunque chiamati a garantire il rispetto della normativa. La direttiva vuole evitare che si realizzi il solito rimpallo delle responsabilità, soprattutto nel caso di organizzazioni imprenditoriali molto complesse. Per la norma europea deve ritenersi gestore anche il soggetto delegato, in grado di decidere per una determinato settore e quindi in grado di rendere operative le decisioni (con autonomia di spesa e di scelta), ciò indipendentemente dal fatto che questi debba rendere conto ad un superiore o debba comunque orientarsi nell’ambito di scelte più generali.
Il problema è noto anche nell’ordinamento italiano, sul quale tanto hanno discusso dottrina e giurisprudenza e, in particolare, quest’ultima ha ammesso l’ipotesi della delega delle responsabilità anche nei confronti di un soggetto all’uopo incaricato. Delega che per esplicare la sua efficacia e la sua validità deve essere formale, esplicita e contenere requisiti di puntualità con riferimento all’oggetto e al suo contenuto, di certezza dell’attribuzione dell’autonomia decisionale e economica; nonché deve essere conferita a persona idonea, adeguatamente preparata che non può essere sostituita nelle sue decisioni se non in seguito ad una valutazione tecnica di pari competenza. In presenza di questi elementi si può parlare di soggetto delegato e quindi per il caso della normativa di cui si scrive di “gestore delegato”.
Perché non cogliere allora l’occasione, almeno in questa materia, di rendere più agevole e rapida l’individuazione del soggetto – gestore a cui fare riferimento, recependo in pieno la definizione della direttiva.
Due possono essere le risposte: una strisciante agevolazione a quella parte di imprese che pensa ancora di poter sfuggire alle proprie responsabilità rifugiandosi dietro la propria complessità organizzativa, oppure una decisione un pò “pilatesca”, che preferisce non riconoscere in modo definitivo l’esistenza della delega, rinviando il problema di volta in volta alle amministrazioni in sede di attuazione degli adempimenti oppure alla giurisprudenza in caso di contenzioso. In entrambi i casi un’ulteriore occasione perduta, a discapito della maggiore efficacia della normativa e dell’elevato livello di tutela.
c) Le competenze
Si è già detto che la normativa ripropone un quadro di competenze eccessivamente complesso e soprattutto altalenante tra la scelta di conferite le competenze amministrative alla Regione e la resistenza di chi intende comunque lasciare le redini della gestione e del coordinamento del sistema in capo allo Stato.
Il risultato è che da una parte si rinvia a specifiche normative regionali (6), alle quali spetta il compito di disciplinare l’esercizio delle competenze amministrative in materia di incidenti rilevanti (art. 18), dall’altra non si rinuncia ad attribuire in parte al Ministero dell’Ambiente e in parte al Ministero dell’Interno il compito di ricevere e valutare atti fondamentali quali ad esempio il piano di emergenza esterno e il rapporto di sicurezza (artt. 20 e 21).
Emblematico è il caso dell’attività istruttoria inerente il rapporto di sicurezza di cui all’art. 8 del D.lgs 334/1999 (l’atto concernente le situazioni di maggior rischio) che, in attesa delle specifiche normative regionali di cui si è detto, è stata assegnata ai Comitati tecnici regionali antincendio di cui all’art. 20 del DPR 29 luglio 1982, n. 577.
Innanzitutto, c’è da chiedersi perché la competenza sia stata assegnata ad un organo decentrato del Ministero dell’Interno ed in secondo luogo perché il Comitato tecnico di cui si è detto deve operare integrato dalla partecipazione del Comandante provinciale del Vigili del Fuoco (si tenga conto che nel comitato già operano di diritto tre funzionari tecnici del Corpo dei Vigili del Fuoco della regione, di cui almeno due con funzioni di comandante: melius abundare quam deficere!), da due rappresentanti dell’ARPA, due rappresentanti dell’ISPEL, un rappresentante della regione, un rappresentante della provincia e un rappresentante del comune.
Un organo mastodontico, privo però di una figura in grado di coordinarne l’operato. Sarebbe stato più opportuno limitare la partecipazione al Comitato ai soli uffici tecnici, e coinvolgere invece le amministrazioni mediante una conferenza di servizi (che guarda caso nonostante la complessità della materia non è stata prevista).
Non si comprende peraltro perché non si sia affidato il coordinamento della attività istruttoria alla ARPA, organo sicuramente competenti e soprattutto adatti a valutare la situazione nel suo complesso, anche con riferimento alle peculiarità del territorio (7).
È vero che il Comitato ha funzioni istruttorie ma è anche vero che a questo spetta la valutazione tecnica finale e quindi anche la decisione in merito all’inizio dell’attività.
Il tutto è complicato dal fatto che gli atti adottati dal Comitato devono essere trasmessi al Ministero dell’Ambiente, al Ministero dell’Interno, alla regione, al prefetto e al sindaco, nonché, per l’applicazione della normativa antincendi, al Comando provinciale dei vigili del fuoco competente. Non si può negare che vi sia qualche confusione tra la fase istruttoria, e la fase dedicata alle decisioni operative e infine gli incombenti di informazione.
In futuro non mancheranno conflitti e diverse interpretazioni sul ruolo che ciascuno dei partecipanti al Comitato, e dei soggetti che da questo devono essere informati, è chiamato a svolgere.
Quanto detto sino ad ora concerne il sistema di competenze volto alla valutazione del rapporto di sicurezza che rappresenta, come si è detto, uno degli adempimenti di maggior rilievo.
La situazione non cambia, anzi forse diventa grottesca nel caso del verificarsi di un incidente rilevante. L’art. 24 del D.lgs 334/1999 prevede infatti che il gestore informi dell’incidente: il prefetto, il sindaco, il Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco, il presidente della giunta regionale e il presidente provinciale, ponendo con ciò le inevitabili premesse per un sovrapporsi di istruzioni, di ordini, di indicazioni e per un conflitto di competenze.
Le esigenze di celerità, l’immediatezza delle verifiche di quanto accaduto e quanto posto in essere dal gestore, per ridurre al minimo le conseguenze dell’incidente, avrebbero richiesto la individuazione di un soggetto di riferimento al quale, una volta raccolta la denuncia dell’incidente, assegnare il compito di informare tutte le autorità competenti.
Da ultimo, per ciò che riguarda i controlli, deve essere rilevata la difficoltà di conciliare il contenuto dell’art.25 del D.lgs 334/1999 con quanto già stabilito dall’art.20 del DPR 175/1988, che incomprensibilmente è stato sottratto all’abrogazione operata dall’art.30 del Dlgs 334/1999 di tutto il DPR 175/1988: ancora una volta una scelta in contrasto con la certezza del diritto e con l’obiettivo di semplificazione
d) I soggetti obbligati
La direttiva 96/82 come si è detto individua due categorie di soggetti obbligati, la normativa nazionale ne ha invece introdotte cinque.
A queste peraltro corrispondono obblighi di diverso tipo e entità.
L’art.2, comma 1, del D.lgs 334/1999 innanzitutto individua due categorie a maggior rischio.
La prima concerne gli stabilimenti in cui sono presenti sostanze pericolose in quantità uguali e superiori a quelle indicate nella colonna 3 dell’allegato I al decreto, parti 1 e 2; la seconda è rappresentata invece dagli stabilimenti in cui sono presenti le medesime sostanze pericolose, però in misura uguale o superiore a quelle indicate nella colonna 2 sempre dell’allegato I al decreto.
I gestori di ambedue gli stabilimenti, ai sensi degli artt. 6 e 7, devono:
– notificare (al Ministero dell’Ambiente, alla regione, alle province, al comune, al Prefetto e al Comitato tecnico regionale) tutte le informazioni di rilievo concernenti le attività e le modalità di utilizzo e deposito delle sostanze pericolose;
– inviare (al Ministero dell’Ambiente, alla Regione, al Sindaco e al Prefetto) le informazioni di cui all’allegato V;
– redigere un documento che definisce la politica di prevenzione degli incidenti rilevanti.
Inoltre, solo la prima delle due categorie di stabilimenti è anche tenuta, ai sensi dell’art.8, a predisporre il rapporto di sicurezza.
Altre due categorie di soggetti obbligati riguardano invece esclusivamente gli stabilimenti industriali (art. 2, comma 3 e art. 5).
Si tratta da una parte di quegli stabilimenti industriali elencati nell’allegato A al decreto e nei quali risultano presenti sostanze pericolose in quantità inferiori a quelle indicate nell’allegato I, dall’altra degli “stabilimenti industriali di cui all’allegato A in cui sono presenti sostanze in quantità superiori ai valori di cui al punto 3 dell’allegato B, e per le sostanze e le categorie dell’allegato I, in quantità inferiori ai valori soglia ivi riportati”.
I primi, ai sensi dell’art.5, devono provvedere alla individuazione dei rischio di incidenti rilevanti, integrando il documento di valutazione dei rischi di cui al D.lgs 626/94.
I secondi devono invece presentare (alla Regione e al Prefetto) una relazione contenente le informazioni relative al processo produttivo, alle sostanze pericolose presenti, alla valutazione dei rischi di incidente rilevante, all’adozione di misure di sicurezza appropriate, alle modalità di informazione e alle iniziative per la formazione e l’addestramento del personale addetto, nonché predisporre il piano di emergenza interno.
A queste quattro categorie di soggetti obbligati se ne aggiunge una quinta: tutti gli stabilimenti (non si capisce se industriali o no) che non corrispondono alle caratteristiche di cui alle altre quattro categorie, ma nei quali sono comunque presenti sostanze pericolose. Questi ultimi sono tenuti “a prendere tutte le misure idonee a prevenire gli incidenti rilevanti e limitarne le conseguenze per l’uomo e per l’ambiente”, nel rispetto dei principi del decreto e delle normative vigenti in materia di sicurezza ed igiene.
Dunque, una notevole varietà di adempimenti, con la predisposizione di informative e documenti da inviare ad autorità di volta in volta diverse.
E’ il caso di ricordare ancora una volta che un obiettivo della nuova direttiva è la semplificazione degli adempimenti, questa infatti prevede esclusivamente la possibilità della notifica, la definizione della politica di prevenzione degli incidenti rilevanti e per i casi di maggior rischio la redazione del rapporto di sicurezza.
Ma perché allora l’ordinamento italiano ha preferito introdurre tante tipologie di atti, quando era possibile prevedere l’introduzione del documento di politica di prevenzione per tutti gli stabilimenti obbligati, indipendentemente dal grado di rischio, e poi richiedere la notifica e il rapporto di sicurezza sulla base del maggior rischio di incidente.
A questo complesso quadro di attività deve poi aggiungersi che la nuova normativa non ha pensato di raccordare i nuovi obblighi con gli altri adempimenti connessi all’esercizio delle attività industriali; pertanto un nuovo stabilimento soggetto alla normativa sui rischi, dovrà richiedere anche tutte le altre autorizzazioni urbanistiche, ambientali e sanitarie previste dalla normativa vigente.
Altro che semplificazione dei procedimenti: siamo di fronte ad un faticoso labirinto che si va ad aggiungere al numero di autorizzazioni, assensi e pareri necessari per poter avviare una attività produttiva.
e) L’attuazione del decreto
Anche nel caso del D.lgs 334/1999, l’operatività della normativa dipende dalla approvazione di atti regolamentari successivi.
Il decreto ne prevede circa 20.
Sino ad oggi ne è stato emanato, peraltro con un anno di distanza, soltanto uno: il decreto del Ministro dell’Ambiente del 9 agosto 2000, concernente le linee guida per l’attuazione del sistema di gestione della sicurezza (8).
Pertanto alle difficoltà intrinseche al decreto di cui si è detto si deve, aggiungere l’impossibilità a tutt’oggi di avviare il sistema in quanto mancano alcune direttive fondamentali, sino all’emanazione delle quali si continua a transitare tra il sistema previgente e quello nuovo. Ciò nonostante il riprodursi degli incidenti e una più che dimostrata incapacità di prevenzione e di riduzione dei rischi conseguenti.
Inutile inoltre dire che gli aspetti innovativi introdotti dalla nuova direttiva comunitaria, e di cui si è detto all’inizio, quale il c.d. “effetto domino” e il controllo dell’urbanizzazione, per quanto riproposti anche dalla normativa nazionale difficilmente potranno trovare reale attuazione. Anche per questi mancano le linee direttive; ma in ogni caso si tratta di obiettivi raggiungibili solo in un sistema in grado di garantire la conoscenza di tutte le informazioni inerenti le attività svolte sul territorio e in particolare sulle attività da considerare a rischio effettivo o potenziale: un sistema cioè che consenta alle autorità pubbliche di essere in possesso dei dati necessari a delineare una sorta di carta della situazioni a maggior rischio e quindi in grado di introdurre mezzi di prevenzione oltre che adottare scelte di riduzione del pericolo, anche attraverso ipotesi di delocalizzazioni o mutamenti della organizzazione urbanistica del territorio.
Un sogno per l’ordinamento italiano, che ha nuovamente partorito un mostro normativo, che non evita in alcun modo il prodursi di rischi industriali e costringerà a rincorrere le emergenze, adottando rimedi provvisori.
In definitiva per l’Italia un sistema di prevenzione dei rischi derivanti dalle attività connesse all’uso di sostanze pericolose e con esso la possibilità di ottenere un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute, rimane e forse rimarrà ancora per molto tempo un miraggio.

Voluntary Agreement – Italy Country Report

1. Introduction
This document represents the Italian National report on the research project “New Instruments for Sustainability – the contribution of voluntary agreements to environmental policy”. The report is divided into three sections.
· The first section inventories voluntary agreements in existence in Italy according to parameters indicated by the research project.
· The second section describes in general the role of voluntary agreements within the context of Italian environmental policies.
· The third section sets forth proposals for a more detailed analysis of those agreements deemed most significant.
It is necessary to make several remarks concerning the structure of the report, which at times deviates in some aspects from the general project outline.
With respect to the inventory of existing agreements, it is important to point out that in Italy there is no technical-scientific institution where all information of an environmental nature required for this research is available. Consequently, the approach to the inventory of existing agreements has mainly been empirical. First, we have prepared a list of subjects which presumably would have entered into voluntary agreements or at least would have had knowledge of such agreements. Secondly, we have attempted to contact these subjects to collect information for the drafting of the report. Sources contacted are:
· Environmental literature and magazines;
· Ministero dell’Ambiente (Ministry of Environment);
· Istituto studi regarding the Regions);
· Regione Lombardia Veneto, Emilia-Romagna (Lombardia, Veneto and Emilia Romagna Regions);
· Consorzio Nazionale Obbligatorio per il Riciclaggio di contenitori per liquidi in plastica (REPLASTIC); [National Compulsory Consortium for recycling of plastic containers (for liquids)];
· Associazioni ambientalisti (LEGAMBIENTE); (Environmental associations)
· Istituto per l’Ambiente, IEFE-Bocconi.
Information was gathered without the use of any organised filing system. It relies on the personal assistance of the individuals contacted. The inventory of agreements therefor might not be complete.
In Italian legal practice the distinction between binding and non-binding agreements it is not relevant because agreements never provide for judicial or arbitrational forms of control for implementation. They are therefore equivalent to “moral” rather than legal agreements, none of them is binding in the sense of enforceable.
A distinction can be made between agreements where parties undertake to obtain a certain objective of environmental policy (for example to limit the increase the average contents of gasoline in unleaded gasoline to a determined value), and agreements of a project nature, for example those entered into between Fiat and the Ministry of Environment.
2. Section I
2.1 Inventory of Existing Environmental Law Agreements in Italy
2.1.1 Overview
Negotiated Agreements
1 Frame Agreement dated June 22, 1995 for the return and recycling of dead lead batteries
2 Frame agreement dated June 22,1995 for the collection and the return of plastic liquid containers
3 Agreement dated July 15, 1993 between the Region Lombardia and Replastic
4 Agreement dated July 13, 1993 between the Region Veneto and Replastic
5 Agreement between the Region Campania and Replastic of 1995
6 Agreement of 1994 for the placement of plastic materials from waste collected and separated within the city
7 Agreement between the Region Lombardia and Consorzio Volontario Nazionale for return and recycling of paper and cardboard, promoted by Assocarta, Assografici and Unioncarta of January 25, 1996
8 Agreement between the Region Lombardia and Consorzio Volontario Nazionale for safeguarding quality in all production phases, use, regeneration and discharge of consumer material and accessories for information equipment and office appliances ( May 25, 1994)
9 Frame agreement for the collection and recycling of residues of March 29, 1995
10 Agreement to begin an experimental “door to door” service of collection and separation of paper in the municipalities of S.Donato and Borgo Panigale of the city Bologna and for the development and rationalization of the current forms of collection
11 Agreement for marketing and valorization of paper and cardboard
Agreements concerning the Management of Water Resources
12 Agreement on a programme to reduce water consumption and polluting loads from the dry cleaner industry of July 11, 1994
Agreements concerning the Reduction of Air Pollution
13 Reduction of benzene in unleaded petrol of July 12, 1989
14 Development and Environment of June 28, 1993
15 Development and Environment of June 28, 1993
16 Experimental project Falck for the recycling of refrigerators
17 Agreement between the chemistry and the dry cleaning on chloride solvents
18 Agreement between Fiat and the Ministry of Environment of 1989
19 Development and Environment of June 28, 1993
20 Development and Environment of June 28, 1993
21 Development and Environment of June 28, 1993
22 Agenda Coop for the Environment of March 29-31, 1995
Amicable Agreements
23 Ecological Hotel (in view of the Programme Blue Garda)
24 Ecological Hotel
25 Project Elbambiente
2.1.2 Negotiated Agreements
Agreements concerning the Management of Waste
Agreements entered into between obligatory national consortiums

(1) Name Frame Agreement dated June 22, 1995 for the return and recycling of dead lead batteries
Parties Involved Anci (Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia)-Federambiente (Federazione dei servizi pubblici di igiene ambientale) – Assoambiente (Associazione Imprese servizi Ambientali which carry on environmental health services on the basis of a license) – Cobat (Consorzio Obbligatorio dead Lead Batteries and lead waste).
Environmental Problem Management of dangerous urban waste.
Goal (Commitment & Target) Recycling of dead batteries contained in solid urban waste or brought directly by individual citizens to the recycling centres.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration Three years
Legal Status Non-Binding
Framework The purpose of this agreement is to determine the maximum content of each single agreement which will be entered into between Cobat (or an entrusted waste collector) and the single municipality where the collection and separation of dead lead batteries is to be started up.
Monitoring The implementation of the agreement has been guaranteed and checked by a commission composed of eight members appointed by the parties.

(2) Name Frame agreement dated June 22,1995 for the collection and the return of plastic liquid containers
Parties Involved Replastic Anci-Federambiente – Assoambiente.
Environmental Problem Management of plastic waste.
Goal (Commitment & Target) The Municipalities start up systems for the collection and separation of plastic containers for liquids: the goal is to guarantee the attainment of a return of 2,4 kilo per head per year with less than 25% of foreign parts within the waste collected. The returns are to be recycled to promote energy recovery.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement.
Duration & Reason for Expiration Until December 31, 1997.
Legal Status Non-Binding.
Framework The purpose of this agreement is to determine the contents of the single implementing agreements which Replastic will enter into with Municipalities interested in starting the collection and separation of plastic liquid containers. This agreement renews and broadens the goal of the previous agreement of January 1993 which has expired
Monitoring Implementation of the agreement is checked and guaranteed by a special controlling commission composed of representatives appointed by both parties on the basis of control procedures set forth in the agreement itself.

(3) Name Agreement dated July 15, 1993 between the Region Lombardia and Replastic
Parties Involved Region Lombardia and Replastic
Environmental Problem Management of waste which contains plastic.
Goal (Commitment & Target) The municipalities of the Region Lombardia start up the collection and separation of waste: the objective is to collect at least 2 kilos of waste per year per individual served. Waste contains foreign parts of less than 15% of the total weight. The returns are to be recycled under Replastic’s control.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration Without time limit, biennial verification
Legal Status Non-Binding
Framework The Region Lombardia shall arrange at the expense of the Municipalities within 90 days from the date in which Regional Law 21/93 came into force start up of separate systems for the collection of plastic liquid containers. It shall do so by introducing adequate disincentives for other forms of waste collection and assignment.
Monitoring The Region Lombardia shall arrange at the expense of the Municipalities within 90 days from the date in which Regional Law 21/93 came into force start up of separate systems for the collection of plastic liquid containers. It shall do so by introducing adequate disincentives for other forms of waste collection and assignment.

(4) Name Agreement dated July 13, 1993 between the Region Veneto and Replastic
Parties Involved Region Veneto, Replastic
Environmental Problem Management of plastic waste
Goal (Commitment & Target) The Region aims to start up in the municipalities within its territory the collection and separation of plastic liquid bottles, in observance with the goals set forth in the frame agreement. Replastic collaborates with the town councillor for Ecological concerns to undertake projects for the separation and evaluation of the dry part of the waste.
Counterperformance
Type of Agreement
Duration & Reason for Expiration Renewable after three years from lapse of the stipulation..
Legal Status Non-Binding
Framework
Monitoring The Region Veneto introduces possible sanctions within the standard regulation for failure to use established collection systems for waste separation.

(5) Name Agreement between the Region Campania and Replastic of 1995
Parties Involved Region Campania and Replastic
Environmental Problem Management of plastic waste
Goal (Commitment & Target) Collection systems for waste are set up to recycle plastic bottles (for liquids)
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration Without any time limit.
Legal Status Non-Binding
Framework Implementation of the Frame Agreement dated 1995
Monitoring Establishment of a Co-ordination Commission to monitor the collection and separation of waste; the Commission is composed of the President of the Region, the Prefect of Naples, a representative from the Ministry of the Environment, and the Chairman of Replastic. The Commission meets at least once a month

(6) Name Agreement of 1994 for the placement of plastic materials from waste collected and separated within the city
Parties Involved Province of Bergamo, Replastic and Workers for waste returns
Environmental Problem Management of plastic waste
Goal (Commitment & Target) Improve the collection systems for the collection and separation of waste and the recycling of plastic bottles for both liquids and solids; assure coordinated management of the plastic materials contained in the solid urban waste collected; treatment of the same; and provide a means whereby [waste return] workers receive a determined quantity of returns.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration Two years
Legal Status Non-Binding
Framework Set up the provisions of the Frame Agreement of 1993 and Regional Law 21/1993 which assign to the Provinces coordinating tasks regarding the collection and separation of waste
Monitoring Final report on experience two years after entering into the agreement.
2.1.3 Other Agreements

(7) Name Agreement between the Region Lombardia and Consorzio Volontario Nazionale for return and recycling of paper and cardboard, promoted by Assocarta, Assografici and Unioncarta of January 25, 1996
Parties Involved Region Lombardia and COMIECO.
Environmental Problem Set up the collection and separation of paper waste.
Goal (Commitment & Target) Set up systems for the collection, separation, and recycling of paper within the Municipalities of the Region Lombardia. The goal is to collect at least 2,000,000 tons a year from house garbage and industrial or service industry waste. The amount of impurities is not to exceed 5% of the weight of the product.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration Subject to re-negotiation after two years on the basis of the experience gained
Legal Status Non-Binding
Framework Each of the parties agrees to start negotiations for an agreement with the Province which forms the implementation tool of the agreement. The provincial agreement, to be entered into by the municipalities, the recyclers and paper factories, with the co-ordination and the verification of the Provinces, will establish the actual means of commencing separation and collection in compliance with the contents of the agreement between the Region and Comieco.
Monitoring

(8) Name Agreement between the Region Lombardia and Consorzio Volontario Nazionale for safeguarding quality in all production phases, use, regeneration and discharge of consumer material and accessories for information equipment and office appliances ( May 25, 1994)
Parties Involved Region Lombardia and Consorzio Ecoqual’it
Environmental Problem Management of waste
Goal (Commitment & Target) Provide incentives for utilisation of office appliances of a certain quality and arrange for a system of waste collection of the exhausted materials (toner for printers and photocopiers etc.) to allow control over the proper discharge of this waste and if necessary to direct it to recovery.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration Subject to re-negotiation after three years on the basis of experience gained
Legal Status Non-Binding
Framework Entering into the agreement must be interpreted in light of Regional Law 21/93 which assigns to the Region the tasks of providing incentives and coordinating the market of recovery parts collected separately and treatment of the same, as well as the recycling of the materials
Monitoring Semestral report by Ecoqual’it

(9) Name Frame agreement for the collection and recycling of residues of March 29, 1995
Parties Involved Anci (Associazione nazionale dei comuni d’Italia)-Federambiente (Associazione Nazionale delle Aziende Municipalizzate which manage environmental and hygiene services) – Cic (Consorzio for the manufacture of fertilizer of controlled quality with low energy necessities)
Environmental Problem Waste Management
Goal (Commitment & Target) Starting up systems of separation of waste destined for treatment plants in order to make quality compost (the humid part of solid urban waste, remainders of wood-cellulose deriving from the maintenance of green landscaping, muds from purification of urban water residues, organic remainders from industrial activities and stock-farming.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration Three years
Legal Status Non-Binding
Framework This agreement aims to determine the contents of all implementing agreements which will be entered into by CIC and interested Municipalities to begin collection and separation of waste destined for compost manufacturing
Monitoring The implementation of the agreement is checked by a Commission composed of the contracting parties

(10) Name Agreement to begin an experimental “door to door” service of collection and separation of paper in the municipalities of S.Donato and Borgo Panigale of the city Bologna and for the development and rationalization of the current forms of collection
Parties Involved AMIU, Comieco and Ditta Olga Fini from Bologna
Environmental Problem Management of paper waste
Goal (Commitment & Target) Develop and rationalize collection and separation of waste already in existence by beginning a “door to door” service
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration One year
Legal Status Non-Binding
Framework
Monitoring The parties agree to meet periodically to verify development of the project

(11) Name Agreement for marketing and valorization of paper and cardboard
Parties Involved AMIU, Comieco and Ditta Olga Fini from Bologna
Environmental Problem Management of paper waste
Goal (Commitment & Target) Develop and rationalise waste collection and separation already in existence by beginning a “door to door” service
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration One year
Legal Status Non-Binding
Framework
Monitoring The parties agree to meet periodically to verify development of the project
2.1.4 Agreements concerning the Management of Water Resources

(12) Name Agreement on a programme to reduce water consumption and polluting loads from the dry cleaner industry of July 11, 1994
Parties Involved Region Emilia Romagna, Province of Modena, Municipality of Carpi, Associazione Industriali di Modena, Associazione small industries of Modena, Filtea CGIL, Filtea CISL, Uilta UIL and 15 dry cleaner firms from the neighborhood
Environmental Problem Reduction of industrial water pollution and consumption
Goal (Commitment & Target) Improve and rationalize the production cycles of textile industries of the zone, adopt a centralised treatment service with the municipality’s water conditioner to obtain water adequate for re-use in the industrial sector, develop a water system to supply recycled water to the companies, construct separated sewers for the companies, possible delocalisation S: ?of the companies concerned.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration Not mentioned
Legal Status Non-Binding
Framework The companies undertake to finance construction of infrastructure with a contribution in proportion to the quantity of water they used the preceding year. Furthermore, they undertake take not less than 60% of water requirements from the future industrial water system. The local entities commit, each according to their own competences, to develop infrastructure set forth in the project by applying successively advantageous tariffs for the use of water to the financing companies.
Monitoring
2.1.5 Agreements concerning the Reduction of Air Pollution

(13) Name Reduction of benzene in unleaded petrol of July 12, 1989
Parties Involved Ministry of Industry and Commerce , Ministry of Environment, Sector Agip Petroli and the Unione Petrolifera
Environmental Problem Reduction of emissions of lead into the environment and creation of incentives to use catalytic exhaust pipes on cars
Goal (Commitment & Target) Limit the average yearly increase of benzene in unleaded petrol introduced into the domestic market to 0,6 % with regard to the current average contents of benzene in the ethylic petrol assessed at 3,2% in volume.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration Not mentioned
Legal Status Non-Binding
Framework The Agreement has been replaced by a new agreement of October 29, 1992 which not only extended application to the whole national territory and to all kinds of petrol on the Italian market but also anticipated the contents of the European directive on the contents of sulfur in fuel.
Monitoring Commission of verification composed of members appointed by the parties

(14) Name Development and Environment of June 28, 1993
Parties Involved Fiat and Ministry of Environment
Environmental Problem Reduction of automotive emissions into the air.
Goal (Commitment & Target) Begin research projects aimed at developing better fuel quality, develop more sophisticated catalytic devices, direct injection and diesel, design of busses which run on methane and hybrids.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration Not mentioned
Legal Status Non-Binding
Framework
Monitoring

(15) Name Development and Environment of June 28, 1993.
Parties Involved Fiat and Ministry of Environment
Environmental Problem Reduction of environmental impact of traffic in the urban areas
Goal (Commitment & Target) Begin research-pilot projects in Municipalities of the national territory aimed at improving urban mobility and environmental protection
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration Not mentioned
Legal Status
Framework Agreement on the programme
Monitoring

(16) Name Experimental project Falck for the recycling of refrigerators
Parties Involved Falck S.p.A and Azienda municipalizzata of Piacenza
Environmental Problem Reduction of air pollution by CFC
Goal (Commitment & Target) Recovery of CFC and valuation of refrigeration materials which can be re-used in new production cycles.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated agreement
Duration & Reason for Expiration From October 1 1996 to March 31 1997 with the possibility of continuing the collaboration
Legal Status Non-Binding
Framework
Monitoring Upon termination of the experiments the parties assess the possibility of continuing collaboration

(17) Name Agreement between the chemistry and the dry cleaning on chloride solvents
Parties Involved Associazione italiana dry clean and cleaner ‘s shop, Federazione Nazionale Pulintintilavanderi Artigiane, confederazione libere associazioni artigiane italiane e Federchimica Assobase
Environmental Problem Air pollution by chloride solvents and pollution due to the discharge of waste generated by their use
Goal (Commitment & Target) Reduction of air pollution by CFC without least S: please check1/3 of the emissions of chloride solvents and elimination of the abusive discharge of waste containing chloride solvents
Counterperformance
Type of Agreement Amicable agreement between industrial associations
Duration & Reason for Expiration Three years
Legal Status Non-Binding
Framework
Monitoring Annual report on the progress of the project by each contracting party

(18) Name Agreement between Fiat and the Ministry of Environment of 1989
Parties Involved Ministry of Environment and Fiat
Environmental Problem Reduction of air and noise pollution
Goal (Commitment & Target) Setting up of research programs in the vehicle sector and environmental monitoring; starting up campaigns to encourage the use of cars equipped with catalytic exhaust pipes; have Fiat put its own techniques at the disposal of the Ministry of Environment and its own environmental data for the realization of a environmental monitoring system.
Counterperformance
Type of Agreement Negotiated Agreement (letter of intent)
Duration & Reason for Expiration Not mentioned
Legal Status Non- Binding
Framework
Monitoring Undertaking by the Ministry of Environment to create a national information system for the environment in order to survey the parameters of noise and air pollution
2.1.6 Self Obligation Programmes

(19) Name Development and Environment of June 28, 1993
Parties Involved Fiat and Ministry of Environment (for their information)
Environmental Problem Recycling of old cars to be disposed (Fiat car recycling System of 1992)
Goal (Commitment & Target) Drafting of research projects in order to propose the extension of the system at a national level, given the lack of legislation on car destruction/wrecking.
Counterperformance
Type of Agreement Self-obligation
Duration & Reason for Expiration Not mentioned
Legal Status
Framework
Monitoring

(20) Name Development and Environment of June 28, 1993
Parties Involved Fiat and Ministry of Environment (for their information)
Environmental Problem Environmental Management
Goal (Commitment & Target) Extension of the environmental management system to all the plants of the group.
Counterperformance
Type of Agreement Self-obligation
Duration & Reason for Expiration Not mentioned
Legal Status
Framework Voluntary experimentation on the EC regulation relating to the eco-audit
Monitoring

(21) Name Development and Environment of June 28, 1993
Parties Involved Fiat and Ministry of Environment
Environmental Problem Treatment of the remainders of industrial processing (Fenice system)
Goal (Commitment & Target) Maximum use of clean technologies within the plants of the group to recover and recycle remainders and reduce the at a physiological levelS: please check quantities of remainders to be sent to landfills; attain maximum control over all phases of discharge of waste produced by the plants of the group.
Counterperformance
Type of Agreement Self-obligation
Duration & Reason for Expiration
Legal Status
Framework
Monitoring

(22) Name Agenda Coop for the Environment of March 29-31, 1995
Parties Involved Coop
Environmental Problem Safeguard of the environment in general
Goal (Commitment & Target) Observance of the principles of behavior set forth in the action programme in order to attain environmental efficiency and promote behavioral changes in consumers.
Counterperformance
Type of Agreement Self-obligation
Duration & Reason for Expiration Unlimited
Legal Status
Framework
Monitoring
2.1.7 Amicable Agreements

(23) Name Ecological Hotel (in view of the Programme Blue Garda)
Parties Involved Unione gardesana of Veronese hoteliers and Lega ambiente Sezione di Verona
Environmental Problem Improvement of the environmental quality and reduction of the pollution of the Garda lake caused by tourism.
Goal (Commitment & Target) Propose an eco-friendly tourism in the Garda lake area through reduction of the current and potential impact of tourism on the environment, create forms which safeguard the environment, and teach the consumer consciousness and respect for places and persons.
Counterperformance
Type of Agreement Neighbourhood agreement
Duration & Reason for Expiration Unlimited starting from 1996
Legal Status Non-Binding
Framework
Monitoring A commission established pursuant to the agreement evaluates the results obtained by the contracting hoteliers. The evaluation is conducted on the basis of those requirements selected by each hotelier. After the evaluation, a list indicating the best environmental performance through assignment of marks, is drafted.

(24) Name Ecological Hotel
Parties Involved Movimento consumatori Veneto, Unione regionale albergatori del Veneto, Legambiente Veneto
Environmental Problem Reduction of the pollution on the territory
Goal (Commitment & Target) Safeguard of the Environment and human beings through evaluation and reduction of the current and potential impact of tourism on health and the environment by the use of environmental protection techniques and environmental education of tourists.
Counterperformance
Type of Agreement Neighbourhood agreement
Duration & Reason for Expiration Unlimited starting from 1995
Legal Status Non-Binding
Framework
Monitoring A commission composed of a representative of Legambiente, a representative of the Consumer Movement Veneto, a representative of the Associazione Jesolana albergatori checks whether the requirements for participation to the programme exist in the period in which the fiscal year opens.

(25) Name Project Elbambiente
Parties Involved Associazione albergatori dell’ Isola d’Elba and Legambiente (Isola d’Elba section)
Environmental Problem Reduction of pollution of the sea and prevention of forest fires
Goal (Commitment & Target) Pursue a policy of environmental protection; evaluate the current and potential impact of their hotel activities on the health of their employees, their clients, and the public and on the environment in general so as to reduce the negative effects of hotel activities on the territory of the island.
Counterperformance
Type of Agreement Neighbourhood agreement
Duration & Reason for Expiration Starting from 1994
Legal Status Non-Binding
Framework
Monitoring A mechanism which allows through a “green” mark system to quantify the measures adopted by each hotelier has been introduced so as to attain the goals of the agreement and to provide incentives for competition among the participating parties to realise the best environmental performance.
3. Section II
3.1 Brief History of Environmental Agreements Entered into Voluntary in Italy
The environmental agreements entered into voluntarily represent a new phenomenon for the Italian legal system. The first of these agreements date back to the late eighties. Then large private companies such as Fiat or Agip Petroli and the Ministry of Environment were parties to the agreements. The parties to these agreements called them “project agreements” or “protocol of agreements” or simply “agreements”. Because collaboration between the parties created by these agreements derives from practice and not by reference to any law currently in force, it is difficult to determine the legal nature of the agreements and their efficacy . The name given to these agreements by the parties themselves reflects these uncertainties, since all voluntary agreements entered into in Italy from the late eighties to the present may be interpreted as general expressions of the wish of the parties to undertake, even if in a non binding manner, activities with regard to the environment. For this reason none of the agreements inventoried in part 1 above provides for any legal consequences in case of non fulfilment by one of the parties of the undertakings agreed upon.
Because of the absence of any theoretical elaboration, it is very difficult to trace an historical framework of the agreements entered into in Italy. Development has had an episodic character and for many reasons is still experimental. Thus even distinctions among negotiated agreements, amicable agreements and agreements which provide for forms of auto-obligation of the companies are useful to classify voluntary agreements, but not to understand their development.
On the other hand, that in 1988 the Italian Legislature set up the Consorzi Obbligatori for recycling is extremely important for the purposes of analysing the evolution of the various forms of voluntary environmental agreements. So-called environmental regulatory programs have been experimented with, and herein the voluntary agreement between interested parties has played an important role. The regulatory programme provides for the involvement, on the basis of a legislative provision, of a sector of companies in order to attain a determined environmental goal. That goal in Italy involved the reduction of the removal of dumped waste of certain types. The regulatory programme is thus somewhere between the legislative regulation and the co-operative form: the negotiated form of the voluntary agreement specifically rules the transition phase from legislative regulation to voluntary collaboration (see infra for more details).
Only very recently, with the new Legislative Decree No.22 of 1997 (Decreto Ronchi), the instrument of voluntary agreement has been introduced formally in the field of waste management, in a broader implementation of EC Directives 91/556, 91/689 and 94/62.
Approximately 25% of inventoried agreements have been entered into as a consequence of a regulatory legislative programme; approximately another 25% concern the waste sector; and the remaining 50% of the agreements cover air pollution (25%),water pollution (one agreement), self-obligation programs of the agreements (4 agreements) and amicable agreements between NGOs and commercial sectors (3 agreements).
3.2 The Significance of Voluntary Agreements in the Context of Domestic Environmental Politics
The strategy of collaboration among economic and social entities in environmental management , wherein voluntary agreements act as an implementation tool, is very often aimed at integrating (and in few cases replacing) more traditional public administration law with negotiated forms of action, mainly ruled by private law. The phenomena which are analysed in relation to this trend – agreements on programs, service conferences and more recently the procedural agreements pursuant to Law No. 241 of 1990 – refer, however, to the conduct of public administration which only partly may be compatible with or consistent with voluntary agreements. The mentioned phenomena highlight co-operative forms of conduct; they require therefore more efficient communication between administrators or between the public administration and the private subjects interested in establishing the measures.
Moreover, measures exclusively concern
· reorganisation and simplification of relationships between offices of public administration dealing in administrative procedure ( this is the case with service conferences and agreements on programs which remain internal documents of the public administration) or
· matters explicitly excluded ex lege when there are environmental interests involved in the proceedings (see L. 241/1990).
Furthermore, the main difference between these instruments and voluntary agreements is that the former deal with activities which are specifically set forth in the legislation. This situation at least partially determines the field of application and its legal efficacy.
None of this applies to voluntary agreements which are implementation tools which came into existence from practice. Their development preceded creation of a theoretical framework and this situation created uncertainties about legal status. With regard to applicability, it is fundamental to point out that as instruments for intervening in environmental matters, to be valid voluntary agreements must not conflict with mandatory rules.
Moreover, the majority of obligations imposed by environmental law in Italy is accompanied by a penal sanction. Penal action is mandatory: criminal law related to the environment is composed of mandatory rules. This requirement limits the applicability of voluntary agreements considerably; they may only guarantee implementation of legislation. They cannot autonomously establish environmental goals different from those pursued by legislation.
We must also add that Italy is an administrative law state: public administration, guided by the principle of legality, is driven by proceedings. For example, for an authorisation, which is among the most important management instruments for safeguarding the environment, the public administration may introduce provisions which broaden the typical contents of the administrative measure which the authority pursued to conduct the administrated activity. Administration does this while confirming the structure and the manner in which it operates through limiting or integrating the actual permissive force of the measure. Moreover, these measures, which are often “negotiated” between the private entity and the public administration strongly influence the freedom of business. And, on the basis of the principle of strict legality, measures must be predetermined generally and abstractly by the state legislator.
Thus the potential to use voluntary agreements as instruments to attain broader environmental goals or to achieve something different from mere application of existing legislation is very limited.
These first considerations on the role of the voluntary agreements explain why approximately 50% of existing agreements concern discharge of urban waste. More precisely they aim to create systems for the collection and separation of waste destined for recycling. This specific political choice in fact involves beginning regulatory programs in the form of mandatory collaboration. The voluntary agreement is the tool which allowed initiation of the programme. It has filled in legislative gaps regarding practical organisation of the service.
In 1982, Presidential Decree No. 915 provided that the Municipalities are obliged to act in the discharge of urban waste and related activities, with the exclusive jurisdiction over it. Municipalities carry on this public service directly or through municipal companies (now special companies) or through licenses to entities or specialized companies, authorized by the Regions.
In 1988, Law No. 475 specified that the Municipalities had to carry out the service relating to the collection of solid urban waste in a manner which assures the separate collection, repeating a provision already set forth in Law 441/1987 and largely disregarded. The same law, in order to guarantee the implementation of the provision, sets up the Consorzi Nazionali Obbligetori per il Riciclaggio ( Recycling National Obligatory Consortia) for cans or packaging for liquids in glass, metal and plastic and exhausted leaden batteries and waste containing lead. This provision has the function to directly involve the manufacturers and the importers of these materials in the realisation of the programme to reduce the quantity of waste to be destined to the landfill. The law itself, by setting up the Consorzio Obbligatorio, to which it assign legal status of private law, pointed out the subjects compelled to participate to it, established the purposes, with the exclusion of profit purposes, the objects and the organisational model, leaving to the Government the task to draft, or in some cases, to approve the standard by-laws.
The Consorzi Obbligatori have to enter into proper conventions (agreements) with the Municipalities, the Municipalised Companies or the Assignees of the Public Service, to determine the technical and economical manners of the collection, the temporary storage, the transfer etc.
There is thus a legal obligation for the Municipalities to start up systems for the collection and separation of waste to be destined to recycling through the Consorzi Nazionali Obbligatori, on the other hand, also the manufacturers or importers of determined materials have the legal obligation to participate to the recycling programme through the mandatory association to the Consorzio Obbligatorio: the kind of conventions entered into between Municipalities and Consorzi for the implementation of the programme decisively lacks the voluntary character and remains therefore outside the scope of our research.
Therefore, on the basis of the action programme traced by the law, this kind of waste becomes subject-matter of a private negotiation and is transferred to an entity which works according to the principles of private law with the purpose to recycle. As a result, at the moment at which the waste comes into possession of the Consorzio, which has the obligation pursuant to its by-laws to recycle it or to transfer it to an entity which will arrange for the recycling, the good in question may not be classified as waste anymore, for its nature destined to discharge, but has again to be considered as economic good, subject to exchanges. The law does not take into consideration this aspect of the way of functioning of the recycling Consorzio and this creates uncertainties between the parties in the division of the technical and economical burdens deriving from the implementation of the programme.
The voluntary agreements entered into by the Consorzi Obbligatori have exactly the purpose to regulate the matters in this transitory phase; phase in which the waste, as a consequence of the change in its nature, does not fall anymore within the scope of the municipality agreement and enters again into the market. The stipulation of the so-called frame agreements between the representatives of municipalities and public services and the Consorzi Obbligatori for the discharge of solid urban waste, has become necessary since the governing act with which the contents of the single implementation agreements relative to the programme should have been made clear, has not been in the position to supply clarifications on this point. In this sense the voluntary agreement is voluntary, not only because the parties which enter into it undertake contractually to attain a certain goal with regard to environmental politics, but also because the parties which are bound ex lege to behave in a certain way fill in the gaps in the Legislation with a contractual deed.
Another relevant characteristic of the agreements entered into by the Consorzi Obbligatori concerns the fact that, generally, there are various voluntary agreements entered into with different application levels (state, regional, provincial) which comply with the division of the legislative competence on the discharge of solid urban waste.
For example, the agreements entered into between REPLASTIC are characteristic because of the fact that, at a first operating level, a regulatory agreement with national representatives of ‘the parties interested in the stipulation of the agreements indicated by the law is entered into (the agreements entered into between Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia, with the Federazione Nazionale delle imprese esercenti pubblici servizi ambientali on the basis of assignees with Federazione Nazionale delle aziende municipalizzate which carry on environmental services). This agreement can be qualified as frame agreement, since it defines the legal framework within which the single obligatory convention between Consorzio and Municipality have to be entered into, the ways in which the service has to be started up, the quality of the materials collected, the place where the returns are piled up and it specifies at least which economic burdens remain at the expense of the parties. On the basis of this agreement, both parties undertake to arrange for the negotiations with their own representatives so as to enter into each single convention provided for by the law.
The putting into the legal form of a sole general document with the terms of the negotiations, in addition to resolving consensually the uncertainties which derive from the law text, allows that the re-negotiation of the contractual conditions with every single public service related to the collection of solid urban waste is avoided, so that the parties to the national organisations are bound by the contents of the frame agreement which becomes a kind of collective agreement.
On the other hand, in the Italian system, Regions have legislative competence in matters concerning waste and, more precisely, the state frame law establishes that the Regions have to regulate the collection and separation of waste in such a manner as to supply adequate co-ordination and incentivation of the activities of the Municipalities.
Voluntary agreements entered into with the Regions or the Provinces, with limited territorial application, make it still more easier to enter into the agreement indicated by the law, since they take into account the differences in the Legislation system of the sector due to the assignment of legislative competences to sub-state territorial entities such as the Regions.
The agreements with the Regions are in general of programmatic nature and have the function to establish the expiration also legally of the interventions, necessary for the implementation of the legislative programme. The agreements entered into with the Provinces exist for the same reasons: the law provides that the Regions may delegate administrative competences in environmental matters, thus neither for these entities the regulatory situation is uniform on the whole national territory; the provincial agreement guarantees more flexibility to the Consorzio Nazionale.

National Law Region

voluntary agreement
Municipality obligatory convention National Consortium
for Recycling

voluntary agreement (frame agreement
for the stipulation of the obligatory convention)
ANCI or Federambiente

Within the context of a co-operative regulatory programme the function of the voluntary agreement is thus limited to the organisation of the legislative programme related to the collection and separation of waste destined to recycling; the goal of environmental politics which is obtained through the agreement actually derives from a mandatory legislative provision. Also the public-private collaboration is imposed by the law, through the setting up of the Consorzio Obbligatorio: Thus it does not seem very correct to define the voluntary agreements in this sector as tools for environmental politics, since the programmatic function and the setting of priorities in the intervention remains the competence of the law, whereas the agreement is the means through which the wish of the legislator is expressed. This consideration is also valid, at least partially, in the event that the collaboration between private entities operating in the same production sector and interested in recycling certain waste can be entirely based on a deed of autonomous negotiation: the modus operandi of the Consorzi Obbligatori in the setting up of systems of separable waste seems to be the model on which the agreements entered into by the Consorzi Volontari of collectors or recyclers of specific waste are based (Consorzio Italiano Compositori, consorzi for the recycling of paper, glass etc.). In fact, also in these cases the function of the voluntary agreement, also called frame agreement between the parties, is to regulate the grey area in which the transition takes place from waste, subject to the municipality agreements, and destined to discharge by the 1aw, to good subject to be re-instated into the economic market. Also in the case of these agreements the goal related to environmental politics pursued by the parties is entirely determined by the law, even if in these cases the Co-operation is the consequence of an autonomous decision of the subjects which reunite themselves in a consortium.
In the sector of the collection and separation of waste just one, among those inventoried (Consorzio Ecoqualit – region Lombardia) which differs from the above model, since it has set an autonomous goal for the environmental policy, consists of anticipating the implementation of the EC Directive on waste of 1991, not completely implemented in the legal system yet. This agreement has the form of a programmatic agreement so that its legal efficacy is very doubtful.
The new Decree No.22 of 5/2/1997 introduces a new order for the whole waste management system. The national Consorzi are going to slowly give place to a Superconsortium (CONAI), obligatory as well, to be establish between producers and users of all kinds of packaging. This agency will overlook all recycling activities and will superintend the duty of various different sector-based consortia. The Decree also introduces new roles for Municipalities, Provinces and Regions, and in particular gives them the power to undertake agreements with public and private bodies (article 2). In particular, in article 25, the tool of the agreement in general is formally accredited as an instrument of co-operation between public administration and other subjects. The expression “contract” is used along with that of “agreement”; the parties are described at a national level as public and private entities; and a list of applications of the agreement in the field of waste management and recovery is included. The implementation of the Decree is still on its way, no agreement of those listed in article 25 has yet been concluded but it is still an important formal acknowledgement of this tool in environmental policy although no mention is made of a binding legal effect on the parties.
Also in an analysis with a broader perspective, not limited to a sole sector of waste management, the voluntary agreement anyhow fulfils a marginal role in establishing interventions related to environmental politics. In the first place, the number of voluntary agreements in other sectors (air and water) is clearly less; in the second place, the tool of the voluntary agreements in these matters replaces the intervention based on the model command & control either in the event that the emergency of the environmental problem to be faced cannot wait for the Legislation ad hoc, either in the event that, in order to encourage the issuance of a specific legislative deed, it is necessary to proceed with research and development. In the first case, the agreement thus never sets long term goals and in this sense it can not be considered as tool for environmental politics but rather a tool for the handling of an emergency, in the second case which includes all the programmatic agreements similar to the ones entered into between Fiat and the Ministry of Environment, the voluntary agreement contains general undertakings for research, experiments of new technologies and improvements of the technologies in existence in a certain production sector, undertakings which lack monitoring tools so as to guarantee the implementation of the actual undertaking by the parties of the agreement.
For short, we can state that in Italy the tool of the voluntary agreement is hardly ever used autonomously, as source of negotiation of specific obligations for the parties different and/or additional in comparison to those set forth by the law. The auxiliary function of the voluntary agreement depends, as stated before, on reasons inherent to the specific Italian law system but also on considerations which concern specifically the way in which the entire environmental politics is managed. It is the actual management of environmental politics by the legislator which seems to prevent that, also in the fields in which the voluntary agreements might operate, those advantages are reached which are theoretically associated with the stipulation of voluntary agreements.
3.3 The Main Reasons for Entering (or not) into a Voluntary Agreement
The theoretical debate in course on the voluntary agreements defines, among reasons which advise to adopt such agreements on a large scale, the following advantages:
· for the Public Administration: the overcoming of an excessive uncertain situation regarding the effects of the regulation in a new application field; more efficient assignments of the co-operative solutions, more efficacy, quicker attainment of the public policy goals more quickly and at lower costs, a major consent from the industrial sector;
· for the Companies: more flexibility with regard to the terms and expenses for the achievement of the objectives, an improvement of their image and their competitive position, also through the definition of innovative technological situations.
As far as the prescribed programs and the agreements entered into by the Voluntary Consortia for recycling are concerned, it seems that some of the advantages which are theoretically associated with the stipulation of voluntary agreements may also be achieved and that there exists, therefore, an actual interest for those whom the law has inserted in the regulatory programme on the stipulation of the voluntary agreement.
The gaps in the Legislation which characterised the means provided for by the legislator for the starting-up of differentiated waste collection exercised a strong influence and have actually been filled in by the “frame agreements”.
The flexibility of the means and its adaptability to various legislative situations have also allowed to attain at least partially the goal set by the legislator, at least partially, that is to say, the starting-up of the collection and separation of waste in some Italian Regions. With respect to other theoretically achievable advantages through voluntary agreements, the practical experience gained to date does not allow us to be particularly optimist, neither as far as the agreements related to the differentiated collection of waste are concerned, nor the agreements entered into in other environmental sectors.
The presupposition on which the above theoretical affirmations is based, implies in the first place that there actually exists an environmental policy to be followed, that is to say, that there must at least be a minimum of agreement between governors and governed, upon the idea that respect and valorisation of the environment, and thus the quality of the progress, equals to social progress. The situation of the Italian environmental policy seems, however, to be in contrast with this fundamental assertion.
The distinguishing feature of the environmental Italian Legislation consists of the fact that there is an absolute supremacy of rules inspired by the EU in comparison with national rules.
Even in other European countries the situation is analogous, but that which characterises the Italian experience is the fact that the EC directives constitute in General the sole channel for updating environmental Legislation in Italy. The autonomous issuance of environmental laws specifically directed at specific Italian situations is practically non-existent. As a result there are several important consequences:
· Several subject areas such as administrative organisation and geographical layout, which have a great relevancy for the purposes of environmental politics, enjoy exclusive jurisdiction of the member states. The EC’s approach towards environmental matters cannot be other than sectorial, whereas it would be the duty of the national environmental politics through the intervention in these areas, to supply the same reference framework for the functioning of the public administration and the companies.
· The EU policy usually tends to be a compromise which does thus not necessarily have to privilege the more advanced experiences of environmental safeguard and moreover tends to develop on European scale proposals already experienced and realised in other countries, which are not always apt for specific Italian environmental problems.
The environmental EU policy is thus useful to sustain and strengthen the national policies but alone it is not in a position to replace them because it is not able to supply a General reference frame to the administration. Furthermore, the issuance of national environmental provisions rarely derive from the Houses of Parliament: most of the acts related to the environment are enacted by the Government with the consequences that:
· The provisions are approved without opening the debate to the participation or knowledge of the general public so that it always results very difficult to reconstruct the rationale of most environmental provisions;
· Decrees and regulations or administrative deeds of general application can neither modify the organisational division of the competences, nor contain new provisions regarding the expenses. Most of the Italian legislative production on environment has an emergency character and comes into existence in turbulent emotive situations and as a consequence of the pressure of the public opinion; it deals thus with Legislation which tends to containing rather than preventing the effects, without valuating the costs and benefits or the efficacy in economical terms of the measure.
The general line of the economical policy leaves completely aside and is indifferent and contradictory with regard to the obligations, the necessities and the possibilities of defence and development of the environment. The environmental policy is mainly considered as external, peripheral and sectorial in comparison with the production and consumer processes. Environmental conflicts are usually solved in emergency and act as political pressure mainly at a local level in the final decisional phase, above all, in relation to the location of the plants and the priority of the interventions. The attention and pressure on strategic subject-matters receive much less attention and as a consequence a large part of the public administration and the private entities are unable to carry out programmatic functions with regards to environmental goods. An environmental policy pursued in this way has noxious consequences on the Legislation, which appears unclear and contradictory even to the judges who have to assure the compulsory application thereof. On one hand The legal uncertainties which govern the matter, on one hand expose the companies to the risk of continuous case law, which involve huge expenses both in economic terms and in terms of efficiency, and on the other hand paralyse the functioning of the public administration which is continuously sued in court by the addressees of its measures.
The companies are not motivated to enter into binding voluntary agreements since in the Italian system, this would mean lay more burdens and fulfilments, through auto-obligations on the companies in addition to the ones provided for by the law, given the incapacity, at least, in General, of the voluntary agreement to be replaced by a mandatory rule. From this point of view it is more advantageous, at least in terms of image, to enter into programmatic agreements which at least show to an outsider the wish of the company to take environmental problems seriously. In this sense, however, the voluntary agreements do not satisfy the wishes of the environmental associations, which are considered only as an attraction without actual efficacy in terms of government of the environment. On the other hand, the public administration is willing to protect the environmental interests set forth by the law, bound by the forms of the administrative procedures, and does not have other means available which assure the observance of the agreements entered into by the companies and it is improbable that they renounce from using the mandatory administrative measure.
3.4 Relationships with other Tools of Environmental Policy
As a consequence of scarce information with regard to the specific political circumstances which have lead to the stipulation of the agreements in existence in Italy, it is very difficult to evaluate in which way this tool relates to other means for environmental policy.
In general, it is possible to state that the environmental policy is mainly based on criteria of programmation of the public intervention linked with goals related to the quality of the environment in Italy to be achieved within expirations pre-established by the law. The implementation tool used mainly consists of the determination of the standards and the provision of checks, also through authorisations. As stated before, as a rule the non-observance of the legislative standards is sanctioned criminally. For this reason the relation between the voluntary agreements and the traditional approach based on the model of command & control is thus of subordinate nature, that is to say, the environmental agreement in general does not have the force to replace the Legislation if force but it may at the most guarantee its application through an integration of said Legislation. For this reason, it is thus not possible to evaluate whether the stipulation of a voluntary agreement is actually preferable or not in terms of economical efficiency or environmental performance in comparison with a legislative approach.
As far as the relations between voluntary agreements and economical tools of environmental policy are concerned, such as incentives and environmental taxes, it is necessary to assume that the first actual environmental tax, the so-called tax on the discharge which has the specific function to discourage the discharge of the waste into the landfill, was only introduced in 1996: it is thus still too early to evaluate the impact of this measure on the course of the collection and separation of waste and on the voluntary agreements in general. The relation between the voluntary agreements and economic incentives deserves a more detailed analysis. For example, the agreement between AGIP Petroli and the Ministry of Environment has been negotiated between the parties with the presumption that a governmental measure would be issued which defiscalises unleaded fuel. The connection between the measure aiming at incentivating the use of unleaded fuel, negotiated informally between the parties, and the voluntary agreement means in other words a Condition precedent of the efficacy of the agreement.
In the same manner, in the case of the agreement Carpi relative to the reduction of water consumption for industrial use, agreement on the positions of the counter parties has been realised through the determination of the formal undertaking of the administration managing the aqueduct to apply advantageous tariffs for the use of water to companies which have participated to the financing of the programme of interventions set forth in the agreement. Also with regard to the functioning of the Consorzi Obligatori, the negotiation on participation to the economic burdens deriving from the realisation of the regulatory programme has been of crucial importance for the coming into existence of the agreement. In fact the law regulating the consortia introduces, at the expenses of the manufacturers and importers of the materials used for the activities of the consortium, a contribution for due financing of the recycling. The service of solid urban waste collection is a public service subject to private agreements with the Municipality; the users owe a tax for this service of discharge of solid urban waste. The expenses deriving from the starting up of a collection and separation fall thus within the competence of the public service. Law 475/1988, by establishing that the returns of the collection and separation are entrusted to the Consorzio Obbligatorio which arranges for the recycling, has not set forth whether the consortia are also obliged to acknowledge a compensation to the supplier of this public service. This gap in the said Legislation has for years prevented the actual realisation of the legislative programme. Only at the moment at which the Consortia agreed to pay a compensation to the suppliers of the public service related to waste collection for the services rendered, by using the financial means deriving from the recycling tax, the deadlock which prevented the realisation of the programme had overcome, that is to say, that the cost of the collection and separation was too high to entirely on the balance sheets of the municipalities. It seems therefore, at least in these cases, that the entering into voluntary agreements actually aiming at environmental interventions (the examples quoted are, in fact, not limited to the forecast of general undertakings for research and development but determine the actual performance of a series of punctual interventions) seems facilitated by the provision of specific forms of economic incentivations which encourage behaving in line with the agreement. However, in any event, however, it is worth mentioning that the use of voluntary agreements is, in general more successful in cases where the environmental situation is very bad or there is a risk for a quick deterioration. As a consequence, it is not easy to establish in how far the economic incentive is responsible for the success of the agreement, since it improves the efficiency in allocation or whether the provision regarding the incentive itself is the consequence of a choice made in an emergency situation, and as such scarcely balanced from an actual economic point of view and a cost-benefit analysis.
3.5 The Social Acceptance of Voluntary Agreements
The voluntary agreements as a tool were recently introduced in Italy and mainly used beyond any specific legislative provision. Generally speaking, their existence is thus unknown to the general public, as well as to the persons working in the sector. The drafting of this report has, in fact, met remarkable difficulties in the research phase and the selection of the material: in the first place there is no scientific structure at which one can find all information regarding the environment (the agencies for the environment are still in the organisational phase even if they have been provided for by law), in the second place the contacted public entities do not have a filing system which would make it somewhat easier to find the relevant material (although the right of access to environmental information is set forth by the law): it happens thus very often that persons who have now retired have managed the various relevant matters, with loss of a great deal of relevant information. The concerned companies are not always willing to supply information on the agreements, especially if the requests were made long after the entering into the agreements and the scientific analysis was thus not interesting anymore from a publicity point of view. In some cases the reluctance of the contracting companies to reveal the contents of the agreements had the purpose to conceal the incapacity to reach the pre-set goals.
However, in order to assess the degree of social acceptance of the voluntary agreements in Italy, it is useful to analyse the reactions of the various social parties. The public administration has probably been the one which most of all had to change its way of acting: the voluntary agreement pre-supposes, in fact, an explicit negotiation of its contents, in contrast to what happens with the unilateral administrative acts, where the negotiation of the contents of the measure with its addressee follows underground ways. It deals with a phenomenon which without any doubt somewhat elevates the level of transparency of the administrative actions. Even if, given the novelty of the tool and the legal uncertainties which characterise the functioning thereof, it is probably still too early to draw conclusions on the actual significance of the voluntary agreements on the democratisation process of the public administration, it is possible to maintain that the stipulation of a voluntary agreement, which necessarily pre-supposes a relationship based on trust between the contracting parties, since trusting the counterpart is the sole form of guarantee for the implementation of the agreement in the Italian situation, indicates a change, presently only a trend, in the relations between the parties and the companies; relations which have been interpreted as being strongly contrasting on one hand safeguarding the environment; on the other hand an interest in maintaining the status quo of the production system. In this sense the agreements entered into between Fiat and the Ministry of Environment are a good example: the reaction of the press, too enthusiastic in comparison with the actual significance of the environmental undertakings of the largest Italian company, has been such as to consider the stipulation of these agreements as a turning point in the Italian entrepreneurs’ mentality, which has finally recognised that quality of the development is the goal itself of the economic and social progress of the country. If we carefully consider the structure of the Italian production sector, characterised by a very large number of small and medium sized businesses which do neither have the technical nor the financial means to propose themselves as counterpart seriously interested in the negotiation of environmental interventions with the public administration, it is not feasible that a single company enters into a voluntary agreement. And with regard to this respect, the association of the various categories which might propose itself as a subject equipped with the necessary technical and economical resources for the stipulation of a voluntary agreement (whether negotiated with the public administration or agreements regarding collaboration between the businesses of the sector) is still little significant. for short, only some associations representing the small businesses of the textile sector have started stipulating voluntary agreements. This unavoidably leads us to redimension the assertions from the industrial associations which see in the agreements Fiat the emerging of environmental management system based on self-responsibility of the businesses. In conclusion, it has to be stated that also from this point of view the voluntary agreements, and the cultural presuppositions on which they are based represent rather a trend (if not a mere aspiration) for the future than a reality actually consolidated in the entrepreneurial practice.
Also the position of the environmental associations is not univocal, since many deem that the voluntary agreements are an inefficacy tool for the environmental management since there is no legal sanction in the event of non compliance with the agreement. The voluntary agreement is above all considered as a means capable of supplying a good publicity image rather than a serious undertaking for the safeguard of the environment, with the aggravated circumstance that where it is able to replace the Legislation in force the entering into a voluntary agreement deprives the environmental associations which are not party to it of the procedural tools for the safeguard of the environment. On the other hand, the same environmental associations are party to some amicable agreements agreed upon with associations of tour operators, but this circumstance does not seem to be a consequence of the fact that the tool of the voluntary agreement is considered in itself as a reliable means for the protection of the environment, but rather of the fact that traditionally the environmental associations collaborate with the public administration or with private entities in the management of certain natural and cultural goods.
Finally, as stated above, the General public is in general not acquainted with the existence of voluntary agreements , especially because both the national and local press tends to prefer the catastrophic or conflictual aspects of the environmental problems, whereas the arguments relative to the strategies of environmental management are left aside in publications addressed to a restrictive elite of scientists.
3.6 Emerging Trends
As results clear from the inventory of the agreements, the negotiated tool had a significant practicable application, especially in the sector of management of the solid urban waste, all the more since it is one of the sectors in which the emergency situation is most acute. The flexibility to take action which the voluntary agreement guarantees to the undersigning parties, seems thus the reason for its success in this sector.
The flexibility to take action, which often also implies the possibility for a simplification of the administrative procedures necessary to implement a legislative political goal is considered in the current political debate as the most adequate means in order to guarantee a more rationalistic use of the natural resources. For this reason, in the Decree No.22 of 1997, much attention is paid to the stipulation of programmatic agreements between public administration and the economic sectors interested in re-utilisation, recycling and the recovery of raw materials and energy from pre-selected and pre-treated waste with the purpose to harmonise the regulations on the discharge of waste with the most recent EU directives, including the directive on packaging. Moreover, it was foreseen that the stipulation of a specific programmatic agreement might form the presupposition for the authorisation to realise recovery plants on the industrial premises in existence, also in the event that the localisation of these plants has not been set forth in the regional plan on waste management. The programmatic agreements to which the text refers have already been used in the Italian law system, since, as far as the environmental law is concerned, they have been provided for by Law of 1989, which regulates the drafting and implementation of the triennial year plan for the environment. The novelty of this legislation consists in the fact that participation to the programmatic agreement by private entities has expressive been mentioned, whereas the presupposition for the utilisation of the tool, provided for by the law of 1989, was formed by the necessity for an integrated and co-ordinated initiative by more than one administration or public entity for the implementation of the triennial plan regarding the environment.
4. Section III
4.1 Examples of Agreements Subject to Specific Analysis
The lack of exact information relative to the political process which has lead to the entering into the inventoried voluntary agreements prevents us from conducting an evaluation of the most significant agreements in terms of economic and environmental efficiency and social acceptance. The proposals made in this report concern agreements which at first sight seem interesting for further research. Moreover, it deals with very temporary conclusions.
The most well – known voluntary agreements in Italy are certainly those between Fiat and the Ministry of Environment, it might therefore be useful to further examine the document which introduces the system FARE to the Ministry of Environment (28/6/1993) as example of an agreement in the self-obligation category and the letter of intent entered into with the Ministry of Environment in 1989 (successively taken over by one of the agreements of June 28, 1993) as example of negotiated agreement.
The particularity of the situation of the voluntary agreements in Italy lays in legislative provision of regulatory programs on the collection and separation of urban waste; it seems thus necessary to proceed with a further analysis of the frame agreement entered into between REPLASTIC, ANCI, FEDERAMBIENTE, ASSOAMBIENTE and the role played in the starting up of the systems for the collection and separation of waste to be destined to recycling.
The agreement between the Region Lombardia and the voluntary Consorzio Ecoqualit also deserves further considerations, since it forms the sole example of an agreement currently in force which has stated the purpose to anticipate the implementation of a EU directive which has not entirely been implemented yet in the Italian system. As stated before, in general the voluntary agreement comes into existence when the situation of environmental emergency is so serious that it is not possible to wait for the issuance of a legislative measure ad hoc to resolve the matter; from this point of view it seems interesting to examine the agreement concerning the reduction of polluting ladings and water consumption of the agreement of Carpi entered into in 1994.
The agreement AGIP Petrol Ministry of Environment of 1989 renewed in 1992 is generally considered as very efficacy in terms of environmental performance: this should also be studied more in detail.
Finally, we propose to analyse the Project Elbambiente of 1994 as example of an amicable agreement entered into by NGO and entrepreneurs.

Arte Rubata

Considerazioni sul Recupero delle Opere d’Arte Trafugate Durante la Seconda Guerra Mondiale.·

Relazione per il Convegno Nazionale di Gubbio “Il Testo Unico in Materia di Beni Culturali e Ambientali”,

Gubbio 26/27 Novembre 1999

1. Quattro Esempi.

Primo esempio: “Notte d’estate in spiaggia” di Edvard Munch.

Rimasta vedova di Gustav Mahler, Alma sposò Walter Gropius, il celebre architetto fondatore della Bauhaus, con il quale ebbe una figlia, Manon; alla nascita di Manon Alma Mahler Gropius ricevette in regalo dall’amico Edvard Munch un quadro, “Notte d’estate in spiaggia”.

Nel marzo del 1933 Alma, che nel frattempo aveva lasciato Gropius e sposato Franz Werfel, lo scrittore ebreo i cui libri erano stati bruciati dai nazisti in quanto classificati come “entartete Kunst” (arte degenerata) fu costretta a fuggire precipitosamente da Vienna e a raggiungere il marito, già in salvo a Parigi. I quadri di Alma, tra cui Manon, furono affidati alla sorella di Alma, Marie, moglie del Presidente del Tribunale di Vienna (entrambi di provata fede nazista). Marie dopo qualche tempo, violando gli impegni assunti con la sorella, vendette il quadro alla Galleria Nazionale, la quale lo acquistò pur sapendo che il quadro apparteneva ad Alma Mahler (avendolo ricevuto da quest’ultima in deposito pochi anni prima).

Finita la guerra, l’Austria ritornata indipendente promulgò una legge con la quale erano annullate tutte le cessioni, a qualsiasi titolo, effettuate da o per conto di ebrei durante il periodo dell’Anschluss. Ma nel contempo, emanò anche una legge che vieta l’esportazione di opere d’arte di particolare valore dal territorio austriaco.

Alma Mahler, nel frattempo stabilitasi a New York, chiese alla Galleria Nazionale la restituzione del quadro (oltreché di altri quadri di sua proprietà, tra i quali un suo ritratto ad opera di Oskar Kokoschka, tutti ceduti abusivamente dalla sorella).

La galleria rifiutò. Da allora, si è avviata una vicenda giudiziaria che tuttora perdura, ed è portata avanti attualmente dalla nipote di Alma, Marina contro la Galleria Nazionale e il Governo austriaco che si sono sempre rifiutati di restituire i quadri, sia sostenendo che erano stati legittimamente acquistati dalla sorella sia avvalendosi del divieto di esportazione.

Sembra che entro il 1999 il Ministro della Cultura austriaco abbia intenzione di restituire almeno il quadro di Munch agli eredi di Alma Mahler.
Secondo esempio: Odalisca di Matisse.

Il giorno in cui Le truppe naziste entrarono in Parigi, Paul Rosenberg, il più importante commerciante d’arte moderna della città, fuggì abbandonando la sua collezione, subito sequestrata per ordine di Goering. La maggior parte delle opere è scomparsa dopo essere stata trasferita in Germania. Due sono recentemente ricomparse: un grande quadro di Matisse, Odalisca, e Ninfee, dipinto da Monet nel 1904.

Il percorso di Odalisca è stato ricostruito da uno dei più famosi cacciatori di arte rubata dai Nazisti: Hector Feliciano[2].
Odalisca fu prelevata dalla Banca Nazionale per il Commercio e l’industria nel 1941, e custodita fino al 1943 al Jeu de Paume a Parigi. Venne quindi affidata a Gustav Rochlitz, un tedesco che viveva in Francia, con l’incarico di scambiarla con altre opere d’arte, più gradite ai gusti nazisti. Così, tre Matisse, tra cui Odalisca, cinque Picasso e un Braque furono scambiati con un quadro di un pittore tedesco del XIV secolo[2].

Gli eredi di Rosenberg avviarono subito dopo la guerra azioni giudiziarie per recuperare le opere scomparse, ma senza esito.

Nel 1954, Odalisca fu acquistata da una galleria di New York, Knoedler & Co. Nello stesso anno, fu acquistata dai signori Bloedel i quali nel 1991 la donarono al Museo di Seattle.

Nel 1994 la figlia dei signori Bloedel riconobbe una riproduzione di Odalisca ne libro di Feliciano e avvertì il museo. Il museo la incluse subito  nell’elenco delle opere rubate dai nazisti a Rosenberg. Gli eredi di Paul Rosenberg hanno promosso nel’agosto del 1998 un’azione giudiziaria per recuperare il quadro, il cui valore è stimato in circa 4 miliardi di lire.
A differenza della Galleria Nazionale austriaca, il Museo ha deciso di restituire il quadro agli eredi Rosenberg, rifiutandosi di trattenere un’opera rubata.

Terzo esempio: il caso Elicofon.

Un legale di New York, Edward J. Elicofon, comprò nel 1946 due ritratti di Durer da un soldato americano, pagandoli 450 dollari, senza comprenderne il reale valore.

Nel 1966, quando venne casualmente a sapere il reale autore dei quadri, rese pubblico di esserne il proprietario.

Immediatamente il Museo di Weimar, dal quale il soldato americano aveva sottratto i due quadri, ne chiese la restituzione. Elicofon rifiutò e si difese nella successiva causa, promossa nel 1969, sostenendo che in base al diritto tedesco aveva usucapito i quadri, avendone acquistato il possesso in buona fede, e avendolo mantenuto per oltre dieci anni.

Ma il Tribunale di NY affermò  che doveva applicarsi al caso la legge dello stato di New York, essendo lì avvenuto l’acquisto delle opere.
Successivamente, il Tribunale ritenne che l’acquisto di un oggetto rubato non determina il sorgere di alcun diritto nell’attuale detentore, ancorché in buona fede; ritenne inoltre che la prescrizione non era maturata, in quanto nello stato di NY c’è una prescrizione (statute of limitations) di tre anni, che decorre però dal momento in cui il derubato richiede la restituzione e l’attuale possessore rifiuta.

Nel 1983, i Durer fecero ritorno a Weimar.

Quarto esempio: ritratto di Wally di  Schiele.

Lea Bondi e Fritz Grunbaum – collezionisti d’arte viennesi – persero tutte le loro opere durante l’occupazione nazista dell’Austria. Nel 1997 due di queste opere, Ritratto di Wally e Città morta n.3 di Egon Schiele, vengono esposte dal MOMA di New York e gli eredi ne chiedono immediatamente il sequestro, in modo da evitarne il ritorno in Austria a coloro che ne erano gli attuali proprietari. La Procura della Repubblica accoglie l’istanza, nonostante che una specifica normativa dello stato di New York del 1968 e una normativa federale del 1965[2] precludano il sequestro di opere d’arte concesse in prestito senza scopo di lucro a fini di esposizione “per qualsiasi possibile motivo”, ritenendo che la disposizione non poteva essere applicata in caso di sequestri determinati dall’esigenza di investigare su reati. Il giudice di primo grado annulla il sequestro, su richiesta del MOMA, ma, in sede di appello, il sequestro viene nuovamente confermato[3]. Attualmente le opere sono state affidate in custodia giudiziaria allo stesso MOMA, in attesa di un accertamento sulla legittima proprietà delle stesse.
La reazione dei musei europei è stata quella di preannunciare il rifiuto di concedere per il futuro opere d’arte ai musei americani per mostre temporanee, in mancanza di precise garanzie in ordine all’immunità da sequestri o altri interventi giudiziari rivolti a impedire il ritorno delle opere.

*

I primi due esempi si propongono di contrapporre il diverso atteggiamento delle istituzioni museali europee e statunitensi di fronte ai problemi di restituzione derivanti dalla sottrazione di opere d’arte durante l’ultima guerra.

Il terzo e il quarto esempio si propongono di illustrare la diversità tra sistema giuridico continentale e sistema giuridico anglosassone, e specificatamente americano, su questo medesimo tema.

Su tutti gli esempi avremo modo di ritornare.

2. LE RAGIONI DELL’ATTUALITÀ DEI PROBLEMI DELL’ARTE RUBATA.

Negli anni Novanta, le azioni giudiziarie contro musei o contro privati promosse per recuperare opere di arte rubate sono enormemente aumentate di numero.

Il fenomeno giudiziario non è casuale, ma riflette una situazione di diffusa e dilagante illegalità in questo settore, che ha ormai assunto proporzioni straordinarie.

Secondo stime recenti, il mercato dell’arte è l’unico settore economico dove la probabilità di acquistare oggetti rubati è del 90%. Nel solo 1997, secondo stime del FBI, il mercato dell’arte rubata ha trattato merce per almeno 6 miliardi di dollari all’anno collocandosi così al terzo posto nella classifica dei mercati criminali, dopo la droga e le armi[2].
Tuttavia, l’incremento della conflittualità giudiziaria non sarebbe stato possibile senza una generale sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni nazionali e internazionali.

Le ragioni e le cause di questa sensibilizzazione sono almeno tre:

Il processo di globalizzazione.
Con questo termine si intende la crescente interdipendenza economica e culturale tra i vari Stati. Sebbene questo fenomeno non sia senza precedenti (Marshall McLuhan scrisse già nel 1962 che l’interdipendenza elettronica “ricrea il mondo ad immagine di un villaggio globale”) e si sia già verificato, ovviamente con modalità diverse, prima della Prima Guerra Mondiale, si tratta per molti versi di un evento totalmente nuovo, caratterizzato dalla disponibilità della tecnologia elettronica a basso prezzo,  dalla liberalizzazione e dal conseguente crollo del costo delle telecomunicazioni, dalla espansione di Internet e dalla connessa diffusione delle informazioni. Tutto ciò ha reso possibile l’accesso a dati e la diffusione di notizie prima non facilmente reperibili. Basti pensare che in pochi anni sono stati organizzati e sviluppati numerosi registri e sistemi di raccolta che offrono agli interessati (gratuitamente o taluni a pagamento) una informazione completa sulle opere d’arte “scomparse”. Tra questi i più importanti sono:
à Il Registro dell’arte rubata, con sede a Londra.

à The Art Loss Register, che contiene descrizioni e foto di migliaia di opere disperse durante la guerra. Il registro permette sia ai proprietari originari di rendere pubbliche le loro ricerche, sia agli acquirenti di verificare i loro acquisti.
à Stolen Works of Art, un CD-ROM, recentemente pubblicato, che contiene il data-base ufficiale dell’Interpol, ove sono descritte tutte le opere rubate nei vari paesi associati (il CD-Rom è parzialmente visibile sul sito www.jouve-diffusion.com).

L’erosione del principio di sovranità.
Oggi è osservazione sempre più comune che la sovranità, intesa come potere dello Stato di escludere la possibilità di altri Stati di interferire nei propri affari interni, sta rapidamente erodendosi, in quanto “l’immagine convenzionale della sovranità, associata alla giurisdizione esclusiva dello Stato sul proprio territorio, non è più  compatibile né teoricamente né praticamente con la crescente internazionalizzazione dei rapporti economici e sociali”[2].  Gli Stati e i Governi sono sempre meno liberi di fare quello che vogliono nel loro territorio e dei loro popoli e sempre più debbono tenere conto dei bisogni e delle richieste della comunità internazionale nell’applicare le loro leggi o nel formulare le loro scelte politiche[3].
Sta quindi decomponendosi quel principio che fino a pochi anni offriva un comodo, impenetrabile e sicuro guscio protettivo per commercianti e acquirenti di arte rubata: il passaggio di una o più frontiere era infatti il meccanismo più utilizzato per riciclare opere d’arte rubata, rendendo pressoché impossibile ai legittimi proprietari di penetrare utilizzando strumenti giudiziari la barriera della sovranità.

3. I DATI SULL’ARTE RUBATA DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE.

Nell’ambito del generale problema della illecita sottrazione e dell’illecito traffico di beni culturali, le opere d’arte rubate durante la seconda guerra mondiale hanno una posizione specifica e sinora trascurata non solo dal punto di vista storico e quantitativo, ma anche dal punto di vista giuridico.

La depredazione di opere d’arte durante la guerra o dopo la fine delle ostilità da parte del vincitore è un fatto che si ripete da centinaia e centinaia di anni. Mai però si è verificato in modo così capillare, sistematico e globale,  addirittura impiegando apposite squadre di esperti per rintracciare e confiscare le opere d’arte, come in questo secolo, ad opera dei Nazisti nei territori occupati tra il 1935 e il 1944.
È stato calcolato che in nove anni i Nazisti abbiano rubato almeno 1/5 di tutte le opere d’arte di valore esistenti nei territori occupati. Soltanto in Francia, sono state rubate circa 100.000 opere d’arte: di queste, 55.000 risultano ancora disperse o comunque non sono state restituite ai legittimi proprietari.

Per la verità non solo i Nazisti hanno partecipato al saccheggio. Sia pure in modo ridotto, anche i Paesi alleati hanno dato il loro contributo, non riconsegnando ai legittimi proprietari le opere trafugate dalle truppe tedesche. Per esempio, Belgio, Olanda e Francia hanno approvato leggi che attribuiscono alla proprietà dello Stato tutte le opere d’arte recuperate dai nazisti. Solo nei musei francesi ci sono 2000 opere di questo tipo. L’Unione Sovietica ha trattenuto molte opere prelevate in Gemania (molte delle quali a loro volta sottratte nei paesi occupati) come risarcimento dei danni di guerra. Inoltre, numerosi paesi europei hanno adottato normative che vietano l’esportazione di opere d’arte, precludendo la possibilità di restituzione a legittimi proprietari che si trovino in altri paesi.

Vi sono poi opere recuperate dalle truppe Alleate e illegalmente trattenute o sottratte da singoli componenti per commerciarle in patria (è il caso Elicofon descritto all’inizio).
Vi sono infine opere che nella situazione di necessità creata dall’occupazione nazista i legittimi proprietari hanno ceduto ad astuti profittatori per poche lire con contratti formalmente validi, o hanno affidato a amici o istituzioni, contando  di poterle recuperare in seguito (è il primo esempio descritto).

Tutte queste opere hanno contribuito e continuano a contribuire in modo massiccio al mercato dell’arte rubata mondiale: basti pensare che un rapporto della CIA recentemente reso pubblico indica i nomi di 2000 persone che hanno commerciato stabilmente nel dopoguerra arte rubata dai Nazisti.
Il problema dell’arte rubata durante la seconda guerra mondiale è faticosamente emerso, raggiungendo in modo sempre più consistente le aule giudiziarie di alcuni paesi per effetto di alcuni specifici fattori, che si aggiungono a quelli generali che – come si è visto – hanno portato ad una generale presa di coscienza del problema del mercato illegale delle opere d’arte. Almeno due di questi fattori specifici vanno segnalati:

Il mutato clima politico internazionale, per effetto della distensione determinata dalla scomparsa del blocco sovietico.
È oggi divenuta improvvisamente disponibile documentazione, prima conservata e mantenuta segreta dai paesi Alleati durante tutto il periodo della guerra fredda (anche se permangono omertà e reticenze da parte di molti stati, in primo luogo la Svizzera e il Vaticano: quest’ultimo è rimasto l’unico Stato che rifiuta in modo radicale di rendere pubblici i suoi archivi in materia, nonostante che gli esperti siano sicuri che essi contengono informazioni essenziali per rintracciare il percorso seguito da molte opere rubate).

Le conferenze internazionali aventi ad oggetto il diritto dei legittimi proprietari di ottenere la restituzione delle opere d’arte rubate.
Queste conferenze hanno prodotto una sensibilizzazione dei Governi maggiormente interessati e hanno individuato  linee d’azione comuni dei vari Stati. Da ultimo, nel novembre 1998 ad una conferenza organizzata dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e dal Holocaust Memorial Museum  44 Stati hanno raggiunto un accordo di massima per porre regole comuni per facilitare il ritorno delle opere d’arte depredate dai nazisti ai legittimi proprietari.

Per effetto di una di queste conferenze, è stato istituito nel 1997 il progetto HARP con cui è stato predisposto un database facilmente accessibile per assistere tutte le vittime delle predazioni naziste a rintracciare le proprie opere d’arte perdute.

4. L’ARTE RUBATA DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE: LE CARATTERISTICHE GENERALI.

I percorsi seguiti dalle opere d’arte sottratte durante la seconda guerra mondiale presentano invariabilmente caratteristiche comuni.

Il furto o comunque la spoliazione sono avvenuti oltre cinquanta anni fa, quindi oggi ampiamente al di là di ogni termine di prescrizione per l’azione di prescrizione previsto dal diritto comune dei paesi continentali;
Le opere d’arte sono state sottoposte a numerosi – spesso fittizi o dolosamente realizzati –  passaggi di proprietà in modo creare posizioni di buona fede dei successivi acquirenti: ad ogni successivo passaggio infatti le prove dell’iniziale illecita appropriazione divengono più sfumate;
Le opere d’arte sono state spostate attraverso numerosi confini statali in modo da far perdere le tracce agli organi di polizia nazionali e in modo di avvalersi della protezione dei gusci di sovranità più appropriati (il contrabbando di opere d’arte è assai semplice e sicuro: il suggerimento di Willi Korte, un avvocato specializzato nel recupero di opere d’arte rubata, è di mettere l’opera in valigia e, nell’improbabile caso di essere fermati al controllo doganale, dichiarare di averla comprata per poche lire da un rigattiere).
Vi è stata una generale indifferenza, acquiescienza o talvolta connivenza dei mercanti d’arte, dei musei pubblici e privati e spesso degli Stati, che hanno in generale rimosso il problema e spesso acquistato o consentito l’acquisto di ingenti quantità di arte rubata senza adottare la minima diligenza nel verificarne la provenienza;
Gli esempi in proposito sono innumerevoli.

Il Metropolitan Museum of Art di New York ha accettato come donazione un quadro di Monet (Le Repos Dans Le Jardin Arguenteuil) senza compiere alcuna indagine, anche se il donatore aveva comprato il quadro da Alexander Ball, un noto esperto d’arte, collaboratore dei Nazisti per individuare quadri da confiscare in cambio di opere d’arte.
Una mostra della National Gallery of Art ha esposto contemporaneamente quattro opere rubate dai Nazisti e poi pervenute a Emil G.Buhrle, il più noto acquirente di arte rubata dai Nazisti durante la guerra. Il solo fatto che le opere fossero di proprietà di Buhrle avrebbe dovuto destare sospetti nel museo.

Del resto lo stesso direttore del Metropolitan Museum of Art ha riconosciuto nella sua autobiografia che fino a pochi anni fa i direttori dei musei erano sicuri in molti casi della provenienza illecita delle opere che acquistavano.

È stato materialmente impossibile per i legittimi proprietari, o più spesso per gli eredi, di rintracciare le opere, in mancanza di documentazione e di informazioni, e in mancanza di collaborazione degli Stati nazionali; si è inoltre approfittato del fatto che molti dei legittimi proprietari o degli eredi sono scomparsi per effetto delle vicende belliche (in gran parte nei campi di concentramento nazisti), o si trovano nella materiale impossibilità di sapere se e quali opere d’arte possano essere rivendicate.
Nel quadro di questa generalizzata attività illegale di riciclaggio  – pubblica e privata – sono stati indispensabili due istituti giuridici che, sia pur nelle diverse articolazioni che presentano nei vari sistemi giuridici, favoriscono oggettivamente il commercio e l’acuisto dell’arte trafugata durante la seconda guerra mondiale: la protezione dell’acquirente di buona fede e la prescrizione.

5. I VINCOLI GIURIDICI ALLA RESTITUZIONE.

La buona fede.
L’istituto dell’acquisto a non domino e della protezione dell’acquirente di buona fede è trattato in modo assai diverso negli ordinamenti interni dei vari Stati. Soprattutto, è trattato diversamente tra sistemi giuridici europei e anglosassoni.
Tutti gli ordinamenti continentali europei proteggono fortemente, sia pure con diverse modalità, l’acquirente di buona fede.

Nei sistemi giuridici anglosassoni, e specificatamente nel diritto statunitense, vale invece, sia pure con qualche correttivo, il principio in base al quale nemo plus iuris transferre potest quam ipse habuit. Questo significa che l’acquirente a non domino, sia pure in buona fede, è tutelato in misura assai ridotta: il possesso di buona fede, ancorchè protratto per un lungo periodo di tempo, non costituisce di per sé solo titolo.

Alla radice di questo diverso rattamento stanno diverse opzioni culturali e istituzionali.

Il sistema continentale privilegia la sicurezza e la libertà del commercio, la certezza delle transazioni: tutela il mercato. Il sistema anglosassone privilegia e tutela la proprietà.

Questo significa anche, da un punto di vista puramente economico, che il sistema contitnentale massimizza la commerciabilità dell’arte in generale (e quindi anche dell’arte rubata), facilitandone l’intermediazione e il commercio e l’acquisizione della proprietà nei compratori.

Se si riducono le questioni concernenti il titolo, si riducono ovviamente gli ostacoli sulla vendita e sull’acquisizione della proprietà.
Se si applicano invece criteri di moralità del commercio e del mercato, il pendolo si sposta necessariamente dalla parte del legittimo proprietario: da un lato si richiedono quindi adeguate investigazioni al commerciante e la necessaria prudenza all’acquirente, d’altro lato si priva di valore l’eventuale posizione di buona fede dell’acquirente a non domino.

Del resto, è evidente che il mercato dell’arte rubata prolifera perché non è richiesto al commerciante e all’acquirente di verificare in modo approfondito la provenienza del bene: se opere d’arte di inestimabile valore fossero trattate in Europa come sono trattate con la stessa prudenza che si applica per il passaggio di proprietà di auto utilitarie (registrazioni, documentazione, ecc.), il mercato illegale sarebbe velocemente polverizzato.

Queste considerazioni sono a maggior ragione valide per tutta l’arte rubata durante la Seconda Guerra Mondiale: le depredazioni utilizzate dai Nazisti sono state in realtà utilizzate come il trampolino di lancio per giganteschi profitti e per enormi speculazioni: è stato osservato che il problema – come il problema dell’oro conservato nelle banche svizzere, o il problema delle assicurazioni di cui è stato incassato il premio e mai pagato – è stato semplicemente ignorato da tutti.

Il rigore dei principi americani a tutela del proprietario (in realtà, validi nella maggior parte degli Stati dell’Unione federale, ma non in tutti, il che pone ulteriori problemi)  prevede, in linea di massima, una eccezione: il possesso di buona fede costituisce titolo se esso sia aperto, pubblico, notorio e protratto con queste modalità continuativamente per un certo periodo di tempo.

Sulla base di questo principio, è stata ordinata nel 1975 al possessore di buona fede la restituzione al legittimo proprietario di opere d’arte rubate nel 1946, avendo il possessore attuale esposto le opere nel suo domicilio, ma non in pubblico.
Vi è poi un’ulteriore distinzione che accentua la differenza tra i due sistemi: nel diritto continentale, la buona fede dell’acquirente a non domino è in generale presunta, mentre non lo è nei sistemi anglosassoni: la buona fede deve essere provata dall’acquirente.

Così, non è stato ritenuto in buona fede Elicofon (vedi il terzo esempio iniziale), avendo acquista opere d’arte a basso prezzo da un soldato americano.

La prescrizione.
Il secondo vincolo alla restituzione delle opere d’arte rubate è costituito dalla prescrizione.
Nel diritto anglosassone, la prescrizione (c.d. statute of limitations) dell’azione di restituzione di beni mobili decorre, non diversamente dalla maggior parte degli Stati europei, in un periodo limitato: da due a quattro/cinque anni in genere (l’Italia, con dieci anni, costituisce la punta estrema nel diritto continentale, che si attesta, in genere, tra i due\tre e i cinque anni).

Ma ciò che importa e che distingue l’istituto dal corrispondente istituto continentale della prescrizione è da quando la prescrizione comincia a decorrere: per dirla con un detto americano, da quando l’orologio si mette in moto.

Nel diritto continentale, la prescrizione decorre, generalmente, da un termine a quo non ben precisato, identificabile con il momento nel quale il diritto può essere fatto valere (cfr. art.2935 c.c.). Ma secondo la giurisprudenza diffusa in tutti questi sistemi continentali costituisce ostacolo al decorso della prescrizione non l’impedimento di fatto, ma solo l’impedimento legale: è quindi ritenuto per lo più irrilevante lo stato di ignoranza del titolare del diritto, o l’impssibilità di individuare il soggetto passivo, o tutte le difficoltà materiali che rendano arduo, ma non giuridicamente impossibile, l’esercizio del diritto.

Nel diritto anglosassone, invece, l’orologio si mette in moto solo in due casi: o quando vi sia una richiesta del legittimo proprietario seguita dal rifiuto dell’acquirente, oppure quando l’ubicazione dell’opera e le generalità dell’acquirente avrebbero potuto essere scoperte usando una normale diligenza.

Richiesta e rifiuto.
Il principio vige praticamente solo nello Stato di New York, che è però il centro della maggior parte delle transazioni di opere d’arte rubate nel mondo.

Si applica quando c’è un possessore di buona fede, il quale viene informato della mancanza di valido titolo, ha l’opportunità di restituire il bene e si rifiuta di farlo.

Questo principio è stato applicato, oltreché nel caso Elicofon di cui abbiamo fatto cenno, anche in un caso riguardante un quadro di Chagall rubato nel 1941 dai Nazisti al proprietario Menzel quando questi abbandonò Bruxelles.
Il quadro venne venduto nel 1955 da una Galleria di New York al signor List, ma solo nel 1962 gli eredi di Menzel riuscirono a rintracciare il quadro. Il Tribunale decise che la prescrizione iniziava a decorrere dal momento della richiesta del quadro.

Scoperta e Diligenza.
La prescrizione comincia a decorrere quando il proprietario, usando la normale diligenza, avrebbe dovuto scoprire la collocazione del quadro rubato.

Esemplare dei vantaggi e dei limiti di questo principio è il caso De Weerth.
Gerda De Weerth mandò il quadro Champs de Ble di Monet alla sorella in Germania, per sottrarlo alle depredazioni naziste in Olanda. Nel 1944 il quadro scomparve. La proprietaria effettuò ricerche del quadro tra il 1946 e il 1957, utilizzando anche le prestazioni di un investigatore e di un avvocato. IL quadro fu trovato solo nel 1981, allorché un nipote lo vide nel catalogo ragionato delle opere di Monet: il catalogo indicava che il quadro era stato ceduto da un mercante svizzero alla Wildenstein Gallery di N.Y. De Weerth fu costretta a promuovere un’azione giudiziaria contro la Galleria per ottenere le generalità dell’acquirente del quadro; ottenutolo, De Weerth promosse un’azione per la restituzione del quadro, ma la richiesta, accolta dal giudice di primo grado, venne respinta dal giudice di appello, che ritenne che non era stata prestata la necessaria diligenza per rintracciare il quadro nel corso dei precedenti anni, non avendo adeguatamente pubblicizzato la scomparsa del quadro e non avendo continuato le ricerche tra il 1957 e il 1981.

La sentenza del giudice di appello è stata criticata, non avendo tenuto conto della difficoltà delle ricerche, della gravosità dal punto di vista economico e dall’omertà delle istituzioni.

Ma soprattutto, è stata criticata perché ha tenuto conto solo della diligenza del proprietario, e non della negligenza dell’acquirente nel verificare la legittimità della provenienza dell’opera.

*

Risulta quindi manifesto che, stante il diverso regime degli acquisti a non domino e della prescrizione, solo l’ordinamento giuridico anglosassone e in particolare l’ordinamento giuridico degli Stati Uniti offre ai legittimi proprietari di opere d’arte rubate durante la Seconda Guerra Mondiale delle ragionevoli chances di recuperare le opere rubate. È per questo che Elicofon ha tentato con ogni mezzo di sfuggire alla giurisdizione americana, ed è per questo che gli eredi di Bondi e Grunbaum hanno atteso che le opere di Schiele si trovassero negli Stati Uniti per tentare di ottenerne il recupero.

Basterebbe quindi che commercianti e venditori di opere d’arte rubate evitassero i paesi con sistemi giuridici non continentali per ridurre sostanzialmente i rischi di vedersi privati delle opere illegittimamente acquisite. Ma, per uno scherzo (o per una nemesi) del destino, proprio nei paesi giuridicamente da evitare – specificatamente negli Stati Uniti, e in particolare New York, che possiede una normativa particolarmente severa in materia – si è progressivamente concentrato il mercato dell’arte: lì si trovano la maggior parte dei possibili acquirenti di queste opere.

6. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE. LE CONVENZIONI INTERNAZIONALI IN MATERIA E IN PARTICOLARE LA CONVENZIONE UNIDROIT.

Dopo la Seconda guerra mondiale, sono state approvate ben quattro convenzioni internazionali in materia di restituzione di beni culturali illegittimamente sottratti (l’Unione Europea ha inoltre approvato specifiche normative, valide peraltro solo all’interno dell’Unione, e quindi tra i Paesi membri della stessa). Si tratta della Convenzione dell’Aja, della Convenzione Unesco  e della Convenzione Unidroit.
Nessuna di queste è però stata ratificata dalla maggior parte degli Stati interessati dal traffico delle opere d’arte, sicchè esse sono attualmente prive di concreta efficacia.

Inoltre, la Convenzione UNESCO del 1970, pur avendo aumentato la protezione dei beni culturali ed avendo individuato strumenti per prevenire e combattere il commercio transnazionale di tali beni, riguarda esclusivamente beni di proprietà pubblica: non offre tutela per il privato cui il bene sia stato trafugato.

Il 24/6/1995 è stata firmata a Roma la Convenzione Unidroit, allo studio sin dal 1988, rivolta espressamente a “contribuire alla lotta contro il traffico illecito dei beni culturali”. La Convenzione è la prima che ha tra l’altro previsto la diretta possibilità per i privati di avvalersi della Convenzione pr ottenere la restituzione delle opere d’arte trafugate.
Inoltre, la Convenzione ha introdotto numerose disposizioni che certamente possono limitare il commercio illegale di opere d’arte. Due sono le più importanti.

In primo luogo, ha espressamente previsto che la situazione di buona fede del possessore attuale non esclude il diritto alla restituzione (adottando così la soluzione anglosassone e americana): il possessore ha diritto ad un giusto indennizzo da versarsi da parte del legittimo proprietario che recuperi l’opera, ma solo qualora dimostri effettivamente di aver prestato la necessaria diligenza per l’acquisto.

In secondo luogo, ha adottato termini di prescrizione assai ampi rispetto a quelli in generale vigenti nel diritto continentale: un termine di tre anni dal momento in cui il richiedente ha cognizione del luogo ove il bene si trova e dell’identità del possessore, e un termine assoluto di 50 anni; in realtà, la Convenzione prevede la possibilità per uno Stato di elevare la prescrizione massima a 50 anni, ma è una facoltà che ben difficilmente sarà adottata dagli Stati europei.

Ma, a prescindere dalla considerazione che la Convenzione non risolve il problema dell’arte rubata nella Seconda guerra Mondiale, non essendo ùne possibile una applicazione retroattiva, il reale problema, cui già si è accennato, è che dei 70 Stati che hanno partecipato ai lavori per l’elaborazione della Convenzione, ben pochi la hanno a tutt’oggi ratificata, rendendola così, allo stato, uno strumento privo di qualsiasi utilità pratica.

Elettrosmog

Elettrosmog. Una parola che evoca nel lettore italiano una insieme di impulsi contrastanti: si passa dal timore per gli effetti sulla salute da parte di un fenomeno ancora in parte sconosciuto, all’indifferenza verso questioni che – come ha osservato il Ministro della sanità Veronesi – non rappresentano una priorità per il nostro sistema sanitario, al rifiuto verso scelte legislative determinate da pregiudizi antiscientifici.
Eppure la normativa italiana di protezione dall’inquinamento elettromagnetico costituisce un intervento a livello legislativo estremamente significativo in materia di protezione ambientale sotto vari aspetti, tutti oggetto di esame, di riflessione e di commento da parte degli autori di questo volume.
Prima di tutto, è assai significativo che il dibattito serrato e a volte violento in merito alla utilità e alla opportunità di questa normativa, che ha visto schierati su campi contrapposti ambientalisti e scienziati, si sia verificato dopo l’approvazione della legge e solo allorché si trattava di darne applicazione e non, come ci si sarebbe potuti e dovuti aspettare, prima della sua approvazione.
È questo un dato che, se mai ve ne fosse bisogno (soprattutto dopo la vicenda Di Bella), conferma che il nostro paese continua a soffrire di una congenita e radicata incomunicabilità tra scienza e politica, tra comunità scientifica e rappresentanti della più vasta comunità degli elettori e dei cittadini.
Si tratta di uno squilibrio culturale, bene evidenziato dalle osservazioni di Giovanni Cocco nel suo scritto, che trova la sua espressione in una doppia, istintiva sfiducia: dell’opinione pubblica nei confronti delle affermazioni degli scienziati (ritenuti a priori interessati e di parte), e, per converso, degli scienziati nei confronti di un’opinione pubblica ritenuta a priori immatura e alterata da pregiudizi.
Questo squilibrio, anche sfruttando l’esperienza data dalle vicende che hanno connotato la legge sull’inquinamento elettromagnetico, deve essere quanto prima eliminato al fine di compiere scelte, come osserva Cocco “nel modo più razionale, equilibrato e durevole possibile”, soprattutto in settori che di scelte siffatte hanno un estremo bisogno, quali quelli della tutela dell’ambiente e della tutela della salute collettiva e individuale.
In secondo luogo, la legge oggetto del commento di questo volume pone in primo piano i problemi posti dal principio di precauzione che costituisce uno dei cardini della politica ambientale dell’Unione europea e quindi anche dell’assetto dei principi che governano la tutela dell’ambiente in Italia..
Si tratta di un principio che – come già è stato osservato – offre molte, anche contraddittorie, sfaccettature sia per ciò che concerne la sua definizione, sia per la sua applicazione pratica.
Può trasformarsi in uno strumento di governo della politica ambientale, di miglioramento qualitativo dell’ambiente, e di benessere collettivo, se utilizzato in modo flessibile e ragionevole, ma anche in uno strumento che può produrre danni collettivi se inteso e applicato in modo rigoristico.
Ma – ed è questo un ulteriore aspetto che assume rilievo nella materia dell’inquinamento elettromagnetico – il principio di precauzione, come è stato posto in luce da vari studiosi americani (principalmente Mary Douglas, sulle orme di Aaron Wildawsky) è strettamente collegato con il concetto di rischio, e quindi a un fenomeno non solo oggettivo, ma anche ed eminentemente soggettivo, legato alle percezioni, alla cultura, e alla storia di ciascuno singola comunità con riferimento a determinati fenomeni: ed è qui che entra in campo, e si sovrappone al dato scientifico, la valutazione politica.
Infine, la normativa commentata in questo volume permette utili riflessioni in merito alla ripartizione degli interventi tra centro e periferia – ove il centro è però sempre più spostato, specie dopo le modifiche introdotte ad Amsterdam al Trattato dell’Unione europea, verso Bruxelles, e non verso Roma – per ciò che riguarda la politica ambientale e la tutela della salute.
È il tema si cui si sofferma il contributo di Giorgio Grasso, offrendo una precisa analisi dei vari livelli di competenze e di intervento previsti dalla legge.
Lo specifico pregio del volume risulta quindi proprio il lavoro di inquadramento e di riflessione svolto dagli autori, al fine di collocare la legge sull’elettrosmog nel suo contesto più ampio, e permettere quindi al lettore una comprensione del dato normativo non limitata alla semplice analisi delle disposizioni in esso contenute.

Environmentalism And The Disaster Strategy

1. Introduction

Thinking about
the third generation of international environmental law means trying to
forecast the future. Many assume that this is an impossible task and that
the rule “no prophecy, especially for the future” is to be strictly observed[1]. But
it is an activity which many groups love: economists, political scientists,
and social researchers on the one hand; environmentalists and environmental
lawyers, on the other. However there is a difference between the two groups. For
the expert of the first group, the future is not necessarily worse than
the present: it could even be better. On the contrary, environmentalists
and environmental lawyers constantly imagine the future ranging from bad
to very bad.

This attitude is
not recent. It’s deeply rooted in environmental thinking. Starting
with Malthus in 1798 with his prediction that starvation in Great Britain
was imminent, there has been an endless chain of predictions of catastrophe
concerning irreversible environmental damage and unavoidable scarcity
of food, minerals, water and other natural resources.

A few examples
are sufficient. In1865 Stanley Jevons predicted the end of coal in Great
Britain in a few years. In 1914, the United States Bureau of Mines
reported that oil reserves would last no more than ten years. According
to official reports of the US Department of Interior published in 1939–and
again in 1951–oil reserves would last slightly more than one decade.
In1972 a world famous book, The Limits of Growth, predicted a coming
shortage of world reserves of oil, natural gas, silver, tin, uranium,
aluminum, copper, lead, zinc and many other resources.

All these prediction
were completely wrong[2]. Then
in 1973 the World watch Institute started its yearly forecasts of scarcity
of food production. Year by year, predictions go on, almost always later
proven wrong.

Since 1961 the
world population has doubled. And food demand has increased very
fast: every year there are 90 million more human beings to feed in the
developing countries alone. Demand also increases because people
in developing countries are wealthier: they have developed a taste for
meat; and to fatten livestock it takes a considerable amount of grain[3].  But
food production has more than doubled. Although the greater increase of
production occurred in the developed countries, while the population increases
mainly in the underdeveloped ones (and this makes evident that the problem
is not so much of production, but of redistribution of the resources and
of protectionism measures adopted and strictly implemented by rich countries
against poor ones[4],
the Food and Agriculture Organization (FAO), the International Food Policy
Research Institute (IFPI) and the World Resources Institute are persuaded
that agriculture can cope with a growing population[5]for
many decades to come.

A similar history
can be traced for pollution. 

During the Seventies
the enemy was nuclear energy; during the Eighties, chemicals and acid
rain. Chemicals were considered the principal cause of the increased incidence
of cancer. However, recent medical statistics agree that the rate of mortality
from cancer not related to smoking has actually declined since 1950[6].The
decline of the forests in Germany and in the U.S., confidently attributed
in the past to acid rain and considered irreversible, reverted its trend
years ago. FAO reports that forest cover in Europe (excluding the
Former Soviet Union) increased by more than four percent between 1980
and 1994 and grew in the first half of the Nineties by three percent;
in the same period growth in the United States was two percent[7]. Few
today attribute the previous decline to acid rain. With cautious
terms, the problem is now described as follows: “Overthe years, scientists,
foresters, and others have watched some forests grow more slowly without
knowing why. The trees in these forests do not grow as quickly as usual. Leaves
and needles turn brown and fall off when they should be green and healthy.
Researchers suspect that acid rain may cause the slower growth of these
forests. But acid rain is not the only cause of such conditions.”
[8].

The same considerations
can be applied to other well-known issues, like desertification and deforestation.
In1984, a United Nations report asserted that the desert was conquering
21 million hectares of land worldwide every year. Reports published ten
years later declared that there was no net advance of the desert on a
world scale. In some areas the desert has gained; in some others it has
shrunk. Claims made in the 1980s about deforestation in the Amazon
also today reconsidered gross overestimates: not 20% of the total and
80 million hectares per years (as asserted) but 9% and 21 million hectares
per year during the Eighties, reduced to not more than ten million hectares
in the late Nineties[9]. In
particular, in the Brazilian Amazon, the annual deforestation rate declined
from a peak of more than 20,000 square kilometers in 1988 to just over11,000
square kilometers in 1991 (however, data from the Brazilian government
show that it rebounded to more than 29,000 square kilometers in 1995,
before declining to 18,100 square kilometers in 1996[10]).

In the last ten
years, the focus of the environmental emergency has shifted toward other
issues: climate change and biotechnology among them. But these issues
too have proven extremely controversial and the dangers predicted by environmentalists
again look exaggerated[11].

*

I am, of course,
not asserting that environmentalism has produced only erroneous disaster
forecasts or that environmental policy always worked on the basis on incorrect
assumptions. Nor am I arguing that acid rain, desertification, deforestation,
and climate change are not environmental problems. They are. And there
are numerous reasons to be concerned about the future of the global environment.
Moreover, it must be said that in many cases, as for acid rain and the
greenhouse effect, environmentalists have achieved positive results, forcing
governments and institutions to address environmental problems. Much
environmental improvement, specially in the rich Western countries, can
be attributed to the efforts of the environmental NGOs to draw the attention
of the public opinion and the governments to specific issues. 

My aim rather is
to argue that environmentalism has been strongly characterized by a disaster
strategy, an over-dramatization of future environmental world emergencies,
using inaccurate and unchecked scientific data, while forgetting present
environmental disasters. After considering the rationale for and
the effects of this attitude, the article will point out that the changes
occurred in the world in the recent years suggest the adoption of a different
strategy for environmentalism and consequently for environmental law.

2. The effects
of the Disaster Strategy.

The worldwide effects
of the strategy are several.

a)    Distortion
of environmental law and environmental policy.

Law, lawyers and
legal policy follow and implement the general policy outlines set for
the sector and transform the outlines into regulation, at the national
and at the international levels. In the international arena, a great part
of the efforts of environmental legal experts has been to respond to issues
stressed by environmentalism, that is to focus on the issues selected
by the disaster-strategy. More specifically, since these issues concern
huge catastrophes set in some distant future, the efforts of the legal
experts have been to build up international legal systems, financial devices,
and cooperative conventions to promote legal and institutional processes
to avoid the futurecatastrophe[12]. Resulting
at the international level is diversion of attention of environmental
lawyers. And environmental policy has been diverted from the many environmental
problems affecting today’s world, that need and require legal solutions
to be resolved.

b)
Distortion of economic and financial budgets.

In the same way,
the disaster strategy adopted by environmentalism diverted financial resources
of the States and of international organizations towards huge and controversial
projects in order to avoid or to limit possible negative future
effects, sacrificing progress on present environmental problems.  Today’s
environmental problems which can be confronted and mitigated, if not solved,
receive no or low priority because they do not seem as disastrous as future
problems. The latter, not subject to contemporaneous verification, can
be described as gloomy as anybody wishes. Of course, there is no rational
or ethical way to support this choice, given that the financial and legal
investment in today’s problems makes better economic sense than any other
equivalent investment. Apart from this comparative perspective, there
is no method to be sure that investments on a project to be realized in
the distant future make economic sense at all. In fact, in measuring benefits
in the distant future (say, more than 30-years from now) economic forecasts
are weakened by uncertainty about what will be the state of the world,
the people’s preferences and values, and  available technology[13].

c)
Loss of public support.

The disaster strategy
is a vicious circle. The strategist is forced to create new and greater
disasters to hold the attention of the public. The strategist cannot allow
people to say “Oh, another one” and turn the page of the newspaper. He
needs to have the public constantly upset, following the issues, campaigning
and financing. Of course, that reaction cannot continue forever. There
is a point where people, seeing, on the other hand, no concrete results
whatever they do with regard to future environmental crises, and perceiving
concrete results of day to day environmental policy and from tighter regulations
adopted throughout the industrialized world, become insensitive to the
strategy. They no longer care what environmentalists say. There are signs
of decline in public support for environmentalism, especially in the developed
countries. In the last five years the main environmental organizations
have experienced declines in membership (and consequently a consistent
reduction in their financial strength). In many countries  “Green
Parties” are loosing  political support.

3. The reasons
of the disaster-strategy.

Why has environmentalism
adopted a disaster strategy? I suggest two main reasons.

a) Environmentalism
emerged in postindustrial countries and bears heavy marks of this origin.
For wealthy people in rich countries the concern over possible ruinous
events  somewhere in a distant future is more important than the
gigantic environmental problems now oppressing the large underdeveloped
parts of the world. Western environmentalists are much more ready to invest
money and energies to prevent a risk that might affect their distant
off-spring, like the potential (and controversial) warming of the climate
that might  happen sometime next century, than to finance efforts
in out-of-sight areas of the world. There present huge environmental problems
need to be solved (such as   limitations on   air
pollution, reductions  in water pollution and water shortages). These
problems destroy the environment and kill thousands of people each year.

For wealthy people
in rich countries the future environment is “our environment”, while the
present environment where underdeveloped people live is “their environment”[14].In
other terms, environmentalism and environmental policy sell what can be
sold. The purchasers of this merchandise live – with few exceptions –
in Europe, North America and Australia. They receive what they are willing
to buy.

b) There
is a second important reason. The disaster-strategy is not particularly
new or unique to the environmental movement: on the contrary, it fits
perfectly in what H.L. Mencken considered a common aim of practical
politics: to keep people under alarm by describing an endless series of
artificially built-up dangers[15].
Environmentalism has adopted the practice, in an attempt to transform
real or not-so-real global problems into epochal issues apt to catch the
attention and the support of the public and of  international organizations.

The context for
this strategy choice was a world strictly organized following the Westphalian
model, conceived in 1648 with the Treaty of Westphalia. Under this model,
the world was shared by members of only one type of sovereign legal
entity – the Nation-State – having absolute internal sovereignty. Each
nation-state had (at least formally) legal powers in its external relations
equal to the others.   International law and organizations
in contrast have limited powers and are not very effective.  Sovereignty
basically meant that governments were free to do whatever they liked to
their own people and to their assigned or conquered territory[16].

In this context,
one rigidly and mutually controlled in order to exclude the emergence
of new world actors, environmentalism began.  The disaster-strategy
was a very efficient strategy (probably the only one available) which
would foster emergence as powerful Non-State organizations, and to be
officially recognized as such.

To be sure, this
strategy has been successful and has reached impressive goals in a short
period.  

Many environmental
NGOs are today known worldwide, and recognized as legitimate legal entities
at the international level: environmental NGOs – and their counterparts,
NGOs representing the interests of the industry and the business – are
routinely admitted to the negotiations of international agreements concerning
the environment, and to their implementation (where may happen that the
representatives of states need to work as go-betweens in order to compose
the conflicting perspectives of the different NGOs participating to the
discussions)[17].

The same may be
said regarding the internal and local level: there they are represented
by branches of their organization, by political “green” parties, and are
often backed by traditional parties and political organizations.

Moreover, they
have attained great political and financial power; surely they are stronger
today than  dozens of States on the world-map. Greenpeace, for example,
with its own fleet some years ago challenged France on the sea
to block a planned nuclear experiment[18].Other
environmental NGOs succeeded in forcing huge corporation to respect their
requests. Well-known are the cases of the shift of McDonald from plastic
bags for his products to paper-bags, following the pressure of some environmental
organizations[19],and
the obligation of three major producer of tinned tuna (Starkist and Chicken
of the Sea and Bumblebee Tuna) to purchase only dolphin-free tuna, that
means tuna fished without nets[20].

4. The changing
world.


Considering the effects of and the reasons for the disaster strategy,
it appears that this strategy cannot be further exploited: not only because
is it impossible to proceed ad infinitum in the circle of future
danger and to maintain public attention and that of domestic and international
political organizations, but also because general conditions that created
this strategy are changing
.

Three aspects of
change seem to be directly relevant.

a)
The disintegration of the “Westphalian Model”.

At the turn of
the century we are witnessing the decomposition of the Westphalian-model,
one that has lasted for more than 300 years. A few data: in Europe, at
the middle of the XVII century there were more than 500 public Authorities:
States in all possible sizes and shapes (large, medium, small and
micro) and central and local religious powers with sovereign characteristics
(like territorial control  and a monopoly on punishment) cut out
from, or often overlapping with, the sovereignty of the former. At the
beginning of this century, on the world stage there were only States,
reduced to not more than 25.  In the same period, we moved from
only 20% of the total available land covered by sovereign States to the
whole planet, another impressive pace, only one apparently countervailing.

At the end of this
process, only one type of sovereign legal entity survived – the States
– which shared the whole world, with absolute internal sovereignty, and
with equal (at least formally) legal powers.

In this century,
especially in the last forty years, this  process has not
only ceased but has reverted: legal entities in the world are increasing
in number and in type[21].
The strictly quantitative increase is amazing: the world map contained
62 States in 1914 (25 in Europe as then defined), 74 in 1946, and more
than 200 today. From a qualitative point of view[22], today
we have many new international legal entities: Federations of States,
Unions of States, Cooperation Treaties, Political Organizations (G-7,NAFTA),
Financial and Economic Organizations (World Bank, IMF), Military Organizations,
and International Courts with growing powers eroding the traditional all-comprehensive
sovereignty of the State.

In addition, we
have international NGOs often wealthier and more powerful than  dozens
of the existing States. Amongst them, churches and religious organizations,
human rights and health organizations.

In this last group
are to be placed the Environmental NGOs, whose number, power and authority
boomed in the last twenty years so that they, as said before, are now
making a difference in the world affairs and in the internal policy of
some states[23].They
act as transnational pressure groups, and – as said – are routinely admitted
to the negotiations of international agreements concerning the environment,
and to their implementation

But, as many have
pointed out, environmental NGOs and environmental activists should not
be considered simply as pressure groups, but rather as political actors
in their own right, directing a substantial part of their effort to politicize
the civil society[24].

More over, we have
a number of large enterprises (Microsoft, Toyota, IBM, Siemens and Samsung
are the ones mentioned in Raymond Vernon’s last book[25])which
behave as powers independent of the States. Certainly they are more powerful
and rich than many States, and are able – directly or through organizations
representing their interests and through transnational economic institutions
like the World Bank – to superimpose their view of international
relations, of sustainable development and also of an environmental protection
compatible with industrial goals onto the traditional nation-centered
way[26].

The present situation,
far from being stable, is the following: we have many more States on the
stage but also many other actors and legal entities. All are competing
to keep or to attain support, money, sovereignty, and power.

In conclusion,
sovereignty today is something intrinsically different from the recent
past[27].Certainly,
less and less does it mean that governments are free to do what ever they
wish to their own people and to their territory[28].It
has been said “sovereignty, the power of a nation to stop others from
interfering in its internal affairs, is rapidly eroding”
[29].
Or, in other words, “Stateswill increasingly be required to take into
account the needs of all members of international community in developing
or applying their policies and laws previously thought to be solely a
matter of domestic jurisdiction”[30].

b)
Economic and financial globalization.

Deeply intertwined
with the disintegration of the Westphalian model, we are witnessing today
another event which is much more a common and general issue than the former.
It is the well-known and often-misunderstood globalization: growing economic
interdependence between States.

Although not without
precedent – Marshall McLuhan wrote in 1962 that electronic interdependence
“recreates the world in the image of a global village” and one
can easily find  similar descriptions of the western world before
the First World War – this globalization is a new event. It is characterized
by electronic technology, powerful computers available to the general
public, extremely inexpensive communication, possibilities of free and
quick investing in foreign markets. It is characterized also by the lack
of a centralized government and a centralized policy, although, as many
point out, a new transnational class of powerful managers is emerging:
it is – as Duclos points out, a hyper-bourgeoisie slowly substituting
the traditional levels of command,  playing a world-wide business,
floating above national institutions, local cultures and local markets,
usually located in the financial centers of the globalization[31].  

All these elements
of the new globalization contribute to deep social and cultural changes
all over the world [32].

Many fear
that globalization carries dangers and pitfalls. Not only will people
lose all kinds of protectionism practices (in the economy as well as in
culture), but also  many States, and especially the weaker or the
poorer ones, will be forced to adapt to competition and to the market
rules[33];they will
sell out their national resources and cancel welfare programs, however
meager they were[34].

In particular,
a large part of environmentalists is persuaded that free-trade and trade
liberalization is going to ruin the global environment, causing a sort
of “race to the bottom”: governments compelled to play or perish in the
unavoidable globalization game, will be forced to set lower environmental
standards, in the poorer countries in order to attract investments
and “dirty” industrial activities fleeing from developed countries, in
the wealthy countries in order to avoid the fleeing of industries towards
countries less developed environmental regulations or with a lax enforcement,
and the consequent loss of jobs. Summing up, as DiMento and Doughman pointed
out, “trade liberalization might be seen as rewarding trade partners
uncommitted to environmental protection, thereby removing incentives to
comply with environmental laws  and create stricter environmental
standards”
[35].

On the contrary,
others think that globalization creates new opportunities for individuals,
multinational companies and countries. With the spreading out of trade
liberalization, the world will become richer, and that is the surest way
to make it cleaner, through promotion of social interest in environmental
quality and capacity to pursue environmental goals[36].

c)
Improvements in the environment and the growing implementation of environmental
regulation at a local level in the industrialized world.

Today the air,
the rivers and lakes, and the forests in the rich industrialized countries
– that is, in the basin of support of  environmentalism – are,
at the local level, much better off than they were a few decades
ago. Once an issue is identified as an environmental concern, something
in most cases is done about it. Many sources of air pollution and lead
levels in the air have been brought under control. Waters are cleaner,
since wastes are now treated before release. In other words, where growth
has occurred, the environment has often become cleaner and healthier.
The reasons are several: the spreading of environmental consciousness
and education, the insertion of environmental issues in the agenda of
many political parties, the success of environmental regulations (criminal
as well as administrative and civil) and their implementation.


____0_____0_____

 

What will happen
with environmentalism and environmental law in this new world? What
will emerge from the decline of the Westphalian model and the boom of
globalization?

5. The changing
strategy of environmentalism and environmental policy.

The point of departure
is that the Wesphalian model centered on States and on governments free
to do whatever they wanted to their territory, and the old, non-globalized,
free-trade-adverse economy, have together contributed to the destroying
of the environment. The reason is simple: the model was not imagined to
cope with the great problems of  management and preservation of the
environment in an industrial and postindustrial world. 

As soon as these
problems emerged and it became clear that States alone could not possibly
solve them, effort was directed to build up international agreements to
limit their power and their sovereignty, keeping the States always at
the center of the scene. The ultimate  result has been reached in
the Nineties, when the concept of “common concern” of the States
has been widely developed[37],reaching
the ultimate formula of a “sharedbut different responsibility”
for environment preservation, regarding the different impact of the developed
and underdeveloped countries to the present environmental degradation.

The results have
been meager.

Firstly, the rich
countries, although contributing substantially to the past and present
environmental degradation, refuse to change their “style of life” (as
President Clinton has declared) and to reduce their impact on the environment.

Secondly, it has
proved extremely difficult to secure effective and trustworthy cooperation:
as always  in the case of collective action here there is no effective
enforcement, anyone can be a free rider, while  others comply with
agreements[38].

Eventually, international
law is not binding, and there is no possibility of forced implementation
of the rules (apart war, obviously reserved for the most important violations);
countries not adhering to international law on some matters generally
do not bear consequences of their choices (and many countries, like the
United States consider their Constitution prevailing over International
Treaties). As John Bolton points out, “governments often follow only
those international laws that suit their interests and ignore those that
do not”
, concluding that “internationallaws are not law” in
the common sense of the expression[39].

We have seen that
the choice of the disaster-strategy on the world scale by environmentalism
can be interpreted as an efficient move to fight State monopoly over its
territory and to affirm environmental organizations as legitimate actors
in the world arena.

The decline of
the Westphalian model, the expansion of globalization and the now consolidated
presence as legitimate actors of  environmental organizations
(together with other non-state organizations) provide a great opportunity
for  reshaping and a change of strategy. In this respect, we  do
not agree that this evolution, and  globalization in particular,
pose a great danger for the environment. The rich, developed countries
continue to consider the rest of the underdeveloped world an area to be
plundered as soon as the occasion arises, while in the underdeveloped
world poverty, need or greed of governments and of the states leads to
collapse of resources and an   increase of pollution. However
dangerous  globalization may be, we should not forget that until
very recently the State-centered, non-globalized world produced the
damages to the environment we experience today. Thus we must trust in
a non-State-centered, globalized world to find the path to change.

Nor can we
agree with the fundamentalist view affirming that wealth damages the environment[40].   These
views do not take into consideration the fact that in this century
where we had growth, we also had a healthier environment. It is in the
poor countries, with no or very slow growth, where air and water pollution
is increasing, where deforestation remains a problem, where it is very
difficult to cope with the immense problems connected with preservation
and with environmental safety. Aaron Wildawsky’s provocative assertion
that “wealthier is healthier”, used in the Seventies to mock the
tough anti-growth environmentalist position, today is supported by experience[41].Consequently
we should agree with one conclusion stressed years ago in the Bruntdland
Report: poverty is the principal cause of the degradation of the environment
all over the world[42].This
conclusion is both widely cited and methodically ignored.

World poverty in
fact is increasing at a shocking rate (although some underdeveloped countries
– like India – are witnessing a spread out improvement in the conditions
of life of their inhabitants). According to Lant Pritchett, in 1870 Great
Britain and the United States had an income per capita nine times
that of the poorest country. 120 years later, in 1990, it was more than
45times. If we take the 17 richest countries of 1870, their income
per capita was2.5 times that of all the other countries together; today’s
17 richest countries have an income of 4.5 times that of the rest of the
world[43].  If
we believe in the causal relation between wealth and environmental quality,
and if we do not wish to witness in the next century the twilight
of environmental care and preservation and the waning of environmental
law and policy [except in a few fortunate spots of the world], the
real enemy to fight is poverty.  

At this point,
it is easy to imagine two objections by environmentalists and environmental
lawyers.

The first is: this
is not the business of environmental law. This position is inaccurate
unless policymakers and practitioners wish their business to be confined
locally to a progressively shrinking clean environment and globally to
disaster-forecasts. It is also wrong, because, having been so concerned with
the negative environmental effects of growth, the environmental community
should now focus on the more justified concerns about the negative environmental
effects of poverty. Above all, this position is wrong because the
major causes of environmental degradation – whatever they are – should
be the business
of environmentalists and environmental policy.

The second objection
is understandable: how possibly can environmental law and its practitioners
fight poverty in the underdeveloped world? 

This is the focus
of the problem.

Presently, the
fight against poverty is pursued by many of the forces who have affirmed
and extended their powers in the non-Westphalian globalized world. Economic
and financial organizations as well as NGO concerned with aids to under
developed countries and with the protection of the human rights are planning
and starting programs where the fight against poverty is at the center
of their activity.

Environmental organizations
should not stay apart from this global movement but should take an active
part, exploiting their position of being an “actor sovereignty-free”[44].

On one side they
should increment the assuming of official roles, cooperating with all
state and non-state entities, contributing with their experience and their
specific skills; on the other side they should expand their activity in
the global civil society” (that means in the “complexnetwork
of economic, social and cultural practices based on friendship, family,
market, voluntary affiliation”
located above the individual but below
the state, across national boundaries)[45]. 

In particular,
environmentalists and environmental lawyer must take an active role in
the collective political as well as legal action that is beginning to
be organized in order to lift environmental standards adopted by industry
and transnational corporations in the underdeveloped countries, and
to set general rules and a regulatory international architecture for international
investments whose respects should be imposed. This is the only way to
avoid a “race to the bottom” in environmental standards by underdeveloped
countries in order to attract and to keep investments and industries.

This collective
action cannot be differed, considering the huge increase of private investments
in these countries in the last years, in comparison with public or international
funding (the private investments, less than half of the total in1990,
have reached ¾ of the total 1995). Private investments are of course much
more available than public ones to take profit of the need of money and
often of the corruption of the regimes at power in order to pursue the
goal of production at low costs and without excessive controls[46]. 

Moreover, environmental
NGO and environmental law must play an active role in forcing wealthy
states and transnational corporation to adopt as a strategic goal not
short term commercial gains via liberalization, but a long term perspective,
consisting in a wider set of integrated economic and environmental as
well as security and social objectives[47].

In other terms,
globalization and free-trade request more controls, not more liberalization.
Environmental NGO must jump on this occasion and assume a leading role
in the planning of creative policies both at home and abroad[48]:the
governance of international capital flows and of investments in underdeveloped
countries should become one of the key environmental policy issues in
the next future.

There is another
important point.

When we discuss
about the issue concerning fight against poverty, it should not be forgotten
that the poverty of a country depends much more on the way it is governed
than on natural conditions or social constraints (as we all like to think).

Evidence of this
century suggests that there is a strong link between poverty and absence
of democracy and dictatorship, between poverty and lack of civic and economic
freedom, of a predictable regulatory and economic climate. Protecting
human rights, investments and property rights, enforcing the law, avoiding
inflation and corruption are the independent causal factors offering a
way out of poverty[49].

That means that
these are the best strategies with which to promote  also environmental
protection. Where human, civic and property rights are fairly regulated
– not simply abandoned to the market forces – where law is enforced,
where democratically elected governments avoid corruption and inflation,
where participation in the development of legislation is consented and
transparency is guaranteed, where the judiciary system is really independent,
there we have the strongest possibilities to escape from poverty: this
means better education, more knowledge, better health, and, in the end,
as a result, a better preserved environment.

The conclusion
is that probably for the first time – due to the complex changes described
above – the deep links existing between all the non-State entities operating
today in the underdeveloped world emerge in full light: since human rights,
poverty, democracy, environment all are intertwined, no organization taking
care of on of this aspects can achieve his goals without the assistance
and the cooperation of the other ones.

On the other side,
the possibility to get access into the globalized world and the danger
of being excluded makes the governments of many underdeveloped country
much more ready to accept principles, with regard to democracy, human
rights and fair regulation, ignored until a few years ago.

For environmentalism
and environmental policy is the right moment to turn the attention to
disasters happening in the present moment, at very short distance from
the gardens of the rich world. Not only States and governments, but also
environmental NGO and environmental law will determine, by the policies
they adopt, by the practices they follow, whether the possible benefits
of this era will be exploited or squandered.



· I wish to express
my thanks to Prof. Joseph DiMento for his advice, for his suggestions
and for his final editing of the paper.

[1]
The position affirming that, whatever the future will be, certainly it
will be different from whatever is  presently   imaginable
finds its roots in an intuition of Hegel concerning what he called the
“zoè” (the thinking life). Human beings sometimes think that they can
observe and modify the external world; sometimes they think that they
are a mere product of the world. Both attitudes are wrong, said Hegel.
Human beings are a part of the world they observe, they cannot avoid observing
themselves while observing the world. They cannot think as if they were
not a fusion with the reality that they want to explain. Zoè is the result
of this fusion, irremediably linked to the observer and to the observed
reality. None of us can escape from this condition: this is the limit
of our imagination of the future that we cannot overcome.

[2]
Unless otherwise indicated. the following data come from: MELISSA LEACH
– ROBIN MEARNS, The Lie of the Hand, Currey\Heinemann UK, 1995;
Plenty of gloom, in The Economist Dec. 20, 1997, p.21.

[3]
According to FAO calories consumed per capita in 1993 are 27% higher in
the Third World than they were in 1963. Today, 1/3 of the world’s grain
goes to feed animals; to meet growing meat demand, the world’s livestock
population has boomed. Cattle numbers rose by 40 percent between 1961
and 1997, pigs by 130 percent and chickens by 246 percent: see ALLEN HAMMOND
EMILY MATTHEWS, Critical Consumption Trends and Implications: Degrading
Earth’s Ecosystems
, World Resources Institute <www.wri.org>

[4]
It is the case of the strict barriers on imports of food products in the
European Union countries, in order to protect European agriculture.

[5]
It should be considered, however, that, following the lowest of three
projections made by the U.N., the world population will stabilize around
2040 at the level of 7,5 billion, then start to decline.

[6]
In 1930, the annual rate of cancer mortality in the U.S. was 143 per hundred
thousand; in 1990, adjusted for the raising age of the population, it
was 190 per hundred thousand. But, if we omit lung cancer the death rate
would have dropped 14 % between 1950 and 1990: see ROBERT A. WEINBERG,
One Renegade Cell: How Cancer Begins, Basic Books, 1999. The same
results could be achieved changing to a low-fat, low-meat diet, adds Weinberg.
For interesting comments, DANIEL J. KEVLES, Cancer: What Do They Know?,
in New York Review of Books Vol. XLVI n.14, Sept.23, 1999, p.14. In general,
on the relation between environmental pollution and cancer and on the
questions whether adverse health effects can be attributed to exposure
to dioxin, PCBs, chemical pollutants, trichloroethylene, see KENNETH R.
FOSTER, DAVID E. BERNSTEIN & PETER W. HUBER (ed.), Phantom Risk:
Scientific Inference and the Law
, Cambridge, MA: M.I.T. Press, 1993
(Paperback Edition, 1999).

[7]
See WORLD RESOURCES INSTITUTE, Washington DC www.wri.org,
sector Forests.

[8]
Acid Rain Program of EPA –
http://www.epa.gov/acidrain/student/forests.html
.

[9]
There is no agreement about this issue. For example, in opposition with
the above-mentioned data, John Terborgh, a prominent ornithologist with
long experience in the Amazon and co-director of the Center for Tropical
Conservation at Duke, asserts that the rates of deforestation have increased
during the 1990s.: cfr. J. TERBORGH, Requiem for Nature, Island
Press 1999.

[10].
For more information see http://www.wri.org/wri/trends/deforest.html.

[11]
For the global warming issue, see for general documentation “Global Warming
Central: The Source for Information in the Global Warming Debate in http://joshua.law.pace.edu/env/energy/globalwarming.html.
More critical views on the issue can be found in
http://www.globalwarming.org/.html
. For a downsizing view of the issue,
see CURT SUPLEE, Studies May Alter Insights Into Warming in Washington
Post March 15, 1999; Page A7, reporting about two new studies (published
in the previous months in Nature and in Science) of the
Earth’s ancient atmosphere “that may alter the way scientists understand
the relationship between airborne carbon dioxide and climate change, and
the entire dynamics of future greenhouse global warming”
. The US
Environmental Protection Agency (EPA) estimated in 1995 that sea levels
would rise at an average of 34 cms per year until 2100: a significant
reduction compared to the Agency’s 1983 estimate of 175 cms. (cfr. http://www.reast.demon.co.uk/gw9510.htm).

[12]
In the Nineties, the concept of “common concern” has been developed: the
1992 Climate Change Convention declares that change in the earth’s climate
and its adverse effects are a common concern of humankind”. Convention
on Biological Diversity, June 5, 1992; see PHILIPPE SANDS, The Greening
of International Law: Emerging Principles and Rules,
in Global Legal
Studies Journal 1, 2 in ………….

[13]
See on this issue PAUL PORTNEY – JOHN WEYANT, Discounting and intergenerational
Equity
, Resources for the Future, Washington DC, 1999

[14]
This attitude can be traced back to the definition of sustainable development
offered by the Brundtland Report, where the equity in the inter-generational
sense (i.e., limiting development to protect the options of future generations)
as been considered as important as the distributive justice in the intra-generational
sense (i.e., in its commitment to meeting “the needs of the present”):
see WORLD COMMISSION ON ENVIRONMENT AND DEVELOPMENT, Our Common Future
43 (1987). About this issue, see MICHAEL MCCLOSKEY, The Emperor Has
No Clothes: The Conundrum Of Sustainable Development
, in 9 Duke Environmental
Law & Policy, 1999, 153.

[15]
A good example is offered by the “meteor” or “asteroid”- syndrome, used
by United States and China to pursue and to justify experiment in military
and nuclear matters. O this issue, see MIKE DAVIS, Rain Of Iron And
Ice: The Very Real Threat Of Comet And Asteroid Bombardment
, in Nation
v. 263, n.13, 20-10-1996 p.38-42.

[16]
Contributions to the understanding of sovereignty have been numerous.
A good outline of this issue can be found in SYMPOSIUM, The Decline
of the Nation State and Its Effects on Constitutional and International
Economic law
, in 18 Cardozo Law review 903, 1997. A provocative view
of the origin and the development of sovereignty in the modern era is
offered in L. FERRAJOLI, La Sovranità nel Mondo Moderno, Laterza
Bari 1997.

[17]
Recent examples of international negotiations where NGOs are admitted
are offered by the …Mediterranean (Scovazzi) and the Intergovernmental
Agreement on Persistent Organic Pollutants (so-called POPs) à Peter Lallas.
In general, on the participation of NGOs and environmental NGOs in particular
to international negotiations see DAVID FORSYTHE, Human Rights And
World Politics
, Lincoln, Uni. Of Nebraska 1989; P. J. SANDS, The
Role of NGO in Enforcing International Environmental Law
, in W. E.
BUTLER ed., Control Over Compliance With International Law, Dordrecht,
Olanda, 1991.

[18]
The 1997 budget of Greenpeace was $ 130 million, with $92.5 million to
invest in specific campaigns; the contributors  in 1991 were almost
5 million.

[19]
See JOHN HOLUSCHA, Packaging And Public Image: McDonald Fills A Big
Order
, in NYT Nov 2, 1990.

[20]
See DAVE PHILLIPS, Three Companies To Stop Selling Tuna Netted With
Dolphins
, in NYT Apr 13, 1990 A1, A4

[21]
S. CASSESE, Gli Stati nella Rete Internazionale dei Poteri Pubblici,
in RTDP 1999, 321 – 329, spec. 328; D. ZOLO Cosmopolis. La Prospettiva
del Governo Mondiale,
Milano 1995; Daedalus vol.124

[22]
J. ROSENAU, Turbulence in World Politics, Brighton 1994.

[23]
see PAUL WAPNER, Politics Beyond The State: Environmental Activism
And World Civic Policy
, in World Politics 47, n.3, Apr.1995, p.311-341.
See also MARGARET E. KECK – KATHRYN SIKKINK, Activists Beyond Borders:
Advocacy Networks In International Politics
, Ithaca, Cornell 1998
and II. DD., Transnational Advocacy Networks In International And Regional
Politics
in International Social Science Journal v. 51, n.1, March
1999, p.89.

[24]
See on this wide issue RONNIE LIPSCHUTZ, Restructuring World Practice:
The Emergence Of Global Civil Society
, in Millennium 21, 1992; see
also RICHARD FALK, Explorations At The Edge Of Time, Philadelphia Temple
Uni. Press 1992.

[25]
RAYMOND VERNON, In the Hurricane’s Eye, Cambridge Uni. Press, 1998

[26]
see MATTHIAS FINGER – JAMES KILLOYNE, Why Transnational Corporations
Are Organizing to Save the Environment
, in Ecologist v. 27, n.4, July
1997, p 138-143. The Authors maintain that the big transnational corporations
have assumed the control – through the allocation of funds of the World
Bank – of the business related with the protection and the enhancement
of the environment in particular in the underdeveloped countries. They
specifically point out the intense activity of a NGO representing the
big business, the World Business Council on Sustainable Environment (WBCSD).
With specific regard to the position of the World Bank, Greenpeace remarks
that “In response to pressure to increase financing for global environmental
protection, the World Bank took the lead in 1991 in establishing the Global
Environment Facility (GEF). The GEF would enable the institution to become
the key agency in financing two key environmental conventions – the Framework
Convention on Climate Change and the Biodiversity Convention, both signed
in Rio. Administration of the GEF not only gives the Bank new government
funds to administer, it also provides a “green” cover for many environmentally
destructive bank loans”
: see GREENPEACE, World Bank Fact Sheet n.3,
World Bank And The Environment: Some Things Never Change.

[27]
KEITH AOKI, Considering Multiple and Overlapping sovereignties: Liberalism,
Libertarianism, the National sovereignty, Global Intellectual Property
and the Internet
, in 5 Indiana Journal of Global Legal Studies, 443,
1998.

[28]
As many have remarked, in 1999 the Kosovo war and the trial against General
Pinochet are  evident signals of the rising of a serious challenge
to the principle: limits of sovereignty are deeply changing.

[29]
WALTER B. WRISTON, Bits, Bytes and Diplomacy, in Foreign Affairs
Sept.\Oct. 1997, 174.

[30]
PHILIPPE SANDS, cit., …; see also GAETANO SILVESTRI, La Parabola
della Sovranità. Asesa, Declino e Trasfigurazione di un Concetto,
in
Rivista di Diritto Costituzionale n.1, 1996, p.3 ss.

[31]
Regarding this new class, see DENIS DUCLOS, Una Nuova Classe si Impossessa
delle Leve del Potere Mondiale. La Nascita dell’Iperborghesia; see also
JEAN-CLAUDE MILNER, Le Salaire de l’idéal, Seuil, Parigi, 1998; SASKIA
SASSEN, Città Globali. New York – Londra – Tokyo, UTET, Torino 1997.

[32]
THOMAS L. FRIEDMAN, The Lexus and the Olive Tree, Farrer, Strauss
and Giroux NY 1999; W.WRISTON, supra note 13, observes that “the information
revolution is… profoundly threatening the power structures of the world”
,
p.175. see also SASKIA SASSEN, Global Financial Centers in Foreign Affairs
Jan-Feb 1999, p.95\97, remarking that global capital markets are continuing
the process of integration into a new supranational order, while the international
network of financial centers is expanding.

[33]
Although many think that globalization is simply a matter of political
choices: see ETHAN KAPLAN, … in Foreign Affairs; R. GILPIN, The Political
economy of International Relations
, Princeton 1987 p.88 who speaks
of the new economy as a product of a permissive international order
determined by the choices of some states which can impose the rules of
the game on all the others

[34]
see ULRICH BECK, Was ist Globalisierung? Irrtumer des Globalismus,
Antworten auf Globalisierung
, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1997, p.26.See
for example RAYMOND VERNON, cit.,  suggesting that the relatively
benign climate in which multinationals have been operating during the
past ten years could be soon facing rough waters, especially in European
countries where fears are spreading  that a too-open economy endangers
welfare.

[35]
JOSEPH DIMENTO – PAMELA DOUGHMAN, Soft Teeth In The Back Of The Mouth:
The NAFTA Environmental Side Agreement Implemented
, in The Georgetown
International Environmental Law Review, v. 10, n.3, 1998, p.653.

[36]
This is the position of The Economist: see Why Greens Should Love Trade,
9/15 Oct. 1999, p.17

[37]
The 1992 Climate Change Convention declares that change in the earth’s
climate and its adverse effects “are a common concern of humankind” Convention
on Biological Diversity, June 5, 1992; see PHILIPPE SANDS, cit.

[38]
This last point is examined in JOHN DUNN, Introduction: Crisis of the
Nation State
, in Political Studies 1994, XLII, 3-15, at 13.

[39]
JOHN BOLTON, The Global Prosecutors. Hunting War Criminals in the Name
of Utopia
, in Foreign Affairs March-April 1999, p.157, 159.

[40]
M. ZURN, Globale Gefahrdungen und Internationale Kooperation in
Der Burger im Staat n.45, 1995, p.51

[41]
on this issue, see LANT PRITCHETT – LAWRENCE SUMMERS, Wealthier is
Healthier
, in Journal of Human Resources v 31, n.4, Autunno 1996,
p.841-869.

[42]
WORLD COMMISSION ON ENVIRONMENT AND DEVELOPMENT, OUR COMMON FUTURE, cit.

[43]
LANT PRITCHETT, … , in Journal of Economic Perspectives, 1997 <www.jstor.ac.uk/journals/08953309>
; see also The Economist, A Survey of the 20th Century,
Sept 11, 1999, p.27

[44]
The expression is in W. ROSENAU, cit.

[45]
See RONNIE LIPSCHUTZ, cit.; see also ALBERTO MELUCCI, The Symbolic Challenge
Of Contemporary Movements in Social Research 52, 1985; RUSSELL DALTON
– MANFRED KUECHLER, Challenging The Political Order: New Social And Political
Movements In Western Democracies, New York, Oxford Uni Press 1990.

[46]
See LYUBA ZARSKY, International Investments Rules and the Environment:
Stuck in the Mud, in Foreign Policy, v. 4. 22, 15-8-1999, p.1

[47]
see LYUBA ZARSKY, Toward a New Foreign Policy, in Foreign Policy v.4,
22, 15-8-1999 p.3

[48]
RICHARD N. HAASS – ROBERT E. LITAN, Globalization And Its Discontents.
Navigating The Dangers Of A Tangled World,
in Foreign Affairs Mai-June
1998, n.3, p.2\6.

[49]
See The Fraser Institute, Economic Freedom in the World, in <www.freetheworld.com>.
The Institute uses seventeen measures of freedom, considered as a broad
concept, requiring not only a free market but constant regulatory intervention
by the State. See also JONATHAN ISHAM, DANIEL KAUFMANN AND LANT PRITCHETT,
Governance and the Returns to Investment: An Empirical Investigation,
World Bank-IRIS, IRIS Working Paper No. 186, 1998. The paper
link measures of societal-level participation to project-level performance.
The participation variable comes from Freedom House’s Civil Liberties
Index, that covers thirteen participation-related items, including the
right of peaceful assembly, freedom of opinion and expression, the right
and opportunity to take part in the conduct of public affairs, the right
to freedom of opinion and expression, and the right to form trade unions.
In general on this still controversial issue see ROBERT A. MITCHELL, How
to link democratic governance with Economic Growth,
in American Diplomacy
vol.3 n.4, autumn 1998 www.unc.edu/depts/diplomat/amdipl_9/mitchell.html
: Mithcel writes that “the usual assumption is that <a democratic
government> is the independent causal factor that improves an economy’s
performance. In the absence of widely accepted evidence supportive of
these linkages, there are advocates of the opposite causal relationship,
as partially reflected by those who would delink trade and human rights
policies toward growing overseas markets for U.S. exports. These advocates
argue that market-based economic growth will lead to greater democracy,
although the reasons for this are not always clear
”.

Globalizzazione e Ambiente: un bilancio

I. Globalizzazione e ambiente: un rapporto controverso.

Il tema del rapporto tra globalizzazione e ambiente è tra i più controversi.
Da un lato stanno coloro che ritengono che la globalizzazione compiti degrado
ambientale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Costoro – tra cui si collocano molti
movimenti ambientalisti – sono convinti che il libero commercio e liberalizzazione degli
investimenti e dei mercati finanziari finiranno per distruggere l’ambiente globale,
causando una sorta di “gara verso il basso”: i governi, soprattutto quelli dei paesi più
poveri, saranno forzati a fissare standard ambientali più bassi, allo scopo di attirare gli
investitori e le attività industriali più inquinanti pronte a trasferirsi dai paesi
industrialmente avanzati.
D’altro lato, stanno coloro che ritengono che la globalizzazione produca effetti benefici
e vantaggi soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, immettendoli nel circuito economico
e finanziario internazionale, ma anche in un sistema giuridico globale che si sforza di
imporre il rispetto di regole fondamentali con riguardo ai diritti umani e ai diritti
politici. Costoro ritengono che con il progredire della globalizzazione il mondo potrà
diventare più ricco, e questo è il sistema più sicuro per renderlo anche più pulito.
Soffermiamoci su alcuni aspetti del complesso processo che va sotto il nome di
globalizzazione, che appaiono di maggior rilievo per ciò che riguarda i problemi di
danno e responsabilità ambientale.

II. La globalizzazione, gli Stati, la comunità internazionale e l’ambiente.

All’inizio del ventesimo secolo, sulla scena mondiale c’erano soltanto stati-nazione che
si dividevano il mondo intero, con una sovranità interna assoluta e (almeno
formalmente) con pari poteri legali (è l’assetto politico che viene ormai comunemente
chiamato westfaliano, sorto con la pace di Westfalia nel 1648, e durato per oltre due
secoli).
Nella seconda parte del ventesimo secolo, questo processo non soltanto si è
interrotto, ma si è rovesciato: gli organismi legali nel mondo sono in crescita per
numero e genere1.
L’incremento strettamente quantitativo è sorprendente: la carta del mondo conteneva
62 stati nel 1914 (25 nell’Europa secondo la definizione di allora), 74 nel 1946, e più
di 200 oggi.
Da un punto di vista qualitativo, si sono verificati due importanti effetti.
Si è imposta, prima di tutto, una nuova gerarchia spaziale delle relazioni economiche e
politiche articolata su vari piani, globale, internazionale, sovranazionale, nazionale e
regionale (e quest’ultima sta acquisendo una crescente importanza, a scapito del
livello statale). Nell’ambito di questo nuovo assetto gerarchico, lo stato assume
sempre più un compito di mediazione tra il livello regionale e quello sovranazionale:
garante verso il basso delle decisioni sovranazionali, rappresentante verso l’alto delle
esigenze regionali2.
Vi è poi un secondo effetto, costituito dall’affermarsi sulla scena internazionale di
numerosi nuovi organismi: federazioni di stati, unioni di stati, trattati di cooperazione,
organizzazioni politiche (G-7, NAFTA), organizzazioni finanziarie ed economiche
(Banca Mondiale, Fondo Monetario internazionale), organizzazioni militari, e corti
internazionali con poteri crescenti, che erodono la tradizionale, onnicomprensiva
sovranità dello stato e si sovrappongono ad essa.
Abbiamo inoltre organizzazioni non governative internazionali spesso più ricche e più
potenti di decine di stati esistenti. Tra queste, chiese e organizzazioni religiose,
organizzazioni in favore dei diritti umani e organizzazioni sanitarie, organizzazioni
ambientaliste.
Queste ultime, in particolare sono esplose per numero, potere e autorità negli ultimi
venti anni3, proprio traendo vantaggio dall’erosione dello Stato nazione, e
dall’estendersi della globalizzazione. Molte di esse sono più ricche e più potenti di
decine di stati esistenti4. Agiscono come gruppi di pressione internazionali e – come
già osservato – sono generalmente ammesse ai negoziati per la stesura e la
realizzazione concreta degli accordi internazionali riguardanti l’ambiente5.
Inoltre, abbiamo un certo numero di grandi imprese (Microsoft, Toyota, IBM, Siemens
e Samsung sono quelle maggiormente citate nell’ultimo libro di Raymond Vernon6) che
si comportano da potenze indipendenti dagli stati. Certamente sono più ricche e
potenti di molti stati, e sono in grado – direttamente o attraverso organizzazioni che
rappresentano i loro interessi e attraverso istituzioni economiche transnazionali quali
la World Bank – di far prevalere, sul sistema tradizionale incentrato sulle nazioni, le
loro concezioni di relazioni internazionali, di sviluppo sostenibile e anche di protezione
ambientale compatibile con gli obiettivi industriali.
L’attuale situazione, lungi dall’essere stabile, è la seguente: abbiamo molti più stati
sulla scena, ma anche molti altri attori e organismi riconosciuti, in concorrenza tra di
loro per mantenere o conquistare sostegno, consenso, denaro, sovranità e potere.
In conclusione, la sovranità oggi è qualcosa di intrinsecamente diverso dal passato,
anche recente.
1.    È stato detto che “la sovranità, il potere di una nazione di impedire ad altri di
interferire nei suoi affari interni, si va rapidamente erodendo”7. O, in altri termini,
“agli stati sarà sempre più spesso richiesto di tenere conto delle esigenze di tutti i
membri della comunità internazionale per sviluppare o attuare le loro politiche e le
leggi in precedenza ritenute una questione di giurisdizione esclusivamente
interna”89.
Per ciò che riguarda l’ambiente e la sua protezione, la globalizzazione politica –
costituita dal fatto che i governi siano sempre meno liberi di fare quel che vogliono
della loro popolazione e del loro territorio, e sempre più debbano rispettare principi,
regole, accordi a livello sovrastatuale o internazionale – rappresenta un fatto
indubbiamente positivo: danni e responsabilità ambientali, anche con potenti ricadute
transfrontaliere, prima celati e protetti sotto il guscio della sovranità statale, sono
divenuti oggetto di attenzione, di controllo e talvolta di intervento globale.
Ma ci sono anche aspetti negativi.
Vi è attualmente un grave deficit di rappresentanza, dato dal fatto che la maggior
parte dei nuovi attori sulla scena internazionale è costituita da organizzazioni o
associazioni che, pur essendo esponenziali di interessi diffusi largamente condivisi,
operano secondo piani, strategie e obiettivi che sono individuati e realizzati in
attuazione di meccanismi decisionali che non debbono necessariamente rispettare
principi di trasparenza o di democrazia.
Per converso, sembra difficile sostenere che il decrescere della sovranità statale
produca di per sé effetti negativi sull’ambiente.
Non dobbiamo dimenticare che fino a pochissimo tempo fa il mondo non globalizzato,
incentrato sugli stati nazionali sovrani, produceva proprio quei danni all’ambiente –
soprattutto sui paesi poveri e in via di sviluppo – di cui oggi noi subiamo le
conseguenze. Questo perché il modello organizzativo incentrato su stati e governi
liberi formalmente di fare ciò che volevano sul loro territorio, e la vecchia economia
non-globalizzata, hanno contribuito insieme alla distruzione dell’ambiente.

III. La globalizzazione economica e l’ambiente.

Più complessa è la questione delle relazioni tra la globalizzazione economica e
l’ambiente. La questione è stata ampio oggetto di studio e di dibattito, in particolare
negli Stati Uniti ed in Germania, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni
Novanta.
Anche in questo caso, si contrappongono diversi orientamenti.
Secondo alcuni, globalizzazione e tutela dell’ambiente non solo possono armonizzarsi,
ma la prima, generando ricchezza, permettendo il diffondersi di tecnologie e prodotti
meno dannosi per l’ambiente, imponendo una migliore e più efficiente distribuzione
dei fattori produttivi può permettere di ottenere consistenti risultati positivi, in
precedenza impossibili, anche e soprattutto nei paesi in via di sviluppo10.
Secondo altri, invece, globalizzazione e tutela dell’ambiente sono radicalmente
incompatibili: la liberalizzazione del commercio e la globalizzazione della produzione e
dei consumi incrementano necessariamente l’intensità e la diffusione del degrado
ambientale, anche perché crisi economiche a livello regionale – specie nei paesi in via
di sviluppo – divengono estremamente più probabili11.
Infine, si è formato un orientamento intermedio secondo il quale la globalizzazione
può determinare effetti positivi per l’ambiente, purché sia accompagnata da regole, da
limiti e soprattutto costruita intorno a principi che impongano il rispetto dell’ambiente
e ne prevedano la tutela12, tenuto soprattutto conto che l’intensificarsi del commercio
e degli investimenti a livello globale provoca una amplificazione dei punti critici di
mercato per ciò che riguarda un ulteriore degrado di un ambiente già in pericolo in
molti paesi13.
Certamente, allo stato attuale non si è ancora formata una opinione precisa e
condivisa dalla maggior parte degli esperti, in un senso o nell’altro.
Vi sono però specifici punti, sui quali si può ritenere che si sia formato un
orientamento dominante a livello di esperti delle relazioni tra economia e ambiente.
Soffermiamoci su due in particolare.
A.    Globalizzazione e effetti della regolamentazione ambientale.
È opinione assai diffusa – sostenuta anche da alcuni studi compiuti negli anni Settanta
e Ottanta – che la regolamentazione ambientale nei paesi ricchi produca una fuga di
imprese inquinanti verso i paesi in via di sviluppo, e che questo processo sia
determinato dalla globalizzazione. Secondo alcuni, questo processo non è determinato
dalla globalizzazione, ma ha contribuito a determinarla: proprio la delocalizzazione
industriale determinata dai vincoli ambientali dei paesi ricchi e dallo stato di necessità
creato nei paesi poveri ne sarebbe una delle cause. In questo senso, uno dei siti
“antiglobalizzazione” più attivi afferma che “Uno dei fattori che determinano la
globalizzazione è che le imprese transnazionali vogliono collocare attività produttive
industriali inquinanti in paesi dove non ci sono adeguati strumenti di controllo
ambientale”14.
La fuga delle localizzazioni industriali inquinanti verso i paesi in via di sviluppo sarebbe
determinata da fattori tipici dei paesi ricchi con rigorose regolamentazioni ambientali
tra cui: l’aumento dei costi provocato dalle tecnologie pulite da adottare,
l’indisponibilità di discariche per i rifiuti dei processi produttivi o il costo
dell’eliminazione legale dei rifiuti.
In generale, l’attuale squilibrio di regolamentazione ambientale tra paesi ricchi e paesi
poveri, inserito in un sistema globalizzato produce inevitabilmente, secondo molti, la
cosiddetta race to the bottom, sia in termini di creazione di pollution – havens, cioè
stati-paradiso per l’inquinamento verso cui si spostano le attività industriali, sia in
termini di stati-discariche, verso cui si spostano i rifiuti.
Questi punti sono stati l’oggetto negli anni Novanta di approfondite indagini da parte
di economisti, giuristi, esperti di politica e sviluppo industriale15.
I risultati sono tutt’altro che uniformi. Ma la maggior parte delle indagini condotte
smentisce l’opinione diffusa di un rapporto di causalità tra regolamentazione
ambientale e minor competitività internazionale con conseguente spinta alla
delocalizzazione verso i paesi in via di sviluppo16.
Al contrario, molte indagini hanno posto in evidenza l’importanza della
regolamentazione ambientale – quale che essa sia, sia del tipo command and control,
sia affidata a strumenti di mercato o strumenti fiscali – per l’affermarsi nel lungo
periodo di nuove tecnologie meno dannose per l’ambiente17.
Quindi, la regolamentazione ambientale non solo non sembra provocare una
diminuzione della competitività interna sul mercato internazionale con conseguente
fuga verso luoghi meno regolati, ma sembra indurre innovazione verso tecnologie
ambientalmente più pulite, e quindi instaurare un circolo virtuoso per la protezione
dell’ambiente e nel contempo per l’aumento della competitività internazionale sul
mercato delle tecnologie pulite.
Se si prendono in considerazione gli effetti di lungo periodo, non solo questo rapporto
risulta confermato, ma risulta altresì evidente – è un tema che tocco solo
marginalmente, anche se è indubbiamente meritevole di riflessioni prive di pregiudizi –
che i sistemi di regolamentazione ambientale più efficaci per produrre nuove
tecnologie meno dannose per l’ambiente e una maggior competitività sono quelli che
utilizzano meccanismi di mercato (tasse, permessi a pagamento, permessi con schemi
di deposito e rifusione, ecc.) rispetto a quelli di regolamentazione più tradizionale
(technology-based controls, performance standards, input bans).
Infatti, nei paesi che adottano prevalentemente questi ultimi meccanismi, le imprese
che effettuano gli investimenti necessari per rispettare le soglie normativamente
fissate non hanno in genere alcun interesse ad investire per ottenere ulteriori
miglioramenti tecnologici una volta raggiunta la soglia di rispetto (perché questi
miglioramenti costano in ricerca e in applicazione e non portano alcun profitto).
Questo interesse è invece sempre presente nei sistemi di regolamentazione basati sul
mercato. La conseguenza è, in prospettiva, la perdita di potenziale innovativo a fini di
una miglior conservazione dell’ambiente nei paesi ove vengono esclusivamente
utilizzate regolamentazioni del tipo command and control.
Inoltre queste ultime regolamentazioni assai più di non quelle basate su meccanismi di
mercato producono l’effetto di impedire l’avvio di nuove imprese e quindi di alterare
non solo competizione, ma anche il miglioramento tecnologico, in quanto sono proprio
le imprese giovani quelle con maggior iniziativa innovativa.
In conclusione, l’idea di una fuga delle attività produttive verso paesi sottosviluppati
per evitare il calo di competitività prodotto dalle regolamentazioni ambientali non
sembra confermata nella realtà18.
Tuttavia, vi sono alcune indagini che contestano queste conclusioni, e pervengono a
risultati opposti, confermando l’ipotesi della fuga verso i paradisi dell’inquinamento19.
In particolare, uno studio condotto utilizzando una metodologia diversa da quella
tradizionale, con la quale è stato valutato il flusso di investimenti finanziari nei paesi in
via di sviluppo da parte di imprese produttrici altamente inquinanti (essenzialmente,
settore chimico), ha rilevato un diretto effetto delle regolamentazioni ambientali
sull’entità di trasferimenti finanziari – e non trasferimenti di attività produttive – verso
paesi poveri20.
In altri termini, sia pure per il settore (fortemente inquinante) dell’industria chimica, la
mancanza di regole ambientali attrae – secondo questo studio – risorse finanziarie
provenienti da imprese che operano nel settore chimico, presumibilmente rivolte, nei
paesi verso cui si dirigono i finanziamenti, a realizzare produzioni inquinanti proibite o
troppo costose nel paese di provenienza.
In conclusione, è tuttora incerto nelle analisi condotte da economisti se diverse
regolamentazioni ambientali in un contesto globalizzato provocano spostamenti di
produzioni inquinanti verso i PVS – in termini di trasferimenti reali di beni aziendali o
di trasferimenti finanziari – forniti di sistemi di regole ambientali più elastici e
comunque meno rispettati.
Ma soprattutto, mancano, a quanto mi risulta, studi comparativi diacronici, tali cioè da
offrire una comparazione tra eventuali spostamenti di produzioni inquinanti tra paesi
con diversa intensità di regolamentazione ambientale nell’epoca preglobalizzazione e
nell’epoca attuale: si tratta di studi che sarebbero ovviamente indispensabili per poter
effettivamente imputare agli effetti della globalizzazione gli spostamenti che
attualmente si verificano.
Infine, anche ammesso che questo spostamento di produzioni inquinanti verso i Paesi
in Via di Sviluppo si stia verificando, è assai difficile individuare le cause effettive dello
spostamento. Queste possono essere sì regolamenti ambientali meno restrittivi, ma
anche il minor costo della mano d’opera, il minor costo delle aree per la localizzazione
di insediamenti industriali, vantaggi fiscali dichiarati e occulti, e così via.
Inoltre, un altro aspetto di carattere più strettamente giuridico dovrebbe essere preso
in considerazione, e cioè gli effetti benefici della globalizzazione per controllare o
limitare le strategie di spostamento di produzioni inquinanti e politiche di race to the
bottom dei paesi in via di sviluppo.
L’emersione di un sistema di diritto internazionale ambientale e, più in generale,
l’affermarsi di un sistema di relazioni internazionali basato sulla trasparenza, la
partecipazione e la possibilità di mobilitazione e di intervento quasi immediati, e,
contemporaneamente, l’affermarsi di una consistente riduzione dell’ambito della
sovranità degli stati nazionali, hanno portato, e sicuramente porteranno negli anni
futuri, ad una crescente sovrapposizione di livelli sovrastatuali a quelli statali nelle
materie di rilievo ambientale.
Sotto quest’ultimo profilo, molti sostengono che l’attuale situazione di degrado
ambientale dei Paesi in Via di Sviluppo è il frutto non della globalizzazione, ma della
mancanza di globalizzazione, cioè dalla mancanza di regolamentazione ambientale e di
controlli nei Paesi in Via di Sviluppo che garantiscano il rispetto di livelli internazionale
di regolamentazione ambientale uniformi.
In conclusione, sembra possibile affermare che uno dei Leitmotiv che sostengono il
movimento antiglobalizzazione, e cioè la delocalizzazione delle produzione inquinanti
verso Paesi in Via di Sviluppo non sia allo stato dimostrato dalle indagini di economia e
di politica industriale condotte negli ultimi dieci anni: il movimento di delocalizzazione,
anche esaminato sotto il profilo del conferimento non di attività produttive, ma di
attività finanziarie presenta segni ambigui e ambivalenti, in cui gli effetti del passato
sul presente, e il mescolarsi, nel presente, di effetti favorevoli e dannosi non sono
distinguibili e analizzabili con chiarezza.
B.    Degrado ambientale, riforme economiche, i processi di privatizzazione.
A partire dagli anni Ottanta, molti paesi in via di sviluppo hanno avviato processi di
riforme economiche e monetarie, di risanamento economico e di riequilibrio della
bilancia dei pagamenti anche per far fronte al pesante debito pubblico e all’inflazione,
spesso costretti dal pesante indebitamento con l’estero e dalle condizioni poste dagli
istituti finanziari internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) per
la concessione di nuovi finanziamenti.
L’ingerenza di centri decisionali economici, finanziari e monetari a livello internazionale
è considerato uno degli effetti della globalizzazione e, anche in questo caso, vi sono
alcuni che ritengono che la globalizzazione è stata avviata proprio per dare una
struttura alla attività di questi centri decisionali.
Gli effetti di carattere economico, politico e sociale delle politiche di risanamento sono
stati assai diversificati da paese a paese.
Ma assai diffusa a partire dalla fine degli anni Ottanta è stata la convinzione che questi
processi abbiano comunque indotto un pesante degrado ambientale e distrutto risorse
dei paesi poveri. Questo secondo molti è accaduto perché queste politiche non hanno
tenuto conto dei fattori e delle conseguenze ambientali.
Anche in questo caso, molti studi sono stati condotti negli anni Novanta per verificare
la fondatezza di queste opinioni con esiti non coincidenti con l’opinione diffusa.
Una completa indagine sugli studi e le indagini effettuate a partire dagli Ottanta su
questo tema giunge alla conclusione che gli interventi di risanamento economico
possono avere effetti positivi ed effetti negativi sulle condizioni ambientali, e che gli
uni e gli altri dipendono da una molteplicità di fattori, tra i quali le condizioni politiche
e sociali dei singoli stati in cui questi interventi vengono effettuati, le condizioni
preesistenti, i sistemi giuridici e culturali che fungono da contesto all’intervento21.
Per esempio, per limitarci ai soli studi condotti sull’impatto delle riforme di
risanamento economico sull’agricoltura nei paesi in via di sviluppo, è stato evidenziato
che esso è ambiguo e polivalente.
Assai spesso le riforme economiche provocano lo spostamento da coltivazioni
tradizionali a coltivazioni più commerciali e più richieste dal mercato: questo può
determinare effetti ambientali negativi, in termini di una perdita di biodiversità, ma
spesso anche un miglioramento dello stato dei terreni coltivati, essendovi una spinta
ad un uso più efficiente e quindi ad un miglioramento delle condizioni economiche
degli agricoltori, che hanno maggiori possibilità di effettuare investimenti produttivi.
Le riforme inducono assai spesso l’adozione di sistemi proprietari più moderni, e non
basati su consuetudini o affidati a sistemi di allocazione del possesso informali a livello
di comunità, che offrono certezza, trasparenza, garanzie.
La modifica negli assetti proprietari ha generalmente prodotto, secondo tutti gli studi
condotti, effetti benefici sull’ambiente: i piccoli coltivatori sono più protetti dalle
sopraffazioni e tendono a preferire coltivazioni perenni e non annuali, più redditizie e
assai meno erosive e meno bisognose di fertilizzanti chimici.
Inoltre la certezza della proprietà permette il ricorso al credito bancario che, a sua
volta permette l’uso di macchinari agricoli, una maggiore pianificazione dell’uso del
suolo, l’adozione di pratiche di coltivazione intensiva.
Ma vi sono anche gli aspetti negativi del credito bancario reso possibile da sistemi di
proprietà garantita sull’ambiente: esso permette un maggior uso di fertilizzanti per
incrementare i raccolti, e quindi un maggior degrado del suolo; la maggior
disponibilità di denaro può anche incoraggiare pratiche di deforestazione, e spingere i
piccoli agricoltori ad impossessarsi di terreno forestato per approfittare della
possibilità, soprattutto se il terreno coltivabile è scarso (fenomeno verificatosi in molte
aree dell’India22).
Un caso assai noto ed assai studiato di degrado ambientale dovuto alla disponibilità di
credito per aree coltivabili e stato costituito dall’espansione degli allevamenti in Brasile
negli anni Ottanta, fenomeno a cui molti imputano la maggior responsabilità per la
distruzione delle foreste amazzoniche in questo decennio23.
Anche gli specifici studi esistenti in merito agli effetti ambientali dei programmi di
risanamento applicati all’agricoltura non sono univocamente significativi.
Ci sono due ampie indagini promosse dalla World Bank, effettuate proprio per
controbattere alle accuse rivolte dagli ambientalisti di distruggere l’ambiente con gli
interventi economici proposti ai Paesi in Via di Sviluppo.
Una prima indagine del 198924, riferita alla prima parte degli anni Ottanta, conclude
che le politiche di risanamento economico bei PVS, ben lungi dall’essere state una
causa di degrado ambientale, hanno favorito la protezione dell’ambiente.
Ad analoghe conclusioni, anche se formulate con maggior cautela, perviene
l’aggiornamento di questa indagine per il periodo 1989-1992: “il risanamento è
condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una corretta gestione e
protezione dell’ambiente”(pag.16)25.
Entrambi questi studi sono però di scarsa affidabilità perché basati sugli obiettivi
prefissati dal risanamento, e non sugli effetti concreti che lo stesso ha determinato26.
Successivamente, ed anche al fine di rispondere a questa critica, la Banca Mondiale ha
finanziato una serie di ricerche sul campo, allo scopo di esaminare gli effetti delle
politiche di risanamento.
I risultati di questo secondo gruppo di studi – condotti su varie realtà di PVS ove sono
stati sperimentati diversi metodi di risanamento, tra cui Indonesia e Messico – sono
assai meno ottimistici.
È scomparsa la certezza degli effetti benefici delle politiche di risanamento economico
sull’ambiente; resta tuttavia, pur con le varie metodologie utilizzate, un unanime
accordo nell’escludere che queste politiche economiche siano la causa principale di
problemi ambientali, anche se vi sono ammissioni che interventi di riforma a livello
macroeconomico possono pesantemente interagire con preesistenti situazioni del
mercato interno e – proprio per questo condizionamento – in alcuni casi, incrementare
difetti o carenze nella protezione ambientale27.
Questa è la situazione vista da un organismo come la Banca Mondiale, ritenuto
dall’opinione pubblica che fa riferimento agli ambientalisti come non affidabile per ciò
che riguarda una imparziale valutazione degli effetti ambientali delle politiche di
risanamento economico. Ma a queste indagini non se ne contrappongono altre di
segno decisamente opposto.
Agli inizi degli anni Novanta, il WorldWideFund for Nature (WWF) ha infatti finanziato
tre studi sull’argomento in Costa d’Avorio, Messico e Tailandia, raccolti
successivamente in un unico volume28.
Ciascuno dei tre giunge a conclusioni simili: le politiche di risanamento hanno avuto
effetti sia positivi che negativi sull’ambiente e sull’uso delle risorse naturali.
Vi è però da aggiungere che, sempre con riferimento specifico al settore agricolo, vi è
un effetto della globalizzazione che è ritenuto da molti certamente positivo.
Esso è costituito dalla spinta verso la specializzazione: ciascun paese tende, sia a
livello di politica agricola, sia a livello di scelte collettive e individuali degli agricoltori, a
specializzarsi nella produzione di quei beni che permettono un uso delle risorse che ci
sono in abbondanza.
Questo significa che la liberalizzazione del commercio provoca uno sfruttamento
efficiente delle risorse e che un determinato livello di ricchezza può essere raggiunto
con un uso delle risorse a disposizione più razionale e più limitato di quanto non
accadrebbe se ciascuna nazione tentasse di soddisfare i propri bisogni facendo
esclusivamente ricorso alle proprie risorse interne29.
Questa conclusione sembra essere unanimemente confermata dagli studi condotti
negli anni Novanta sui rapporti tra globalizzazione e ambiente30, ed è specificatamente
evidenziata in un esame condotto sugli effetti sull’ambiente della politica commerciale
messicana31.
Per converso, secondo un noto studio dell’inizio degli anni novanta, una limitazione del
commercio internazionale con strumenti protezionistici comporta un maggior spreco di
risorse interne perché induce ad utilizzare anche risorse scarse e quindi a danneggiare
l’assetto ambientale32.
In conclusione, i dati e le ricerche condotte non offrono conferma neppure degli effetti
di degrado ambientale provocati dalle politiche di risanamento attuate nell’ambito del
processo di globalizzazione, e quindi di un altro dei più importanti Leitmotiv dei
movimenti che si oppongono alla globalizzazione.

IV. Conclusioni.

Le considerazioni che precedono rendono evidente che il dibattito giuridico
internazionale sulla responsabilità e sul danno ambientale è vittima di distorsioni,
imposte da scelte e orientamenti della pubblica opinione, che tengono spesso in ben
poco conto i dati e gli elementi offerti dalla comunità scientifica o dall’analisi
economica.
Una delle posizioni ideologiche che sono fortemente rappresentate nel dibattito è
costituita dalla convinzione che in ogni caso la ricchezza danneggia l’ambiente. Queste
opinioni non tengono in considerazione il fatto che, in questo secolo, dove abbiamo
avuto una crescita di ricchezza, abbiamo anche avuto un ambiente più sano.
È nei paesi poveri, a crescita zero o molto lenta, che l’inquinamento di aria e acqua è
in aumento, che la deforestazione rimane un problema, che è estremamente difficile
affrontare gli immensi problemi connessi alla conservazione e alla sicurezza
ambientale.
La provocatoria affermazione di Aaron Wildawsky, “wealthier is healthier” usata negli
anni Settanta per irridere la rigida posizione ambientalista anti-crescita, oggi è
corroborata dall’esperienza33. Di conseguenza, dovremmo concordare con una delle
conclusioni formulate anni fa dal Bruntdland Report: la povertà è la causa principale
del degrado ambientale in tutto il mondo.
Il vero problema è che la povertà nel mondo sta di fatto aumentando a un ritmo
sconvolgente34. Ma la povertà di un paese dipende assai spesso dal modo in cui
questo è governato oltre che dalle condizioni naturali o dalle restrizioni sociali. Le
vicende di questo secolo hanno dimostrato che c’è un fortissimo legame tra povertà e
assenza di democrazia o dittatura, tra povertà e mancanza di libertà civile ed
economica, di un clima normativo ed economico prevedibile.
Proteggere i diritti umani e quelli di proprietà, far rispettare la legge, evitando
inflazione e corruzione, utilizzare le risorse per miglior educazione, migliore salute e
non per acquistare armi o per finanziare inutili conflitti sono le strategie che offrono
una via d’uscita dalla povertà35 e pongono le premesse per una tutela dell’ambiente.
Sotto questo profilo, sembra da condividere la tesi di coloro che assumendo una
posizione intermedia, sostengono che la globalizzazione politica e quella economica,
purché non abbandonate alle sole forze del mercato, ma oggetto di regole
predeterminate e trasparenti, possono costituire un propulsore per accettare principi
riguardo alla democrazia, ai diritti umani e a una legislazione equa, ignorati fino a
pochi anni fa.

1    S. CASSESE, Gli Stati nella rete internazionale dei poteri pubblici, in RTDP 1999,
321 – 329, spec. 328; D. ZOLO COSMOPOLIS, La prospettiva del governo mondiale,
Milano 1995; Daedalus vol.124.

2    ALLEN J. SCOTT, Le Regioni Nell’economia Mondiale, Il Mulino Bologna 2001.

3    cfr. PAUL WAPNER, Politics Beyond The State: Environmental Activism And World
Civic Policy, in World Politics 47, n.3, Apr.1995, p.311-341 Cfr. anche MARGARET E.
KECK – KATHRYN SIKKINK, Activists Beyond Borders: Advocacy Networks In International
Politics, Ithaca, Cornell 1998 e II. D. D. , Transnational Advocacy Networks In
International And Regional Politics in International Social Science Journal v. 51, n.1,
Marzo 1999, p.89.

4    Il bilancio 1997 di Greenpeace era di 130 milioni di dollari, con 92.5 milioni
da investire in campagne specifiche; nel 1999 è cresciuto a 134 milioni di dollari.

5    In generale, sulla partecipazione delle Organizzazioni non governative, e delle
Organizzazioni ambientaliste in particolare, a negoziati internazionali si veda DAVID
FORSYTHE, Human Rights And World Politics, Lincoln, Uni. Of Nebraska 1989; P. J.
SANDS, The Role of NGO in Enforcing International Environmental Law, in W. E. BUTLER
ed., Control Over Compliance With International Law, Dordrecht, Olanda, 1991.

6    RAYMOND VERNON, In the Hurricane’s Eye, Cambridge Uni. Press, 1998.

7    J. ROSENAU, Turbulence in World Politics, Brighton 1994.

8    WALTER B. WRISTON, Bits, Bytes and Diplomacy, in Foreign Affairs Sett.\Ott. 1997,
174.

9    Una rassegna su questo tema si può trovare in Symposium, The Decline of the
Nation State and Its Effects on Constitutional and International Economic law,
in 18 Cardozo Law Review 903, 1997. Una interpretazione stimolante sull’origine
e lo sviluppo della sovranità nell’era moderna è offerta da L. FERRAJOLI, La
sovranità nel mondo moderno, Laterza Bari 1997. Si può vedere inoltre GAETANO
SILVESTRI, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un
concetto, in Rivista di diritto costituzionale n.1, 1996, p.3 ss..

10   PFLÜGER, M., Globalisierung und Nachhaltigkeit in Zeitschrift für Umweltpolitik
und Umweltrecht; 22, 1999 pag. 135-154; BHAGWATI, J. – SRINAVASAN T. N.,
Trade and the Environment, in BHAGWATIi, J., und Hudec, R.E. (a cura di) Fair Trade
and Harmonization; Vol. I, pag. 159-222.

11   J. EATWELL – L. TAYLOR, Towards an Effective Regulation of International Capital
Markets, in Internationale Politik und Gesellschaft 3/1999, consultabile su
http://www.fes.de/ipg/ipg3_99/arteatwell.html; PEOPLE GLOBAL ACTION – PGA,
Peoples’ Global Action gegen “Freihandel” und die WTO, in Manifest, PGA Bulletin;
1999 Nr. 1 consultabile in http://www.agp.org/agp/de/index.html.; D. KORTEN,
Economic Globalization; in Ecological Economics Bulletin, 1997 pag. 14.

12   U. PETSCHOW, Nachhaltigkeit und Globalisierung; Berlin 1998.

13   OCSE, Towards a New Global Age – Challenges and Opportunities, 1997 Paris.

14   http://www.globalisationguide.org: “One of the drivers of globalisation is that
transnational companies want to place environmentally degrading industries in
countries that do not have adequate environmental controls”.

15   Per una rassegna ragionata delle indagini condotte su questo punto si veda J. ADAMS,
“Environmental Policy and Competitiveness in a Globalised Economy: Conceptual Issues
and a Review of the Empirical Evidence”. In: OECD, Globalisation and Environment:
Preliminary Perspectives. Paris: OECD, 1997.

16   In questo senso N. JOHNSTONE, Trade and the Environment: Economic Links,
contributo presentato alla conferenza su Politicas Ambientales y Comercio
Internacional en los Paises del Cono Sur Buenos Aires, 5\6-7-1999. Vedi
anche J. A. TOBEY, The Effects of Domestic Environmental Policies on Patterns
of World Trade’ in Kyklos, 1990 Vol. 43, No. 2, pp. 191-209. Per una rassegna
KULESSA, M. E. – SCHWAAB J. A., Konzepte zur „Ökologisierung” der internationalen
Handels – und Wirtschaftspolitik in Internationale PolitiK und Gesellschaft
3/2000 consultabile in http://www.fes.de/IPG/ipg3_2000/ARTKULESSA.HTM.

17   G. M. GROSSMAN – A. B. KRUEGER, Environmental Impacts of a North American
Free Trade Agreement 35 National Bureau of Economic Research Working Paper
No. 3914, 1991; vedi anche la rassegna di J. AGRAS ED ALTRI, Environment and
Trade: A Review of the Literature 33, in Cornell University Department of Agricultural,
Resource, and Managerial Economies Working Paper No. 94, 11-1994.

18   R. E. LUCAS – D. WHEELER – H. HETTIGE, Economic Development, Environmental
Regulation and International Migration of Toxic Industrial Pollution: 1960 – 1988
in P. LOW (ed) International Trade and the Environment, 1992 Washington D.C.:
World Bank Discussion Paper No. 159, pp. 67-86.

19   Si vedano: D. CHAPMAN – J. AGRAS – V. SURI, International Law, Industrial
Location, and Pollution in Indiana, Journal of Global Studies n.1, 1995, consultabile in
http://www.law.indiana.edu/glsj/vol3/no1/chapman.html; R. LOPEZ, Environmental
Degradation and Economic Openness in LDCs: The Poverty Linkages, 74 American
Journal Agricultural Economy 1993,  p.1197.

20   Y. XING – C. D. KOLSTAD, Do Lax Environmental Regulations Attract Foreign Investment?,
Cambridge, MA: National Bureau of Economic Research Working Paper. Il contributo può essere
consultato in http://www.iied.org/pdf/TEEL.pdf.

21   Si veda C. E. FRICKMANN YOUNG – J. BISHOP, Adjustment Policies and the Environment:
A Critical Review of the Literature, CREED Working Paper Series No 1, luglio 1995.

22   N. S. JODHA, Rural Common Property Resources: Contributions and Crisis in Economic and
Political Weekly, 30 giugno 1990.

23   J. BROWDER, 1985. Subsidies, Deforestation, and the Forest Sector of the Brazilian Amazon.
Washington, DC: World Resources Institute; D. MAHAR, Government Policies and Deforestation
in Brazil’s Amazon Region, Environment Department Working Paper n.7. 1988, Washington,
DC: The World Bank.

24   I. SEBASTIAN – A. ALICBUSAN, Sustainable Development: Issues in Adjustment Lending Policies.
Environment Department Divisional Paper n.6,1989. Washington, DC: The World Bank.

25   J. WARFORD – A. SCHWAB – W. CRUZ – S. HANSEN, The Evolution of  Environmental Concerns
in Adjustment Lending: a Review. Articolo presentato al CIDIE Workshop on Environmental Impacts
of Economywide Policies in Developing Countries, 23-25 February 1993, The World Bank,
Washington, DC.

26   C. F. FRICKMANN YOUNG – J. BISHOP. cit.

27   WORLD BANK, Economywide Policies and the Environment: Emerging Lessons from Experience
Washington, DC, 1994.

28   D. REED (ed). 1992. Structural Adjustment and the Environment, London: Earthscan.

29   N. JOHNSTONE, cit.

30   C. PERRONI – R. M. WIGLE, International Trade and Environmental Quality: How Important are
the Linkages in Canadian Journal of Economics, 1994 Vol. 27, pp. 551-567.

31   J. BEGHIN – D. ROLAND HOLST – D. VAN DER MENSBRUGGHE, Trade Liberalisation and
the Environment in the Pacific Basin: Coordinated Approaches to Mexican Trade and Environment
Policy in American Journal of Agricultural Economics, Vol. 77 1991, pp. 778.

32   H. SIEBERT, Environmental Scarcity: The International Dimension, Tübingen 1991.

33   Su questo tema, cfr. L. PRITCHETT – L. SUMMERS, Wealthier is Healthier, in Journal of Human
Resources ,1996, p.841-869.

34   Nel 1870 la Gran Bretagna e gli Stati Uniti avevano un reddito pro capite nove volte maggiore di
quello dei paesi più poveri. 120 anni dopo, nel 1990, il reddito era maggiore di oltre 45 volte.
Se prendiamo i 17 paesi più ricchi del 1870, il loro reddito pro capite era due volte e mezzo
quello di tutti gli altri paesi insieme; oggi i 17 paesi più ricchi hanno un reddito di 4,5 volte
rispetto a quello del resto del mondo. Se vi è una  relazione causale tra ricchezza e qualità ambientale,
e se non vogliamo assistere, nel prossimo secolo, alla fine della preoccupazione per l’ambiente e la
sua conservazione fatta eccezioneper alcuni fortunati angoli del mondo il vero nemico da combattere
non è la globalizzazione, ma è la povertà, la cui crescita, come si è visto, non dipende dalla
globalizzazione: vedi The Economist, A Survey of the 20th Century, Sept 11, 1999, p.27. Cfr. su
questo argomento R. A. MITCHELL, How to link democratic governance with Economic Growth, in
American Diplomacy vol.3 n.4, autunno 1998 www.unc.edu/depts/diplomat/ amdipl_9/mitchell.html;
cfr. anche con specifico riferimento alla garanzia per la proprietà, Poverty and Property rights,
in The Economist, 31\3\2001, p.19-22.

La responsabilità per danno ambientale nel dibattito internazionale

1. Introduzione
Questo contributo prende in considerazione il dibattito in materia di danno ambientale presente nella pubblicistica non giuridica: quindi contributi, studi e interventi di esperti di ambiente, di economisti, di studiosi dei vari settori coinvolti in problemi di danno e responsabilità ambientale.
È infatti questo il retroterra sul quale si formano aggregazioni, convinzioni, tendenze, orientamenti nell’opinione pubblica mondiale attenta ai problemi ambientali, che fungono poi da impulso per gli interventi a livello politico e normativo, e quindi per quella fase sulla quale i giuristi cominciano ad intervenire. Le questioni di responsabilità e di danno ambientale sui quali i giuristi cominciano a riflettere sono quindi assai spesso il frutto di un lungo processo elaborativo che si compie in altre sedi.

2. Il dibattito internazionale e l’ambiente.
Una prima osservazione è che il dibattito internazionale sul danno ambientale assume caratteristiche peculiari.
Un solo esempio è sufficiente.
La questione di danno e di responsabilità ambientale certamente di maggior rilievo degli ultimi mesi è costituita dalla regolamentazione dei cosiddetti POP (Persistent Organic Pollutants).
Dopo tre anni di trattative, il 21 maggio è stato sottoscritto a Stoccolma il c.d. Trattato POPs, sui prodotti chimici nocivi per la salute e per l’ambiente .
Il Trattato costituisce una prima, importante tappa per affrontare le complesse questioni poste dall’uso e dalla diffusione nell’ambiente di migliaia composti chimici potenzialmente dannosi, dei cui effetti poco o nulla si conosce solo perché non sono mai state condotte le necessarie indagini. Esso infatti ha cominciato con l’individuare 12 POPs la cui produzione dovrà cessare definitivamente entro termini variabili, a partire dai primi nove della lista.
Il Trattato prevede anche una applicazione assai innovativa del principio di precauzione (oggetto di un intensissimo dibattito, e frutto di una delicata mediazione tra contrapposte esigenze), combinandolo con un principio di documentazione scientifica del rischio: è stato così stabilito che gli interventi a tutela della salute e dell’ambiente volti a limitare o bandire determinate sostanze non possono avere luogo solo perché si ignori se esse abbiano effetti dannosi; tuttavia possono avere luogo allorché l’impatto del POP non è pienamente noto, purché vi siano sufficienti informazioni idonee a sollevare legittima preoccupazione .
Ebbene, tutta la vicenda che ha condotto alla firma del Trattato, e, più in generale, il tema del danno da prodotti chimici tossici e le relative responsabilità a livello di Stati e di produttori, sono state complessivamente ignorate nel dibattito internazionale, sulla stampa e nell’opinione pubblica (in particolare italiana).
La mancanza di attenzione produrrà naturalmente conseguenze assai gravi per ciò che riguarda la concreta applicazione del Trattato, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo (PVS) ove i controlli interni sono più scarsi.
È invece molto intenso il dibattito sui pericoli ambientali, cioè su eventi futuri e incerti che potrebbero produrre danni ambientali.
Due sono i temi al centro dell’attenzione: gli organismi geneticamente ricombinati e il cambiamento climatico.
Entrambi provocano situazioni di rischio (intendendo con ciò il versante soggettivo del pericolo) assai incerto per ciò che riguarda la consistenza e assai lontani nel tempo per ciò che riguarda il possibile verificarsi.
Tutti e due, inoltre, sono basati su dati e elementi scientifici su cui non vi è accordo nella comunità scientifica.
Per ciò che riguarda il cambiamento climatico, mentre è ormai assodato l’effetto di varie sostanze sul riscaldamento del pianeta (si veda in particolare lo studio Hansen condotto dalla NASA ), varia in modo consistente a seconda degli studi condotti l’entità di questo effetto. Secondo l’autorità internazionale preposta alla materia, il Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), gli effetti del cambiamento climatico fra un centinaio di anni saranno tra un minimo, poco preoccupante, di 1.4°C e un massimo, catastrofico, di 5.8°C .
Per ciò che riguarda l’uso di Gmo non viene offerta alcuna dimostrazione concreta di un pericolo effettivo; l’opposizione giustificata solo dalla mancanza di prova dell’inesistenza di un pericolo situazioni di danno effettivo potrebbero verificarsi in un non prevedibile futuro .
In entrambi i casi, e soprattutto per i Gmo, vi è quindi un largo uso del principio di precauzione, in termini tra l’altro del tutto diversi da quelli utilizzati per la messa al bando di prodotti chimici tossici.
In conclusione, assumendo come specchio della realtà l’attuale dibattito internazionale dovremmo avere qualche preoccupazione per il futuro (e per le condizioni dell’ambiente che lasceremo alle generazioni prossime), ma nel contempo dovremmo restare ottimisticamente tranquilli per la situazione ambientale presente.
Naturalmente, le cose non stanno così.
In realtà, procedendo nell’indagine sui temi affrontati nel dibattito internazionale, si scopre che tutte le ipotesi riconducibili al danno ambientale sono state incluse ed assorbite in una vasto tema – che è al centro del dibattito internazionale – ed è la globalizzazione.
Ed infatti, è assai dibattuto proprio il tema del rapporto tra globalizzazione e ambiente.
Come è noto, vi sono opinioni del tutto contrapposte al riguardo.
Da un lato stanno coloro che ritengono che la globalizzazione comporti degrado ambientale, soprattutto nei PVS. D’altro lato, stanno coloro che ritengono che essa produca effetti benefici proprio nei PVS, per effetto della loro immissione nel circuito economico e finanziario internazionale.
Ed è proprio su questo argomento – al centro, come detto, del dibattito internazionale – che voglio soffermarmi, considerando prima l’aspetto politico istituzionale della globalizzazione, poi quello economico.

3. La globalizzazione politica e l’ambiente
Da un punto di vista politico e di assetto delle relazioni internazionali, la globalizzazione è un fenomeno di consistenti dimensioni e viene solitamente collegata alla disgregazione dell’organizzazione internazionale basata esclusivamente sugli Stati.
All’inizio del ventesimo secolo, sulla scena mondiale c’erano soltanto stati-nazione che si dividevano il mondo intero, con una sovranità interna assoluta e (almeno formalmente) con pari poteri legali (è l’assetto politico che viene ormai comunemente chiamato westfaliano, sorto con la pce di Westfalia nel 1648, e durato per oltre due secoli).
Nella seconda parte del ventesimo secolo, questo processo non soltanto si è interrotto, ma si è rovesciato: gli organismi legali nel mondo sono in crescita per numero e genere .
L’incremento strettamente quantitativo è sorprendente: la carta del mondo conteneva 62 stati nel 1914 (25 nell’Europa secondo la definizione di allora), 74 nel 1946, e più di 200 oggi.
Da un punto di vista qualitativo , oggi abbiamo numerosi nuovi organismi presenti sulla scena internazionale: federazioni di stati, unioni di stati, trattati di cooperazione, organizzazioni politiche (G-7, NAFTA), organizzazioni finanziarie ed economiche (Banca Mondiale, Fondo Monetario internazionale), organizzazioni militari, e corti internazionali con poteri crescenti, che erodono la tradizionale, onnicomprensiva sovranità dello stato.
Abbiamo inoltre organizzazioni non governative internazionali . Tra queste, chiese e organizzazioni religiose, organizzazioni in favore dei diritti umani e organizzazioni sanitarie, organizzazioni ambientaliste
In conclusione, la sovranità oggi è intrinsecamente diversa da come era nel passato recente . È stato detto che “la sovranità, il potere di una nazione di impedire ad altri di interferire nei suoi affari interni,, si va rapidamente erodendo . O, in altri termini, “agli stati sarà sempre più spesso richiesto di tenere conto delle esigenze di tutti i membri della comunità internazionale per sviluppare o attuare le loro politiche e le leggi in precedenza ritenute una questione di giurisdizione esclusivamente interna .
L’aspetto più interessante è offerto proprio dalle organizzazioni ambientaliste.
Queste sono esplose per numero, potere e autorità negli ultimi dieci-quindici anni , proprio traendo vantaggio dall’erosione dello Stato nazione, e dall’estendersi della globalizzazione. Molte di esse sono più ricche e più potenti di decine di stati esistenti .
Agiscono da gruppi di pressione internazionali e – come già osservato – sono generalmente ammesse ai negoziati per la stesura e la realizzazione concreta degli accordi internazionali riguardanti l’ambiente .
Tutto ciò ha fatto sì che danni e responsabilità ambientali prima celati e protetti sotto il guscio della sovranità statale siano divenuti oggetto di attenzione e talvolta di intervento globale.
A fronte di questi sviluppi, molti hanno prospettato il pericolo dello sfaldamento dell’ordine statale con riferimento, per esempio, al ridursi delle capacità fiscali e quindi dell’erogazione di welfare, in mancanza di un progetto di governo globale .
Peraltro, sembra difficile sostenere che la globalizzazione e il decrescere della sovranità statale producano di per sé effetti negativi sull’ambiente.
Non dobbiamo dimenticare che fino a pochissimo tempo fa il mondo non globalizzato, incentrato sugli stati nazionali, produceva proprio quei danni all’ambiente di cui oggi noi subiamo le conseguenze.
Questo perché il modello organizzativo incentrato su stati e governi liberi di fare ciò che volevano sul loro territorio, e la vecchia economia non-globalizzata hanno contribuito insieme alla distruzione dell’ambiente. La ragione è semplice: il modello non era pensato per risolvere gli enormi problemi di gestione e conservazione dell’ambiente in un mondo industriale e postindustriale. Certamente, i paesi ricchi e industrializzati continuano a considerare il PVS un’area da rapinare non appena se ne presenta l’occasione, mentre in questi paesi la povertà, il bisogno o l’avidità dei governi e degli stati provoca sperpero di capitali o di risorse.

4.La globalizzazione economica e l’ambiente
Più complessa è la questione delle relazioni tra la globalizzazione economica e l’ambiente.
La questione è stata ampio oggetto di studio e di dibattito, in particolare negli Stati Uniti ed in Germania, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Novanta.
Anche in questo caso, si contrappongono diversi orientamenti.
Secondo alcuni, globalizzazione e tutela dell’ambiente non solo possono armonizzarsi, ma la prima, generando ricchezza, permettendo il diffondersi di tecnologie e prodotti meno dannosi per l’ambiente, imponendo una migliore e più efficiente distribuzione dei fattori produttivi può permettere di ottenere consistenti risultati positivi, in precedenza impossibili, anche e soprattutto nei PVS .
Secondo altri, invece, globalizzazione e tutela dell’ambiente sono radicalmente incompatibili: la liberalizzazione del commercio e la globalizzazione della produzione e dei consumi incrementano necessariamente l’intensità e la diffusione del degrado ambientale, anche perché crisi economiche a livello regionale – specie nei PVS – divengono estremamente più probabili .
Infine, si è formato un orientamento intermedio secondo il quale la globalizzazione può determinare effetti positivi per l’ambiente, purché sia accompagnata da regole, da limiti e soprattutto costruita intorno a principi che impongano il rispetto dell’ambiente e ne prevedano la tutela , tenuto soprattutto conto che l’intensificarsi del commercio e degli investimenti a livello globale provoca una amplificazione dei punti critici di mercato per ciò che riguarda un ulteriore degrado di un ambiente già in pericolo in molti paesi .
Certamente, allo stato attuale non si è ancora formata una opinione precisa e condivisa dalla maggior parte degli esperti, in un senso o nell’altro.
Vi sono però specifici punti, sui quali si può ritenere che si sia formato un orientamento dominante a livello di esperti delle relazioni tra economia e ambiente. Soffermiamoci su due in particolare.

4.1. Globalizzazione e effetti della regolamentazione ambientale
È opinione assai diffusa – sostenuta anche da alcuni studi compiuti negli anni Settanta e Ottanta – che la regolamentazione ambientale nei paesi ricchi produca una fuga di imprese inquinanti nei PSV, e che questo processo sia determinato dalla globalizzazione. Non solo: secondo alcuni, questo processo non è determinato dalla globalizzazione, ma ha contribuito a determinarla: proprio la delocalizzazione industriale determinata dai vincoli ambientali dei paesi ricchi ne sarebbe una delle cause. In questo senso, uno dei siti “antiglobalizzazione” più attivi afferma che “Uno dei fattori che determinano la globalizzazione è che le imprese transnazionali vogliono collocare attività produttive industriali inquinanti in paesi dove non ci sono adeguati strumenti di controllo ambientale” .
La fuga delle localizzazioni industriali inquinanti verso PVS sarebbe determinata da fattori tipici dei paesi ricchi con rigorose regolamentazioni ambientali tra cui: l’aumento dei costi provocato dalle tecnologie pulite da adottare, l’indisponibilità di discariche per i rifiuti dei processi produttivi o il costo dell’eliminazione legale dei rifiuti.
In generale, l’attuale squilibrio di regolamentazione ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri, inserito in un sistema globalizzato produce inevitabilmente, secondo molti, la cosiddetta race to the bottom, sia in termini di creazione di pollution – havens, cioè stati-paradiso per l’inquinamento verso cui si spostano le attività industriali, sia in termini di stati-discariche, verso cui si spostano i rifiuti.
Questi punti sono stati l’oggetto negli anni Novanta di intensi dibattiti e di approfondite indagini da parte di economisti, giuristi, esperti di politica e sviluppo industriale .
I risultati sono tutt’altro che uniformi. Ma la maggior parte delle indagini condotte sembra smentire l’opinione diffusa di un rapporto di causalità tra regolamentazione ambientale e minor competitività internazionale con conseguente spinta alla delocalizzazione verso i PVS: la maggior parte di esse infatti non ha rilevato significative relazioni statistiche tra i due termini .
Al contrario, molte indagini hanno posto in evidenza la importanza della regolamentazione ambientale – quale che essa sia – per l’affermarsi nel lungo periodo di nuove tecnologie meno dannose per l’ambiente .
Quindi, la regolamentazione ambientale non solo non sembra provocare una diminuzione della competitività interna sul mercato internazionale, ma sembra altresì indurre innovazione verso tecnologie ambientalmente più pulite, e quindi instaurare un circolo virtuoso per la protezione dell’ambiente e nel contempo per l’aumento della competitività internazionale sul mercato delle tecnologie pulite.
Se si prendono in considerazione gli effetti di lungo periodo, non solo questo rapporto risulta confermato, ma risulta altresì evidente – è un tema che tocco solo marginalmente, anche se è indubbiamente meritevole di riflessioni prive di pregiudizi – che i sistemi di regolamentazione ambientale più efficaci per produrre nuove tecnologie meno dannose per l’ambiente e una maggior competitività sono quelli che utilizzano meccanismi di mercato (tasse, permessi a pagamento, permessi con schemi di deposito e rifusione, ecc.) rispetto a quelli di regolamentazione più tradizionale (technology-based controls, performance standards, input bans).
Infatti, nei paesi che adottano esclusivamente questi ultimi meccanismi, le imprese che effettuano gli investimenti necessari per rispettare le soglie normativamente fissate non hanno in genere alcun interesse ad investire per ottenere ulteriori miglioramenti tecnologici, una volta raggiunta la soglia di rispetto (perché questi miglioramenti costano in ricerca e in applicazione e non portano alcun profitto), mentre questo interesse è sempre presente nei sistemi di regolamentazione basati sul mercato. La conseguenza è la perdita di potenziale innovativo a fini di una miglior conservazione dell’ambiente nei paesi ove vengono esclusivamente utilizzate regolamentazioni del tipo command and control.
Inoltre queste ultime regolamentazioni assai più di non quelle basate su meccanismi di mercato producono l’effetto di impedire l’avvio di nuove imprese e quindi di alterare non solo competizione, ma anche il miglioramento tecnologico, in quanto sono proprio le imprese giovani quelle con maggior iniziativa innovativa.
In conclusione, l’idea di una fuga delle attività produttive verso paesi sottosviluppati per evitare il calo di competitività prodotto dalle regolamentazioni ambientali non sembra confermato nella realtà .
Tuttavia, vi sono alcune indagini che contestano queste conclusioni, e pervengono a risultati opposti, confermando l’ipotesi della fuga verso i paradisi dell’inquinamento .
In particolare, uno studio condotto utilizzando una metodologia diversa da quella tradizionale, con la quale è stato valutato il flusso di investimenti finanziari diretti in PVS da parte di imprese produttrici altamente inquinanti (essenzialmente, settore chimico), ha rilevato un inequivocabile diretto effetto delle regolamentazioni ambientali sul FDI, e cioè sugli investimenti in PVS .
In altri termini, sia pure per il settore dell’industria chimica, la mancanza di regole ambientali attrae – secondo questo studio – FDI provenienti da imprese che operano nel settore chimico e quindi sono presumibilmente rivolti, nei paesi verso cui si dirigono i finanziamenti, a produzioni inquinanti.
In conclusione, è tuttora incerto nelle analisi condotte da economisti se diverse regolamentazioni ambientali in un contesto globalizzato provocano spostamenti di produzioni inquinanti verso i PVS – in termini di trasferimenti reali di beni aziendali o di trasferimenti finanziari – forniti di sistemi di regole ambientali più elastici e comunque meno rispettati.
Ma soprattutto, mancano, a quanto mi risulta, studi comparativi diacronici, tali cioè da offrire una comparazione tra eventuali spostamenti di produzioni inquinanti tra paesi con diversa intensità di regolamentazione ambientale nell’epoca preglobalizzazione e nell’epoca attuale: si tratta di studi che sono ovviamente indispensabili per poter effettivamente imputare agli effetti della globalizzazione gli spostamenti che attualmente si verificano.
Infine, anche ammesso che questo spostamento di produzioni inquinanti verso i PVS si stia verificando, è assai difficile individuare le cause effettive dello spostamento. Queste possono essere sì regolamenti ambientali meno restrittivi, ma anche il minor costo della mano d’opera, il minor costo delle aree per la localizzazione di insediamenti industriali, vantaggi fiscali dichiarati e occulti, e così via.
Inoltre, un altro aspetto di carattere più strettamente giuridico dovrebbe essere preso in considerazione, e cioè gli effetti benefici della globalizzazione per controllare o limitare le strategie di spostamento di produzioni inquinanti e politiche di race to the bottom dei PVS.
L’emersione di un sistema di diritto internazionale ambientale e, più in generale, l’affermarsi di un sistema di relazioni internazionali basato sulla trasparenza, la partecipazione e la possibilità di mobilitazione e di intervento quasi immediati, e, contemporaneamente, l’affermarsi di una consistente riduzione dell’ambito della sovranità degli stati nazionali, hanno portato, e sicuramente porteranno negli anni futuri, ad una crescente sovrapposizione di livelli sovrastatuali a quelli statali nelle materie di rilievo ambientale.
Sotto quest’ultimo profilo, molti sostengono che la attuale situazione di degrado ambientale dei PVS è il frutto non della globalizzazione, ma della mancanza di globalizzazione, cioè dalla mancanza di regolamentazione ambientale e di controlli nei PSV che garantiscano il rispetto di livelli internazionale di regolamentazione ambientale uniformi.
In conclusione, sembra possibile affermare che uno dei Leit-motiv che sostengono il movimento antiglobalizzazione, e cioè la delocalizzazione delle produzione inquinanti verso PVS non sia allo stato, dimostrato dalle indagini di economia e di politica industriale condotte negli ultimi dieci anni. Comunque, il movimento di delocalizzazione, anche esaminato sotto il profilo dei FDI, presenta segni ambigui e ambivalenti, in cui gli effetti del passato sul presente, e il mescolarsi, nel presente, di effetti favorevoli e dannosi non sono distinguibili e analizzabili con chiarezza.

4.2. Degrado ambientale, riforme economiche, i processi di privatizzazione
A partire dagli anni Ottanta, molti PVS hanno avviato processi di riforme economiche e monetarie, di risanamento economico e di riequilibrio della bilancia dei pagamenti anche per far fronte al pesante debito pubblico e all’inflazione, spesso costretti dal pesante indebitamento con l’estero e dalle condizioni poste dagli istituti finanziari internazionali (banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) per la concessione di nuovi finanziamenti.
L’ingerenza di centri decisionali economici, finanziari e monetari a livello internazionale è considerato uno degli effetti della globalizzazione e, anche in questo caso, vi sono alcuni che ritengono che la globalizzazione è stata avviata proprio per dare una struttura alla creazione di questi centri decisionali.
Gli effetti di carattere economico, politico e sociale delle politiche di risanamento sono stati assai diversificati da paese a paese.
Ma assai diffusa a partire dalla fine degli anni Ottanta è stata la convinzione che questi processi abbiano comunque indotto pesanti degradi ambientali e distrutto risorse dei PVS. Questo secondo molti è accaduto perché queste politiche non hanno tenuto conto dei fattori e delle conseguenze ambientali.
Anche in questo caso, molti studi sono stati condotti negli anni Novanta per verificare la fondatezza di queste opinioni; anche in questo caso i risultati, sia pur diversificati, non confermano la fondatezza di queste opinioni.
Una completa indagine sugli studi e le indagini effettuate a partire dagli Ottanta su questo tema giunge alla conclusione che gli interventi di risanamento economico possono avere effetti positivi ed effetti negativi sulle condizioni ambientali, e che essi dipendono da una molteplicità di fattori, tra i quali le condizioni politiche e sociali dei singoli stati in cui questi interventi vengono effettuati, le condizioni preesistenti, i sistemi giuridici e culturali che fungono da contesto all’intervento .
Per esempio, per limitarci ai soli studi condotti sull’impatto delle riforme di risanamento economico sull’agricoltura dei PVS, è stato evidenziato che esso è ambiguo e polivalente.
Assai spesso le riforme economiche provocano lo spostamento da coltivazioni tradizionali a coltivazioni più commerciali e più richieste dal mercato: questo può determinare effetti ambientali negativi, in termini di una perdita di biodiversità, ma spesso anche un miglioramento dello stato dei terreni coltivati, essendovi una spinta ad un uso più efficiente.
Le riforme inducono assai spesso l’adozione di sistemi proprietari più moderni, che offrono certezza, trasparenza e garanzie.
Ebbene, uno degli effetti della globalizzazione è stata l’estensione a PVS di assetti proprietari basati su un sistema legale di proprietà formalizzato e giuridicamente tutelabile, quali quelli in vigore nei paesi sviluppati (in sostituzione di sistemi di proprietà tradizionali, o affidati a consuetudini tramandate a livello di comunità). Questa estensione ha prodotto, secondo tutti gli studi condotti, effetti benefici sull’ambiente: i piccoli coltivatori sono più protetti dalle sopraffazioni e tendono a preferire coltivazioni perenni e non annuali, più redditizie e assai meno erosive e meno bisognose di fertilizzanti chimici.
Inoltre la certezza della proprietà permette il ricorso al credito bancario che, a sua volta permette l’uso di macchinari agricoli, una maggiore pianificazione dell’uso del suolo, l’adozione di pratiche di coltivazione intensiva.
Ma vi sono anche gli aspetti negativi del credito bancario reso possibile da sistemi di proprietà garantita sull’ambiente: esso permette un maggior uso di fertilizzanti per incrementare i raccolti, e quindi un maggior degrado del suolo; la maggior disponibilità di denaro può anche incoraggiare pratiche di deforestazione, e spingere i piccoli agricoltori ad impossessarsi di terreno forestato per approfittare della possibilità, soprattutto se il terreno coltivabile è scarso (fenomeno verificatosi in molte aree dell’India ).
Un caso assai noto ed assai studiato di degrado ambientale dovuto alla disponibilità di credito per aree coltivabili e stato costituito dall’espansione degli allevamenti in Brasile negli anni Ottanta, fenomeno a cui molti imputano la maggior responsabilità per la distruzione delle foreste amazzoniche in questo decennio .
Anche gli specifici studi esistenti in merito agli effetti ambientali dei programmi di risanamento applicati all’agricoltura non sono univocamente significativi.
Ci sono due ampie indagini promosse dalla World Bank, effettuate proprio per controbattere alle accuse rivolte dagli ambientalisti di distruggere l’ambiente con gli interventi economici proposti ai PVS.
Una prima indagine del 1989 , riferita alla prima parte degli anni Ottanta, conclude che le politiche di risanamento economico bei PVS, ben lungi dall’essere state una causa di degrado ambientale, hanno favorito la protezione dell’ambiente (pag.28).
Ad analoghe conclusioni, anche se formulate con maggior cautela, perviene l’aggiornamento di questa indagine per il periodo 1989-1992: “il risanamento è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una corretta gestione e protezione dell’ambiente”(pag.16) .
Entrambi questi studi sono però di scarsa affidabilità perché basati sugli obiettivi prefissati dal risanamento, e non sugli effetti concreti che lo stesso ha determinato .
Successivamente, ed anche al fine di rispondere a questa critica, la Banca Mondiale ha finanziato una serie di ricerche sul campo, allo scopo di esaminare gli effetti delle politiche di risanamento.
I risultati di questo secondo gruppo di studi – condotti su varie realtà di PVS ove sono stati sperimentati diversi metodi di risanamento, tra cui Indonesia e Messico – sono assai meno ottimistici.
È scomparsa la certezza degli effetti benefici delle politiche di risanamento economico sull’ambiente; resta tuttavia, pur con le varie metodologie utilizzate, un unanime accordo nell’escludere che queste politiche economico siano la causa principale di problemi ambientali, anche se vi sono ammissioni che interventi di riforma a livello macroeconomico possono pesantemente interagire con preesistenti situazioni del mercato interno e – proprio per questo condizionamento – in alcuni casi, incrementare difetti o carenze nella protezione ambientale.
Se questa è la situazione vista da un organismo come la Banca Mondiale, ritenuto dall’opinione pubblica che fa riferimento agli ambientalisti come non affidabile per ciò che riguarda una imparziale valutazione degli effetti ambientali delle politiche di risanamento economico, non bisogna però pensare che a queste indagini se ne contrappongano altre, di segno decisamente opposto.
Agli inizi degli anni Novanta, il World Wide Fund for Nature (WWF) ha infatti finanziato tre studi sull’argomento in Costa d’Avorio, Messico e Tailandia, raccolti successivamente in un unico volume .
Ebbene, ciascuno dei tre giunge a conclusioni simili, che in parte avevamo preannunciato: le politiche di risanamento hanno avuto effetti sia positivi che negativi sull’ambiente e sull’uso delle risorse naturali.
Vi è però da aggiungere che, con riferimento specifico al settore agricolo, vi è un effetto della globalizzazione che è ritenuto da molti certamente positivo.
Esso è costituito dalla spinta verso la specializzazione: ciascun paese tende, sia a livello di politica agricola, sia a livello di scelte collettive e individuali degli agricoltori, a specializzarsi nella produzione di quei beni che permettono un uso delle risorse che ci sono in abbondanza.
Questo significa che la liberalizzazione del commercio provoca uno sfruttamento efficiente delle risorse e che un determinato livello di ricchezza può essere raggiunto con un uso delle risorse a disposizione più razionale e più limitato di quanto non accadrebbe se ciascuna nazione tentasse di soddisfare i propri bisogni facendo esclusivamente ricorso alle proprie risorse interne .
Questa conclusione sembra essere unanimemente confermata dagli studi condotti negli anni Novanta sui rapporti tra globalizzazione e ambiente , ed è specificatamente evidenziata in un esame condotto sugli effetti sull’ambiente della politica commerciale messicana .
Questo infine, secondo un noto studio dell’inizio degli anni novanta, significa che una limitazione del commercio internazionale comporta un maggior spreco di risorse interne perché induce ad utilizzare anche risorse scarse e quindi a danneggiare l’assetto ambientale .
In conclusione, i dati e le ricerche condotte non offrono conferma neppure degli effetti di degrado ambientale provocati dalle politiche di risanamento attuate nell’ambito del processo di globalizzazione, e quindi di un altro dei più importanti Leit-motiv dei movimenti che si oppongono alla globalizzazione

5. Conclusioni
Le considerazioni che precedono rendono evidente che il dibattito internazionale sulla responsabilità e sul danno ambientale è attualmente vistosamente distorto sotto due profili.
Prima di tutto, perché è polarizzato su questioni di pericoli ambientali futuri, e in vari casi anche assai incerti e basati su una utilizzazione estrema del principio di precauzione; poi, perché, allorché tratta di questioni di danno ambientale presente, lascia prevalere posizioni puramente ideologiche e di contrapposizione di principio su una documentata analisi della realtà, trascurando anche studi e documenti che pure sono a disposizione.
Una delle posizioni ideologiche che sono fortemente rappresentate nel dibattito è costituita dalla convinzione che in ogni caso la ricchezza danneggia l’ambiente.
Queste opinioni non tengono in considerazione il fatto che, in questo secolo, dove abbiamo avuto una crescita di ricchezza, abbiamo anche avuto un ambiente più sano.
È nei paesi poveri, a crescita zero o molto lenta, che l’inquinamento di aria e acqua è in aumento, che la deforestazione rimane un problema, che è estremamente difficile affrontare gli immensi problemi connessi alla conservazione e alla sicurezza ambientale.
La provocatoria affermazione di Aaron Wildawsky, “wealthier is healthier” usata negli anni settanta per irridere la rigida posizione ambientalista anti -crescita, oggi è corroborata dall’esperienza . Di conseguenza, dovremmo concordare con una delle conclusioni formulate anni fa dal Bruntdland Report: la povertà è la causa principale del degrado ambientale in tutto il mondo.
La povertà nel mondo sta di fatto aumentando a un ritmo sconvolgente.
Nel 1870 la Gran Bretagna e gli Stati Uniti avevano un reddito pro capite nove volte maggiore di quello dei paesi più poveri. 120 anni dopo, nel 1990, il reddito era maggiore di oltre 45 volte.
Se prendiamo i 17 paesi più ricchi del 1870, il loro reddito pro capite era due volte e mezzo quello di tutti gli altri paesi insieme; oggi i 17 paesi più ricchi hanno un reddito di 4,5 volte rispetto a quello del resto del mondo . Se vi è una relazione causale tra ricchezza e qualità ambientale, e se non vogliamo assistere, nel prossimo secolo, alla fine della preoccupazione per l’ambiente e la sua conservazione fatta eccezione per alcuni fortunati angoli del mondo il vero nemico da combattere non è la globalizzazione, ma è la povertà, la cui crescita, come si è visto, non dipende dalla globalizzazione.
C’è poi un altro punto importante.
La povertà di un paese dipende molto di più dal modo in cui questo è governato che dalle condizioni naturali o dalle restrizioni sociali (come a tutti noi piace pensare).
Le vicende di questo secolo hanno dimostrato che c’è un fortissimo legame tra povertà e assenza di democrazia o dittatura, tra povertà e mancanza di libertà civile ed economica, di un clima normativo ed economico prevedibile.
Proteggere i diritti umani e quelli di proprietà, far rispettare la legge, evitando inflazione e corruzione, utilizzare le risorse per miglior educazione, migliore salute e non per acquistare armi o per finanziare inutili conflitti sono le strategie che offrono una via d’uscita dalla povertà e pongono le premesse per una tutela dell’ambiente.
Sotto questo profilo, la globalizzazione politica e quella economica, purché non abbandonata alle sole forze del mercato, può costituire un propulsore – e lo ha già costituito, in molte realtà di PVS – per accettare principi riguardo alla democrazia, ai diritti umani e a una legislazione equa, ignorati fino a pochi anni fa.

La globalizzazione danneggia l’ambiente?

ABSTRACT
È diffusa nell’opinione pubblica e tra gli ambientalisti la convinzione che la globalizzazione danneggi l’ambiente dei paesi in via di sviluppo.
Non tutti però sono d’accordo: la grande maggioranza degli economisti ritiene infatti che la globalizzazione produca effetti che dipendono dalle scelte politiche in concreto adottate dai governi interessati, e che possa perfino ampliare le possibilità di tutela dell’ambiente a livello mondiale e in particolare, nei paesi in via di sviluppo.
Questo contributo si sofferma sugli studi e sulle ricerche economiche in materia di rapporti tra globalizzazione e ambiente, e sulle conclusioni cui essi pervengono.
In particolare, esse tendono ad escludere che sussistano due dei principali effetti negativi della globalizzazione sull’ambiente, e cioè da un lato la fuga delle produzioni e delle attività inquinanti dai paesi ricchi verso i paesi poveri, d’altro lato la cosiddetta race to the bottom tra i paesi più poveri.
Peraltro, anche le conclusioni cui pervengono gli studi economici lasciano spazio a dubbi e incertezze: essi non sembrano escludere che la globalizzazione possa produrre danni irreversibili all’ambiente dei paesi in via di sviluppo, se sia affidata al mero operare delle forze del mercato, o sia rimessa alle scelte di multinazionali che ricercano il loro profitto, o alle decisioni di strutture statali e di governi deboli, fragili e spesso corruttibili.

1. GLOBALIZZAZIONE E AMBIENTE.
È diffusa nell’opinione pubblica la convinzione che il processo di integrazione politica, istituzionale, economica e finanziaria in corso da alcuni decenni – cioè quel vasto fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione – danneggi l’ambiente dei paesi in via di sviluppo .
In particolare, la globalizzazione è considerata come una minaccia dalla maggior parte delle organizzazioni ambientaliste che proprio per questo partecipano attivamente al frastagliato e composito movimento “antiglobalizzazione” .
Questa diffusa convinzione ha però degli aspetti paradossali: altrettanto diffusa e condivisa è infatti la constatazione che gli Stati nazionali non siano (o non siano più) in grado di affrontare e risolvere la maggior parte dei problemi ambientali, proprio perché inadatti a confrontarsi con il carattere sopranazionale e transnazionale di quei problemi: il formarsi e l’affermarsi di una dimensione globale, sia istituzionale che economica, dovrebbe quindi essere considerato il modo migliore per ottenere una efficace tutela dell’ambiente e quindi non un pericolo, ma una concreta speranza di dare soluzione alle emergenze ambientali globali.
In effetti, a fronte della diffusa convinzione cui si è accennato, molti ritengono che la globalizzazione – e quindi l’integrazione nell’economia e nel commercio mondiale di paesi che sinora ne sono rimasti, per varie ragioni, ai margini – non sia necessariamente un fenomeno dannoso per l’ambiente, e che possa produrre effetti benefici o nocivi a seconda delle scelte politiche in concreto adottate dai governi interessati . Altri ancora ritengono perfino che la globalizzazione ampli le possibilità di tutela dell’ambiente a livello mondiale e in particolare, nei paesi in via di sviluppo. In questo senso, per esempio, si è espressa la dichiarazione contenuta in Agenda 21 adottata alla conferenza delle Nazioni Unite su “ambiente e sviluppo” tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992: “un sistema commerciale aperto e multilaterale rende possibile una migliore allocazione e una più efficiente utilizzazione delle risorse e contribuisce in questo modo ad un aumento della produzione e del reddito, e ad attenuare la pressione sull’ambiente”. In senso analogo si sono pronunciate le più importanti istituzioni politiche e economiche internazionali (proprio per questo ritenute dalle organizzazioni ambientaliste tra i principali responsabili della globalizzazione e quindi del deterioramento dell’ambiente su scala globale) .
Nelle pagine che seguono mi soffermerò sulle analisi e sugli studi di carattere economico, apparsi nell’ultimo decennio, sul tema del rapporto tra globalizzazione e ambiente. Questo significa che oggetto di questo scritto sarà solo una delle molte facce del processo di globalizzazione, e cioè quella che attiene al versante dell’integrazione economica e finanziaria. Non mi occuperò, invece, se non marginalmente, degli studi e delle ricerche che hanno focalizzato la loro attenzione sui cambiamenti provocatisi nello scenario giuridico- istituzionale.
Questa scelta è stata determinata, oltre che da ovvie ragioni di restringere il campo dello studio, dal fatto che proprio l’economia assume, secondo l’opinione dominante, il ruolo trainante del processo di globalizzazione (anche se, secondo un recente scritto, sono poi i profili giuridici e istituzionali quelli che offrono “le novità più travolgenti del processo di globalizzazione”, in quanto l’integrazione economica “coincide con la messa in moto di processi giuridici segnati da una grande complessità” ). È quindi importante conoscere e valutare ciò che gli economisti pensano degli effetti della globalizzazione sull’ambiente.
Ma la scelta è stata anche determinata dal tentativo di offrire un panorama su una disciplina – quella economica – tradizionalmente trascurata nella cultura giuridica italiana.
Ed infatti, non può non apparire sorprendente che, su un tema, quale quello della globalizzazione, ove le interconnessioni tra economia, politica e diritto sono di estrema intensità, gli studi e le conclusioni cui pervengono gli economisti in merito agli effetti sull’ambiente siano largamente ignorati da tutti coloro – giuristi, ma non solo – che si confrontano con questo argomento.
Come si vedrà, la grande maggioranza degli economisti si pronuncia, più o meno recisamente, nel senso che la globalizzazione non danneggi l’ambiente o possa addirittura migliorarlo, proprio nei paesi poveri.
Questo schieramento, quasi compatto, dà certamente ingresso ad alcuni interrogativi.
Infatti, se si ritenga che le analisi offerte dagli studi economici siano affidabili, risulta incomprensibile lo scarso interesse che esse riscuotono presso gli operatori dei diversi settori delle politiche ambientali (tra cui i giuristi): risulta cioè incomprensibile perché giudizi così compattamente motivati dalla scienza economica vengono trascurati o accantonati.
D’altro lato, se si dubita della fondatezza e della imparzialità delle tesi sostenute dagli economisti, appare ancor più necessario un confronto delle varie discipline, in modo da raggiungere risultati che tengano conto di tutte le opinioni e le tesi che si confrontano in questo settore.
Su questi interrogativi cercheremo di offrire qualche considerazione nelle pagine conclusive di questo scritto.

2. IL DATO DI PARTENZA: DISOMOGENEITÀ DELLA TUTELA DELL’AMBIENTE.
È un dato di fatto indiscusso che la tutela e la protezione dell’ambiente dall’inquinamento non sono omogenee a livello mondiale.
L’ambiente è tutelato nei paesi ricchi con maggiore intensità ed efficacia che non nei paesi poveri. Tre sono le ragioni di questa differenza.
I paesi più ricchi si dotano di regole ambientali, e specificatamente di regole per il controllo delle attività inquinanti (qualsiasi esse siano, sia di carattere autoritativo che basate su meccanismi di mercato) più severe.
Inoltre i paesi ricchi, a differenza dei paesi poveri, predispongono i mezzi finanziari e le strutture amministrative e giurisdizionali per dare esecuzione alle regole e per imporne il rispetto.
Infine, nei paesi ricchi l’opinione pubblica pone l’ambiente sano, la protezione delle bellezze naturali e la protezione dall’inquinamento pulito tra i compiti prioritari dell’azione politica; sono quindi presenti movimenti organizzati di opinione che fungono da gruppi di pressione per l’adozione di misure a protezione dell’ambiente ed influenzano spesso in modo vigoroso le scelte politiche.
La tutela dell’ambiente e la rigorosità ed efficacia delle regole ambientali dipendono quindi dal livello di reddito e dal benessere acquisito.
Non bisogna inoltre dimenticare che la maggior parte dei paesi ricchi è divenuta tale – ed ha raggiunto quel livello di benessere che oggi permette di adottare regole ambientali che tutelano l’ambiente – proprio distruggendo sistematicamente prima di tutto il proprio ambiente e poi anche quello dei paesi via via sottoposti al suo controllo politico o economico: per fare un solo esempio, le foreste e la biodiversità oggi ancora esistenti nei paesi equatoriali, tropicali o subtropicali (anche perché in quelle fasce si trova la maggior parte dei paesi poveri), un tempo coprivano l’Europa e il Nordamerica, e sono state distrutte perché non compatibili con le esigenze di crescita e di sviluppo .
Ed è anche per questo che in molti paesi poveri o non ancora sviluppati l’esigenza della tutela dell’ambiente e di porre regole che lo proteggano è considerata meno pressante: quanto più le risorse ambientali abbondano, tanto più esse sono considerate non come un valore da proteggere, ma come un bene da sfruttare. Così viene spesso percepita come ingiusta e sopraffattoria la richiesta rivolta ai paesi non sviluppati di preservare l’ambiente e le risorse naturali perché patrimonio di tutta l’umanità.
È la contraddizione magistralmente colta da Romain Gary in quello che è considerato il primo romanzo ambientalista, Les racines du ciel: Morel, l’ambientalista francese che si propone di proteggere gli elefanti dai cacciatori bianchi, è odiato non solo dai governi coloniali, ma dagli stessi leader africani, che non comprendono perché anche loro non dovrebbero sbarazzarsi di animali che sono il simbolo dell’arretratezza economica, e tenerli solo per far piacere ai paesi bianchi ricchi .
Certo, la difformità nella regolamentazione ambientale a livello globale non può essere spiegata esclusivamente in base alla dialettica paesi ricchi – paesi in via di sviluppo.
Vi sono così paesi che non possono essere collocati dalla parte dei paesi poveri e che, tuttavia, per vari motivi, hanno una scarsa dotazione di regole ambientali o comunque ne impongono assai blandamente il rispetto: si pensi alla Unione sovietica prima e alla Russia ora e a vari altri paesi del Sud-est asiatico. Viceversa, vi sono paesi in via di sviluppo che si sono dotati di normative rigorose e avanzate per la tutela dell’ambiente: un buon esempio è costituito dal Costarica.
Se si passa ad esaminare il continente europeo, è agevole rilevare un rilevante scarto tra paesi membri dell’Unione Europea e altri paesi: i primi infatti sono dotati di regole ambientali più severe della maggior parte dei paesi che non sono membri dell’Unione. Ciò dipende, come diremo, proprio dal fatto che all’interno dell’Unione europea si sono affermati principi di libertà di commercio e di scambio che hanno reso necessaria l’adozione di regole ambientali uniformi e rigorose.
La tutela dell’ambiente non è del tutto uniforme neppure all’interno dell’Unione Europea, né all’interno di altre simili organizzazioni di Stati, come il Nafta (che unisce i tre Stati del Nordamerica) e il Mercosur (di cui fanno parte vari stati dell’America latina) .
Ci sono così paesi dell’Unione europea che recepiscono con ritardo le regole ambientali emanate dall’Unione; ci sono poi paesi che, dopo averle introdotte a livello legislativo, e aver quindi rispettato formalmente i propri obblighi comunitari, ne ritardano, più o meno consapevolmente, l’applicazione o comunque sono sprovvisti (o evitano di provvedersi) di strutture amministrative o giurisdizionali per garantirne il rispetto.
Infine, ci sono consistenti differenze di carattere regionale anche all’interno di singoli paesi che hanno una organizzazione federale, o decentrata. Le differenze possono essere determinate, anche in questo caso, da ritardi nella recezione delle regole, da inefficienze amministrative o burocratiche, ma anche da scelte più o meno consapevoli delle singole autorità statali o regionali, in contrasto o in accordo con il governo centrale .
Il diverso grado di tutela dell’ambiente esistente e la diversa intensità di regolamentazione ambientale dipendono dall’intrecciarsi di molti fattori. Tra questi assumono un ruolo di rilievo il grado di attenzione e di sensibilità ai problemi dell’ambiente e della salute delle collettività e delle autorità di governo; la storia, la cultura e l’identità di ciascun paese e delle collettività che lo compongono; le scelte politiche e di politica economica di carattere generale, collegate ad interessi pubblici in vari settori (turistico, agricolo, industriale, e così via); infine, circostanze occasionali, indirizzi politici di breve periodo, contingenze di carattere locale.

3. TUTELA DELL’AMBIENTE E BENESSERE ECONOMICO.
Per quanto siano molteplici le cause della diversa intensità della tutela dell’ambiente a livello globale, il fattore ricchezza sul quale per primo ci siamo soffermati è però di primaria importanza.
Questo significa che il livello di benessere economico generale raggiunto da un paese influisce in modo consistente sulle condizioni dell’ambiente, sull’esistenza di norme che ne impediscono il deterioramento, e sulla predisposizione di mezzi e di strutture per imporne il rispetto.
Wealthy is healthy, osservava Aaron Wildawsky negli anni Settanta per irridere le rigide posizione ambientalista anti-sviluppo: ciò che occorre per vivere bene in un ambiente sano e pulito è, semplicemente, avere un buon reddito.
Ed è una sintetica versione di quel circolo vizioso che ha posto in evidenza il rapporto Brundlandt: la povertà deteriora l’ambiente, l’ambiente deteriorato produce povertà .
Entrambe le affermazioni sono tutt’altro che slogan provocatori: sono confermate da numerosi studi economici .
Essi osservano che al livello di reddito corrispondono tre tipi di effetti sull’inquinamento .
C’è, prima di tutto, un effetto di scala: un aumento dell’attività economica e produttiva, che è il presupposto dell’aumento del reddito, determina un iniziale aumento dell’inquinamento e quindi un deterioramento dell’ambiente (anche perché tale aumento si verifica in genere nei settori che richiedono manodopera a basso prezzo e risorse naturali da utilizzare senza eccessive limitazioni).
Questo dato è confermato da uno studio che ha cercato di costruire un modello teorico per studiare gli effetti sulle emissioni industriali inquinanti dell’aumento del reddito: all’aumento del reddito è collegato un aumento di emissioni inquinanti, in specie per paesi in via di sviluppo .
Ma con l’aumentare del reddito aumenta gradualmente anche la richiesta di un ambiente pulito: chi vive bene economicamente, vuole vivere in un ambiente sano . Attività produttive inquinanti sono così gradualmente permesse solo se i costi del deterioramento ambientale vengono internalizzati, e posti, in tutto o in parte, a carico dell’impresa produttiva inquinante: è il noto principio chi inquina paga, che costituisce una dei cardini della politica ambientale dell’Unione europea . Ciò produce l’effetto tecnologico, per cui le imprese sono spinte ad adottare processi produttivi meno inquinanti e quindi a ridurre progressivamente la quantità di inquinamento.
Infine, con l’ulteriore aumento del benessere economico, sono preferiti e vengono diffusamente richiesti prodotti ambientalmente compatibili: si verifica allora l’effetto di consumo, che determina una riduzione dell’utilizzazione – e quindi della produzione – di beni inquinanti.
A un certo livello di benessere l’effetto tecnologico e l’effetto di consumo superano, combinati insieme, il primo effetto; a questo punto gli effetti benefici sull’ambiente cominciano progressivamente ad aumentare, con l’aumentare del reddito.
Lo studio più interessante effettuato a conferma di questa tesi è stato condotto in Cina. Qui l’apertura del sistema economico verso il mercato mondiale verificatasi a partire dal 1991 ha immediatamente portato ad una specializzazione nella produzione di beni che potevano essere realizzati con le tecnologie disponibili e offrivano vantaggi competitivi. Si trattava di produzioni ad alto potenziale inquinante che hanno determinato un sensibile degrado ambientale. Ma, non appena il reddito ha cominciato a crescere, le emissioni inquinanti hanno cominciato a diminuire per effetto degli accresciuti controlli e dell’introduzione di nuove più restrittive regole. Ad un certo punto, gli effetti benefici hanno superato gli iniziali effetti dannosi sull’ambiente. Lo stesso studio ha anche effettuato una simulazione teorica, cercando di individuare quali sarebbero stati gli effetti sull’ambiente in mancanza del processo di liberalizzazione economica del 1991. Per la maggior parte delle province cinesi sottoposte all’indagine il risultato è stato che le emissioni inquinanti in rapporto ad unità di prodotto sarebbero cresciute più rapidamente e quindi vi sarebbe stato un maggior degrado ambientale .
In conclusione, è largamente condivisa dagli economisti la conclusione secondo cui all’aumentare dello sviluppo economico e del reddito corrisponde – a partire da un certo punto – una riduzione del tasso di inquinamento.

4. FUGA DAL PARADISO E RACE TO THE BOTTOM: LA GLOBALIZZAZIONE DANNEGGIA L’AMBIENTE?
Sulla base dei due presupposti sui quali ci siamo soffermati (disomogeneità della tutela ambientale e diretto rapporto tra livello di reddito e tutela ambientale), alcuni ritengono che, in una situazione di libertà di commercio e di integrazione economica e finanziaria, il diverso grado di tutela ambientale esistente tra i vari paesi – e in particolare tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo – provochi, come inevitabile effetto, un flusso delle attività produttive inquinanti, dai paesi più ricchi verso i paesi più poveri.
Due sarebbero le cause di questo movimento rigidamente unidirezionale.
Da un lato, l’accrescersi della quantità e della rigorosità delle regole di tutela dell’ambiente nei paesi ricchi: il risultato è la cosiddetta fuga dai paradisi ambientali.
D’altro lato, l’offerta di regole di tutela ambientali meno rigide, e più blandamente applicate, da parte dei paesi più poveri: è la cosiddetta race to the bottom tra i paesi più poveri con l’effetto di creare inferni ambientali sempre più degradati .
Unico è l’obiettivo di questo flusso delle attività produttive inquinanti dal paese ricco al paese povero: la ricerca da parte delle imprese che si dedicano a tali attività di margini di competitività. E proprio la globalizzazione permetterebbe, secondo i sostenitori di questa tesi, di estendere questa ricerca a livello planetario.
La globalizzazione quindi produce – sempre secondo i sostenitori di questa tesi – una polarizzazione ambientale e due fenomeni concatenati: un circolo virtuoso per i paesi ricchi, che avranno paradisi ambientali sempre più tutelati, un circolo vizioso per i paesi poveri che sono destinati a ritrovarsi con inferni ambientali sempre più deteriorati.
Nei paragrafi che seguono vedremo che la maggior parte degli studi economici e di politica economica ritiene che non sussistano né la fuga dai paradisi ambientali, né la gara verso il basso.

5. LA FUGA DAI PARADISI AMBIENTALI: TUTELA DELL’AMBIENTE E COSTI DI PRODUZIONE.
Questa ipotesi prevede che – come si è accennato – regole rigorose per la tutela dell’ambiente introdotte in una normativa statuale riducano la competitività delle imprese sottoposte a quella normativa.
L’effetto è che le imprese che operano in settori inquinanti, con l’estendersi del processo di integrazione economica globale, sono indotte a fuggire dai paradisi ambientali verso aree ove le regole ambientali sono meno rigide, o meno rigidamente applicate: le imprese fuggono per non sopportare i costi e gli investimenti resi necessari per il rispetto della regolamentazione ambientale: adeguamenti tecnologici, modifiche nei processi di produzione o nei prodotti.
Naturalmente, le regole ambientali non sono le uniche ad avere questo effetto: si pensi alle regole che disciplinano il mercato del lavoro prevedendo minimi salariali, o contributi previdenziali e pensionistici a carico dell’impresa, o regole di sicurezza e sanità dei luoghi di lavoro. In termini quantitativi, l’incremento di costo provocato dalle norme che regolano il mercato del lavoro può essere consistente, e comportare rilevanti distorsioni sulla competitività delle imprese: è questa la ragione che ha spinto molte imprese a segmentare e decentrare il proprio ciclo produttivo..
In sostanza, nel mondo globalizzato anche per ciò che riguarda le regole giuridiche gli operatori economici fanno le loro scelte e acquistano l’offerta di regole che reputano più conveniente
Ci sarà quindi una fuga dai paesi ricchi, dotati di rigorosa tutela dell’ambiente, se i costi per l’adeguamento e il rispetto alle regole ambientali non siano sopportabili dalle imprese direttamente destinatarie delle regole, o se comunque i costi superino i vantaggi della collocazione produttiva in un paese ricco.
Vi sono in effetti alcuni economisti che giungono a queste conclusioni .
Tra questi, merita di essere ricordato uno studio che ha esaminato il flusso di investimenti finanziari stranieri in paesi in via di sviluppo da parte di imprese produttrici altamente inquinanti (essenzialmente, le imprese del settore chimico) collocate negli Stati Uniti . Questo studio ha rilevato – non escludendo però l’esistenza di concause – un diretto effetto delle regolamentazioni ambientali sull’entità di trasferimenti finanziari verso paesi poveri. Sia pure per uno specifico settore (l’industria chimica americana), la presenza di regole ambientali rigorose sembra sospingere risorse finanziarie provenienti da imprese che operano nel settore chimico verso i paesi in via di sviluppo, ove vengono poi presumibilmente utilizzate per realizzare quelle produzioni chimiche inquinanti proibite o troppo costose nel paese di provenienza .
Si tratta di uno studio sicuramente significativo. Peraltro, non va dimenticato che il flusso di trasferimenti finanziari verso i paesi poveri (a prescindere dall’esistenza di ragioni ambientali che lo determinino) può avere un complessivo effetto positivo per l’ambiente del paese di destinazione, sia in quanto determina un aumento del reddito e quindi del benessere (cui, come si è detto, la tutela dell’ambiente è strettamente connessa) , sia perché l’insediamento di imprese provenienti dai paesi ricchi può comunque produrre e diffondere una diversa cultura e una diversa sensibilità rispetto al patrimonio ambientale (dovendo poi rendere conto del proprio comportamento e delle proprie scelte agli azionisti e alle organizzazioni ambientaliste in patria).
Un numero assai maggiore di autori propende per l’inesistenza del fenomeno di fuga dai paradisi ambientali (che anzi, secondo alcuni, costituiscono, al contrario, un polo di attrazione).
Questi studi in genere usano dati statistici riguardanti il livello degli investimenti per vari settori di produzione industriali e verificano se gli investimenti in paesi in via di sviluppo sono maggiori per le produzioni particolarmente inquinanti rispetto ad altre produzioni . Non emergendo alcuna significativa differenza nel livello di investimenti essi escludono l’esistenza di un rapporto di causalità tra incremento della regolamentazione ambientale e fuga delle imprese soggette alla regolamentazione, con conseguente spinta alla delocalizzazione verso i paesi in via di sviluppo .
La giustificazione generalmente addotta è che i costi necessari per adeguare il processo produttivo a regole ambientali restrittive è per la maggior parte dei settori produttivi contenuto: è stato stimato che – salvo che per talune produzioni particolarmente inquinanti, concentrate soprattutto nel settore chimico – essi non superino il 2-3% del prezzo finale . Sotto questo aspetto, le regole ambientali sono assai diverse da quelle che governano il mercato del lavoro, la cui incidenza sul costo del prodotto è elevata ed ha effettivamente determinato operazioni di decentramento della produzione dei componenti del prodotto labour-intensive verso paesi – per lo più in via di sviluppo – che offrono manodopera a basso costo .
La maggior parte delle numerose indagini economiche compiute nel corso degli anni Novanta concorda nel senso che i costi indotti dalla tutela ambientale sono assai meno rilevanti di quanto viene comunemente ritenuto e sono ampiamente bilanciati dai vantaggi che le imprese ottengono in termini di maggior competitività per la tecnologia che sono spinte a sviluppare. Essi non sono quindi tali da indurre – di per sé soli – le imprese che operano in settori inquinanti a preferire la dislocazione della propria attività produttiva , rinunciando così anche a tutti gli aspetti positivi che i paesi ricchi offrono in termini di incentivi, di finanziamenti, di assistenza tecnologica e di relazioni politiche e commerciali.
Una conferma significativa di questa conclusione è offerta proprio dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, ove le differenze, spesso consistenti, di regolamentazione ambientale tra i vari stati non hanno determinato di per sé sole spostamenti significativi delle attività produttive all’interno dell’Unione (determinati invece da benefici di carattere fiscale o di legislazione societaria) .
Più in generale, è stato osservato che la presenza di regole ambientali rigorose può provocare vari tipi di vantaggio competitivo per le imprese sottoposte a quelle regole .
Infatti la presenza della regolamentazione ambientale spinge le imprese verso una differenziazione qualitativa dei prodotti, e permette – anche limitatamente al mercato interno – la costituzione di nicchie ad alto valore aggiunto per le imprese che intendono realizzare prodotti ambientalmente compatibili, per i quali possono essere ottenuti prezzi più elevati.
Anche sul mercato internazionale regole ambientali rigorose possono determinare effetti positivi in termini di competitività. Infatti per adeguarsi alla normativa ambientale le imprese sono costrette a sviluppare processi tecnologicamente innovativi. Gli investimenti di capitale necessari non comportano una riduzione della posizione di mercato interno occupata (tutte le imprese del paese sono assoggettate agli stessi costi di adeguamento alle nuove più rigorose regole ambientali) e per converso nel lungo periodo possono ridurre i costi operativi e permettere di guadagnare una posizione privilegiata nel mercato internazionale, per effetto della avanzata tecnologia utilizzata .
Ma soprattutto la presenza di regole ambientali più rigorose può costituire una efficace barriera a tutela delle imprese nazionali, in quanto impedisce l’importazione di tecnologie o prodotti non compatibili con la normativa nazionale esistente. La fissazione di standard ambientali elevati per evitare l’inquinamento costituisce così un lecito strumento – anche in presenza di accordi di libero commercio e siano quindi vietate tariffe doganali o misure equivalenti – per escludere da un determinato mercato imprese concorrenti che, operando dove le regole sono meno rigorose, non possiedono il know-how tecnologico che le mette in grado di rispettare gli standard. Si tratta del cosiddetto effetto California, così chiamato perché in presenza di un mercato interno comune, ma assoggettato a regole ambientali differenti, quale è il mercato degli Stati Uniti, ove ciascuno stato può porre regole ambientali più restrittive, è stata proprio la California, introducendo regole più restrittive ha indotto gli altri Stati ad adeguarsi elevando i propri standard ambientali, in modo da non escludere le proprie imprese dalla possibilità di esportare verso lo stato californiano .
La regolamentazione ambientale può così costituire non la causa dell’esodo delle imprese verso i paesi in via di sviluppo, ma una muraglia protettiva che – come le antiche mura medioevali – in una situazione di liberalizzazione dei mercati proteggono i paradisi ambientali e coloro che hanno la fortuna di viverci dall’accesso e dalla competizione di attività o produzioni estranee.
L’incremento della quantità e della rigorosità della regolamentazione ambientale può quindi indurre l’adozione di processi innovativi per ottenere tecnologie o prodotti ambientalmente più puliti, e può instaurare un circolo virtuoso per la protezione dell’ambiente e per l’aumento della competitività internazionale sul mercato.

6. RACE TO THE BOTTOM, REGOLE AMBIENTALI E COMPETITIVITÀ NEL MONDO GLOBALIZZATO.
Le conclusioni appena raggiunte non escludono però che la differenza di tutela e di regole ambientali possa determinare il verificarsi di un altro effetto pernicioso per l’ambiente.
Se, come abbiamo visto, regole ambientali più rigorose possono offrire vantaggi in termini di competitività e di costruzione di barriere legali (sostitutive delle tariffe o dei dazi doganali) all’importazione, può accadere, per converso, che una regolamentazione ambientale meno rigorosa, o non seriamente applicata, possa determinare vantaggi competitivi per le imprese che operano in settori inquinanti, rispetto alle analoghe imprese che operano in paesi ove le regole sono più rigorose o vengono seriamente applicate, ed incoraggiare i governi di molti paesi a lanciarsi in una race to the bottom.
Molti quindi ritengono che in un ambiente globalizzato la deregolamentazione ambientale (o, più spesso, la non fissazione di regole o la non applicazione delle regole esistenti) possa essere rivolta a attrarre investimenti e attività industriali in settori inquinanti provenienti dai paesi ove sono in vigore regolamentazioni ambientali più severe .
In proposito, è significativo che molte unioni economiche e commerciali incoraggino la deregolamentazione ambientale in altri paesi.
Per esempio, il principio vigente nell’Unione Europea secondo il quale deve considerarsi ad ogni effetto merce comunitaria un bene che incorpori almeno il 50% di componenti realizzate in uno Stato dell’Unione, spinge le imprese dell’Unione europea al decentramento segmentato delle fasi produttive o dei componenti del prodotto considerato: gli effetti distorsivi delle differenti regole ambientali vengono quindi “sommersi” dall’etichetta finale di prodotto comunitario, conseguita sol che si rispetti la quota fissata del 50%.
Anche in questo caso, regole ambientali e regole che disciplinano il mercato del lavoro operano in modo assai similare: così, le componenti ad altra intensità di manodopera, o ad alta intensità di inquinamento vengono spostate in paesi extracomunitari – è il caso, per ciò che riguarda l’Italia, della concia o della lavorazione di base delle pelli in Romania o in Bulgaria, delle tomaie delle scarpe o di componenti che richiedono processi produttivi inquinanti in Albania – rispettando naturalmente i limiti posti dall’Unione affinché il prodotto sia considerato comunitario.
È per questo che i critici del processo di globalizzazione evidenziano che la race to the bottom prodotta dalle diverse regolamentazioni ambientali colpisce, nel commercio globalizzato, i paesi più poveri: la deregolamentazione ambientale costituirebbe uno dei pochi strumenti a disposizione dei paesi non sviluppati per ritagliarsi una nicchia di partecipazione nell’economia globalizzata, offrendo degli “inferni ambientali” come polo di attrazione delle attività produttive inquinanti; e specialmente le imprese multinazionali che già operano in diversi paesi traggono benefici economici nel riorganizzare la produzione dislocando le attività inquinanti in paesi ove queste sono tollerate .
Questa tesi è stata sottoposta, nel corso degli ultimi dieci anni, a vigorose critiche .
Di particolare interesse sono quelle fondate su indagini sul campo condotte in paesi dove sono in corso processi di liberalizzazione dei mercati.
È stato così osservato che, anche se la liberalizzazione del commercio spinge inizialmente i paesi in via di sviluppo verso produzioni più inquinanti, non appena all’effetto di scala si sovrappongono l’effetto tecnologico e l’effetto consumo, vengono utilizzate tecnologie più pulite e prodotti più compatibili con l’ambiente e il commercio globalizzato comincia a produrre decisi benefici favorendo l’introduzione di regole ambientali e una loro efficiente applicazione : e i benefici sono tanto più consistenti e rapidi, quanto più accelerato è il processo di liberalizzazione del commercio.
In effetti, la teoria economica insegna che ciascun paese tende a specializzarsi nell’esportazione di beni per la cui produzione sono utilizzati in misura comparativamente maggiore quei fattori della produzione (lavoro, capitale, risorse, know-how, ecc.) di cui il paese può disporre in abbondanza .
Se si considera che anche l’ambiente in tutte le sue componenti (terra, foreste, acqua, risorse non rinnovabili o rinnovabili, ecc.) può essere considerato non come un bene o un valore, ma come un fattore della produzione di beni, un paese con una comparativa abbondanza di risorse ambientali e quindi con maggiore capacità di assorbire danni, rifiuti o deterioramento tenderà a specializzarsi nella produzione di beni che richiedono un uso comparativamente più intensivo di questo fattore. Naturalmente, l’abbondanza del fattore ambiente o delle sue componenti è costituita non solo dal puro aspetto naturale, ma anche dalla capacità di quel paese di regolarne l’uso e il consumo e di evitarne lo spreco. Di conseguenza, in una situazione di liberalizzazione degli scambi commerciali, un paese può raggiungere un determinato livello di benessere economico sfruttando le proprie risorse, ivi incluse le risorse ambientali, in minor misura di quanto dovrebbe fare in una situazione in cui lo stesso livello di benessere debba essere raggiunto ricorrendo esclusivamente a risorse interne: viene così evitato un maggior uso di risorse interne relativamente scarse, e nello stesso tempo viene ridotto lo spreco o il deterioramento delle risorse ambientali disponibili .
Sotto quest’ultimo profilo, molti sostengono che la attuale situazione di degrado ambientale dei paesi in via di sviluppo è il frutto non della globalizzazione, ma della mancanza di globalizzazione: essa può portare ad effetti esattamente contrari a quelli temuti dai sostenitori della race to the bottom, e cioè all’adozione di regole ambientali più rigorose e ad una loro più efficiente applicazione .
A sostegno dei benefici della globalizzazione molti autori hanno avanzato l’ipotesi nota come pollution halo, consistente nel ritenere che le imprese di paesi ricchi che svolgono attività produttive inquinanti, allorché si trasferiscono in paesi in via di sviluppo, utilizzano processi produttivi, tecnologie, management, e soprattutto un atteggiamento culturale e di relazioni con l’esterno analogo a quello utilizzato nel paese di provenienza, e quindi comunque attento alle esigenze ambientali, in questo modo divenendo veicoli e modelli di comportamento che possono influenzare favorevolmente la realtà locale . Sono stati studiati molti casi di questo tipo anche se i risultati non sono univoci. Vi sono infatti anche molti studi, condotti soprattutto nelle economie asiatiche emergenti, che hanno concluso che la provenienza estera degli investimenti o comunque legami con società collocate in paesi ricchi non influenzano in modo significativo le performances ambientali delle imprese . Altre indagini ancora hanno posto in evidenza che, in mancanza di regolamentazione ambientale o di strumenti che impongono il rispetto delle regole ambientali esistenti, le imprese straniere collocate in paesi in via di sviluppo tendono a sfruttare questa opportunità, agevolate anche dal fatto che nella maggior parte dei casi l’opinione pubblica o le popolazioni locali non sono in grado di protestare o perché non ne hanno i mezzi, o perché le autorità politiche non tollerano contestazioni .
Peraltro, uno studio specificatamente condotto sul comportamento tenuto nei paesi in via di sviluppo da 89 multinazionali operanti in settori particolarmente inquinanti con sede negli Stati Uniti ha evidenziato che il 60% di esse applica ovunque le regole ambientali più restrittive stabilite al proprio interno, derivate dalle regole vigenti nei paesi dell’OECD, mentre solo il 30% si limita a rispettare le regole ambientali vigenti localmente, approfittando quindi delle condizioni più favorevoli .
Anche la tesi secondo la quale le imprese straniere dislocate nei paesi in via di sviluppo sarebbero agevolate dal fatto che l’opinione pubblica e le associazioni ambientaliste non sono in grado di opporsi appare troppo radicale. Uno studio condotto nel 1995 indica che il 30% delle imprese collocate in paesi stranieri avevano ricevuto proteste o sperimentato pressioni da parte di movimenti ambientalisti o associazioni di cittadini e soprattutto da comunità locali o da organizzazioni religiose, e nella maggior parte dei casi avevano introdotto modifiche a tutela dell’ambiente, anche per evitare i costi di un protratto conflitto con le collettività vicine e danni alla propria immagine e alla propria reputazione nel paese di provenienza .
In definitiva, si può affermare che la tesi della race to the bottom non è confermata dagli studi economici né a livello empirico né a livello teorico. Inoltre, come già si è osservato, è assai improbabile che un’impresa installi le proprie attività in un paese tenendo conto soltanto degli aspetti riguardanti il controllo dell’ambiente.
I vantaggi e gli svantaggi che ciascun paese offre per l’installazione di una attività produttiva e per ridurre i costi di produzione, aumentandone quindi la competitività sul mercato globale sono infatti tanti e di tipo diverso: possono riguardare il sistema creditizio e finanziario, il funzionamento del sistema giudiziario (che richiederebbe un discorso a parte: infatti, per diverse ragioni, con riferimento a questo elemento, possono fungere da elemento di attrazione sia la disfunzionalità e la corruttibilità dei giudici, sia la rapidità e l’efficienza), la trasparenza del sistema amministrativo, l’organizzazione del mercato del lavoro e il costo del lavoro, il livello di sviluppo tecnologico e delle comunicazioni, la generale stabilità economica e politica, ed anche la regolamentazione ambientale per il controllo dell’inquinamento.
Ciascuno di questi elementi può funzionare in modo da attrarre o respingere investimenti e iniziative economiche di altri paesi.

7. LA GLOBALIZZAZIONE NON DANNEGGIA L’AMBIENTE? I LIMITI DELLE INDAGINI ECONOMICHE.
Se si presta fede alle conclusioni raggiunte dagli economisti, sembra di poter concludere che l’ostilità delle organizzazioni ambientaliste e, più in generale, dell’opinione pubblica che simpatizza per queste ultime verso il processo di globalizzazione non abbia concreto fondamento.
Secondo la maggior parte degli studi economici disponibili non risultano infatti ragionevoli né il timore di una fuga dai paradisi ambientali verso i paesi in via di sviluppo (anzi: le regole ambientali avrebbero l’effetto non di scacciare le imprese inquinanti dai paesi ricchi, ma di impedire l’accesso alle imprese dei paesi poveri) né, per converso, il pericolo di una costrizione di questi ultimi ad abbattere la tutela dell’ambiente esistente, per effetto dell’estendersi del processo di globalizzazione.
Eppure queste conclusioni non lasciano completamente interamente soddisfatti.
Pare difficile convincersi che il processo di integrazione economica e finanziaria a livello globale attualmente in corso non abbia responsabilità in merito alla realtà che abbiamo di fronte, alle disperate condizioni in cui versano la maggior parte dei paesi in via di sviluppo, all’accrescersi delle condizioni di povertà , all’estendersi del potere economico delle società multinazionali e quindi, per quanto si è detto, di progressivo degrado ambientale e di depauperamento delle risorse naturali.
In effetti, vi sono molti aspetti che gettano ombre sulle conclusioni cui gli studi economici pervengono, e rendono legittimi molti dubbi sull’attuale svolgersi del processo di globalizzazione.
Vediamone alcuni.
Un primo aspetto, che tutte le indagini esaminate non sembrano prendere in considerazione, è costituito dalla possibilità che l’innalzarsi del reddito conseguente all’integrazione economica e commerciale non porti in concreto a quei risultati positivi che in teoria dovrebbero verificarsi e che in pratica si sono in molti casi verificati.
Si è visto che, dopo un periodo iniziale di sviluppo, il risultato finale, costituito dal sommarsi dell’effetto tecnologico e dell’effetto di consumo all’effetto di scala, che invece porta ad aumentare il degrado ambientale, produce effetti favorevoli sull’ambiente.
L’ipotesi sottostante è che lo sviluppo economico sia un processo continuo che inevitabilmente conduce, attraverso le tappe indicate, alla meta.
Ma la realtà mette in mostra sotto questo profilo situazioni assai diversificate.
Vi sono molti paesi in via di sviluppo che tentano di porsi sulla strada dell’industrializzazione o sono costretti a farlo, e avviano attività produttive in settori che si presentano competitivi sul mercato internazionale (che sono invariabilmente quelli a maggior intensità di inquinamento), e poi rimangono a questo primo livello. Essi quindi per svariate ragioni (tra le quali va segnalata la necessità di pagare i pregressi debiti con l’estero, la presenza di classi politiche corrotte, le opere faraoniche inutilmente realizzate, gli armamenti e le guerre inutili e così via) non giungono a godere dell’effetto tecnologico e dell’effetto di consumo, né quindi, a maggior ragione, della somma di effetti che determina il prodursi degli effetti benefici sull’ambiente.
Sono attualmente numerosi i paesi in via di sviluppo che si trovano in questa condizione, e che vi rimarranno per molto tempo ancora, prima di raggiungere il risultato finale della somma dei tre effetti, e quindi di effetti favorevoli sull’ambiente.
Questi paesi si troveranno in una situazione di continuo e irrimediabile aumento del livello di degrado (indotto dall’effetto di scala) prima che il tasso di crescita dell’inquinamento sia limitato o contenuto dal verificarsi degli altri effetti.
Più in generale se anche è vero che la globalizzazione non ha determinato una race to the bottom e la creazione di inferni ambientali nei paesi in via di sviluppo, è certo che – quantomeno – non ha neppure favorito una race to the top, e quindi un miglioramento delle condizioni ambientali di paesi che, per le condizioni di povertà in cui si trovano, sono già da decenni costretti a subire condizioni di progressivo degrado dell’ambiente. Poiché, al contrario, i paradisi ambientali divengono sempre più immacolati, il distacco dei paesi poveri si accresce progressivamente.
Parimenti, la globalizzazione, se non ha favorito la fuga verso inferni ambientali, ha certamente creato vaste zone del mondo nelle quali, senza alcun controllo, si sviluppa tutto ciò che non è accettato o tollerato nei paesi sviluppati: quindi, non solo produzioni che richiedono lavoro a basso costo, ma anche produzioni sgradite perché inquinanti nei paesi ricchi .
Vi è poi un secondo aspetto, ed è costituito proprio da quell’aspetto di carattere politico, sociale e istituzionale della globalizzazione, su cui non ci siamo soffermati, e al quale la maggior parte delle indagini e gli studi economici non sembrano attribuire la dovuta importanza.
Pur mancando serie e documentate ricerche comparative, le vicende del secolo appena trascorso dimostrano che c’è una forte correlazione tra assenza di democrazia (in tutte le sue varianti) e di strutture di partecipazione, mancanza di libertà civile ed economica, mancanza di un clima normativo ed economico prevedibile e deterioramento dell’ambiente.
La protezione dei diritti umani e della proprietà, il rispetto della legge, la lotta all’inflazione e alla corruzione , offrono non solo una via d’uscita dalla povertà e le premesse per innalzare il livello di reddito, ma anche la possibilità di frenare la distruzione dell’ambiente e di controllarne il deterioramento.
Dove i diritti umani, civili e i rapporti di proprietà (non necessariamente individuale) sono regolamentati, dove la legge è fatta rispettare, dove governi democraticamente eletti si propongono di evitare corruzione e inflazione e la dilapidazione delle risorse pubbliche in spese inutili, dove la partecipazione della collettività dei cittadini è consentita e i diritti delle donne sono rispettati, dove il sistema giudiziario è davvero indipendente, lì ci sono le maggiori probabilità di un innalzamento delle condizioni economiche di vita, e quindi di miglior educazione e di maggiore istruzione e di sviluppo di una opinione pubblica libera e attenta anche alle esigenze della tutela dell’ambiente protetto da regole che controllano i fenomeni di inquinamento.
Da ciò segue che l”impatto economico della globalizzazione, che potrebbe essere teoricamente positivo, può essere vanificato, o addirittura reso negativo sia dalle carenze degli aspetti giuridici e istituzionali a livello internazionale sia dalle incontrollate modalità con le quali i governanti e il ceto politico gestiscono l’integrazione economica e finanziaria (soprattutto per ciò che attiene alle politiche di redistribuzione dei redditi e di investimenti infrastrutturali).
In mancanza di un quadro internazionale che favorisca e promuova il verificarsi degli effetti positivi dello sviluppo economico e commerciale, per i paesi poveri la globalizzazione sembra destinata ad assommare effetti nocivi alle condizioni ambientali esistenti, già deteriorate dalla povertà e dai saccheggi del passato.
Un esempio illuminante in questo senso è offerto dall’Unione Europea.
Il Trattato istitutivo della Comunità Economica europea del 1957 non conteneva, come è noto, alcuna disposizione in materia ambientale: gli obiettivi comunitari erano puramente economici e commerciali.
Gli Stati membri dotati di regolamentazione ambientale meno rigorosa hanno così avuto ampi margini di manovra nello sviluppare attività economiche competitive con quelle di altri paesi proprio nei settori di maggior rilievo ambientale: l’adozione o il mantenimento di regole meno rigorose di quelle degli altri paesi membri, o il ritardato recepimento delle regole previste dall’Unione europea, hanno costituito non disfunzioni, ma pianificati strumenti per trarre profitto nei rapporti economici integrati, a scapito dei paesi membri con regole ambientali più rigorose o più rigorosamente rispettate. Allorché ci si è resi conto del fenomeno e degli effetti distorsivi provocati dalle differenti regole ambientali nell’ambito di una unione economica di libero scambio, si è affermata l’esigenza di estendere standard ambientali comuni ai vari paesi della Comunità, e di farli rispettare. Così, tra i primi anni del 1970 e il 1987, data in cui viene adottato l’Atto Unico Europeo e l’ambiente entra ufficialmente a far parte delle materie oggetto di disciplina comunitaria, l’ambiente si afferma di fatto come materia di intervento comunitario: vengono infatti emanate oltre 100 direttive e normative di carattere ambientale . La ragione è, certamente, la presa di coscienza in Europa dei problemi ambientali, l’affermarsi delle organizzazioni ambientaliste e l’impatto offerto dalla prima conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente (Stoccolma 1972); ma è anche l’esigenza di impedire il radicarsi di scorrette forme di competizione, utilizzando i diversi livelli di tutela ambientale disponibili dalle imprese nei vari sistemi produttivi statali.
Successivamente, l’Atto Unico del 1986 (entrato in vigore il 1\7\1987) ha posto l’ambiente tra gli obbiettivi della politica comunitaria incorporando nel Trattato un nuovo titolo VII espressamente dedicato all’ambiente (art.130 R, 130 S e 130 T). Il Trattato dell’Unione europea del 7\2\1992 precisa infine che la Commissione assumerà come base un elevato livello di protezione ambientale. Oggi nell’Unione europea è almeno in linea di principio precluso ad uno Stato di mantenere un basso livello di controllo dell’ambiente e dell’inquinamento, in modo da permettere al proprio sistema produttivo di affrontare costi inferiori e guadagnare maggior competitività a danno di Stati ambientalmente più attenti.
Dell’esperienza europea hanno fatto tesoro i paesi nordamericani allorché hanno predisposto il trattato NAFTA e i paesi sudamericani allorché hanno messo a punto il MERCOSUR.
Per ciò che riguarda il NAFTA, proprio per evitare gli effetti distorsivi provocati dalla diversa regolamentazione ambientale esistenti in Canada, Stati Uniti e Messico, la questione degli effetti delle regole ambientali sulla competitività è stata oggetto di lunghe e estenuanti trattative, e sono state anche previste apposite procedure per evitare il verificarsi di vantaggi competitivi derivanti da deregolamentazione ambientale . –
Analogamente, a partire dagli anni Novanta anche i paesi del Mercosur hanno calato all’interno della loro unione commerciale il principio della armonizzazione delle normative di tutela dell’ambiente e di protezione dall’inquinamento .
La lezione che queste esperienze insegnano è quindi che l’integrazione economica e finanziaria può produrre – come si è visto – effetti benefici sull’ambiente, ma richiede l’adozione di regole ambientali uniformi e un sistema istituzionale in grado di garantirne il rispetto .
Queste conclusioni trovano del resto conferma nella recente storia dei rapporti internazionali.
Negli ultimi venti anni, in sintonia con il tumultuoso intensificarsi del processo di integrazione economica e commerciale a livello globale, si è assistito all’emergere di una global governance, di un ordine pubblico globale, che sfugge al dominio e al controllo degli Stati .
Esso è in parte rivolto a porre le basi giuridiche per lo sviluppo del processo di integrazione economica, e ne è quindi il sostegno; ma per altri versi è rivolto a tenere sotto controllo questo processo, a stabilirne le regole e i limiti. Come osserva Cassese, “globalizzazione e “global governance” vanno intesi come fenomeni diversi e persino contrapposti, pur se vanno nella stessa direzione, di sottrarre una parte del diritto al suo abituale sovrano, lo Stato” .
Il crescere e l’affermarsi dell’ordine pubblico globale è stato contraddistinto – per ciò che specificatamente riguarda il settore dell’ambiente – da un consistente aumento di accordi internazionali: sono stati stipulati oltre duecento accordi multilaterali (cioè tra più di due paesi), e oltre un migliaio di accordi a livello regionale, bilaterale o locale. Il processo di globalizzazione quindi ha sollecitato e in molti casi, come è accaduto per la vicenda dell’Unione europea, imposto una intensa attività di regolamentazione ambientale a diversi livelli .
Proprio a seguito di questa attività di individuazione di cornici istituzionali a livello internazionale negli anni novanta si sono affermati concetti del tutto nuovi, come quello di “preoccupazione comune” degli stati, fino a raggiungere la formulazione definitiva di “responsabilità condivisa ma diversificata” per la conservazione dell’ambiente, in considerazione del diverso impatto che i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo hanno sull’attuale degrado ambientale .
Certamente, questa esplosione di regolamentazione sovranazionale in materia ambientale è avvenuta come del resto tutta la crescita dell’ordine pubblico globale – in modo disorganico e confuso. Si è dimostrato, in particolare, estremamente difficile garantire una cooperazione efficace e affidabile per la applicazione degli accordi: come sempre nel caso di un’azione collettiva dove non esistano efficaci meccanismi per garantire il rispetto degli accordi, ognuno tende a rispettare le regole favorevoli e ad ignorare quelle sgradite, e tende, se possibile, ad adottare tecniche da free-rider, mentre altri rispettano gli accordi .

8. CONCLUSIONI.
Questa rassegna pone in evidenza che il timore degli ambientalisti nei confronti della globalizzazione non trova fondamento negli studi e dalle analisi economiche. Questi ultimi, al contrario, evidenziano che l’integrazione economica può determinare benefici all’ambiente sospingendo i paesi in via di sviluppo verso l’adozione di regole per la tutela delle risorse naturali e per la protezione dall’inquinamento. Secondo gli autori di questi studi, quindi, sono proprio gli ambientalisti e coloro che avversano il processo di globalizzazione che possono contribuire a provocare nel lungo periodo i danni ambientali che si propongono di evitare.
Ma questa rassegna indica che anche le certezze degli economisti sui benefici indotti dal processo di integrazione economica e finanziaria non sono prive di ombre e contraddizioni. In molti casi esse riposano su indagini condotte su episodi specifici: sono casi indubbiamente significativi, ma dimostrano soltanto che la globalizzazione può avere benefici effetti sull’ambiente. In altri casi sono costruite su modelli teorici che non tengono conto sia delle molteplici variabili di carattere generale e locale, ed anche di carattere culturale, sociale, storico, che interagiscono con il meccanismo puramente economico, sia delle molteplici forme i intensità – anche sotto il profilo della reversibilità – che può caratterizzare il degrado dell’ambiente.
Un fenomeno di integrazione finanziaria ed economica su scala globale di colossale portata, quale è quello sviluppatosi negli ultimi decenni, ha certamente enormi potenzialità per ciò che riguarda il miglioramento delle condizioni dell’ambiente su scala globale; esso però non esclude la possibilità di danni irreversibili all’ambiente dei paesi in via di sviluppo, se sia affidato al mero operare delle forze del mercato, o sia rimesso alle scelte di multinazionali che ricercano il loro profitto, o alle decisioni di strutture statali e di governi deboli, fragili e spesso corruttibili.
Ciò che oggi ancora manca, anche se nella comunità e nell’organizzazione internazionale è possibile intravedere le tracce della sua formazione, è un progetto politico ed istituzionale globale che ponga le regole e i limiti di questo fenomeno, valorizzandone gli aspetti positivi ed evitandone quelli negativi.

A chi servono i prodotti geneticamente modificati?

Non
è un loro problema

Jacques Diouf,

Assemblea Fao, giugno 2002

1. I prodotti agricoli geneticamente ricombinati: trent’anni di scontri.

Attentato all’integrità della natura, pretesa di sostituirsi a
Dio o espressione della capacità dell’ingegno umano di adattare
la realtà e la natura ai propri bisogni? Cibo avvelenato o cibo
esattamente uguale a quello che si è usato in migliaia di anni
di trasformazioni naturali? Strumento di distruzione o di incremento della
biodiversità? Mezzo per sottoporre l’agricoltura mondiale al controllo
di poche multinazionali avide di profitti, o panacea per eliminare il
problema della fame nei paesi più poveri?

Queste sono le alternative che si contrappongono nelle discussioni in
merito alle ricombinazioni genetiche applicate all’agricoltura, e quindi
dei prodotti agricoli geneticamente modificati, che chiameremo d’ora innanzi
PAGM.

Fin dall’inizio degli anni Settanta, quindi ben prima della loro concreta
immissio-ne e diffusione sul mercato, i PAGM sono stati al centro di uno
scontro che ha ri-guardato non tanto le regole più appropriate
da applicare per utilizzare questi prodotti garantendo la sicurezza dell’ambiente
e la salute dei consumatori, ma l’ammissibilità da un punto di
vista etico e ambientale della loro produzione e del loro uso: un vero
e proprio scontro ideale tra opposte visioni del mondo.

Attualmente, i PAGM sono divenuti, con una crescita costante, una componente
importante della produzione agricola mondiale (anche se le aree agricole
interes-sate sono concentrate per il 99% in soli tre paesi: Stati Uniti,
Argentina e Canada, mentre il residuo 1% è suddiviso tra Cina,
Australia e Sudafrica): complessiva-mente erano coltivati con PAGM nel
1996 1,7 milioni di ettari, divenuti 11 milioni nel 1997, 27,8 milioni
nel 1998, e 39,9 mil nel 1999.[1]

Analoga è stata la crescita in termini economici: si è passati
da un volume d’affari di 75 mil $ nel 1995, a 2.2 miliardi $ nel 1999,
a 3 miliardi $ nel 2000; il volume d’affari è previsto di 25 miliardi
$ nel 2010 .

Lo scontro tra sostenitori e oppositori dei PAGM non è però
diminuito di intensità: osserva in proposito Richard Lewontin che
l’applicazione dell’ingegneria genetica all’agricoltura ha provocato reazioni
ed emozioni come mai si erano viste nella storia della innovazione tecnologica:
neppure i disastri di Three Miles Island e di Cernobyl hanno determinato
nell’opinione pubblica una ostilità nei confronti dell’energia
nucleare analoga a quella esistente nei confronti dei GM.[2]

Il confronto si è però spostato dalla ammissibilità
teorica dell’uso dei PAGM ai problemi connessi con il loro uso concreto.

Due sono le caratteristiche che il confronto ha assunto in questa seconda
fase.

In primo luogo una molteplicità di temi di carattere scientifico,
giuridico o pratico: sanitari, agricoli, ambientali, economici e proprietari
ha sostituito al centro della scena gli aspetti etici e politici, che
avevano polarizzato la fase iniziale del dibatti-to.

Ma questi ultimi non sono affatto scomparsi. Anzi, nella maggior parte
dei ca-si le prese di posizione sono ancora determinate non dall’acquisizione
di dati scientifici e da valutazioni razionali, ma da scelte di campo
operate pregiudizial-mente e fidesticamente in base a quei postulati etici
o politici formalmente scomparsi.

In secondo luogo, si è verificata una radicalizzazione geografica,
ed è penetrata nelle relazioni internazionali, materializzandosi
nella contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Europea in merito alla
coltivazione e alla commercializzazione di PAGM. L’UE mantiene infatti
– soprattutto per le sollecitazioni di taluni Stati membri – una posizione
di sostanziale blocco dell’utilizzazione di PAGM.[3]

Anche in questo caso ci sono, non dichiarati, aspetti che dipendono dai
diversi in-teressi economici, agricoli e soprattutto di concorrenza e
di struttura socio-agricola dei due blocchi.

Non va dimenticato infatti che l’agricoltura tradizionale è praticamente
scomparsa negli Stati Uniti (anche se sopravvive nell’immaginario dell’opinione
pubblica), mentre è assai forte, come componente sociale e politica,
in molti paesi dell’Unione Europea attuale, e soprattutto nei paesi che
sono pros-simi a farne parte (i paesi dell’Est Europa, in precedenza inseriti
nel blocco dell’Unione Sovietica).

Ma vi è un terzo aspetto dell’attuale confronto, ed è costituito
dal quasi parados-sale scambio delle parti tra sostenitori e oppositori
dei PAGM, sul quale vale la pena di soffermarsi.

2.
Il balletto malthusiano.

“La battaglia per raggiungere l’obiettivo di nutrire l’umanità
è fallita. Negli anni Settanta centinaia di milioni di persone
saranno condannate a morire di fame”.

Così esordiva il libro che ha rappresentato l’opinione ambientalista
neomalthusiana [4] degli anni Sessanta
del secolo scorso, The Population Bomb di Ehrlich [5].

Si è trattato di una previsione certamente errata, ma coerente
con la tradizionale impostazione ambientalista di preannunciare catastrofi
ecologiche tendenzial-mente irrimediabili per mobilitare l’opinione pubblica
e creare consenso: tra que-ste una delle colonne portanti era proprio
quella dei limiti della crescita e dell’imminente tracollo delle risorse
disponibili – e in particolare dell’insufficienza del cibo – a fronte
dell’aumento della popolazione .

Viceversa, i sostenitori del progresso hanno sempre irriso gli annunci
catastrofici degli ambientalisti, ritenendo che, come in passato, le scoperte
scientifiche e le innovazioni tecnologiche avrebbero permesso di affrontare
e superare le difficoltà.

La comparsa sulla scena dei PAGM, che – secondo una opinione diffusa –
potreb-bero eliminare o attenuare il problema della fame mondiale, ha
comportato un imprevedibile scambio delle parti.

Infatti gli ambientalisti, posti di fronte alla scelta tra la catastrofe
per fame e la catastrofe da innovazione tecnologica, hanno optato per
quest’ultima soluzione e hanno quindi scelto l’opposizione ai PAGM, abbandonando
il pericolo neomalthu-siano e tutte le argomentazioni connesse con i limiti
della crescita.

Ed infatti, la tesi più diffusa attualmente tra gli ambientalisti
è quella prospettata da Amartya Sen, secondo la quale il problema
della fame non dipende dalla man-canza di cibo o da limiti della natura,
ma dalle relazioni socioeconomiche: l’obiettivo è quindi quello
di agire su quelle cause, mentre l’innovazione tecnologi-ca costituita
dai PAGM permette un inutile aumento della produzione, provoca incontrollabili
rischi per l’ambiente e per la salute e non risolve il problema della
povertà[6] .

Un percorso diametralmente opposto hanno ovviamente dovuto seguire i fautori
del progresso.

Questi, per sostenere la necessità o quantomeno l’utilità
dei PAGM hanno accen-tuato il pericolo di catastrofi alimentari nel prossimo
futuro: l’accrescersi del pro-blema della fame nel mondo e, più
specificatamente, dei problemi agricoli e sani-tari che si proporranno,
in particolar modo nei paesi in via di sviluppo, per effetto dell’incremento
della popolazione mondiale . Secondo costoro, i PAGM permetto-no di evitare
questi pericoli, in quanto consentono di aumentare quantitativamen-te
e migliorare qualitativamente la produzione di cibo, di incrementare le
compo-nenti nutrizionali di singoli prodotti, di ridurre l’impatto ambientale
dell’agricoltura (consistente nella deforestazione e nell’uso di fertilizzanti
e pesti-cidi chimici). Viceversa, senza l’uso di tecniche biotecnologiche,
e ricorrendo e-sclusivamente alle tecniche tradizionali, sarà assai
difficile, e per molti impossibi-le nutrire i 9.4 miliardi di persone
che, secondo le stime, popoleranno la terra nell’anno 2050 .

Recisamente in questo senso sono, per esempio, le conclusioni del Rapporto
“Transgenic plants and world agriculture” predisposto dalla
Royal Society del Re-gno Unito : “La nostra conclusione è
che bisogna agire per venire incontro agli ur-genti bisogni di pratiche
agricole sostenibili a livello mondiale, e se si vuole soddi-sfare la
domanda di cibo di una popolazione mondiale in continua espansione sen-za
distruggere ulteriormente l’ambiente e le risorse naturali. A tal fine,
la tecnologia genetica, insieme alle altre tecnologie, deve essere usata
per incrementare la pro-duzione dele principali fonti di cibo, per migliorare
l’efficienza della produzione, per ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura
e per agevolare la vita dei piccoli pro-duttori” .

Tutto ciò porta inevitabilmente l’opinione pubblica a privilegiare
scelte determina-te dalla fiducia o dall’affinità con uno dei due
schieramenti in campo, piuttosto che da un interesse verso la conoscenza
dei dati scientifici e verso una analisi senza pregiudizi dei dati scientifici
e da scelte pacate e razionali.

*

Il tema degli effetti dell’espandersi dell’utilizzazione dei PAGM sul
problema della sottonutrizione e della fame nei paesi in via di sviluppo
e più in generale sull’aumento della popolazione mondiale ha acquisito
quindi una decisiva impor-tanza nel dibattito concernente la ragionevolezza
della utilizzazione futura di pro-dotti geneticamente ricombinati. Ed
infatti, a fronte dell’ opposizione ambientali-sta all’uso delle tecniche
genetiche applicate all’agricoltura, la insistenza sull’esistenza di un
interesse generale e collettivo – e non solo dei produttori, le multinazionali
della filiera agroalimentare – per l’utilizzazione e la diffusione dei
PAGM può essere giustificata solo se viene dimostrata la necessità,
o quanto me-no l’utilità dei PAGM per adeguare la futura produzione
agricola ai bisogni della popolazione.

È però necessario offrire al lettore alcuni dati che permettono
la comprensione delle argomentazioni che saranno svolte.

3.
Incroci tradizionali e PAGM.

Tutte le attuali coltivazioni agricole sono il risultato di lente e continue
selezioni operate attraverso i secoli, finalizzate a migliorare la produttività,
i valori nutri-zionali, la resistenza alle malattie, il gusto, ed anche
l’odore e il colore.

Questo significa che tutti gli attuali prodotti dell’agricoltura sono
diversi dalle specie originarie, dal loro “prototipo” naturale.
La maggior parte di essi – in Euro-pa oltre il 90% – deriva da specie
che hanno avuto origine in luoghi diversi da quelli in cui esse sono attualmente
coltivate, e sono quindi state importate nei luoghi ove sono attualmente
coltivate modificando in modo sostanziale e irrever-sibile le condizioni
naturali originarie.

Inoltre, molte delle specie da cui hanno tratto origine le specie oggi
coltivate sono ormai estinte: sopravvivono ormai solo gli incroci.

In Europa, più del 90% dei prodotti alimentari appartiene a questa
categoria.

Gli incroci e le clonazioni effettuati con tecniche tradizionali hanno
lo stesso o-biettivo degli organismi prodotti con l’ingegneria genetica,
cioè con tecniche con-sistenti nell’estrarre (con varie modalità
) il DNA corrispondente a uno o più geni specifici da un organismo
“donatore” e nell’inserirlo nella cellula di un organismo ricevente.
L’obiettivo è quello di ottenere varietà che offrono una
resa quantitati-vamente o qualitativamente migliore, incrementando la
resistenza alle condizioni ambientali in cui viene coltivata (per esempio
aridità del terreno, temperature più basse o più
elevate di quelle necessarie per la coltivazione della varietà
non modi-ficata), oppure incrementando la resistenza a parassiti o malattie
proprie della specie su cui si interviene, o infine incrementando la resistenza
a prodotti pesti-cidi o antiparassitari che debbono essere utilizzati.
L’obiettivo può anche essere quello di ottenere varietà
vegetali più pregiate perché gustose, più gradevoli,
più attraenti per il consumatore (per esempio, è per questo
che la carota, da viola che era, è stata resa arancione).

Sia gli incroci tradizionali che i PAGM sono basati sulla modificazione
del patri-monio genetico della specie oggetto dell’intervento. Per i primi
la modificazione è realizzata con il trasferimento casuale, incontrollato
e potenzialmente rischioso, di migliaia o diecine di migliaia di geni;
per i secondi con l’inserimento mirato di uno o più geni predeterminati.
Proprio per la casualità del risultato, l’incrocio di specie effettuato
secondo metodi tradizionali ha in vari casi prodotto nuove specie tossiche
per l’uomo, o specie più resistenti a determinati parassiti e in
taluni casi le specie incrociate hanno determinato l’estinzione delle
specie originarie .

A questo proposito va tenuto presente che – come hanno ricordato alcune
migliaia di scienziati sottoscrivendo un documento di sostegno per l’incremento
delle ri-cerche biotecnologiche e dell’utilizzazione dei PAGM – non vi
è prodotto alimen-tare, comunque ottenuto, che sia esente da rischi:
ogni varietà vegetale, comunque ottenuta, può produrre effetti
indesiderati e talvolta dannosi. Sotto questo profilo non c’è differenza
tra pratiche tradizionali e nuove tecnologie.

Questo significa che non solo gli incroci ottenuti con tecniche di ricombinazione
genetica, ma tutti le varietà vegetali possono produrre effetti
negativi e dannosi sull’ambiente o sulla salute umana; è quindi
privo di senso imputare questo peri-colo solo ai primi, dopo che per centinaia
e centinaia di anni si sono sopportati i rischi degli effetti dannosi
degli incroci tradizionali, in considerazione dei benefici ottenibili.

Vi è però una differenza tra varietà vegetali ottenute
con incroci tradizionali e PAGM. Le pratiche tradizionali sono vincolate
al rispetto dei limiti naturali sulla compatibilità delle specie:
solo specie che si assomigliano possono essere incro-ciate al fine di
ottenere varietà nuove e diverse, mentre specie non compatibili,
come pure specie appartenenti a generi (vegetale ed animale) diversi,
non posso essere incrociate. Al contrario, le tecnologie che utilizzano
il DNA ricombinante possono essere utilizzate per ottenere modificazioni
genetiche che non sarebbe possibile ottenere avvalendosi di pratiche tradizionali,
inserendo in specie o varietà vegetali geni estratti da batteri
o altri organismi animali, e realizzare così i c.d. or-ganismi
transgenici.

Naturalmente, il fatto che con le tecniche di ingegneria genetica si riescano
ad ot-tenere incroci che non si riescono ad ottenere con le tecniche tradizionali
non si-gnifica che solo i primi siano “innaturali”.

Se con il termine natura si intende una realtà non toccata o non
trasformata dall’uomo, non c’è alcuna differenza tra tecniche tradizionali
e tecniche di inge-gneria genetica: entrambe creano prodotti innaturali.
In entrambi i casi l’uomo si è sostituito alla natura o a Dio (utilizzando
le tecniche di volta in volta messe a disposizione dal progresso scientifico
e tecnologico). E – per quanto già detto – so-no innaturali la
quasi totalità dei prodotti alimentari oggi utilizzati.

La differenza – e quindi l’eventuale diverso trattamento giuridico – è
quindi tra prodotti alimentari parimenti innaturali, ma gli uni ottenuti
artificialmente con tecnologie utilizzate da migliaia d’anni, gli altri
ottenuti artificialmente, ma con tecnologie che solo da pochi decenni
sono a disposizione.

È solo in questa differenza e nei loro specifici effetti – se esistono
– che dovrebbero essere individuate le ragioni che determinano l’accettabilità
degli incroci tradizio-nali e l’inaccettabilità dei PAGM, e quindi
divieti o limitazioni alla coltivazione o alla commercializzazione di
questi ultimi, sotto il profilo del pericolo per l’ambiente, o per la
salute.

4.
La popolazione mondiale.

Siamo attualmente più di 6 miliardi di esseri umani.

Eravamo 3.5 miliardi nel 1968.

L’aumento della popolazione è dovuto al generalizzato aumento dell’aspettativa
di vita per effetto delle migliori condizioni di igiene, di assistenza
sanitaria, alla maggiore disponibilità di acqua, al ridursi dell’inquinamento.

Il tasso di aumento della popolazione mondiale è oggi 1,3\1,4%
(era 2,1% nel 1968). Al tasso di crescita attuale, la popolazione mondiale
è destinata a raddop-piare in cinquanta anni: questo significa
12 miliardi di persone nel 2050. Ma è probabile che il tasso decresca
nel prossimo futuro (con il migliorare delle condi-zioni di vita, soprattutto
delle donne) e quindi l’aumento della popolazione sia più contenuto.

Secondo previsioni delle Nazioni Unite del 1996, recentemente aggiornata
e rivi-sta, si dovrebbe giungere a una popolazione di circa 8 miliardi
nel 2025 e di 9 o 10 miliardi di persone nel 2050 (con una stabilizzazione
finale della crescita a 11 miliardi verso il 2200) . Inoltre, nel 2050
circa 9 persone su 10 vivranno nei pae-si in via di sviluppo.

5.
L’agricoltura mondiale nel ventesimo e ventunesimo secolo.

Prima del ventesimo secolo, l’aumento della produzione agricola era determinato
quasi esclusivamente dall’aumento delle aree coltivate .

A partire dagli anni Trenta del secolo scorso, con l’avviarsi dell’utilizzazione
prati-ca di nuove tecniche di ibridazione e con la creazione di nuove
varietà delle specie più coltivate più resistenti
o più prolifiche, comincia ad aumentare la produttivi-tà,
prima negli Stati Uniti, poi, più tardi, in Europa e in Giappone.

Utilizzando queste tecniche, tra il 1935 e il 1975 la produzione di granturco
au-menta negli Stati Uniti del 60%.

A partire dalla fine degli anni Sessanta, proprio la progettazione e l’utilizzazione
di nuove varietà più produttive o più resistenti
(che rendono possibile il passaggio da uno a due raccolti all’anno), insieme
all’uso dell’azoto come fertilizzante e in-sieme a consistenti investimenti
in opere di irrigazione sono le componenti della c.d. Rivoluzione verde
che dapprima coinvolge l’Asia e l’America latina e comincia a far sentire
i suoi effetti in Africa negli anni Novanta.

Tre colture – frumento, granturco e riso – sono state l’oggetto principale
della Rivoluzione verde; essenzialmente per l’aumento della loro produzione
nel corso dei trent’anni è stata evitata quella crisi da mancanza
di cibo nei paesi in via di sviluppo che Ehrlich aveva previsto come inevitabile
.

Queste tre colture oggi coprono circa la metà di tutte le terre
coltivate (che am-montano a circa il 35% della superficie terrestre, escluse
le ragioni polari); esse inoltre costituiscono le principali fonti di
nutrimento della popolazione mondiale e compongono la maggior parte delle
calorie presenti nella dieta umana . A partire dal 1967, la produzione
di queste colture è aumentata tra il 79% e il 97% solo per effetto
della maggior resa ottenuta utilizzando le nuove varietà, i fertilizzanti
chimici azotati e moderne tecniche di irrigazione, e solo per una minima
parte per l’aumento delle aree coltivate (in mancanza di aumento della
produttività, per raggiungere lo stesso risultato si sarebbe dovuta
destinare ad uso agricolo un’area della dimensione dell’intera Amazzonia
, e questo dimostra gli incalcola-bili benefici di carattere ambientali
provocati dalle tecnologie impiegate nella Rivo-luzione Verde).

La situazione attuale è quindi ben diversa da quella prevista da
Ehrlich e da molti neo-malthusiani degli anni Sessanta: nel periodo di
circa quarant’anni la popola-zione mondiale è effettivamente raddoppiata,
ma è più che raddoppiata la disponi-bilità di cibo,
sia pure in modo diseguale tra paesi sviluppati e paesi in via di svi-luppo.
Il risultato è che nei paesi sviluppati il problema è non
la carenza, ma l’eccesso di cibo, e quindi la necessità di sostenere
i prezzi e proteggere la produ-zione agricola (i prezzi dei prodotti alimentari,
proprio per l’abbondanza dell’offerta rispetto alla domanda, sono diminuiti
in media di circa due terzi ri-spetto al prezzo del 1957) . A questo proposito,
deve osservarsi che la rallentata crescita della produzione di cibo nella
seconda metà degli anni Novanta non di-pende – come molti ritengono
– dall’esaurirsi degli effetti della Rivoluzione Verde, ma da deliberate
scelte di politica agricola dei paesi ricchi, che hanno così cercato
di limitare il surplus .

Inoltre, proprio per effetto dell’aumento della quantità di cibo
disponibile e della diminuzione dei prezzi si è ridotto, come abbiamo
visto, il numero di persone cro-nicamente sottonutrite nel mondo: erano
– secondo stime delle Nazioni Unite che però molti esperti hanno
giudicato non attendibili – oltre 900 milioni all’inizio de-gli anni Settanta,
sono nel 1997 circa 800 milioni di persone .

Naturalmente, la Rivoluzione verde non è stata priva di effetti
di carattere am-bientale, economico e politico. Essendo determinata da
tecnologie ad alto uso di energia e di know-how, ha rimpiazzato le tecniche
agricole semplici e spesso a conduzione famigliare; favorendo monoculture
intensive, ha ridotto l’autonomia agricola locale e regionale, creando
nuove forme di dipendenza e immettendo gli agricoltori in un sistema di
banche di sementi, fertilizzanti, macchine agricole, finanziamenti, organizzazioni
politiche; ha creato vincitori e vinti su scala mondiale, privilegiando
coloro che sono riusciti a tenere il passo con i paesi ricchi e danneggiando
chi non ci è riuscito: nel 1950 l’agricoltura dei paesi ricchi
era sette volte più efficiente di quella dei paesi poveri; nel
1985, trentasei volte .

6.
La produzione di cibo: previsioni per il futuro.

Torniamo ora al tema centrale di questo articolo.

Le previsioni concernenti la quantità di cibo disponibile nel futuro
sono di estre-ma importanza per valutare se i PAGM siano utili o indispensabili
per affrontare il problema del nutrimento dell’accrescersi della popolazione
mondiale o quantome-no per evitare un incremento delle persone sottonutrite
e affamate nel mondo. E la necessità di capire se i PAGM siano
necessari, o magari soltanto utili, dipende anche dal fatto che negli
anni Novanta del secolo passato, salvo che in Africa, gli effetti delle
tecnologie utiizzate per realizzare la Rivoluzione Verde sembrano es-sersi
approssimati al limite fisiologico; anche in molti paesi asiatici la produzione,
dopo essere incessantemente salita fino ai primi anni Novanta si è
poi mantenuta stabile .

Naturalmente le previsioni in questo campo sono assai ardue, per la molteplicità
di fattori da considerare (oltre a quello strettamente agroalimentare,
si deve tener conto degli aspetti climatici, economici, politici e di
relazioni internazionali), sia per i diversi e spesso non dichiarati interessi
degli esperti e degli scienziati pro-prio con riferimento all’impiego
di tecniche genetiche (in quanto i sostenitori di queste ultime tendono
ad accentuare la probabilità di un futuro peggiore dell’attuale,
mentre gli oppositori favoriscono ipotesi ottimistiche).

Così, è prima di tutto assai incerto uno dei dati di partenza
di qualsiasi previsione e cioè la quantità delle persone
sottonutrite nel futuro.

Secondo il rapporto della Royal Society (che è nettamente favorevole
all’utilizzazione dei PAGM) l’attuale cifra di 800 milioni di persone
sottonutrite è destinata a raddoppiarsi nel 2050, se non interverranno
consistenti modificazioni sulle cause che generano il sottonutrimento
.

Invece, secondo altre stime (per esempio, la stima della FAO del 1996)
il numero complessivo delle persone sottonutrite dovrebbe continuare a
calare, riducendosi nel 2050 sulla quantità di 600 milioni .

Pur essendo questa contrapposizione di tali dimensioni da rendere di per
sé solo arduo qualsiasi esercizio previsionale, su un dato però
vi è un sostanziale accordo tra tutti gli specialisti: futuri aumenti
della produzione agricola dovranno basarsi su un aumento della produttività,
e non su una estensione dei territori destinati all’agricoltura. Ciò
per due ragioni. Prima di tutto, perché le aree disponibili e in
concreto utilizzabili per l’agricoltura sono già scarse, e continuano
a diminuire, sia per cause naturali (erosione, mancanza di acqua, desertificazione,
ecc.) , sia per l’assoggettamento ad altre destinazioni; poi perché
una estensione delle aree destinate all’agricoltura oltre i limiti attuali
produrrebbe costi economici e orga-nizzativi difficilmente sopportabili
per molti paesi e, inoltre, un aumento non so-stenibile dell’inquinamento
ambientale (per effetto della distruzione delle foreste, dell’habitat
naturale e della biodiversità).

La questione centrale è quindi se sia possibile un aumento della
resa delle colti-vazioni adottando le stesse tecniche introdotte dalla
Rivoluzione Verde (e quindi senza utilizzare le nuove tecnologie genetiche),
senza provocare danni non soste-nibili all’ambiente, in modo da soddisfare
il prevedibile aumento della domanda dovuto all’aumento della popolazione
mondiale.

A questa domanda hanno cercato di dare risposta negli ultimi anni molti
esperti di statistica, di economia agricola, e di politiche di intervento
pubblico nell’economia..

Partiamo con dei dati.

La crescita della domanda di cibo, relativamente alle quattro specie esaminate,
è stata stimata fino al 2020 in misura di 1,2% all’anno per cereali
e riso, 1,5% per granturco .

Questo significa che sarà necessario un aumento di produzione del
44% per i ce-reali, del 43% per il riso e del 56% per il granturco, rispetto
alle quantità attuali, da ottenersi senza un sostanziale aumento
di terre coltivate.

Molti studi sono stati compiuti per verificare quale sia la produttività
massima raggiungibile con le tecniche agricole attualmente utilizzate;
tenendo conto della produttività massima raggiunta dalle varie
specie nelle migliori condizioni am-bientali e tecnologiche possibili,
la conclusione più diffusa è che non potranno essere superati
di molto i livelli raggiunti attualmente dalle colture più produttive
nei paesi più avanzati, se non introducendo nuove sofisticate tecnologie
che per-mettano di intervenire sull’efficienza della fotosintesi e sul
metabolismo delle piante .

Posto questo limite, le previsioni non sono per nulla pessimistiche.

Secondo la maggior parte degli esperti l’obiettivo di raggiungere una
produzione di circa 3 miliardi di tonnellate di cereali per soddisfare
la domanda mondiale di cir-ca 8 miliardi di persone nel 2025 può
essere raggiunto senza aumentare il terreno coltivato e utilizzando le
tecniche attualmente in uso, solo aumentando la produtti-vità dei
paesi meno avanzati in modo da portare la produzione ai livelli già
rag-giunti dai paesi ricchi, anche se saranno necessari imponenti processi
di razionalizzazione nel raccolto, nella conservazione e nella distribuzione
dei prodotti alimentari, eliminando gli sprechi che ora caratterizzano
il sistema agroalimentare mondiale .

In definitiva la situazione mondiale per ciò che riguarda la produzione
globale di cibo dovrebbe continuare nella tendenza al miglioramento .

7.
Molto cibo, ma maldistribuito.

La quantità globale di cibo sarà quindi sufficiente, secondo
la maggior parte delle previsioni, a far fronte alla domanda globale della
popolazione nei prossimi tre\quattro decenni; ma questo dato non è
di per sé sufficiente a concludere che sarà risolto il problema
della fame nel mondo.

Infatti, la produzione di cibo non è distribuita uniformemente
in rapporto alla po-polazione e alle previsioni di crescita. Anzi: si
è visto che la produzione di cibo è già oggi sovrabbondante
nei paesi ricchi, dove l’aumento della popolazione sarà esiguo,
mentre è oggi deficitaria nei paesi poveri – soprattutto in Africa
e in Asia – dove è previsto il più alto tasso di crescita
della popolazione.

Per queste ultime aree, destinate a ricevere il maggior incremento di
popolazione, non sarà prevedibilmente possibile ottenere un aumento
della produzione di cibo che soddisfi le necessità della aumentata
popolazione.

Pertanto per soddisfare la domanda di cibo sarà necessario – se
non si ipotizzano altre soluzioni – realizzare efficienti processi di
trasferimento di cibo dai paesi ric-chi (ove la produzione è in
eccedenza) ai paesi in via di sviluppo.

“Non si getta via la minestra, perché la gente muore di fame”.
Questo ammonimen-to impartito dai genitori ai figli della mia generazione
(mi riferisco agli anni Cin-quanta del secolo scorso), dovrebbe quindi
essere destinato a divenire di pressan-te attualità nel futuro.

Ma è difficile trasferire la minestra avanzata nelle case dei paesi
ricchi verso le capanne dei paesi poveri. Pertanto è proprio sulla
realizzabilità del trasferimento che si concentrano le maggiori
preoccupazioni.

Non è infatti assolutamente chiaro come questo trasferimento potrà
essere realiz-zato e garantito, sotto vari punti di vista: dal punto di
vista commerciale e della global governance, posto che attualmente il
commercio mondiale dei prodotti ali-mentari è stato solo sfiorato
dal vento di libertà e di libera concorrenza portato dalla globalizzazione
(non casualmente, potendo essere la libera concorrenza in questo settore
devastante per le economie dei paesi ricchi); dal punto di vista or-ganizzativo-logistico;
infine, dal punto di vista meramente economico, posto che certamente gli
affamati dei paesi in via di sviluppo non sono in grado di acquista-re
sul mercato mondiale le derrate alimentari prodotte nei paesi ricchi.

In definitiva, le previsioni, seppur rassicuranti e addirittura ottimistiche
per ciò che riguarda la produzione di cibo, non risolvono il problema
essenziale, e cioè quello di far incontrare l’abbondante offerta
con l’abbondante domanda; ma nes-suno indica la strada per risolvere questo
problema. Molti però ritengono che non sia questo il problema.

8.
La fame dipende davvero dalla mancanza di cibo?

L’idea che i problemi alimentari futuri debbano o possano risolversi trasferendo
cibo dai paesi ove è sovrabbondante ai paesi ove manca è
ritenuta da molti irrea-lizzabile e errata.

Costoro osservano che la vera causa della fame non è la mancanza
di cibo: è la di-seguaglianza.

È questo per esempio il pensiero di Amartya Sen secondo il quale
non vi è colle-gamento tra mancanza di cibo e fame: la storia insegna
che la gente muore di fa-me in presenza di sovrapproduzione di cibo al
quale però non ha accesso per mancanza di mezzi . La causa della
fame non è quindi la mancanza di cibo, è la povertà.
Il problema non sta dalla parte dell’offerta, sta dalla parte della doman-da
.

Aumentare la produzione di cibo con le stesse modalità con le quali
viene prodot-to oggi sarà inutile in futuro, come è inutile
oggi: il cibo non viene trasferito da chi lo ha a chi non lo ha, perché
il trasferimento costa troppo e perché chi non produce cibo non
ha neppure i mezzi per comprarlo sul mercato mondiale.

La fame è determinata quindi, come sostengono gli ambientalisti
di oggi, a diffe-renza degli ambientalisti di alcuni decenni orsono, non
da condizioni naturali e dalla mancanza di cibo, ma dalla mancanza di
mezzi per procurarsi il cibo . In questa prospettiva, ciò che risulta
necessario per realizzare l’obiettivo di garantire cibo sufficiente per
tutti è realizzare concretamente la possibilità di aumentare
la produzione di cibo lì dove c’è il bisogno, senza ipotizzare
inattuabili trasferimenti.

Questo significa che la fame nei paesi in via di sviluppo può e
deve essere affron-tata nei prossimi decenni non solo aumentando la produzione
agricola e non tan-to organizzando complessi meccanismi redistributivi,
ma anche – e soprattutto – creando tutte le condizioni economiche, materiali,
politiche, di educazione, di e-guaglianza e non discriminazione, di buon
governo che permettono di incremen-tare il benessere della collettività
e quindi di incrementare i mezzi economici ne-cessari per acquisire il
cibo necessario sul mercato o per coltivarlo. La fame si combatte con
la giustizia sociale.

In proposito, osserva Norman Borlaug, premio Nobel e uno dei padri della
Rivolu-zione Verde, che i raccolti possono essere aumentati del 50% o
addirittura del 100% in India, America latina e nelle aree della ex Unione
Sovietica, e fino al 200% nell’Africa Subsahariana, a condizione che sia
mantenuta la stabilità politi-ca e sia favorita l’iniziativa privata
nel settore agricolo .

9.
Politiche agricole per i paesi in via di sviluppo: l’utilità dei
PAGM.

Eppure, anche questa conclusione non lascia soddisfatti.

L’aspetto che lascia perplessi è proprio quello sul quale, in definitiva,
dovrebbe ruotare l’intero meccanismo cui è rimesso il nutrimento
futuro della popolazione sottonutrita a livello mondiale.

Se le previsioni sull’aumento della produzione di cibo tramite aumento
della pro-duttività utilizzando le tecnologie proprie della Rivoluzione
verde non offrono una rassicurante soluzione al problema del necessario
trasferimento di cibo dai paesi ricchi ai paesi poveri, la soluzione basata
sull’aumento di giustizia sociale in que-sti ultimi nei prossimi tre\quattro
decenni sembra altrettanto irrealizzabile, quan-tomeno per la maggior
parte dei paesi interessati, tenuto conto della situazione attuale caratterizzata
da pesanti disuguaglianze, guerre civili, corruzione, ineffi-cienza amministrativa
e sprechi.

In proposito, è stato osservato che è certamente vero che
centinaia di milioni di persone sono affamate non perché non ci
sia il cibo, ma perché sono povere e non hanno i mezzi per acquistarlo
o per coltivarlo; ma il problema per la grande mas-sa degli affamati non
è ottenere mezzi economici per l’acquisto di cibo, ma avere la
possibilità di coltivare i prodotti agricoli necessari per la loro
sussistenza .

Pertanto, se è vero che chi ha fame non ha cibo perché è
povero, è altrettanto vero che è povero perché non
ha cibo, perché i raccolti sono insufficienti, la resa delle varie
specie agricole disponibili è assai bassa, il terreno è
arido, l’acqua per irriga-re manca, e così via. È questo
lo scenario che caratterizza una grande numero di paesi in via di sviluppo,
dall’Africa all’Asia, ove oggi quasi un miliardo di persone muore di fame
perché vive al di fuori del mercato: non solo del mercato globale,
ma anche dei mercati locali. E non è assolutamente credibile ipotizzare
una radi-cale trasformazione di questo scenario con l’improbabile rapida
adozione di politi-che di giustizia sociale.

Ecco che allora si profila l’utilità dei PAGM per uno specifico
settore di mercato, quello dell’agricoltura dei paesi in via di sviluppo.

Non come alternativa all’incremento di produttività da realizzarsi
con le tecnologie offerte dalla Rivoluzione verde, né come alternativa
all’adozione nei paesi in via di sviuppo di politiche sociali e agricole
che a loro volta incrementino le possibilità di accesso al cibo
per coloro che oggi sono esclusi, ma come strumento specifico di intervento
finalizzato a soddisfare la domanda di sopravvivenza – che vuol dire essenzialmente
domanda di modeste quantità di cibo e di basilare assistenza sa-nitaria
– di chi sta nei paesi in via di sviluppo, e non ha accesso né
al mercato, né alla giustizia sociale; il che significa alcune
centinaia di milioni di persone per le quali la sopravvivenza è
legata soltanto alla possibilità di coltivare i prodotti di cui
hanno bisogno.

In queste economie quindi la tecnologia genetica può esplicare
tutte le sue poten-zialità, creando PAGM resistenti ai parassiti,
alla mancanza di acqua, e in genera-le alle difficili condizioni ambientali.

Per esempio, tutti i prodotti agricoli nei quail si è riuscito
ad inserire il Bacillus Thuringiensis, che produce una tossina fortemente
insetticida hanno rivelato, proprio per questa accentuata resistenza ai
parassiti, un consistente aumento della produttività .

Inoltre, sono state realizzate specie di riso e di granturco transgenico
che sono in grado di tollerare suoli con alta concentrazione di alluminio,
un problema comu-ne dei suoi con elevato tasso di acidità, assai
diffusi nei paesi tropicali, e sinora poco produttivi (ma anloghi prodotti
sono in corso di elaborazione per ridurre, mediante la coltivazione, la
concentrazione di mercurio nel terreno. Altri scienziati all’università
di Delhi hanno allo studio un riso che, a seguito dell’aggiunta di due
geni, è in grado di sopravvivere in situazioni – frequenti in molti
paesi asiatici – di prolungata immersione nell’acqua. Un altro gruppo
di ricercatori ha ottenuto un riso transgenico in grado di produrre betacarotene,
che nel processo digestivo può essere convertito in Vitamina A
(di cui sono carenti in Asia 180 milioni di bambi-ni, con due milioni
di morti per cause connesse alla deficienza di questa vitami-na). È
anche in corso di progettazione un riso con un contenuto di ferro triplo
ri-spetto a quello naturale, utile per evitare anemie che dipendono dall’assenza
di questo minerale. In Kenya è stata realizzata una patata dolce
transgenica che è resistente ad un distruttivo virus . Si sta rivelando
di enorme importanza inoltre la possibilità di utilizzare i PAGM
a fini di assistenza sanitara: sono assai avanzati gli studi per l’inserimento
di vaccini all’interno di prodotti commestibili, come le banana, ottenendo
con ciò il risultato di immunizzare con il cibo i bambini dei paesi
in via di sviluppo ai quali la somministrazione di vaccini è preclusa
da diffi-coltà organizzative, logistiche o finanziarie .

L’elenco potrebbe continuare.

Ma già questi esempi impongono di rifletter sul fatto che, se il
reale problema è quello di creare fonti di nutrimento lì
dove ci sono le persone che ne hanno biso-gno, l’uso dei PAGM può
costituire la soluzione più ragionevolmente realizzabile nel periodo
di tre\quattro decenni in considerazione, senza affidarsi a irrealizzabi-li
trasferimenti di cibo su scala globale, e neppure all’adozione di improbabili
ri-forme istituzionali nei paesi in via di sviluppo, ma soltanto nella
disponibilità del-le sementi necessarie: cioè di beni il
cui costo è irrisorio ed alla portata di tutti.

10.
Lo scontro sui PAGM: gli attori.

Se si tiene conto di questi dati, la moltitudine di attori che popola
il confuso sce-nario dello scontro sui prodotti geneticamente ricombinati
comincia a sgranarsi nelle sue componenti, e le singole posizioni cominciano
ad assumere una forma e un significato.

Partiamo dagli oppositori dei PAGM.

Ci sono prima di tutto i gruppi ambientalisti e l’opinione pubblica che
a loro fa ri-ferimento.

I gruppi ambientalisti tengono essenzialmente conto della situazione di
benessere economico e ambientale dei paesi ricchi, cioè dei paesi
in cui si trovano i loro ade-renti, i loro finanziatori, e l’opinione
pubblica che li sostiene, dove si trovano i consumatori e le loro associazioni.

Per tutti costoro, il rifiuto dei PAGM non comporta alcuna conseguenza
negativa sul tenore di vita e sul benessere alimentare: essi offrono infatti
la possibilità di una superflua aggiunta di cibo in una situazione
in cui i problemi sono l’obesità e l’eccesso di cibo e non la fame
. L’introduzione dell’uso dei PAGM, per converso, non porta alcun beneficio:
non aggiunge nulla a ciò che già c’è, sicché
ogni rischio per quanto minimo e trascurabile, risulta ingiustificato.

Come ha detto Jacques Diouf, Direttore generale della FAO nel suo discorso
i-naugurale dell’Assemblea generale svoltosi a Roma nel giugno del 2002,
“Non è un loro problema”.

I gruppi ambientalisti soprattutto in Europa sono tutt’altro che soli.

Hanno il sostegno – assai importante da un punto di vista ideologico-culturale
– di movimenti fondamentalisti (di derivazione religiosa o puramente conservazioni-sta),
per i quali la lotta ai PAGM costituisce un ottimo strumento per impostare
battaglie a difesa della vita, della creazione o della natura (con tutti
i limiti e le contraddizioni che abbiamo indicato nei precedenti capitoli);
hanno inoltre il so-stegno del frastagliato movimento antiglobalizzazione,
per il quali la lotta ai PAGM assume il significato di lotta contro l’estendersi
a livello mondiale del potere eco-nomico e tecnologico delle multinazionali
americane.

Ma soprattutto c’è, come potente alleato nell’arena dei rapporti
di forza economi-co-politici dei paesi ricchi europei, la filiera agroalimentare
tradizionale: i conta-dini, gli agricoltori, gli allevatori e le organizzazioni
politico-sindacali che li rap-presentano, i vari settori produttivi della
coltivazione dei prodotti agricoli (e quindi i produttori di erbicidi,
pesticidi e sostanze chimiche necessarie per l’attuale mo-do di produzione)
e delle trasformazione dei prodotti agricoli in prodotti di merca-to,
e poi, via via, i settori dell’Amministrazione pubblica e del potere legislativo
che rappresenta i diversificati, consistenti interessi che su tale filiera
convergono.

Per tutti costoro, l’utilizzazione e la diffusione dei PAGM presentano
il rischio di seri danni: rischiano infatti di compromettere il virtuosistico
gioco di prestigio i-stituzionale-giuridico-economico su cui si regge
il sistema agroalimentare dei pa-esi ricchi, rivolto a mantenere, nell’ampia
marea della globalizzazione, un precario equilibrio protezionistico tra
eccesso di produzione e garanzia di profitti.

Se passiamo dall’altra parte dello schieramento, tra i sostenitori dei
PAGM e tra coloro possono trarre benefici, emergono dalla indistinta moltitudine
attori che ri-vestono questo ruolo solo da poco tempo e cioè da
quando il dibattito si è focaliz-zato sul tema agricolo e alimentare,
e che paiono essere i veri destinatari dei PAGM: tutte le diecine e diecine
di milioni di persone che popolano i paesi in via di sviluppo, che non
hanno mezzi per accedere al mercato dei prodotti alimentari finiti, che
non partecipano a formare la pubblica opinione e non partecipano quindi
al dibattito mondiale, che devono fare i conti non solo con un ambiente
o un terreno ostili per trarre l’essenziale per la sussistenza, ma, assai
spesso, an-che con l’indifferenza dei governi dei loro paesi.

Per costoro, l’utilizzabilità di PAGM adatti alle loro necessità
e ai loro bisogni si-gnifica la chance di oltrepassare la linea rossa
della sottonutrizione: significa un aumento di possibilità di sopravvivenza,
a partire dalla disponibilità di poche se-menti .

Ci sono poi le potenti – e famigerate – multinazionali dell’agroalimentare,
cioè le organizzazioni che sui PAGM hanno investito ingentissime
risorse e hanno pro-gettato enormi profitti.

Ma proprio queste – accusate di voler sottoporre al proprio controllo
e alle proprie finalità commerciali la futura produzione agricola
mondiale – si trovano ora di fronte a una inaspettata e paradossale situazione.

Ed infatti i PAGM, prodotto di anni di ricerca scientifica e di sofisticata
tecnologia dei paesi ricchi, oggetto di enormi investimenti finanziari
e di altrettanto enormi aspirazioni di guadagni, rischiano di rivelarsi,
salvo che per alcune produzioni di nicchia, dei beni inutili e forse anche
dannosi proprio per i paesi ricchi ove pos-sono soltanto aggravare il
problema della sovrapproduzione agricola e quindi al-terare il precario
equilibrio di sovvenzioni, protezionismo e contenimento della produzione
che lì tutela gli agricoltori e, indirettamente, l’intero mercato
agroali-mentare. Nello stesso tempo, i PAGM si profilano dei beni preziosi
e indispensabili per i paesi in via di sviluppo, e per i più poveri
tra questi: quindi per un mercato che certamente non è in grado
di soddisfare con i propri mezzi le aspirazioni di profitto e di ripagare
gli investimenti dei produttori dei PAGM.

Così, i principali sostenitori dell’uso dei PAGM, le multinazionali
della biotecnolo-gia, vedono profilarsi defatiganti e costose opposizioni
da parte dei consumatori ai quali i loro prodotti sono diretti, perché
possono pagarli, e nel contempo la do-manda e il bisogno di quegli stessi
prodotti da parte di una massa di possibili consumatori non in grado di
far fronte ai costi.

Gli attori però non finiscono qui.

Tra gli schieramenti si collocano, esitanti, i governi dei paesi ricchi
– soprattutto in Europa -, stretti da un lato dalla pressione della domanda
dell’opinione pub-blica e dalla struttura agroalimentare tradizionale,
contraria all’uso dei PAGM, d’altro lato da necessità – non tanto
e non solo do carattere altruistico, ma di ga-rantire margini di complessiva
stabilità economica e politica nei prossimi decenni in un mondo
la cui popolazione sarà sempre più squilibrata – di soddisfare
le ne-cessità alimentari del prossimo futuro dei paesi in via di
sviluppo. Tutti questi go-verni si trovano nella peggiore delle posizioni,
si trovano cioè di fronte alla scelta tra assumere decisioni gradite
alla generazione presente, da cui dipende la loro elezione e il loro sostegno,
ma tali da compromettere l’equilibrio alimentare e quindi politico fra
pochi decenni, oppure decisioni sgradite agli elettori presenti ma necessarie
per le generazioni future non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche
dei paesi ricchi.

Ci sono anche i governi dei paesi in via di sviluppo, che si trovano assai
spesso in una situazione non migliore: dovrebbero decisamente optare per
l’adozione di nuove tecnologie agricole, ma questo significherebbe indirizzare
investimenti per avviare la costruzione di situazioni di maggior benessere
per gli strati più poveri della popolazione e così alterare
alle radici la struttura sociale, il tessuto di tradi-zioni e di consuetudini
dei paesi che governano, i meccanismi internazionali di aiuti e sovvenzioni,
e in generale minare alle basi i presupposti sui quali si basa il loro
potere.

11.
Conclusioni.

Così la realtà dell’economia agricola mondiale e l’analisi
dei bisogni e dell’offerta nel futuro focalizzano in posizioni più
precise la moltitudine degli attori sulla sce-na dello scontro sui PAGM
e delineano uno scenario per molti versi inaspettato; si scompaginano
così certezze acquisite e vengono allo scoperto pregiudizi e ideolo-gie
sulla base delle quali esse sono state costruite.

Molti sostenitori dei PAGM, bollati come ingenui amanti del progresso,
oggettiva-mente (se non volontariamente) al servizio degli interessi economici
e dell’ansia di profitto delle multinazionali della genetica, risultano
schierati a difesa della ne-cessità di garantire la sopravvivenza
alimentare nei paesi in via di sviluppo.

Viceversa, ambientalisti e altri oppositori dei PAGM, sostenuti dai movimenti
di sinistra e genericamente antiglobalizzazione, si trovano ad essere
schierati con i settori più conservatori delle società ricche,
difensori degli interessi della filiera agro-chimica-alimentare tradizionale,
egoisti difensori del benessere acquisito e indifferenti alle esigenze
di chi, nei paesi in via di sviluppo, muore di fame.

Restano, ancora, difficili problemi da risolvere: non quelli della produzione
di ci-bo, né quelli del suo trasferimento, né quelli di
una trasformazione in senso de-mocratico dei paesi in via di sviluppo,
ma quelli connessi con la soluzione di un problema che sempre più
si porrà sul tappeto delle relazioni internazionali, e cioè
come sarà possibile l’incontro dell’offerta di PAGM da parte delle
multinazionali che sui PAGM detengono la proprietà intellettuale,
alla ovvia ricerca di profitti e di compensi per gli investimenti realizzati,
con la domanda dei paesi in via di svi-luppo che, come si è detto,
sicuramente non saranno in grado di soddisfarne le richieste economiche.

Ed ecco così che, alla fine di questo scritto, scopriamo che il
problema davvero centrale dell’utilizzazione dei PAGM diventa non quello
etico dal quale lo scontro sui PAGM ha preso le mosse, né quello
di economia distributiva, né quello della politica agricola, e
neppure quello di politica internazionale, ma la questione della global
governance e degli equilibri di diritti e di accesso alle risorse nel
mondo globalizzato.

[1] United States Department of Agriculture Economic Research Service
(ERS), Biotech corn and soybeans: Changing markets and the government’s
role, 2000, Washington, DC. [torna su]

[2] Richard Lewontin, Genes in the Food!, in NYRB June 21, 2001 [torna
su
]

[3] Nel dicembre del 1996 la Commissione dell’UE, dopo aver ottenuto
il parere favorevole di tre or-ganismi consultivi, ha autorizzato la commercializzazione
del granturco geneticamente modificato (con un brevetto Novartis) con
un gene che rendeva il prodotto resistente non solo contro un erbi-cida
e un parassita, ma anche contro un antibiotico (l’ampicillina).
Da allora, il granturno modifi-cato è coltivato in Spagna, in Francia
e in Portogallo. Subito dopo, Austria e Lussemburgo hanno vietato l’uso
del granturco modificato sul loro territorio. La Commissione ha ritenuto
illegittima la decisione dei due paesi membri, ma nessuna iniziativa è
stata adottata da parte dell’UE per otte-nere l’eliminazione
dei divieti, che sono quindi tuttora in vigore. Nel frattempo, a seguito
di un giudizio promosso in Francia da Greenpeace e da Friends of the Earth,
il Conseil d’Etat nel settem-bre del 1998 ha sospeso la commercializzazione
del granturco modificato, rimettendo la questione della corretta applicazione
dell’art.16 della Direttiva 90\220\EC sui prodotti geneticamente
modi-ficati alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Nel febbraio
2000 anche la Germania ha sospeso la commercializzazione del granturco
modificato, a seguito della diffusione di dati – duramente contestati
nella comunità scientifica – che indicavano che il granturco modificato
da Novartis ri-sultava tossico anche per una farfalla (Monarca) ed inoltre
che le componenti tossiche del gran-turco permanevano per varie settimane
nel suolo, danneggiando la riproduzione di vari tipi di in-setti (sul
punto, si veda MELDOLESI, …). Nel febbraio 2001 l’UE ha adottato
una nuova direttiva (sostitutiva della direttiva 90\220\EC) qualificata
come la normative più restrittiva del mondo in materia di GMO.
L’annunciata intenzione della Commissione di revocare la moratoria
è duramen-te contestata da vari Stati membri, tra cui l’Italia
e la Francia. Sull’atteggiamento europeo si veda G. Gaskell, Agricultural
biotechnology and public attitudes in the European Union in AgBioForum,
2000 3(2&3), 87-96, consultabile in www.agbioforum.org/vol3no23/
vol3no23ar4gaskell.htm
[torna su]

[4] Il Saggio sulla popolazione di Thomas Malthus, la cui prima edizione
è del 1798, divenuta imme-diatamente un best-seller, è centrato,
come è noto, sull’idea della limitatezza delle risorse naturali
e del necessario sopravanzare della popolazione sulla disponibilità
di mezzi di sussistenza, con ca-tastrofiche conseguenze (morti, carestie,
guerre). Queste previsioni sono state poi attenuate nella seconda edizione
del 1803 (e ridotte a vincoli legali e istituzionali). A questa prima
fase segue per Malthus un periodo più ottimista, rappresentato
dai “Principles of Political Economy” del 1820 (qualificato
assai sbrigativamente da Marx nella Storia delle teoria economiche “un
vero modello di imbecillità mentale”). Su Malthus è
illuminante il saggio di Piero Barucci che funge da introduzio-ne ai Principi,
pubblicati in edizione italiana da ISEDI nel 1972. [torna
su
]

[5] Ballantine Book, 1968. [torna su]

[6] E’ sufficiente ricordare l’opera forse più celebre
dopo quella di Malthus, e più nota di quella di Ehrlich, su questo
tema: Donella H. Meadows e altri, The Limits to Growth: A Report for the
Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind, 1972. [torna
su
]

[7] Si veda per esempio l’articolo di Gregory Conko – Fred Smith,
Jr., Biotechnology and the Value of Ideas in Escaping the Malthusian Trap,
in 2 AgBioForum n.2, 1999, pag.150,consultabile al sito www.agbioforum.org/
vol2no34/conko.pdf
. [torna su]


Environmental Contracts Reviewed

-Sep-02

Eric W.Orts and Kurt Deketelaere (eds) 2001. Environmental Contracts: Comparative Approaches to Regulatory Innovation in the United States and Europe. The Hague: Kluwer Law.

Reviewed by Stefano Nespor, Milan, Italy.

“Much has been written in the two continents over the last few years about regulatory reform in the environmental realm”, notes Daniel Esty in the preface to this important collection. It is undoubtedly true. One of the reasons is the peculiarity of environmental contracts: an impalpable entity that many seek to reach, and very few can claim to have really grasped. In fact, many in Europe say that the United States is the homeland of environmental contracting. Accordingly, a litany of European industrial and business unions is that the excessive use of command and control regulation produces a lack of competition, unlike the flexible situation in the US. Yet, in the United States environmental contracting is considered an original European approach to environmental regulation. The experiments launched in the Clinton administration in this area – Project XL, the Common Sense Initiative, – are viewed mainly as bold attempts to follow the European example.
These contrasting opinions have two things in common. First, they are both wrong, the effect of a double legal mirage: the persuasion that the neighbour’s garden is more contractual-minded and flexible in environmental matters than his own. In fact, in the US environmental contracts have been neither popular nor successful. It is sufficient to consider the data offered by Maxwell and Lyon in their chapter (An Institutional Analysis if Environmental Voluntary Agreements in the United States): since 1996 only one agreement has been entered (in 1997), a dramatic drop from the 1993-1995 period, when 21 agreements were realised. On the other hand, in Europe, after the creative experimenting in France in the 1970s, terminated after a few years by the Conseil d’Etat, successes have been limited to contracts realised in a single country, Holland (and, but more controversially, the Flemish part of Belgium).
Second, these opinions reflect a malaise common on both sides of the Atlantic: command and control rules are deemed inefficient and too rigid to encourage the potential of market forces. One of the values of this volume is to try to explain the reasons for and different aspects of this conflicting assessment of environmental contracts, through comparison of the experiences and the approaches to environmental contracting realised or planned in Europe and in the US.
The first part addresses environmental contracts in the US. The contributions offer a general perspective (Cannon’s “Bargaining, Politics and Law in Environmental Regulation” and Hazard and Orts’ “Environmental Contracts in the United States”) and an overview of practical implementation (starting from the Negotiated Rulemaking of the 1990 examined by Hazard and Orts). Many articles compare the U.S. and European experiences (e.g. Dennis Hirsch, “Understanding Project XL: A Comparative Legal and Policy Analysis”). The second part is devoted to Europe. The European Union’s policy is analysed by Van Calster and Deketelaere (“The Use of Voluntary Agreements in the European Community’s Policy”) and by Vedder (“Competition Law and the Use of Environmental Agreements: The Experience in Europe, an Example for the United States?”). Faure analyses the only effective experience available, in Holland and in Flemish Belgium (“Environmental Contracts: A Flemish Law and Economics Perspective”) and Seerden reviews the legal aspects of environmental agreements in the Netherlands.
The volume then addresses the economics of environmental contracts and regulation and offers a comparative case study of electricity and energy.
After reading the volume, one is left with the question: why is environmental law still firmly grounded in command and control regulation if so many think that environmental contracting is much more effective? The answer probably is that on both sides of the Atlantic supporters of command and control are still the majority. Legal experts on environmental matters, although often convinced that the traditional system needs reform and innovation, maintain much more critical views of the feasibility of substituting for the dominant system environmental contracts. Command and control may be inefficient and flawed in several ways (e.g. it discourages competition; it impedes innovation). Yet, as Van Calster and Deketelaere remark, comparing voluntary agreements with command and control must be done with caution. There is a tendency to oversimplify and idealize both. If it is true that the advantages of the existing regulatory system are rarely as good as those of its model, the same is certainly true of voluntary environmental agreements. As Coglianese remarks in his contribution (“Is Consensus an Appropriate Basis for Regulatory Policy?”):
“a reliance on consensus introduces new sources of conflicts and creates additional problems in the policy process: it leads to unrealistic expectations, increased time and resources, lowest common denominators, imprecision, and a focus on tractability over importance”.

In Europe, notwithstanding the Communication on Environmental Agreements of the Commission released in 1996 [not implemented], sceptical views still predominate at the Community level as well as at the level of the States. Many stress a set of theoretical questions not yet satisfactorily solved. We may call it the democratic question underlying the substitution of command and control with environmental contracting.
Hazard and Orts ask when may the government avoid its own contractual promises by virtue of its sovereign authority, founded on a democratic mandate, to establish the rules, and change them? The answer requires a difficult choice between government as sovereign regulator and government as contracting party, following the definition offered by Hazard and Orts, or, more precisely in my view, between government as honest contractor and government as democratic legislator, following the recent contribution of Gillian Hadfield.
In conclusion, doubts linger about entrusting to environmental contracting – that is, to powerful private interests selected by the Public Administration – solutions to problems which necessarily involve a plurality of private and public positions. These can be adequately represented only in the institutions established in the democratic process. This is the reason why the Final Report of the Committee of Experts appointed by The European Union on “New Instruments for Sustainability – The New Contribution of Voluntary Agreements to Environmental Policy”, published in 1998, concludes that environmental agreements may lead to a higher level of environmental protection than other regulatory instruments, but also that the participation of all social actors is essential for the long term success of the agreements.