La globalizzazione danneggia l’ambiente?

ABSTRACT
È diffusa nell’opinione pubblica e tra gli ambientalisti la convinzione che la globalizzazione danneggi l’ambiente dei paesi in via di sviluppo.
Non tutti però sono d’accordo: la grande maggioranza degli economisti ritiene infatti che la globalizzazione produca effetti che dipendono dalle scelte politiche in concreto adottate dai governi interessati, e che possa perfino ampliare le possibilità di tutela dell’ambiente a livello mondiale e in particolare, nei paesi in via di sviluppo.
Questo contributo si sofferma sugli studi e sulle ricerche economiche in materia di rapporti tra globalizzazione e ambiente, e sulle conclusioni cui essi pervengono.
In particolare, esse tendono ad escludere che sussistano due dei principali effetti negativi della globalizzazione sull’ambiente, e cioè da un lato la fuga delle produzioni e delle attività inquinanti dai paesi ricchi verso i paesi poveri, d’altro lato la cosiddetta race to the bottom tra i paesi più poveri.
Peraltro, anche le conclusioni cui pervengono gli studi economici lasciano spazio a dubbi e incertezze: essi non sembrano escludere che la globalizzazione possa produrre danni irreversibili all’ambiente dei paesi in via di sviluppo, se sia affidata al mero operare delle forze del mercato, o sia rimessa alle scelte di multinazionali che ricercano il loro profitto, o alle decisioni di strutture statali e di governi deboli, fragili e spesso corruttibili.

1. GLOBALIZZAZIONE E AMBIENTE.
È diffusa nell’opinione pubblica la convinzione che il processo di integrazione politica, istituzionale, economica e finanziaria in corso da alcuni decenni – cioè quel vasto fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione – danneggi l’ambiente dei paesi in via di sviluppo .
In particolare, la globalizzazione è considerata come una minaccia dalla maggior parte delle organizzazioni ambientaliste che proprio per questo partecipano attivamente al frastagliato e composito movimento “antiglobalizzazione” .
Questa diffusa convinzione ha però degli aspetti paradossali: altrettanto diffusa e condivisa è infatti la constatazione che gli Stati nazionali non siano (o non siano più) in grado di affrontare e risolvere la maggior parte dei problemi ambientali, proprio perché inadatti a confrontarsi con il carattere sopranazionale e transnazionale di quei problemi: il formarsi e l’affermarsi di una dimensione globale, sia istituzionale che economica, dovrebbe quindi essere considerato il modo migliore per ottenere una efficace tutela dell’ambiente e quindi non un pericolo, ma una concreta speranza di dare soluzione alle emergenze ambientali globali.
In effetti, a fronte della diffusa convinzione cui si è accennato, molti ritengono che la globalizzazione – e quindi l’integrazione nell’economia e nel commercio mondiale di paesi che sinora ne sono rimasti, per varie ragioni, ai margini – non sia necessariamente un fenomeno dannoso per l’ambiente, e che possa produrre effetti benefici o nocivi a seconda delle scelte politiche in concreto adottate dai governi interessati . Altri ancora ritengono perfino che la globalizzazione ampli le possibilità di tutela dell’ambiente a livello mondiale e in particolare, nei paesi in via di sviluppo. In questo senso, per esempio, si è espressa la dichiarazione contenuta in Agenda 21 adottata alla conferenza delle Nazioni Unite su “ambiente e sviluppo” tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992: “un sistema commerciale aperto e multilaterale rende possibile una migliore allocazione e una più efficiente utilizzazione delle risorse e contribuisce in questo modo ad un aumento della produzione e del reddito, e ad attenuare la pressione sull’ambiente”. In senso analogo si sono pronunciate le più importanti istituzioni politiche e economiche internazionali (proprio per questo ritenute dalle organizzazioni ambientaliste tra i principali responsabili della globalizzazione e quindi del deterioramento dell’ambiente su scala globale) .
Nelle pagine che seguono mi soffermerò sulle analisi e sugli studi di carattere economico, apparsi nell’ultimo decennio, sul tema del rapporto tra globalizzazione e ambiente. Questo significa che oggetto di questo scritto sarà solo una delle molte facce del processo di globalizzazione, e cioè quella che attiene al versante dell’integrazione economica e finanziaria. Non mi occuperò, invece, se non marginalmente, degli studi e delle ricerche che hanno focalizzato la loro attenzione sui cambiamenti provocatisi nello scenario giuridico- istituzionale.
Questa scelta è stata determinata, oltre che da ovvie ragioni di restringere il campo dello studio, dal fatto che proprio l’economia assume, secondo l’opinione dominante, il ruolo trainante del processo di globalizzazione (anche se, secondo un recente scritto, sono poi i profili giuridici e istituzionali quelli che offrono “le novità più travolgenti del processo di globalizzazione”, in quanto l’integrazione economica “coincide con la messa in moto di processi giuridici segnati da una grande complessità” ). È quindi importante conoscere e valutare ciò che gli economisti pensano degli effetti della globalizzazione sull’ambiente.
Ma la scelta è stata anche determinata dal tentativo di offrire un panorama su una disciplina – quella economica – tradizionalmente trascurata nella cultura giuridica italiana.
Ed infatti, non può non apparire sorprendente che, su un tema, quale quello della globalizzazione, ove le interconnessioni tra economia, politica e diritto sono di estrema intensità, gli studi e le conclusioni cui pervengono gli economisti in merito agli effetti sull’ambiente siano largamente ignorati da tutti coloro – giuristi, ma non solo – che si confrontano con questo argomento.
Come si vedrà, la grande maggioranza degli economisti si pronuncia, più o meno recisamente, nel senso che la globalizzazione non danneggi l’ambiente o possa addirittura migliorarlo, proprio nei paesi poveri.
Questo schieramento, quasi compatto, dà certamente ingresso ad alcuni interrogativi.
Infatti, se si ritenga che le analisi offerte dagli studi economici siano affidabili, risulta incomprensibile lo scarso interesse che esse riscuotono presso gli operatori dei diversi settori delle politiche ambientali (tra cui i giuristi): risulta cioè incomprensibile perché giudizi così compattamente motivati dalla scienza economica vengono trascurati o accantonati.
D’altro lato, se si dubita della fondatezza e della imparzialità delle tesi sostenute dagli economisti, appare ancor più necessario un confronto delle varie discipline, in modo da raggiungere risultati che tengano conto di tutte le opinioni e le tesi che si confrontano in questo settore.
Su questi interrogativi cercheremo di offrire qualche considerazione nelle pagine conclusive di questo scritto.

2. IL DATO DI PARTENZA: DISOMOGENEITÀ DELLA TUTELA DELL’AMBIENTE.
È un dato di fatto indiscusso che la tutela e la protezione dell’ambiente dall’inquinamento non sono omogenee a livello mondiale.
L’ambiente è tutelato nei paesi ricchi con maggiore intensità ed efficacia che non nei paesi poveri. Tre sono le ragioni di questa differenza.
I paesi più ricchi si dotano di regole ambientali, e specificatamente di regole per il controllo delle attività inquinanti (qualsiasi esse siano, sia di carattere autoritativo che basate su meccanismi di mercato) più severe.
Inoltre i paesi ricchi, a differenza dei paesi poveri, predispongono i mezzi finanziari e le strutture amministrative e giurisdizionali per dare esecuzione alle regole e per imporne il rispetto.
Infine, nei paesi ricchi l’opinione pubblica pone l’ambiente sano, la protezione delle bellezze naturali e la protezione dall’inquinamento pulito tra i compiti prioritari dell’azione politica; sono quindi presenti movimenti organizzati di opinione che fungono da gruppi di pressione per l’adozione di misure a protezione dell’ambiente ed influenzano spesso in modo vigoroso le scelte politiche.
La tutela dell’ambiente e la rigorosità ed efficacia delle regole ambientali dipendono quindi dal livello di reddito e dal benessere acquisito.
Non bisogna inoltre dimenticare che la maggior parte dei paesi ricchi è divenuta tale – ed ha raggiunto quel livello di benessere che oggi permette di adottare regole ambientali che tutelano l’ambiente – proprio distruggendo sistematicamente prima di tutto il proprio ambiente e poi anche quello dei paesi via via sottoposti al suo controllo politico o economico: per fare un solo esempio, le foreste e la biodiversità oggi ancora esistenti nei paesi equatoriali, tropicali o subtropicali (anche perché in quelle fasce si trova la maggior parte dei paesi poveri), un tempo coprivano l’Europa e il Nordamerica, e sono state distrutte perché non compatibili con le esigenze di crescita e di sviluppo .
Ed è anche per questo che in molti paesi poveri o non ancora sviluppati l’esigenza della tutela dell’ambiente e di porre regole che lo proteggano è considerata meno pressante: quanto più le risorse ambientali abbondano, tanto più esse sono considerate non come un valore da proteggere, ma come un bene da sfruttare. Così viene spesso percepita come ingiusta e sopraffattoria la richiesta rivolta ai paesi non sviluppati di preservare l’ambiente e le risorse naturali perché patrimonio di tutta l’umanità.
È la contraddizione magistralmente colta da Romain Gary in quello che è considerato il primo romanzo ambientalista, Les racines du ciel: Morel, l’ambientalista francese che si propone di proteggere gli elefanti dai cacciatori bianchi, è odiato non solo dai governi coloniali, ma dagli stessi leader africani, che non comprendono perché anche loro non dovrebbero sbarazzarsi di animali che sono il simbolo dell’arretratezza economica, e tenerli solo per far piacere ai paesi bianchi ricchi .
Certo, la difformità nella regolamentazione ambientale a livello globale non può essere spiegata esclusivamente in base alla dialettica paesi ricchi – paesi in via di sviluppo.
Vi sono così paesi che non possono essere collocati dalla parte dei paesi poveri e che, tuttavia, per vari motivi, hanno una scarsa dotazione di regole ambientali o comunque ne impongono assai blandamente il rispetto: si pensi alla Unione sovietica prima e alla Russia ora e a vari altri paesi del Sud-est asiatico. Viceversa, vi sono paesi in via di sviluppo che si sono dotati di normative rigorose e avanzate per la tutela dell’ambiente: un buon esempio è costituito dal Costarica.
Se si passa ad esaminare il continente europeo, è agevole rilevare un rilevante scarto tra paesi membri dell’Unione Europea e altri paesi: i primi infatti sono dotati di regole ambientali più severe della maggior parte dei paesi che non sono membri dell’Unione. Ciò dipende, come diremo, proprio dal fatto che all’interno dell’Unione europea si sono affermati principi di libertà di commercio e di scambio che hanno reso necessaria l’adozione di regole ambientali uniformi e rigorose.
La tutela dell’ambiente non è del tutto uniforme neppure all’interno dell’Unione Europea, né all’interno di altre simili organizzazioni di Stati, come il Nafta (che unisce i tre Stati del Nordamerica) e il Mercosur (di cui fanno parte vari stati dell’America latina) .
Ci sono così paesi dell’Unione europea che recepiscono con ritardo le regole ambientali emanate dall’Unione; ci sono poi paesi che, dopo averle introdotte a livello legislativo, e aver quindi rispettato formalmente i propri obblighi comunitari, ne ritardano, più o meno consapevolmente, l’applicazione o comunque sono sprovvisti (o evitano di provvedersi) di strutture amministrative o giurisdizionali per garantirne il rispetto.
Infine, ci sono consistenti differenze di carattere regionale anche all’interno di singoli paesi che hanno una organizzazione federale, o decentrata. Le differenze possono essere determinate, anche in questo caso, da ritardi nella recezione delle regole, da inefficienze amministrative o burocratiche, ma anche da scelte più o meno consapevoli delle singole autorità statali o regionali, in contrasto o in accordo con il governo centrale .
Il diverso grado di tutela dell’ambiente esistente e la diversa intensità di regolamentazione ambientale dipendono dall’intrecciarsi di molti fattori. Tra questi assumono un ruolo di rilievo il grado di attenzione e di sensibilità ai problemi dell’ambiente e della salute delle collettività e delle autorità di governo; la storia, la cultura e l’identità di ciascun paese e delle collettività che lo compongono; le scelte politiche e di politica economica di carattere generale, collegate ad interessi pubblici in vari settori (turistico, agricolo, industriale, e così via); infine, circostanze occasionali, indirizzi politici di breve periodo, contingenze di carattere locale.

3. TUTELA DELL’AMBIENTE E BENESSERE ECONOMICO.
Per quanto siano molteplici le cause della diversa intensità della tutela dell’ambiente a livello globale, il fattore ricchezza sul quale per primo ci siamo soffermati è però di primaria importanza.
Questo significa che il livello di benessere economico generale raggiunto da un paese influisce in modo consistente sulle condizioni dell’ambiente, sull’esistenza di norme che ne impediscono il deterioramento, e sulla predisposizione di mezzi e di strutture per imporne il rispetto.
Wealthy is healthy, osservava Aaron Wildawsky negli anni Settanta per irridere le rigide posizione ambientalista anti-sviluppo: ciò che occorre per vivere bene in un ambiente sano e pulito è, semplicemente, avere un buon reddito.
Ed è una sintetica versione di quel circolo vizioso che ha posto in evidenza il rapporto Brundlandt: la povertà deteriora l’ambiente, l’ambiente deteriorato produce povertà .
Entrambe le affermazioni sono tutt’altro che slogan provocatori: sono confermate da numerosi studi economici .
Essi osservano che al livello di reddito corrispondono tre tipi di effetti sull’inquinamento .
C’è, prima di tutto, un effetto di scala: un aumento dell’attività economica e produttiva, che è il presupposto dell’aumento del reddito, determina un iniziale aumento dell’inquinamento e quindi un deterioramento dell’ambiente (anche perché tale aumento si verifica in genere nei settori che richiedono manodopera a basso prezzo e risorse naturali da utilizzare senza eccessive limitazioni).
Questo dato è confermato da uno studio che ha cercato di costruire un modello teorico per studiare gli effetti sulle emissioni industriali inquinanti dell’aumento del reddito: all’aumento del reddito è collegato un aumento di emissioni inquinanti, in specie per paesi in via di sviluppo .
Ma con l’aumentare del reddito aumenta gradualmente anche la richiesta di un ambiente pulito: chi vive bene economicamente, vuole vivere in un ambiente sano . Attività produttive inquinanti sono così gradualmente permesse solo se i costi del deterioramento ambientale vengono internalizzati, e posti, in tutto o in parte, a carico dell’impresa produttiva inquinante: è il noto principio chi inquina paga, che costituisce una dei cardini della politica ambientale dell’Unione europea . Ciò produce l’effetto tecnologico, per cui le imprese sono spinte ad adottare processi produttivi meno inquinanti e quindi a ridurre progressivamente la quantità di inquinamento.
Infine, con l’ulteriore aumento del benessere economico, sono preferiti e vengono diffusamente richiesti prodotti ambientalmente compatibili: si verifica allora l’effetto di consumo, che determina una riduzione dell’utilizzazione – e quindi della produzione – di beni inquinanti.
A un certo livello di benessere l’effetto tecnologico e l’effetto di consumo superano, combinati insieme, il primo effetto; a questo punto gli effetti benefici sull’ambiente cominciano progressivamente ad aumentare, con l’aumentare del reddito.
Lo studio più interessante effettuato a conferma di questa tesi è stato condotto in Cina. Qui l’apertura del sistema economico verso il mercato mondiale verificatasi a partire dal 1991 ha immediatamente portato ad una specializzazione nella produzione di beni che potevano essere realizzati con le tecnologie disponibili e offrivano vantaggi competitivi. Si trattava di produzioni ad alto potenziale inquinante che hanno determinato un sensibile degrado ambientale. Ma, non appena il reddito ha cominciato a crescere, le emissioni inquinanti hanno cominciato a diminuire per effetto degli accresciuti controlli e dell’introduzione di nuove più restrittive regole. Ad un certo punto, gli effetti benefici hanno superato gli iniziali effetti dannosi sull’ambiente. Lo stesso studio ha anche effettuato una simulazione teorica, cercando di individuare quali sarebbero stati gli effetti sull’ambiente in mancanza del processo di liberalizzazione economica del 1991. Per la maggior parte delle province cinesi sottoposte all’indagine il risultato è stato che le emissioni inquinanti in rapporto ad unità di prodotto sarebbero cresciute più rapidamente e quindi vi sarebbe stato un maggior degrado ambientale .
In conclusione, è largamente condivisa dagli economisti la conclusione secondo cui all’aumentare dello sviluppo economico e del reddito corrisponde – a partire da un certo punto – una riduzione del tasso di inquinamento.

4. FUGA DAL PARADISO E RACE TO THE BOTTOM: LA GLOBALIZZAZIONE DANNEGGIA L’AMBIENTE?
Sulla base dei due presupposti sui quali ci siamo soffermati (disomogeneità della tutela ambientale e diretto rapporto tra livello di reddito e tutela ambientale), alcuni ritengono che, in una situazione di libertà di commercio e di integrazione economica e finanziaria, il diverso grado di tutela ambientale esistente tra i vari paesi – e in particolare tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo – provochi, come inevitabile effetto, un flusso delle attività produttive inquinanti, dai paesi più ricchi verso i paesi più poveri.
Due sarebbero le cause di questo movimento rigidamente unidirezionale.
Da un lato, l’accrescersi della quantità e della rigorosità delle regole di tutela dell’ambiente nei paesi ricchi: il risultato è la cosiddetta fuga dai paradisi ambientali.
D’altro lato, l’offerta di regole di tutela ambientali meno rigide, e più blandamente applicate, da parte dei paesi più poveri: è la cosiddetta race to the bottom tra i paesi più poveri con l’effetto di creare inferni ambientali sempre più degradati .
Unico è l’obiettivo di questo flusso delle attività produttive inquinanti dal paese ricco al paese povero: la ricerca da parte delle imprese che si dedicano a tali attività di margini di competitività. E proprio la globalizzazione permetterebbe, secondo i sostenitori di questa tesi, di estendere questa ricerca a livello planetario.
La globalizzazione quindi produce – sempre secondo i sostenitori di questa tesi – una polarizzazione ambientale e due fenomeni concatenati: un circolo virtuoso per i paesi ricchi, che avranno paradisi ambientali sempre più tutelati, un circolo vizioso per i paesi poveri che sono destinati a ritrovarsi con inferni ambientali sempre più deteriorati.
Nei paragrafi che seguono vedremo che la maggior parte degli studi economici e di politica economica ritiene che non sussistano né la fuga dai paradisi ambientali, né la gara verso il basso.

5. LA FUGA DAI PARADISI AMBIENTALI: TUTELA DELL’AMBIENTE E COSTI DI PRODUZIONE.
Questa ipotesi prevede che – come si è accennato – regole rigorose per la tutela dell’ambiente introdotte in una normativa statuale riducano la competitività delle imprese sottoposte a quella normativa.
L’effetto è che le imprese che operano in settori inquinanti, con l’estendersi del processo di integrazione economica globale, sono indotte a fuggire dai paradisi ambientali verso aree ove le regole ambientali sono meno rigide, o meno rigidamente applicate: le imprese fuggono per non sopportare i costi e gli investimenti resi necessari per il rispetto della regolamentazione ambientale: adeguamenti tecnologici, modifiche nei processi di produzione o nei prodotti.
Naturalmente, le regole ambientali non sono le uniche ad avere questo effetto: si pensi alle regole che disciplinano il mercato del lavoro prevedendo minimi salariali, o contributi previdenziali e pensionistici a carico dell’impresa, o regole di sicurezza e sanità dei luoghi di lavoro. In termini quantitativi, l’incremento di costo provocato dalle norme che regolano il mercato del lavoro può essere consistente, e comportare rilevanti distorsioni sulla competitività delle imprese: è questa la ragione che ha spinto molte imprese a segmentare e decentrare il proprio ciclo produttivo..
In sostanza, nel mondo globalizzato anche per ciò che riguarda le regole giuridiche gli operatori economici fanno le loro scelte e acquistano l’offerta di regole che reputano più conveniente
Ci sarà quindi una fuga dai paesi ricchi, dotati di rigorosa tutela dell’ambiente, se i costi per l’adeguamento e il rispetto alle regole ambientali non siano sopportabili dalle imprese direttamente destinatarie delle regole, o se comunque i costi superino i vantaggi della collocazione produttiva in un paese ricco.
Vi sono in effetti alcuni economisti che giungono a queste conclusioni .
Tra questi, merita di essere ricordato uno studio che ha esaminato il flusso di investimenti finanziari stranieri in paesi in via di sviluppo da parte di imprese produttrici altamente inquinanti (essenzialmente, le imprese del settore chimico) collocate negli Stati Uniti . Questo studio ha rilevato – non escludendo però l’esistenza di concause – un diretto effetto delle regolamentazioni ambientali sull’entità di trasferimenti finanziari verso paesi poveri. Sia pure per uno specifico settore (l’industria chimica americana), la presenza di regole ambientali rigorose sembra sospingere risorse finanziarie provenienti da imprese che operano nel settore chimico verso i paesi in via di sviluppo, ove vengono poi presumibilmente utilizzate per realizzare quelle produzioni chimiche inquinanti proibite o troppo costose nel paese di provenienza .
Si tratta di uno studio sicuramente significativo. Peraltro, non va dimenticato che il flusso di trasferimenti finanziari verso i paesi poveri (a prescindere dall’esistenza di ragioni ambientali che lo determinino) può avere un complessivo effetto positivo per l’ambiente del paese di destinazione, sia in quanto determina un aumento del reddito e quindi del benessere (cui, come si è detto, la tutela dell’ambiente è strettamente connessa) , sia perché l’insediamento di imprese provenienti dai paesi ricchi può comunque produrre e diffondere una diversa cultura e una diversa sensibilità rispetto al patrimonio ambientale (dovendo poi rendere conto del proprio comportamento e delle proprie scelte agli azionisti e alle organizzazioni ambientaliste in patria).
Un numero assai maggiore di autori propende per l’inesistenza del fenomeno di fuga dai paradisi ambientali (che anzi, secondo alcuni, costituiscono, al contrario, un polo di attrazione).
Questi studi in genere usano dati statistici riguardanti il livello degli investimenti per vari settori di produzione industriali e verificano se gli investimenti in paesi in via di sviluppo sono maggiori per le produzioni particolarmente inquinanti rispetto ad altre produzioni . Non emergendo alcuna significativa differenza nel livello di investimenti essi escludono l’esistenza di un rapporto di causalità tra incremento della regolamentazione ambientale e fuga delle imprese soggette alla regolamentazione, con conseguente spinta alla delocalizzazione verso i paesi in via di sviluppo .
La giustificazione generalmente addotta è che i costi necessari per adeguare il processo produttivo a regole ambientali restrittive è per la maggior parte dei settori produttivi contenuto: è stato stimato che – salvo che per talune produzioni particolarmente inquinanti, concentrate soprattutto nel settore chimico – essi non superino il 2-3% del prezzo finale . Sotto questo aspetto, le regole ambientali sono assai diverse da quelle che governano il mercato del lavoro, la cui incidenza sul costo del prodotto è elevata ed ha effettivamente determinato operazioni di decentramento della produzione dei componenti del prodotto labour-intensive verso paesi – per lo più in via di sviluppo – che offrono manodopera a basso costo .
La maggior parte delle numerose indagini economiche compiute nel corso degli anni Novanta concorda nel senso che i costi indotti dalla tutela ambientale sono assai meno rilevanti di quanto viene comunemente ritenuto e sono ampiamente bilanciati dai vantaggi che le imprese ottengono in termini di maggior competitività per la tecnologia che sono spinte a sviluppare. Essi non sono quindi tali da indurre – di per sé soli – le imprese che operano in settori inquinanti a preferire la dislocazione della propria attività produttiva , rinunciando così anche a tutti gli aspetti positivi che i paesi ricchi offrono in termini di incentivi, di finanziamenti, di assistenza tecnologica e di relazioni politiche e commerciali.
Una conferma significativa di questa conclusione è offerta proprio dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, ove le differenze, spesso consistenti, di regolamentazione ambientale tra i vari stati non hanno determinato di per sé sole spostamenti significativi delle attività produttive all’interno dell’Unione (determinati invece da benefici di carattere fiscale o di legislazione societaria) .
Più in generale, è stato osservato che la presenza di regole ambientali rigorose può provocare vari tipi di vantaggio competitivo per le imprese sottoposte a quelle regole .
Infatti la presenza della regolamentazione ambientale spinge le imprese verso una differenziazione qualitativa dei prodotti, e permette – anche limitatamente al mercato interno – la costituzione di nicchie ad alto valore aggiunto per le imprese che intendono realizzare prodotti ambientalmente compatibili, per i quali possono essere ottenuti prezzi più elevati.
Anche sul mercato internazionale regole ambientali rigorose possono determinare effetti positivi in termini di competitività. Infatti per adeguarsi alla normativa ambientale le imprese sono costrette a sviluppare processi tecnologicamente innovativi. Gli investimenti di capitale necessari non comportano una riduzione della posizione di mercato interno occupata (tutte le imprese del paese sono assoggettate agli stessi costi di adeguamento alle nuove più rigorose regole ambientali) e per converso nel lungo periodo possono ridurre i costi operativi e permettere di guadagnare una posizione privilegiata nel mercato internazionale, per effetto della avanzata tecnologia utilizzata .
Ma soprattutto la presenza di regole ambientali più rigorose può costituire una efficace barriera a tutela delle imprese nazionali, in quanto impedisce l’importazione di tecnologie o prodotti non compatibili con la normativa nazionale esistente. La fissazione di standard ambientali elevati per evitare l’inquinamento costituisce così un lecito strumento – anche in presenza di accordi di libero commercio e siano quindi vietate tariffe doganali o misure equivalenti – per escludere da un determinato mercato imprese concorrenti che, operando dove le regole sono meno rigorose, non possiedono il know-how tecnologico che le mette in grado di rispettare gli standard. Si tratta del cosiddetto effetto California, così chiamato perché in presenza di un mercato interno comune, ma assoggettato a regole ambientali differenti, quale è il mercato degli Stati Uniti, ove ciascuno stato può porre regole ambientali più restrittive, è stata proprio la California, introducendo regole più restrittive ha indotto gli altri Stati ad adeguarsi elevando i propri standard ambientali, in modo da non escludere le proprie imprese dalla possibilità di esportare verso lo stato californiano .
La regolamentazione ambientale può così costituire non la causa dell’esodo delle imprese verso i paesi in via di sviluppo, ma una muraglia protettiva che – come le antiche mura medioevali – in una situazione di liberalizzazione dei mercati proteggono i paradisi ambientali e coloro che hanno la fortuna di viverci dall’accesso e dalla competizione di attività o produzioni estranee.
L’incremento della quantità e della rigorosità della regolamentazione ambientale può quindi indurre l’adozione di processi innovativi per ottenere tecnologie o prodotti ambientalmente più puliti, e può instaurare un circolo virtuoso per la protezione dell’ambiente e per l’aumento della competitività internazionale sul mercato.

6. RACE TO THE BOTTOM, REGOLE AMBIENTALI E COMPETITIVITÀ NEL MONDO GLOBALIZZATO.
Le conclusioni appena raggiunte non escludono però che la differenza di tutela e di regole ambientali possa determinare il verificarsi di un altro effetto pernicioso per l’ambiente.
Se, come abbiamo visto, regole ambientali più rigorose possono offrire vantaggi in termini di competitività e di costruzione di barriere legali (sostitutive delle tariffe o dei dazi doganali) all’importazione, può accadere, per converso, che una regolamentazione ambientale meno rigorosa, o non seriamente applicata, possa determinare vantaggi competitivi per le imprese che operano in settori inquinanti, rispetto alle analoghe imprese che operano in paesi ove le regole sono più rigorose o vengono seriamente applicate, ed incoraggiare i governi di molti paesi a lanciarsi in una race to the bottom.
Molti quindi ritengono che in un ambiente globalizzato la deregolamentazione ambientale (o, più spesso, la non fissazione di regole o la non applicazione delle regole esistenti) possa essere rivolta a attrarre investimenti e attività industriali in settori inquinanti provenienti dai paesi ove sono in vigore regolamentazioni ambientali più severe .
In proposito, è significativo che molte unioni economiche e commerciali incoraggino la deregolamentazione ambientale in altri paesi.
Per esempio, il principio vigente nell’Unione Europea secondo il quale deve considerarsi ad ogni effetto merce comunitaria un bene che incorpori almeno il 50% di componenti realizzate in uno Stato dell’Unione, spinge le imprese dell’Unione europea al decentramento segmentato delle fasi produttive o dei componenti del prodotto considerato: gli effetti distorsivi delle differenti regole ambientali vengono quindi “sommersi” dall’etichetta finale di prodotto comunitario, conseguita sol che si rispetti la quota fissata del 50%.
Anche in questo caso, regole ambientali e regole che disciplinano il mercato del lavoro operano in modo assai similare: così, le componenti ad altra intensità di manodopera, o ad alta intensità di inquinamento vengono spostate in paesi extracomunitari – è il caso, per ciò che riguarda l’Italia, della concia o della lavorazione di base delle pelli in Romania o in Bulgaria, delle tomaie delle scarpe o di componenti che richiedono processi produttivi inquinanti in Albania – rispettando naturalmente i limiti posti dall’Unione affinché il prodotto sia considerato comunitario.
È per questo che i critici del processo di globalizzazione evidenziano che la race to the bottom prodotta dalle diverse regolamentazioni ambientali colpisce, nel commercio globalizzato, i paesi più poveri: la deregolamentazione ambientale costituirebbe uno dei pochi strumenti a disposizione dei paesi non sviluppati per ritagliarsi una nicchia di partecipazione nell’economia globalizzata, offrendo degli “inferni ambientali” come polo di attrazione delle attività produttive inquinanti; e specialmente le imprese multinazionali che già operano in diversi paesi traggono benefici economici nel riorganizzare la produzione dislocando le attività inquinanti in paesi ove queste sono tollerate .
Questa tesi è stata sottoposta, nel corso degli ultimi dieci anni, a vigorose critiche .
Di particolare interesse sono quelle fondate su indagini sul campo condotte in paesi dove sono in corso processi di liberalizzazione dei mercati.
È stato così osservato che, anche se la liberalizzazione del commercio spinge inizialmente i paesi in via di sviluppo verso produzioni più inquinanti, non appena all’effetto di scala si sovrappongono l’effetto tecnologico e l’effetto consumo, vengono utilizzate tecnologie più pulite e prodotti più compatibili con l’ambiente e il commercio globalizzato comincia a produrre decisi benefici favorendo l’introduzione di regole ambientali e una loro efficiente applicazione : e i benefici sono tanto più consistenti e rapidi, quanto più accelerato è il processo di liberalizzazione del commercio.
In effetti, la teoria economica insegna che ciascun paese tende a specializzarsi nell’esportazione di beni per la cui produzione sono utilizzati in misura comparativamente maggiore quei fattori della produzione (lavoro, capitale, risorse, know-how, ecc.) di cui il paese può disporre in abbondanza .
Se si considera che anche l’ambiente in tutte le sue componenti (terra, foreste, acqua, risorse non rinnovabili o rinnovabili, ecc.) può essere considerato non come un bene o un valore, ma come un fattore della produzione di beni, un paese con una comparativa abbondanza di risorse ambientali e quindi con maggiore capacità di assorbire danni, rifiuti o deterioramento tenderà a specializzarsi nella produzione di beni che richiedono un uso comparativamente più intensivo di questo fattore. Naturalmente, l’abbondanza del fattore ambiente o delle sue componenti è costituita non solo dal puro aspetto naturale, ma anche dalla capacità di quel paese di regolarne l’uso e il consumo e di evitarne lo spreco. Di conseguenza, in una situazione di liberalizzazione degli scambi commerciali, un paese può raggiungere un determinato livello di benessere economico sfruttando le proprie risorse, ivi incluse le risorse ambientali, in minor misura di quanto dovrebbe fare in una situazione in cui lo stesso livello di benessere debba essere raggiunto ricorrendo esclusivamente a risorse interne: viene così evitato un maggior uso di risorse interne relativamente scarse, e nello stesso tempo viene ridotto lo spreco o il deterioramento delle risorse ambientali disponibili .
Sotto quest’ultimo profilo, molti sostengono che la attuale situazione di degrado ambientale dei paesi in via di sviluppo è il frutto non della globalizzazione, ma della mancanza di globalizzazione: essa può portare ad effetti esattamente contrari a quelli temuti dai sostenitori della race to the bottom, e cioè all’adozione di regole ambientali più rigorose e ad una loro più efficiente applicazione .
A sostegno dei benefici della globalizzazione molti autori hanno avanzato l’ipotesi nota come pollution halo, consistente nel ritenere che le imprese di paesi ricchi che svolgono attività produttive inquinanti, allorché si trasferiscono in paesi in via di sviluppo, utilizzano processi produttivi, tecnologie, management, e soprattutto un atteggiamento culturale e di relazioni con l’esterno analogo a quello utilizzato nel paese di provenienza, e quindi comunque attento alle esigenze ambientali, in questo modo divenendo veicoli e modelli di comportamento che possono influenzare favorevolmente la realtà locale . Sono stati studiati molti casi di questo tipo anche se i risultati non sono univoci. Vi sono infatti anche molti studi, condotti soprattutto nelle economie asiatiche emergenti, che hanno concluso che la provenienza estera degli investimenti o comunque legami con società collocate in paesi ricchi non influenzano in modo significativo le performances ambientali delle imprese . Altre indagini ancora hanno posto in evidenza che, in mancanza di regolamentazione ambientale o di strumenti che impongono il rispetto delle regole ambientali esistenti, le imprese straniere collocate in paesi in via di sviluppo tendono a sfruttare questa opportunità, agevolate anche dal fatto che nella maggior parte dei casi l’opinione pubblica o le popolazioni locali non sono in grado di protestare o perché non ne hanno i mezzi, o perché le autorità politiche non tollerano contestazioni .
Peraltro, uno studio specificatamente condotto sul comportamento tenuto nei paesi in via di sviluppo da 89 multinazionali operanti in settori particolarmente inquinanti con sede negli Stati Uniti ha evidenziato che il 60% di esse applica ovunque le regole ambientali più restrittive stabilite al proprio interno, derivate dalle regole vigenti nei paesi dell’OECD, mentre solo il 30% si limita a rispettare le regole ambientali vigenti localmente, approfittando quindi delle condizioni più favorevoli .
Anche la tesi secondo la quale le imprese straniere dislocate nei paesi in via di sviluppo sarebbero agevolate dal fatto che l’opinione pubblica e le associazioni ambientaliste non sono in grado di opporsi appare troppo radicale. Uno studio condotto nel 1995 indica che il 30% delle imprese collocate in paesi stranieri avevano ricevuto proteste o sperimentato pressioni da parte di movimenti ambientalisti o associazioni di cittadini e soprattutto da comunità locali o da organizzazioni religiose, e nella maggior parte dei casi avevano introdotto modifiche a tutela dell’ambiente, anche per evitare i costi di un protratto conflitto con le collettività vicine e danni alla propria immagine e alla propria reputazione nel paese di provenienza .
In definitiva, si può affermare che la tesi della race to the bottom non è confermata dagli studi economici né a livello empirico né a livello teorico. Inoltre, come già si è osservato, è assai improbabile che un’impresa installi le proprie attività in un paese tenendo conto soltanto degli aspetti riguardanti il controllo dell’ambiente.
I vantaggi e gli svantaggi che ciascun paese offre per l’installazione di una attività produttiva e per ridurre i costi di produzione, aumentandone quindi la competitività sul mercato globale sono infatti tanti e di tipo diverso: possono riguardare il sistema creditizio e finanziario, il funzionamento del sistema giudiziario (che richiederebbe un discorso a parte: infatti, per diverse ragioni, con riferimento a questo elemento, possono fungere da elemento di attrazione sia la disfunzionalità e la corruttibilità dei giudici, sia la rapidità e l’efficienza), la trasparenza del sistema amministrativo, l’organizzazione del mercato del lavoro e il costo del lavoro, il livello di sviluppo tecnologico e delle comunicazioni, la generale stabilità economica e politica, ed anche la regolamentazione ambientale per il controllo dell’inquinamento.
Ciascuno di questi elementi può funzionare in modo da attrarre o respingere investimenti e iniziative economiche di altri paesi.

7. LA GLOBALIZZAZIONE NON DANNEGGIA L’AMBIENTE? I LIMITI DELLE INDAGINI ECONOMICHE.
Se si presta fede alle conclusioni raggiunte dagli economisti, sembra di poter concludere che l’ostilità delle organizzazioni ambientaliste e, più in generale, dell’opinione pubblica che simpatizza per queste ultime verso il processo di globalizzazione non abbia concreto fondamento.
Secondo la maggior parte degli studi economici disponibili non risultano infatti ragionevoli né il timore di una fuga dai paradisi ambientali verso i paesi in via di sviluppo (anzi: le regole ambientali avrebbero l’effetto non di scacciare le imprese inquinanti dai paesi ricchi, ma di impedire l’accesso alle imprese dei paesi poveri) né, per converso, il pericolo di una costrizione di questi ultimi ad abbattere la tutela dell’ambiente esistente, per effetto dell’estendersi del processo di globalizzazione.
Eppure queste conclusioni non lasciano completamente interamente soddisfatti.
Pare difficile convincersi che il processo di integrazione economica e finanziaria a livello globale attualmente in corso non abbia responsabilità in merito alla realtà che abbiamo di fronte, alle disperate condizioni in cui versano la maggior parte dei paesi in via di sviluppo, all’accrescersi delle condizioni di povertà , all’estendersi del potere economico delle società multinazionali e quindi, per quanto si è detto, di progressivo degrado ambientale e di depauperamento delle risorse naturali.
In effetti, vi sono molti aspetti che gettano ombre sulle conclusioni cui gli studi economici pervengono, e rendono legittimi molti dubbi sull’attuale svolgersi del processo di globalizzazione.
Vediamone alcuni.
Un primo aspetto, che tutte le indagini esaminate non sembrano prendere in considerazione, è costituito dalla possibilità che l’innalzarsi del reddito conseguente all’integrazione economica e commerciale non porti in concreto a quei risultati positivi che in teoria dovrebbero verificarsi e che in pratica si sono in molti casi verificati.
Si è visto che, dopo un periodo iniziale di sviluppo, il risultato finale, costituito dal sommarsi dell’effetto tecnologico e dell’effetto di consumo all’effetto di scala, che invece porta ad aumentare il degrado ambientale, produce effetti favorevoli sull’ambiente.
L’ipotesi sottostante è che lo sviluppo economico sia un processo continuo che inevitabilmente conduce, attraverso le tappe indicate, alla meta.
Ma la realtà mette in mostra sotto questo profilo situazioni assai diversificate.
Vi sono molti paesi in via di sviluppo che tentano di porsi sulla strada dell’industrializzazione o sono costretti a farlo, e avviano attività produttive in settori che si presentano competitivi sul mercato internazionale (che sono invariabilmente quelli a maggior intensità di inquinamento), e poi rimangono a questo primo livello. Essi quindi per svariate ragioni (tra le quali va segnalata la necessità di pagare i pregressi debiti con l’estero, la presenza di classi politiche corrotte, le opere faraoniche inutilmente realizzate, gli armamenti e le guerre inutili e così via) non giungono a godere dell’effetto tecnologico e dell’effetto di consumo, né quindi, a maggior ragione, della somma di effetti che determina il prodursi degli effetti benefici sull’ambiente.
Sono attualmente numerosi i paesi in via di sviluppo che si trovano in questa condizione, e che vi rimarranno per molto tempo ancora, prima di raggiungere il risultato finale della somma dei tre effetti, e quindi di effetti favorevoli sull’ambiente.
Questi paesi si troveranno in una situazione di continuo e irrimediabile aumento del livello di degrado (indotto dall’effetto di scala) prima che il tasso di crescita dell’inquinamento sia limitato o contenuto dal verificarsi degli altri effetti.
Più in generale se anche è vero che la globalizzazione non ha determinato una race to the bottom e la creazione di inferni ambientali nei paesi in via di sviluppo, è certo che – quantomeno – non ha neppure favorito una race to the top, e quindi un miglioramento delle condizioni ambientali di paesi che, per le condizioni di povertà in cui si trovano, sono già da decenni costretti a subire condizioni di progressivo degrado dell’ambiente. Poiché, al contrario, i paradisi ambientali divengono sempre più immacolati, il distacco dei paesi poveri si accresce progressivamente.
Parimenti, la globalizzazione, se non ha favorito la fuga verso inferni ambientali, ha certamente creato vaste zone del mondo nelle quali, senza alcun controllo, si sviluppa tutto ciò che non è accettato o tollerato nei paesi sviluppati: quindi, non solo produzioni che richiedono lavoro a basso costo, ma anche produzioni sgradite perché inquinanti nei paesi ricchi .
Vi è poi un secondo aspetto, ed è costituito proprio da quell’aspetto di carattere politico, sociale e istituzionale della globalizzazione, su cui non ci siamo soffermati, e al quale la maggior parte delle indagini e gli studi economici non sembrano attribuire la dovuta importanza.
Pur mancando serie e documentate ricerche comparative, le vicende del secolo appena trascorso dimostrano che c’è una forte correlazione tra assenza di democrazia (in tutte le sue varianti) e di strutture di partecipazione, mancanza di libertà civile ed economica, mancanza di un clima normativo ed economico prevedibile e deterioramento dell’ambiente.
La protezione dei diritti umani e della proprietà, il rispetto della legge, la lotta all’inflazione e alla corruzione , offrono non solo una via d’uscita dalla povertà e le premesse per innalzare il livello di reddito, ma anche la possibilità di frenare la distruzione dell’ambiente e di controllarne il deterioramento.
Dove i diritti umani, civili e i rapporti di proprietà (non necessariamente individuale) sono regolamentati, dove la legge è fatta rispettare, dove governi democraticamente eletti si propongono di evitare corruzione e inflazione e la dilapidazione delle risorse pubbliche in spese inutili, dove la partecipazione della collettività dei cittadini è consentita e i diritti delle donne sono rispettati, dove il sistema giudiziario è davvero indipendente, lì ci sono le maggiori probabilità di un innalzamento delle condizioni economiche di vita, e quindi di miglior educazione e di maggiore istruzione e di sviluppo di una opinione pubblica libera e attenta anche alle esigenze della tutela dell’ambiente protetto da regole che controllano i fenomeni di inquinamento.
Da ciò segue che l”impatto economico della globalizzazione, che potrebbe essere teoricamente positivo, può essere vanificato, o addirittura reso negativo sia dalle carenze degli aspetti giuridici e istituzionali a livello internazionale sia dalle incontrollate modalità con le quali i governanti e il ceto politico gestiscono l’integrazione economica e finanziaria (soprattutto per ciò che attiene alle politiche di redistribuzione dei redditi e di investimenti infrastrutturali).
In mancanza di un quadro internazionale che favorisca e promuova il verificarsi degli effetti positivi dello sviluppo economico e commerciale, per i paesi poveri la globalizzazione sembra destinata ad assommare effetti nocivi alle condizioni ambientali esistenti, già deteriorate dalla povertà e dai saccheggi del passato.
Un esempio illuminante in questo senso è offerto dall’Unione Europea.
Il Trattato istitutivo della Comunità Economica europea del 1957 non conteneva, come è noto, alcuna disposizione in materia ambientale: gli obiettivi comunitari erano puramente economici e commerciali.
Gli Stati membri dotati di regolamentazione ambientale meno rigorosa hanno così avuto ampi margini di manovra nello sviluppare attività economiche competitive con quelle di altri paesi proprio nei settori di maggior rilievo ambientale: l’adozione o il mantenimento di regole meno rigorose di quelle degli altri paesi membri, o il ritardato recepimento delle regole previste dall’Unione europea, hanno costituito non disfunzioni, ma pianificati strumenti per trarre profitto nei rapporti economici integrati, a scapito dei paesi membri con regole ambientali più rigorose o più rigorosamente rispettate. Allorché ci si è resi conto del fenomeno e degli effetti distorsivi provocati dalle differenti regole ambientali nell’ambito di una unione economica di libero scambio, si è affermata l’esigenza di estendere standard ambientali comuni ai vari paesi della Comunità, e di farli rispettare. Così, tra i primi anni del 1970 e il 1987, data in cui viene adottato l’Atto Unico Europeo e l’ambiente entra ufficialmente a far parte delle materie oggetto di disciplina comunitaria, l’ambiente si afferma di fatto come materia di intervento comunitario: vengono infatti emanate oltre 100 direttive e normative di carattere ambientale . La ragione è, certamente, la presa di coscienza in Europa dei problemi ambientali, l’affermarsi delle organizzazioni ambientaliste e l’impatto offerto dalla prima conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente (Stoccolma 1972); ma è anche l’esigenza di impedire il radicarsi di scorrette forme di competizione, utilizzando i diversi livelli di tutela ambientale disponibili dalle imprese nei vari sistemi produttivi statali.
Successivamente, l’Atto Unico del 1986 (entrato in vigore il 1\7\1987) ha posto l’ambiente tra gli obbiettivi della politica comunitaria incorporando nel Trattato un nuovo titolo VII espressamente dedicato all’ambiente (art.130 R, 130 S e 130 T). Il Trattato dell’Unione europea del 7\2\1992 precisa infine che la Commissione assumerà come base un elevato livello di protezione ambientale. Oggi nell’Unione europea è almeno in linea di principio precluso ad uno Stato di mantenere un basso livello di controllo dell’ambiente e dell’inquinamento, in modo da permettere al proprio sistema produttivo di affrontare costi inferiori e guadagnare maggior competitività a danno di Stati ambientalmente più attenti.
Dell’esperienza europea hanno fatto tesoro i paesi nordamericani allorché hanno predisposto il trattato NAFTA e i paesi sudamericani allorché hanno messo a punto il MERCOSUR.
Per ciò che riguarda il NAFTA, proprio per evitare gli effetti distorsivi provocati dalla diversa regolamentazione ambientale esistenti in Canada, Stati Uniti e Messico, la questione degli effetti delle regole ambientali sulla competitività è stata oggetto di lunghe e estenuanti trattative, e sono state anche previste apposite procedure per evitare il verificarsi di vantaggi competitivi derivanti da deregolamentazione ambientale . –
Analogamente, a partire dagli anni Novanta anche i paesi del Mercosur hanno calato all’interno della loro unione commerciale il principio della armonizzazione delle normative di tutela dell’ambiente e di protezione dall’inquinamento .
La lezione che queste esperienze insegnano è quindi che l’integrazione economica e finanziaria può produrre – come si è visto – effetti benefici sull’ambiente, ma richiede l’adozione di regole ambientali uniformi e un sistema istituzionale in grado di garantirne il rispetto .
Queste conclusioni trovano del resto conferma nella recente storia dei rapporti internazionali.
Negli ultimi venti anni, in sintonia con il tumultuoso intensificarsi del processo di integrazione economica e commerciale a livello globale, si è assistito all’emergere di una global governance, di un ordine pubblico globale, che sfugge al dominio e al controllo degli Stati .
Esso è in parte rivolto a porre le basi giuridiche per lo sviluppo del processo di integrazione economica, e ne è quindi il sostegno; ma per altri versi è rivolto a tenere sotto controllo questo processo, a stabilirne le regole e i limiti. Come osserva Cassese, “globalizzazione e “global governance” vanno intesi come fenomeni diversi e persino contrapposti, pur se vanno nella stessa direzione, di sottrarre una parte del diritto al suo abituale sovrano, lo Stato” .
Il crescere e l’affermarsi dell’ordine pubblico globale è stato contraddistinto – per ciò che specificatamente riguarda il settore dell’ambiente – da un consistente aumento di accordi internazionali: sono stati stipulati oltre duecento accordi multilaterali (cioè tra più di due paesi), e oltre un migliaio di accordi a livello regionale, bilaterale o locale. Il processo di globalizzazione quindi ha sollecitato e in molti casi, come è accaduto per la vicenda dell’Unione europea, imposto una intensa attività di regolamentazione ambientale a diversi livelli .
Proprio a seguito di questa attività di individuazione di cornici istituzionali a livello internazionale negli anni novanta si sono affermati concetti del tutto nuovi, come quello di “preoccupazione comune” degli stati, fino a raggiungere la formulazione definitiva di “responsabilità condivisa ma diversificata” per la conservazione dell’ambiente, in considerazione del diverso impatto che i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo hanno sull’attuale degrado ambientale .
Certamente, questa esplosione di regolamentazione sovranazionale in materia ambientale è avvenuta come del resto tutta la crescita dell’ordine pubblico globale – in modo disorganico e confuso. Si è dimostrato, in particolare, estremamente difficile garantire una cooperazione efficace e affidabile per la applicazione degli accordi: come sempre nel caso di un’azione collettiva dove non esistano efficaci meccanismi per garantire il rispetto degli accordi, ognuno tende a rispettare le regole favorevoli e ad ignorare quelle sgradite, e tende, se possibile, ad adottare tecniche da free-rider, mentre altri rispettano gli accordi .

8. CONCLUSIONI.
Questa rassegna pone in evidenza che il timore degli ambientalisti nei confronti della globalizzazione non trova fondamento negli studi e dalle analisi economiche. Questi ultimi, al contrario, evidenziano che l’integrazione economica può determinare benefici all’ambiente sospingendo i paesi in via di sviluppo verso l’adozione di regole per la tutela delle risorse naturali e per la protezione dall’inquinamento. Secondo gli autori di questi studi, quindi, sono proprio gli ambientalisti e coloro che avversano il processo di globalizzazione che possono contribuire a provocare nel lungo periodo i danni ambientali che si propongono di evitare.
Ma questa rassegna indica che anche le certezze degli economisti sui benefici indotti dal processo di integrazione economica e finanziaria non sono prive di ombre e contraddizioni. In molti casi esse riposano su indagini condotte su episodi specifici: sono casi indubbiamente significativi, ma dimostrano soltanto che la globalizzazione può avere benefici effetti sull’ambiente. In altri casi sono costruite su modelli teorici che non tengono conto sia delle molteplici variabili di carattere generale e locale, ed anche di carattere culturale, sociale, storico, che interagiscono con il meccanismo puramente economico, sia delle molteplici forme i intensità – anche sotto il profilo della reversibilità – che può caratterizzare il degrado dell’ambiente.
Un fenomeno di integrazione finanziaria ed economica su scala globale di colossale portata, quale è quello sviluppatosi negli ultimi decenni, ha certamente enormi potenzialità per ciò che riguarda il miglioramento delle condizioni dell’ambiente su scala globale; esso però non esclude la possibilità di danni irreversibili all’ambiente dei paesi in via di sviluppo, se sia affidato al mero operare delle forze del mercato, o sia rimesso alle scelte di multinazionali che ricercano il loro profitto, o alle decisioni di strutture statali e di governi deboli, fragili e spesso corruttibili.
Ciò che oggi ancora manca, anche se nella comunità e nell’organizzazione internazionale è possibile intravedere le tracce della sua formazione, è un progetto politico ed istituzionale globale che ponga le regole e i limiti di questo fenomeno, valorizzandone gli aspetti positivi ed evitandone quelli negativi.