Gli incidenti rilevanti e il concetto di rischio

1. Considerazioni introduttive.
Questo articolo espone le modalità normative con le quali l’Italia ha dato attuazione alla seconda direttiva Seveso concernente il controllo del rischio di incidenti rilevanti per l’uso di sostanze pericolose.
Si tratta di modalità che inducono a considerazioni sconsolanti, anche perché non sembra che sia servita l’esperienza, e cioè la fallimentare attuazione della prima direttiva Seveso.
Invece di attuare una semplificazione della normativa, perseguendo così lo scopo espressamente individuato dalla seconda direttiva dell’Unione Europea, il legislatore italiano è riuscito a rendere più astrusa e inutilizzabile la già barocca normativa precedente. A ciò va aggiunto che (come sarà esposto nella parte che segue) la normativa primaria prevede, per divenire concretamente operativa, l’adozione di diecine di decreti di attuazione.
Ad un anno di distanza, solo uno è stato emanato.
Questo significa che, se si passa dal piano delle norme al piano della realtà, che è quello in cui gli incidenti si verificano, praticamente nulla è stato fatto: la seconda direttiva Seveso non ha modificato, nel nostro Paese, il rischio che la collettività corre di danni alla salute, alla persona o ai beni per il verificarsi di rischi rilevanti per l’uso di sostanze pericolose.
A questo punto, però, una domanda può sorgere spontanea: che è successo negli altri Paesi dell’Unione europea?
La risposta può determinare qualche magra consolazione.
Sia pure con differenze anche significative che dipendono da molti fattori – il livello di attuazione della prima direttiva, l’efficienza della Pubblica amministrazione nei settori coinvolti, la partecipazione dell’opinione pubblica, l’autoresponsabilizzazione del ceto produttivo – non vi è paese che possa affermare di aver dato attuazione alla direttiva in modo da concretamente limitare i rischi industrialmente rilevanti della popolazione interessata.

2. Perché è difficile prevenire il rischio industriale?
La triste e generale constatazione appena effettuata può indurre a considerazioni interessanti per spiegare questa difficoltà di attuare una politica di prevenzione dei rischi industriali (chiamiamoli per comodità in questo modo, anche se una delle innovazioni più importanti della seconda direttiva Seveso estende gli obblighi di controllo e prevenzione a tutte le attività che comportano l’uso di sostanze pericolose): sono considerazioni che esulano dagli scopi di questo commento, alle quali pertanto accenniamo assai brevemente.
A. Da un punto di vista più di breve periodo, le difficoltà riscontrate nell’attuare una politica di prevenzione e controllo dei rischi industrialmente rilevanti in un’area – quella dei paesi europei che fanno parte dell’Unione – intensamente industrializzata, ma anche assai attenta alle problematiche ambientali (se non altro per i gravi incidenti verificatisi negli ultimi decenni, a partire da quello di Seveso), dipendono principalmente da due cause connesse.
In primo luogo, la forza coriacea e stratificata del principio che si oppone a quello del controllo dei rischi industriali, e cioè il principio del segreto delle attività produttive industriali, ancorché ad alto rischio per i lavoratori e per la popolazione. Al diritto di conoscere, al principio di trasparenza per ciò che concerne la salute e la qualità della vita, si contrappone costantemente il diritto al segreto delle attività produttive.
In secondo luogo, la caparbia, ma non disinteressata, indifferenza dell’industria per i problemi di sicurezza e per il rischio che l’attività produttiva può indurre sulle collettività: le necessità del mercato, gli obblighi imposti dalla competizione nazionale o internazionale, i vincoli posti dai prezzi o dai costi sono tutti elementi che vengono variamente addotti per razionalizzare questo disinteresse.
Ciò che manca sotto questo primo aspetto, non è un intervento normativo: è una seria politica di informazione, di sensibilizzazione, di educazione che permetta di attenuare il principio del segreto e il disinteresse dell’industria per gli aspetti della prevenzione dei rischi rilevanti.
B. Ma le difficoltà riscontrate nell’attuare una politica di prevenzione e controllo dei rischi industrialmente rilevanti dipendono anche dalla indeterminatezza del concetto di rischio, sotto almeno sei profili.
a. Sotto un profilo storico-evolutivo.
Come osserva in un recente volume Anthony Giddens, il Direttore della London School of Economics and Political Sciences , si tratta di un concetto che emerge – contrariamente a quanto si pensa – solo da pochi secoli, da quanto le società europee sono divenute orientate verso il futuro, con l’affermarsi dell’idea di progresso: in sostanza, dalla Rivoluzione industriale. Ma il rischio, proprio per queste sue origini, ha sempre rappresentato un elemento positivo, enucleando la capacità di una organizzazione sociale di liberarsi del passato, dei vincoli delle tradizioni, e rappresentando un aspetto intimamente connesso con lo sviluppo capitalistico, nel quale viene premiato chi accetta il rischio.
b. Sotto un profilo delle cause.
Al rischio prodotto dall’uomo si contrappone il rischio naturale, quello cui l’uomo è stato sottoposto fin dalle origini: pestilenze, alluvioni, terremoti.
È non è solo il primo che oggi si vuole controllare: è esperienza comune quella degli sforzi che vengono compiuti per porre sotto controllo ed eliminare il rischio naturale, ma anche la propensione – tutta moderna – di voler considerare ogni rischio naturale come determinato dall’uomo: non c’è caso di disastro provocato da forze naturali in cui non si tenda a ravvisare negligenze, omissioni o difetti di previsione da parte delle Autorità.
c. Sotto un profilo delle scelte.
Tra i rischi prodotti dall’uomo vi sono rischi che vengono scelti, e attività che piacciono proprio perché sono rischiose, o anche se sono rischiose: è il caso di molte attività sportive, ma anche del gioco d’azzardo, della motocicletta, del fumo. Altri rischi sono imposti, vengono subiti ma non scelti. È questo il caso del rischio industriale, per le popolazioni che vivono in prossimità di stabilimenti con attività a rischio. Non tutti i rischi, ma solo gli ultimi sono quelli sgraditi.
d. Sotto un profilo degli effetti.
Vi sono rischi istantanei (l’esplosione, la fuoriuscita di gas tossici, ecc.) e rischi di lungo periodo, come l’esposizione prolungata a materiali tossici, le forme di inquinamento idrico o atmosferico. Questa distinzione ha importanti conseguenze, per esempio in termini di responsabilità e di rapporto causale: è agevole individuare il responsabile nel primo caso, è assai più arduo nel secondo, anche perché è difficile a distanza di tempo determinare con sicurezza un rapporto tra la causa e gli effetti nocivi.
d. Sotto un profilo valutativo.
Il concetto di rischio contiene un elemento di ineliminabile parte di soggettività. Questo significa che soggetti o collettività diverse valutano diversamente diversi tipi di rischio. Per esempio, oggi in Italia la maggior parte degli abitanti dei grandi centri urbani è disposto ad investire assai più per ridurre la criminalità che non per ridurre il rischio industriale. Questo atteggiamento – del tutto legittimo, proprio per il carattere soggettivo del rischio – determina ovviamente conseguenze sulle politiche del Governo e della Amministrazione, rivolte con maggiore intensità ad aumentare il quantitativo e l’efficienza delle forze dell’ordine e delle carceri che non degli ispettori o dei sistemi di controllo sulle attività a rischio rilevante.
e. Sotto un profilo economico.
Infine, vi è un aspetto economico che coinvolge anche il principio di precauzione, affermatosi negli ultimi decenni proprio per evitare il rischio.
Il rischio è intimamente connesso all’innovazione, al progresso tecnologico, alla capacità – già evidenziata – di una società di affrontare il futuro e di garantire livelli di benessere adeguati. Ovviamente, tutto ciò ha aspetti positivi e aspetti negativi. Ma non è detto che il rifiuto dell’innovazione, in nome del principio di precauzione, non determini rischi maggiori: la tecnologia esistente, anche se accettata, può essere più rischiosa della tecnologia nuova.
In conclusione, la disciplina e la prevenzione del rischio industriale cala all’interno di un complesso quadro di elementi interconnessi e talvolta contrapposti che vanno presi in considerazione e vanno valutati, alla luce degli orientamenti prevalenti in un determinato contesto sociale.

3. Le direttive europee
Dopo 16 anni dall’adozione della direttiva 82/501/CEE (1) concernente i rischi di incidenti rilevanti, il Consiglio dell’Unione Europea adotta una nuova direttiva la 96/82/CE del 9 dicembre 1996(2) al fine di garantire una più efficace prevenzione degli incidenti e una migliore gestione dei rischi.
Obiettivo principale della nuova direttiva è introdurre un sistema di controllo per tutte le attività che prevedono l’utilizzazione di sostanze pericolose. Il presupposto è che la presenza di sostanze pericolose in uno stabilimento (industriale o non) comporta un rischio che deve essere valutato e gestito al fine di prevenire ogni possibile incidente.
Sulla base di questo nuovo obiettivo la direttiva del 1996 ha introdotto due elementi innovativi rispetto alla disciplina precedente.
Il primo concerne la disciplina del cd. “effetto domino” e cioè la gestione di quei casi in cui la pericolosità è data non dalla sola utilizzazione di sostanze pericolose in uno stabilimento, bensì anche dalle caratteristiche di una particolare realtà nella quale si trovano più attività industriali che insieme costituiscono elemento di rischio e pericolo. Il secondo elemento volto a garantire il controllo dell’urbanizzazione e cioè l’introduzione, nelle politiche che riguardano l’urbanizzazione, la destinazione e l’utilizzazione dei suoli, di obiettivi di prevenzione degli incidenti e di scelte che ne limitino al massimo le conseguenze.
In questa nuova cornice vengono ridefiniti gli adempimenti sulla base di un chiaro intento semplificatore.
L’Allegato 1 della direttiva individua due diversi scenari che si riferiscono a due diversi livelli di pericolosità, ai quali corrispondono specifici comportamenti. Per il primo livello è prevista la redazione del rapporto di sicurezza, mentre per il secondo è stabilito l’obbligo di notifica, oltre alla redazione di un documento concernente la politica di prevenzione degli incidenti rilevanti.
La direttiva rimette poi alla discrezionalità degli Stati membri la possibilità di individuare altre ipotesi di possibile pericolo da controllare.
Il termine ultimo per il recepimento da parte degli Stati membri della direttiva 96/82/CE era il dicembre 1999.

4. La normativa italiana
L’ordinamento italiano ha recepito la prima direttiva, la 82/501/CEE, con il DPR 17 maggio 1988, n. 175 (3). Il DPR 175 ha subito numerose modifiche, alcune delle quali ad opera di decreti-legge mai convertiti. Infine, con l’approvazione della legge 19 maggio 1997 n. 137 si arriva ad un punto fermo, che da una parte provvede a sanare tutte le attività poste in essere durante la vigenza dei decreti-legge, dall’altra introduce un regime transitorio che avrebbe dovuto permettere alla normativa di operare sino all’approvazione di una nuova disciplina, volta alla semplificazione delle procedure e delle competenze (così come previsto dalla legge 15 marzo 1997, n. 59).
La reiterazione dei decreti-legge e successivamente l’approvazione della legge 137/1997 hanno rappresentato il tentativo (peraltro non felice) di porre rimedio ad un sistema normativo dimostratosi assolutamente fallimentare.
I problemi principali riguardavano da una parte l’eccessiva complicazione del quadro delle competenze e dall’altra la definizione di procedimenti esageratamente complessi, aggravati e rallentati dai conflitti tra le diverse amministrazioni.
In questo scenario non poteva non considerarsi occasione ghiotta la necessità, derivante dalla riforma introdotta dall’Unione europea, di rinnovare il quadro normativo, per renderlo conforme alla nuova direttiva del 1996.
Gli ingredienti c’erano tutti: la nuova direttiva da recepire e l’approvazione del D.lgs 112/1998, con il quale sono state conferite alle Regioni le competenze amministrative in materia di industrie a rischio di incidenti rilevanti.
A ciò si aggiunga che la abrogazione direttiva del 82/501 da parte della direttiva 96/82 avrebbe consentito di abrogare anche la normativa nazionale, eliminando una volta per tutte un fardello pieno di lacune.
Certo la novità della assegnazione di un ruolo centrale alle Regioni non era da sola sufficiente a mettere ordine tra le diverse competenze, che inevitabilmente vengono coinvolte nella gestione di una attività industriale a rischio. Il riordino delle competenze rappresentava quindi l’impegno più complesso nell’attuazione della delega conferita con la legge 24 aprile 1998 (la legge comunitaria 1995 – 1997), volta a garantire il recepimento della direttiva 96/82/CE. Si è detto infatti che la direttiva si mostra invece chiara nella definizione delle situazioni di pericolo e nella individuazione dei comportamenti e degli adempimenti da parte dei soggetti coinvolti, per questi aspetti quindi sarebbe stato sufficiente un attento recepimento del testo normativo comunitario.
Qualcosa però, ancora una volta, non ha funzionato e il nuovo testo normativo adottato con il D.lgs 17 agosto 1999, n. 334 (4) dimostra che l’occasione è andata perduta.
La complessità del quadro delle competenze non cambia, anzi in parte ci si dimentica anche della nuova competenza regionale e si rafforza il potere centrale, chiamando nuovamente ad intervenire anche il Ministro della Sanità (annullando così quelle poche semplificazioni che si erano riuscite ad inserire con la modifica al previgente DPR 175/88).
Il giudizio negativo non concerne solo il quadro delle competenze, ma coinvolge tutto il sistema delineato, ancora una volta privo di elementi di coordinamento e eccessivamente burocratico e complesso.

5. In particolare: il D.lgs 17 agosto 1999, n. 334
a) Un efficace e elevato livello di protezione.
Scopo della direttiva 96/82/CE è “la prevenzione degli incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose e la limitazione delle conseguenze per l’uomo e per l’ambiente, al fine di assicurare in modo coerente ed efficace un elevato livello di protezione in tutta la Comunità”.
Il D.lgs n. 334/99, nell’art. 1, dedicato alle “finalità”, al primo comma reca: “Il presente decreto detta disposizioni finalizzate a prevenire incidenti rilevanti connessi a determinate sostanze pericolose e a limitarne le conseguenze per l’uomo e per l’ambiente”: l’ultima parte dello scopo indicato dalla direttiva è stata cassata.
Potrebbe trattarsi di uno scherzo dell’inconscio del legislatore che non è riuscito a non far trapelare che la nuova normativa nazionale si dimostra ancora una volta non in grado di garantire un efficace e elevato livello di protezione e infatti ad oltre un anno dalla sua entrata in vigore, si sta ancora discutendo sulla sua interpretazione (5).
b) Le definizioni.
Piccole, ma rilevanti, imprecisioni si trovano innanzitutto nella parte dedicata alle definizioni.
La direttiva ne detta otto, asciutte e stringate; otto (indicate con lettere) sono anche le definizioni del D.lgs 334/99, alcune di queste tuttavia presentano ingiustificate omissioni e altre non tengono conto della peculiarità della normativa nazionale.
La direttiva ad esempio definisce cosa debba intendersi per “stabilimento”, definizione di rilievo se si considera che l’ambito di applicazione della direttiva stessa sono gli “stabilimenti in cui sono presenti sostanze pericolose in quantità uguale o superiori …..”. A questi stabilimenti, così come definiti nel punto 1 dell’art. 3 della direttiva, si riferiscono gli adempimenti e gli obblighi normativi.
Nella normativa nazionale si è riprodotta la definizione di stabilimento contenuta nella direttiva, senza tenere conto che nel suo ambito di applicazione il DPR 334/1999 introduce una ulteriore distinzione tra stabilimenti e stabilimenti industriali.
La definizione di questi ultimi non è stata inserita e quindi non solo non si sa cosa si intenda esattamente con stabilimenti industriali, ma soprattutto non si può sapere in cosa i essi si differenziano dagli altri stabilimenti, non industriali, e dagli stabilimenti in generale cui fa riferimento la disciplina della direttiva.
Quanto rilevato per la definizione di stabilimento si ripropone anche per la definizione di incidente rilevante e di sostanze pericolose.
Ambedue le definizioni sono infatti l’esatta riproposizione di quelle dettate dalla direttiva, manca però il collegamento con gli elementi ulteriori introdotti dal D.lgs 334/1999; una discrepanza che pone non pochi problemi interpretativi.
Diverso invece è quanto accaduto con la definizione di “gestore”. La direttiva con questa definizione ha infatti inteso risolvere il problema dell’individuazione del soggetto responsabile degli adempimenti nell’ambito dello stabilimento.
Importante, in particolare, è il riferimento alla “… persona cui è stato delegato, ove ciò previsto dalla legislazione nazionale, un potere economico determinante in relazione al funzionamento tecnico dello stabilimento o dell’impianto.”
In tal modo si è inteso superare il problema della sempre troppo difficile individuazione dei soggetti chiamati a rispondere degli eventuali incidenti o comunque chiamati a garantire il rispetto della normativa. La direttiva vuole evitare che si realizzi il solito rimpallo delle responsabilità, soprattutto nel caso di organizzazioni imprenditoriali molto complesse. Per la norma europea deve ritenersi gestore anche il soggetto delegato, in grado di decidere per una determinato settore e quindi in grado di rendere operative le decisioni (con autonomia di spesa e di scelta), ciò indipendentemente dal fatto che questi debba rendere conto ad un superiore o debba comunque orientarsi nell’ambito di scelte più generali.
Il problema è noto anche nell’ordinamento italiano, sul quale tanto hanno discusso dottrina e giurisprudenza e, in particolare, quest’ultima ha ammesso l’ipotesi della delega delle responsabilità anche nei confronti di un soggetto all’uopo incaricato. Delega che per esplicare la sua efficacia e la sua validità deve essere formale, esplicita e contenere requisiti di puntualità con riferimento all’oggetto e al suo contenuto, di certezza dell’attribuzione dell’autonomia decisionale e economica; nonché deve essere conferita a persona idonea, adeguatamente preparata che non può essere sostituita nelle sue decisioni se non in seguito ad una valutazione tecnica di pari competenza. In presenza di questi elementi si può parlare di soggetto delegato e quindi per il caso della normativa di cui si scrive di “gestore delegato”.
Perché non cogliere allora l’occasione, almeno in questa materia, di rendere più agevole e rapida l’individuazione del soggetto – gestore a cui fare riferimento, recependo in pieno la definizione della direttiva.
Due possono essere le risposte: una strisciante agevolazione a quella parte di imprese che pensa ancora di poter sfuggire alle proprie responsabilità rifugiandosi dietro la propria complessità organizzativa, oppure una decisione un pò “pilatesca”, che preferisce non riconoscere in modo definitivo l’esistenza della delega, rinviando il problema di volta in volta alle amministrazioni in sede di attuazione degli adempimenti oppure alla giurisprudenza in caso di contenzioso. In entrambi i casi un’ulteriore occasione perduta, a discapito della maggiore efficacia della normativa e dell’elevato livello di tutela.
c) Le competenze
Si è già detto che la normativa ripropone un quadro di competenze eccessivamente complesso e soprattutto altalenante tra la scelta di conferite le competenze amministrative alla Regione e la resistenza di chi intende comunque lasciare le redini della gestione e del coordinamento del sistema in capo allo Stato.
Il risultato è che da una parte si rinvia a specifiche normative regionali (6), alle quali spetta il compito di disciplinare l’esercizio delle competenze amministrative in materia di incidenti rilevanti (art. 18), dall’altra non si rinuncia ad attribuire in parte al Ministero dell’Ambiente e in parte al Ministero dell’Interno il compito di ricevere e valutare atti fondamentali quali ad esempio il piano di emergenza esterno e il rapporto di sicurezza (artt. 20 e 21).
Emblematico è il caso dell’attività istruttoria inerente il rapporto di sicurezza di cui all’art. 8 del D.lgs 334/1999 (l’atto concernente le situazioni di maggior rischio) che, in attesa delle specifiche normative regionali di cui si è detto, è stata assegnata ai Comitati tecnici regionali antincendio di cui all’art. 20 del DPR 29 luglio 1982, n. 577.
Innanzitutto, c’è da chiedersi perché la competenza sia stata assegnata ad un organo decentrato del Ministero dell’Interno ed in secondo luogo perché il Comitato tecnico di cui si è detto deve operare integrato dalla partecipazione del Comandante provinciale del Vigili del Fuoco (si tenga conto che nel comitato già operano di diritto tre funzionari tecnici del Corpo dei Vigili del Fuoco della regione, di cui almeno due con funzioni di comandante: melius abundare quam deficere!), da due rappresentanti dell’ARPA, due rappresentanti dell’ISPEL, un rappresentante della regione, un rappresentante della provincia e un rappresentante del comune.
Un organo mastodontico, privo però di una figura in grado di coordinarne l’operato. Sarebbe stato più opportuno limitare la partecipazione al Comitato ai soli uffici tecnici, e coinvolgere invece le amministrazioni mediante una conferenza di servizi (che guarda caso nonostante la complessità della materia non è stata prevista).
Non si comprende peraltro perché non si sia affidato il coordinamento della attività istruttoria alla ARPA, organo sicuramente competenti e soprattutto adatti a valutare la situazione nel suo complesso, anche con riferimento alle peculiarità del territorio (7).
È vero che il Comitato ha funzioni istruttorie ma è anche vero che a questo spetta la valutazione tecnica finale e quindi anche la decisione in merito all’inizio dell’attività.
Il tutto è complicato dal fatto che gli atti adottati dal Comitato devono essere trasmessi al Ministero dell’Ambiente, al Ministero dell’Interno, alla regione, al prefetto e al sindaco, nonché, per l’applicazione della normativa antincendi, al Comando provinciale dei vigili del fuoco competente. Non si può negare che vi sia qualche confusione tra la fase istruttoria, e la fase dedicata alle decisioni operative e infine gli incombenti di informazione.
In futuro non mancheranno conflitti e diverse interpretazioni sul ruolo che ciascuno dei partecipanti al Comitato, e dei soggetti che da questo devono essere informati, è chiamato a svolgere.
Quanto detto sino ad ora concerne il sistema di competenze volto alla valutazione del rapporto di sicurezza che rappresenta, come si è detto, uno degli adempimenti di maggior rilievo.
La situazione non cambia, anzi forse diventa grottesca nel caso del verificarsi di un incidente rilevante. L’art. 24 del D.lgs 334/1999 prevede infatti che il gestore informi dell’incidente: il prefetto, il sindaco, il Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco, il presidente della giunta regionale e il presidente provinciale, ponendo con ciò le inevitabili premesse per un sovrapporsi di istruzioni, di ordini, di indicazioni e per un conflitto di competenze.
Le esigenze di celerità, l’immediatezza delle verifiche di quanto accaduto e quanto posto in essere dal gestore, per ridurre al minimo le conseguenze dell’incidente, avrebbero richiesto la individuazione di un soggetto di riferimento al quale, una volta raccolta la denuncia dell’incidente, assegnare il compito di informare tutte le autorità competenti.
Da ultimo, per ciò che riguarda i controlli, deve essere rilevata la difficoltà di conciliare il contenuto dell’art.25 del D.lgs 334/1999 con quanto già stabilito dall’art.20 del DPR 175/1988, che incomprensibilmente è stato sottratto all’abrogazione operata dall’art.30 del Dlgs 334/1999 di tutto il DPR 175/1988: ancora una volta una scelta in contrasto con la certezza del diritto e con l’obiettivo di semplificazione
d) I soggetti obbligati
La direttiva 96/82 come si è detto individua due categorie di soggetti obbligati, la normativa nazionale ne ha invece introdotte cinque.
A queste peraltro corrispondono obblighi di diverso tipo e entità.
L’art.2, comma 1, del D.lgs 334/1999 innanzitutto individua due categorie a maggior rischio.
La prima concerne gli stabilimenti in cui sono presenti sostanze pericolose in quantità uguali e superiori a quelle indicate nella colonna 3 dell’allegato I al decreto, parti 1 e 2; la seconda è rappresentata invece dagli stabilimenti in cui sono presenti le medesime sostanze pericolose, però in misura uguale o superiore a quelle indicate nella colonna 2 sempre dell’allegato I al decreto.
I gestori di ambedue gli stabilimenti, ai sensi degli artt. 6 e 7, devono:
– notificare (al Ministero dell’Ambiente, alla regione, alle province, al comune, al Prefetto e al Comitato tecnico regionale) tutte le informazioni di rilievo concernenti le attività e le modalità di utilizzo e deposito delle sostanze pericolose;
– inviare (al Ministero dell’Ambiente, alla Regione, al Sindaco e al Prefetto) le informazioni di cui all’allegato V;
– redigere un documento che definisce la politica di prevenzione degli incidenti rilevanti.
Inoltre, solo la prima delle due categorie di stabilimenti è anche tenuta, ai sensi dell’art.8, a predisporre il rapporto di sicurezza.
Altre due categorie di soggetti obbligati riguardano invece esclusivamente gli stabilimenti industriali (art. 2, comma 3 e art. 5).
Si tratta da una parte di quegli stabilimenti industriali elencati nell’allegato A al decreto e nei quali risultano presenti sostanze pericolose in quantità inferiori a quelle indicate nell’allegato I, dall’altra degli “stabilimenti industriali di cui all’allegato A in cui sono presenti sostanze in quantità superiori ai valori di cui al punto 3 dell’allegato B, e per le sostanze e le categorie dell’allegato I, in quantità inferiori ai valori soglia ivi riportati”.
I primi, ai sensi dell’art.5, devono provvedere alla individuazione dei rischio di incidenti rilevanti, integrando il documento di valutazione dei rischi di cui al D.lgs 626/94.
I secondi devono invece presentare (alla Regione e al Prefetto) una relazione contenente le informazioni relative al processo produttivo, alle sostanze pericolose presenti, alla valutazione dei rischi di incidente rilevante, all’adozione di misure di sicurezza appropriate, alle modalità di informazione e alle iniziative per la formazione e l’addestramento del personale addetto, nonché predisporre il piano di emergenza interno.
A queste quattro categorie di soggetti obbligati se ne aggiunge una quinta: tutti gli stabilimenti (non si capisce se industriali o no) che non corrispondono alle caratteristiche di cui alle altre quattro categorie, ma nei quali sono comunque presenti sostanze pericolose. Questi ultimi sono tenuti “a prendere tutte le misure idonee a prevenire gli incidenti rilevanti e limitarne le conseguenze per l’uomo e per l’ambiente”, nel rispetto dei principi del decreto e delle normative vigenti in materia di sicurezza ed igiene.
Dunque, una notevole varietà di adempimenti, con la predisposizione di informative e documenti da inviare ad autorità di volta in volta diverse.
E’ il caso di ricordare ancora una volta che un obiettivo della nuova direttiva è la semplificazione degli adempimenti, questa infatti prevede esclusivamente la possibilità della notifica, la definizione della politica di prevenzione degli incidenti rilevanti e per i casi di maggior rischio la redazione del rapporto di sicurezza.
Ma perché allora l’ordinamento italiano ha preferito introdurre tante tipologie di atti, quando era possibile prevedere l’introduzione del documento di politica di prevenzione per tutti gli stabilimenti obbligati, indipendentemente dal grado di rischio, e poi richiedere la notifica e il rapporto di sicurezza sulla base del maggior rischio di incidente.
A questo complesso quadro di attività deve poi aggiungersi che la nuova normativa non ha pensato di raccordare i nuovi obblighi con gli altri adempimenti connessi all’esercizio delle attività industriali; pertanto un nuovo stabilimento soggetto alla normativa sui rischi, dovrà richiedere anche tutte le altre autorizzazioni urbanistiche, ambientali e sanitarie previste dalla normativa vigente.
Altro che semplificazione dei procedimenti: siamo di fronte ad un faticoso labirinto che si va ad aggiungere al numero di autorizzazioni, assensi e pareri necessari per poter avviare una attività produttiva.
e) L’attuazione del decreto
Anche nel caso del D.lgs 334/1999, l’operatività della normativa dipende dalla approvazione di atti regolamentari successivi.
Il decreto ne prevede circa 20.
Sino ad oggi ne è stato emanato, peraltro con un anno di distanza, soltanto uno: il decreto del Ministro dell’Ambiente del 9 agosto 2000, concernente le linee guida per l’attuazione del sistema di gestione della sicurezza (8).
Pertanto alle difficoltà intrinseche al decreto di cui si è detto si deve, aggiungere l’impossibilità a tutt’oggi di avviare il sistema in quanto mancano alcune direttive fondamentali, sino all’emanazione delle quali si continua a transitare tra il sistema previgente e quello nuovo. Ciò nonostante il riprodursi degli incidenti e una più che dimostrata incapacità di prevenzione e di riduzione dei rischi conseguenti.
Inutile inoltre dire che gli aspetti innovativi introdotti dalla nuova direttiva comunitaria, e di cui si è detto all’inizio, quale il c.d. “effetto domino” e il controllo dell’urbanizzazione, per quanto riproposti anche dalla normativa nazionale difficilmente potranno trovare reale attuazione. Anche per questi mancano le linee direttive; ma in ogni caso si tratta di obiettivi raggiungibili solo in un sistema in grado di garantire la conoscenza di tutte le informazioni inerenti le attività svolte sul territorio e in particolare sulle attività da considerare a rischio effettivo o potenziale: un sistema cioè che consenta alle autorità pubbliche di essere in possesso dei dati necessari a delineare una sorta di carta della situazioni a maggior rischio e quindi in grado di introdurre mezzi di prevenzione oltre che adottare scelte di riduzione del pericolo, anche attraverso ipotesi di delocalizzazioni o mutamenti della organizzazione urbanistica del territorio.
Un sogno per l’ordinamento italiano, che ha nuovamente partorito un mostro normativo, che non evita in alcun modo il prodursi di rischi industriali e costringerà a rincorrere le emergenze, adottando rimedi provvisori.
In definitiva per l’Italia un sistema di prevenzione dei rischi derivanti dalle attività connesse all’uso di sostanze pericolose e con esso la possibilità di ottenere un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute, rimane e forse rimarrà ancora per molto tempo un miraggio.