La responsabilità per danno ambientale nel dibattito internazionale

1. Introduzione
Questo contributo prende in considerazione il dibattito in materia di danno ambientale presente nella pubblicistica non giuridica: quindi contributi, studi e interventi di esperti di ambiente, di economisti, di studiosi dei vari settori coinvolti in problemi di danno e responsabilità ambientale.
È infatti questo il retroterra sul quale si formano aggregazioni, convinzioni, tendenze, orientamenti nell’opinione pubblica mondiale attenta ai problemi ambientali, che fungono poi da impulso per gli interventi a livello politico e normativo, e quindi per quella fase sulla quale i giuristi cominciano ad intervenire. Le questioni di responsabilità e di danno ambientale sui quali i giuristi cominciano a riflettere sono quindi assai spesso il frutto di un lungo processo elaborativo che si compie in altre sedi.

2. Il dibattito internazionale e l’ambiente.
Una prima osservazione è che il dibattito internazionale sul danno ambientale assume caratteristiche peculiari.
Un solo esempio è sufficiente.
La questione di danno e di responsabilità ambientale certamente di maggior rilievo degli ultimi mesi è costituita dalla regolamentazione dei cosiddetti POP (Persistent Organic Pollutants).
Dopo tre anni di trattative, il 21 maggio è stato sottoscritto a Stoccolma il c.d. Trattato POPs, sui prodotti chimici nocivi per la salute e per l’ambiente .
Il Trattato costituisce una prima, importante tappa per affrontare le complesse questioni poste dall’uso e dalla diffusione nell’ambiente di migliaia composti chimici potenzialmente dannosi, dei cui effetti poco o nulla si conosce solo perché non sono mai state condotte le necessarie indagini. Esso infatti ha cominciato con l’individuare 12 POPs la cui produzione dovrà cessare definitivamente entro termini variabili, a partire dai primi nove della lista.
Il Trattato prevede anche una applicazione assai innovativa del principio di precauzione (oggetto di un intensissimo dibattito, e frutto di una delicata mediazione tra contrapposte esigenze), combinandolo con un principio di documentazione scientifica del rischio: è stato così stabilito che gli interventi a tutela della salute e dell’ambiente volti a limitare o bandire determinate sostanze non possono avere luogo solo perché si ignori se esse abbiano effetti dannosi; tuttavia possono avere luogo allorché l’impatto del POP non è pienamente noto, purché vi siano sufficienti informazioni idonee a sollevare legittima preoccupazione .
Ebbene, tutta la vicenda che ha condotto alla firma del Trattato, e, più in generale, il tema del danno da prodotti chimici tossici e le relative responsabilità a livello di Stati e di produttori, sono state complessivamente ignorate nel dibattito internazionale, sulla stampa e nell’opinione pubblica (in particolare italiana).
La mancanza di attenzione produrrà naturalmente conseguenze assai gravi per ciò che riguarda la concreta applicazione del Trattato, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo (PVS) ove i controlli interni sono più scarsi.
È invece molto intenso il dibattito sui pericoli ambientali, cioè su eventi futuri e incerti che potrebbero produrre danni ambientali.
Due sono i temi al centro dell’attenzione: gli organismi geneticamente ricombinati e il cambiamento climatico.
Entrambi provocano situazioni di rischio (intendendo con ciò il versante soggettivo del pericolo) assai incerto per ciò che riguarda la consistenza e assai lontani nel tempo per ciò che riguarda il possibile verificarsi.
Tutti e due, inoltre, sono basati su dati e elementi scientifici su cui non vi è accordo nella comunità scientifica.
Per ciò che riguarda il cambiamento climatico, mentre è ormai assodato l’effetto di varie sostanze sul riscaldamento del pianeta (si veda in particolare lo studio Hansen condotto dalla NASA ), varia in modo consistente a seconda degli studi condotti l’entità di questo effetto. Secondo l’autorità internazionale preposta alla materia, il Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), gli effetti del cambiamento climatico fra un centinaio di anni saranno tra un minimo, poco preoccupante, di 1.4°C e un massimo, catastrofico, di 5.8°C .
Per ciò che riguarda l’uso di Gmo non viene offerta alcuna dimostrazione concreta di un pericolo effettivo; l’opposizione giustificata solo dalla mancanza di prova dell’inesistenza di un pericolo situazioni di danno effettivo potrebbero verificarsi in un non prevedibile futuro .
In entrambi i casi, e soprattutto per i Gmo, vi è quindi un largo uso del principio di precauzione, in termini tra l’altro del tutto diversi da quelli utilizzati per la messa al bando di prodotti chimici tossici.
In conclusione, assumendo come specchio della realtà l’attuale dibattito internazionale dovremmo avere qualche preoccupazione per il futuro (e per le condizioni dell’ambiente che lasceremo alle generazioni prossime), ma nel contempo dovremmo restare ottimisticamente tranquilli per la situazione ambientale presente.
Naturalmente, le cose non stanno così.
In realtà, procedendo nell’indagine sui temi affrontati nel dibattito internazionale, si scopre che tutte le ipotesi riconducibili al danno ambientale sono state incluse ed assorbite in una vasto tema – che è al centro del dibattito internazionale – ed è la globalizzazione.
Ed infatti, è assai dibattuto proprio il tema del rapporto tra globalizzazione e ambiente.
Come è noto, vi sono opinioni del tutto contrapposte al riguardo.
Da un lato stanno coloro che ritengono che la globalizzazione comporti degrado ambientale, soprattutto nei PVS. D’altro lato, stanno coloro che ritengono che essa produca effetti benefici proprio nei PVS, per effetto della loro immissione nel circuito economico e finanziario internazionale.
Ed è proprio su questo argomento – al centro, come detto, del dibattito internazionale – che voglio soffermarmi, considerando prima l’aspetto politico istituzionale della globalizzazione, poi quello economico.

3. La globalizzazione politica e l’ambiente
Da un punto di vista politico e di assetto delle relazioni internazionali, la globalizzazione è un fenomeno di consistenti dimensioni e viene solitamente collegata alla disgregazione dell’organizzazione internazionale basata esclusivamente sugli Stati.
All’inizio del ventesimo secolo, sulla scena mondiale c’erano soltanto stati-nazione che si dividevano il mondo intero, con una sovranità interna assoluta e (almeno formalmente) con pari poteri legali (è l’assetto politico che viene ormai comunemente chiamato westfaliano, sorto con la pce di Westfalia nel 1648, e durato per oltre due secoli).
Nella seconda parte del ventesimo secolo, questo processo non soltanto si è interrotto, ma si è rovesciato: gli organismi legali nel mondo sono in crescita per numero e genere .
L’incremento strettamente quantitativo è sorprendente: la carta del mondo conteneva 62 stati nel 1914 (25 nell’Europa secondo la definizione di allora), 74 nel 1946, e più di 200 oggi.
Da un punto di vista qualitativo , oggi abbiamo numerosi nuovi organismi presenti sulla scena internazionale: federazioni di stati, unioni di stati, trattati di cooperazione, organizzazioni politiche (G-7, NAFTA), organizzazioni finanziarie ed economiche (Banca Mondiale, Fondo Monetario internazionale), organizzazioni militari, e corti internazionali con poteri crescenti, che erodono la tradizionale, onnicomprensiva sovranità dello stato.
Abbiamo inoltre organizzazioni non governative internazionali . Tra queste, chiese e organizzazioni religiose, organizzazioni in favore dei diritti umani e organizzazioni sanitarie, organizzazioni ambientaliste
In conclusione, la sovranità oggi è intrinsecamente diversa da come era nel passato recente . È stato detto che “la sovranità, il potere di una nazione di impedire ad altri di interferire nei suoi affari interni,, si va rapidamente erodendo . O, in altri termini, “agli stati sarà sempre più spesso richiesto di tenere conto delle esigenze di tutti i membri della comunità internazionale per sviluppare o attuare le loro politiche e le leggi in precedenza ritenute una questione di giurisdizione esclusivamente interna .
L’aspetto più interessante è offerto proprio dalle organizzazioni ambientaliste.
Queste sono esplose per numero, potere e autorità negli ultimi dieci-quindici anni , proprio traendo vantaggio dall’erosione dello Stato nazione, e dall’estendersi della globalizzazione. Molte di esse sono più ricche e più potenti di decine di stati esistenti .
Agiscono da gruppi di pressione internazionali e – come già osservato – sono generalmente ammesse ai negoziati per la stesura e la realizzazione concreta degli accordi internazionali riguardanti l’ambiente .
Tutto ciò ha fatto sì che danni e responsabilità ambientali prima celati e protetti sotto il guscio della sovranità statale siano divenuti oggetto di attenzione e talvolta di intervento globale.
A fronte di questi sviluppi, molti hanno prospettato il pericolo dello sfaldamento dell’ordine statale con riferimento, per esempio, al ridursi delle capacità fiscali e quindi dell’erogazione di welfare, in mancanza di un progetto di governo globale .
Peraltro, sembra difficile sostenere che la globalizzazione e il decrescere della sovranità statale producano di per sé effetti negativi sull’ambiente.
Non dobbiamo dimenticare che fino a pochissimo tempo fa il mondo non globalizzato, incentrato sugli stati nazionali, produceva proprio quei danni all’ambiente di cui oggi noi subiamo le conseguenze.
Questo perché il modello organizzativo incentrato su stati e governi liberi di fare ciò che volevano sul loro territorio, e la vecchia economia non-globalizzata hanno contribuito insieme alla distruzione dell’ambiente. La ragione è semplice: il modello non era pensato per risolvere gli enormi problemi di gestione e conservazione dell’ambiente in un mondo industriale e postindustriale. Certamente, i paesi ricchi e industrializzati continuano a considerare il PVS un’area da rapinare non appena se ne presenta l’occasione, mentre in questi paesi la povertà, il bisogno o l’avidità dei governi e degli stati provoca sperpero di capitali o di risorse.

4.La globalizzazione economica e l’ambiente
Più complessa è la questione delle relazioni tra la globalizzazione economica e l’ambiente.
La questione è stata ampio oggetto di studio e di dibattito, in particolare negli Stati Uniti ed in Germania, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Novanta.
Anche in questo caso, si contrappongono diversi orientamenti.
Secondo alcuni, globalizzazione e tutela dell’ambiente non solo possono armonizzarsi, ma la prima, generando ricchezza, permettendo il diffondersi di tecnologie e prodotti meno dannosi per l’ambiente, imponendo una migliore e più efficiente distribuzione dei fattori produttivi può permettere di ottenere consistenti risultati positivi, in precedenza impossibili, anche e soprattutto nei PVS .
Secondo altri, invece, globalizzazione e tutela dell’ambiente sono radicalmente incompatibili: la liberalizzazione del commercio e la globalizzazione della produzione e dei consumi incrementano necessariamente l’intensità e la diffusione del degrado ambientale, anche perché crisi economiche a livello regionale – specie nei PVS – divengono estremamente più probabili .
Infine, si è formato un orientamento intermedio secondo il quale la globalizzazione può determinare effetti positivi per l’ambiente, purché sia accompagnata da regole, da limiti e soprattutto costruita intorno a principi che impongano il rispetto dell’ambiente e ne prevedano la tutela , tenuto soprattutto conto che l’intensificarsi del commercio e degli investimenti a livello globale provoca una amplificazione dei punti critici di mercato per ciò che riguarda un ulteriore degrado di un ambiente già in pericolo in molti paesi .
Certamente, allo stato attuale non si è ancora formata una opinione precisa e condivisa dalla maggior parte degli esperti, in un senso o nell’altro.
Vi sono però specifici punti, sui quali si può ritenere che si sia formato un orientamento dominante a livello di esperti delle relazioni tra economia e ambiente. Soffermiamoci su due in particolare.

4.1. Globalizzazione e effetti della regolamentazione ambientale
È opinione assai diffusa – sostenuta anche da alcuni studi compiuti negli anni Settanta e Ottanta – che la regolamentazione ambientale nei paesi ricchi produca una fuga di imprese inquinanti nei PSV, e che questo processo sia determinato dalla globalizzazione. Non solo: secondo alcuni, questo processo non è determinato dalla globalizzazione, ma ha contribuito a determinarla: proprio la delocalizzazione industriale determinata dai vincoli ambientali dei paesi ricchi ne sarebbe una delle cause. In questo senso, uno dei siti “antiglobalizzazione” più attivi afferma che “Uno dei fattori che determinano la globalizzazione è che le imprese transnazionali vogliono collocare attività produttive industriali inquinanti in paesi dove non ci sono adeguati strumenti di controllo ambientale” .
La fuga delle localizzazioni industriali inquinanti verso PVS sarebbe determinata da fattori tipici dei paesi ricchi con rigorose regolamentazioni ambientali tra cui: l’aumento dei costi provocato dalle tecnologie pulite da adottare, l’indisponibilità di discariche per i rifiuti dei processi produttivi o il costo dell’eliminazione legale dei rifiuti.
In generale, l’attuale squilibrio di regolamentazione ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri, inserito in un sistema globalizzato produce inevitabilmente, secondo molti, la cosiddetta race to the bottom, sia in termini di creazione di pollution – havens, cioè stati-paradiso per l’inquinamento verso cui si spostano le attività industriali, sia in termini di stati-discariche, verso cui si spostano i rifiuti.
Questi punti sono stati l’oggetto negli anni Novanta di intensi dibattiti e di approfondite indagini da parte di economisti, giuristi, esperti di politica e sviluppo industriale .
I risultati sono tutt’altro che uniformi. Ma la maggior parte delle indagini condotte sembra smentire l’opinione diffusa di un rapporto di causalità tra regolamentazione ambientale e minor competitività internazionale con conseguente spinta alla delocalizzazione verso i PVS: la maggior parte di esse infatti non ha rilevato significative relazioni statistiche tra i due termini .
Al contrario, molte indagini hanno posto in evidenza la importanza della regolamentazione ambientale – quale che essa sia – per l’affermarsi nel lungo periodo di nuove tecnologie meno dannose per l’ambiente .
Quindi, la regolamentazione ambientale non solo non sembra provocare una diminuzione della competitività interna sul mercato internazionale, ma sembra altresì indurre innovazione verso tecnologie ambientalmente più pulite, e quindi instaurare un circolo virtuoso per la protezione dell’ambiente e nel contempo per l’aumento della competitività internazionale sul mercato delle tecnologie pulite.
Se si prendono in considerazione gli effetti di lungo periodo, non solo questo rapporto risulta confermato, ma risulta altresì evidente – è un tema che tocco solo marginalmente, anche se è indubbiamente meritevole di riflessioni prive di pregiudizi – che i sistemi di regolamentazione ambientale più efficaci per produrre nuove tecnologie meno dannose per l’ambiente e una maggior competitività sono quelli che utilizzano meccanismi di mercato (tasse, permessi a pagamento, permessi con schemi di deposito e rifusione, ecc.) rispetto a quelli di regolamentazione più tradizionale (technology-based controls, performance standards, input bans).
Infatti, nei paesi che adottano esclusivamente questi ultimi meccanismi, le imprese che effettuano gli investimenti necessari per rispettare le soglie normativamente fissate non hanno in genere alcun interesse ad investire per ottenere ulteriori miglioramenti tecnologici, una volta raggiunta la soglia di rispetto (perché questi miglioramenti costano in ricerca e in applicazione e non portano alcun profitto), mentre questo interesse è sempre presente nei sistemi di regolamentazione basati sul mercato. La conseguenza è la perdita di potenziale innovativo a fini di una miglior conservazione dell’ambiente nei paesi ove vengono esclusivamente utilizzate regolamentazioni del tipo command and control.
Inoltre queste ultime regolamentazioni assai più di non quelle basate su meccanismi di mercato producono l’effetto di impedire l’avvio di nuove imprese e quindi di alterare non solo competizione, ma anche il miglioramento tecnologico, in quanto sono proprio le imprese giovani quelle con maggior iniziativa innovativa.
In conclusione, l’idea di una fuga delle attività produttive verso paesi sottosviluppati per evitare il calo di competitività prodotto dalle regolamentazioni ambientali non sembra confermato nella realtà .
Tuttavia, vi sono alcune indagini che contestano queste conclusioni, e pervengono a risultati opposti, confermando l’ipotesi della fuga verso i paradisi dell’inquinamento .
In particolare, uno studio condotto utilizzando una metodologia diversa da quella tradizionale, con la quale è stato valutato il flusso di investimenti finanziari diretti in PVS da parte di imprese produttrici altamente inquinanti (essenzialmente, settore chimico), ha rilevato un inequivocabile diretto effetto delle regolamentazioni ambientali sul FDI, e cioè sugli investimenti in PVS .
In altri termini, sia pure per il settore dell’industria chimica, la mancanza di regole ambientali attrae – secondo questo studio – FDI provenienti da imprese che operano nel settore chimico e quindi sono presumibilmente rivolti, nei paesi verso cui si dirigono i finanziamenti, a produzioni inquinanti.
In conclusione, è tuttora incerto nelle analisi condotte da economisti se diverse regolamentazioni ambientali in un contesto globalizzato provocano spostamenti di produzioni inquinanti verso i PVS – in termini di trasferimenti reali di beni aziendali o di trasferimenti finanziari – forniti di sistemi di regole ambientali più elastici e comunque meno rispettati.
Ma soprattutto, mancano, a quanto mi risulta, studi comparativi diacronici, tali cioè da offrire una comparazione tra eventuali spostamenti di produzioni inquinanti tra paesi con diversa intensità di regolamentazione ambientale nell’epoca preglobalizzazione e nell’epoca attuale: si tratta di studi che sono ovviamente indispensabili per poter effettivamente imputare agli effetti della globalizzazione gli spostamenti che attualmente si verificano.
Infine, anche ammesso che questo spostamento di produzioni inquinanti verso i PVS si stia verificando, è assai difficile individuare le cause effettive dello spostamento. Queste possono essere sì regolamenti ambientali meno restrittivi, ma anche il minor costo della mano d’opera, il minor costo delle aree per la localizzazione di insediamenti industriali, vantaggi fiscali dichiarati e occulti, e così via.
Inoltre, un altro aspetto di carattere più strettamente giuridico dovrebbe essere preso in considerazione, e cioè gli effetti benefici della globalizzazione per controllare o limitare le strategie di spostamento di produzioni inquinanti e politiche di race to the bottom dei PVS.
L’emersione di un sistema di diritto internazionale ambientale e, più in generale, l’affermarsi di un sistema di relazioni internazionali basato sulla trasparenza, la partecipazione e la possibilità di mobilitazione e di intervento quasi immediati, e, contemporaneamente, l’affermarsi di una consistente riduzione dell’ambito della sovranità degli stati nazionali, hanno portato, e sicuramente porteranno negli anni futuri, ad una crescente sovrapposizione di livelli sovrastatuali a quelli statali nelle materie di rilievo ambientale.
Sotto quest’ultimo profilo, molti sostengono che la attuale situazione di degrado ambientale dei PVS è il frutto non della globalizzazione, ma della mancanza di globalizzazione, cioè dalla mancanza di regolamentazione ambientale e di controlli nei PSV che garantiscano il rispetto di livelli internazionale di regolamentazione ambientale uniformi.
In conclusione, sembra possibile affermare che uno dei Leit-motiv che sostengono il movimento antiglobalizzazione, e cioè la delocalizzazione delle produzione inquinanti verso PVS non sia allo stato, dimostrato dalle indagini di economia e di politica industriale condotte negli ultimi dieci anni. Comunque, il movimento di delocalizzazione, anche esaminato sotto il profilo dei FDI, presenta segni ambigui e ambivalenti, in cui gli effetti del passato sul presente, e il mescolarsi, nel presente, di effetti favorevoli e dannosi non sono distinguibili e analizzabili con chiarezza.

4.2. Degrado ambientale, riforme economiche, i processi di privatizzazione
A partire dagli anni Ottanta, molti PVS hanno avviato processi di riforme economiche e monetarie, di risanamento economico e di riequilibrio della bilancia dei pagamenti anche per far fronte al pesante debito pubblico e all’inflazione, spesso costretti dal pesante indebitamento con l’estero e dalle condizioni poste dagli istituti finanziari internazionali (banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) per la concessione di nuovi finanziamenti.
L’ingerenza di centri decisionali economici, finanziari e monetari a livello internazionale è considerato uno degli effetti della globalizzazione e, anche in questo caso, vi sono alcuni che ritengono che la globalizzazione è stata avviata proprio per dare una struttura alla creazione di questi centri decisionali.
Gli effetti di carattere economico, politico e sociale delle politiche di risanamento sono stati assai diversificati da paese a paese.
Ma assai diffusa a partire dalla fine degli anni Ottanta è stata la convinzione che questi processi abbiano comunque indotto pesanti degradi ambientali e distrutto risorse dei PVS. Questo secondo molti è accaduto perché queste politiche non hanno tenuto conto dei fattori e delle conseguenze ambientali.
Anche in questo caso, molti studi sono stati condotti negli anni Novanta per verificare la fondatezza di queste opinioni; anche in questo caso i risultati, sia pur diversificati, non confermano la fondatezza di queste opinioni.
Una completa indagine sugli studi e le indagini effettuate a partire dagli Ottanta su questo tema giunge alla conclusione che gli interventi di risanamento economico possono avere effetti positivi ed effetti negativi sulle condizioni ambientali, e che essi dipendono da una molteplicità di fattori, tra i quali le condizioni politiche e sociali dei singoli stati in cui questi interventi vengono effettuati, le condizioni preesistenti, i sistemi giuridici e culturali che fungono da contesto all’intervento .
Per esempio, per limitarci ai soli studi condotti sull’impatto delle riforme di risanamento economico sull’agricoltura dei PVS, è stato evidenziato che esso è ambiguo e polivalente.
Assai spesso le riforme economiche provocano lo spostamento da coltivazioni tradizionali a coltivazioni più commerciali e più richieste dal mercato: questo può determinare effetti ambientali negativi, in termini di una perdita di biodiversità, ma spesso anche un miglioramento dello stato dei terreni coltivati, essendovi una spinta ad un uso più efficiente.
Le riforme inducono assai spesso l’adozione di sistemi proprietari più moderni, che offrono certezza, trasparenza e garanzie.
Ebbene, uno degli effetti della globalizzazione è stata l’estensione a PVS di assetti proprietari basati su un sistema legale di proprietà formalizzato e giuridicamente tutelabile, quali quelli in vigore nei paesi sviluppati (in sostituzione di sistemi di proprietà tradizionali, o affidati a consuetudini tramandate a livello di comunità). Questa estensione ha prodotto, secondo tutti gli studi condotti, effetti benefici sull’ambiente: i piccoli coltivatori sono più protetti dalle sopraffazioni e tendono a preferire coltivazioni perenni e non annuali, più redditizie e assai meno erosive e meno bisognose di fertilizzanti chimici.
Inoltre la certezza della proprietà permette il ricorso al credito bancario che, a sua volta permette l’uso di macchinari agricoli, una maggiore pianificazione dell’uso del suolo, l’adozione di pratiche di coltivazione intensiva.
Ma vi sono anche gli aspetti negativi del credito bancario reso possibile da sistemi di proprietà garantita sull’ambiente: esso permette un maggior uso di fertilizzanti per incrementare i raccolti, e quindi un maggior degrado del suolo; la maggior disponibilità di denaro può anche incoraggiare pratiche di deforestazione, e spingere i piccoli agricoltori ad impossessarsi di terreno forestato per approfittare della possibilità, soprattutto se il terreno coltivabile è scarso (fenomeno verificatosi in molte aree dell’India ).
Un caso assai noto ed assai studiato di degrado ambientale dovuto alla disponibilità di credito per aree coltivabili e stato costituito dall’espansione degli allevamenti in Brasile negli anni Ottanta, fenomeno a cui molti imputano la maggior responsabilità per la distruzione delle foreste amazzoniche in questo decennio .
Anche gli specifici studi esistenti in merito agli effetti ambientali dei programmi di risanamento applicati all’agricoltura non sono univocamente significativi.
Ci sono due ampie indagini promosse dalla World Bank, effettuate proprio per controbattere alle accuse rivolte dagli ambientalisti di distruggere l’ambiente con gli interventi economici proposti ai PVS.
Una prima indagine del 1989 , riferita alla prima parte degli anni Ottanta, conclude che le politiche di risanamento economico bei PVS, ben lungi dall’essere state una causa di degrado ambientale, hanno favorito la protezione dell’ambiente (pag.28).
Ad analoghe conclusioni, anche se formulate con maggior cautela, perviene l’aggiornamento di questa indagine per il periodo 1989-1992: “il risanamento è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una corretta gestione e protezione dell’ambiente”(pag.16) .
Entrambi questi studi sono però di scarsa affidabilità perché basati sugli obiettivi prefissati dal risanamento, e non sugli effetti concreti che lo stesso ha determinato .
Successivamente, ed anche al fine di rispondere a questa critica, la Banca Mondiale ha finanziato una serie di ricerche sul campo, allo scopo di esaminare gli effetti delle politiche di risanamento.
I risultati di questo secondo gruppo di studi – condotti su varie realtà di PVS ove sono stati sperimentati diversi metodi di risanamento, tra cui Indonesia e Messico – sono assai meno ottimistici.
È scomparsa la certezza degli effetti benefici delle politiche di risanamento economico sull’ambiente; resta tuttavia, pur con le varie metodologie utilizzate, un unanime accordo nell’escludere che queste politiche economico siano la causa principale di problemi ambientali, anche se vi sono ammissioni che interventi di riforma a livello macroeconomico possono pesantemente interagire con preesistenti situazioni del mercato interno e – proprio per questo condizionamento – in alcuni casi, incrementare difetti o carenze nella protezione ambientale.
Se questa è la situazione vista da un organismo come la Banca Mondiale, ritenuto dall’opinione pubblica che fa riferimento agli ambientalisti come non affidabile per ciò che riguarda una imparziale valutazione degli effetti ambientali delle politiche di risanamento economico, non bisogna però pensare che a queste indagini se ne contrappongano altre, di segno decisamente opposto.
Agli inizi degli anni Novanta, il World Wide Fund for Nature (WWF) ha infatti finanziato tre studi sull’argomento in Costa d’Avorio, Messico e Tailandia, raccolti successivamente in un unico volume .
Ebbene, ciascuno dei tre giunge a conclusioni simili, che in parte avevamo preannunciato: le politiche di risanamento hanno avuto effetti sia positivi che negativi sull’ambiente e sull’uso delle risorse naturali.
Vi è però da aggiungere che, con riferimento specifico al settore agricolo, vi è un effetto della globalizzazione che è ritenuto da molti certamente positivo.
Esso è costituito dalla spinta verso la specializzazione: ciascun paese tende, sia a livello di politica agricola, sia a livello di scelte collettive e individuali degli agricoltori, a specializzarsi nella produzione di quei beni che permettono un uso delle risorse che ci sono in abbondanza.
Questo significa che la liberalizzazione del commercio provoca uno sfruttamento efficiente delle risorse e che un determinato livello di ricchezza può essere raggiunto con un uso delle risorse a disposizione più razionale e più limitato di quanto non accadrebbe se ciascuna nazione tentasse di soddisfare i propri bisogni facendo esclusivamente ricorso alle proprie risorse interne .
Questa conclusione sembra essere unanimemente confermata dagli studi condotti negli anni Novanta sui rapporti tra globalizzazione e ambiente , ed è specificatamente evidenziata in un esame condotto sugli effetti sull’ambiente della politica commerciale messicana .
Questo infine, secondo un noto studio dell’inizio degli anni novanta, significa che una limitazione del commercio internazionale comporta un maggior spreco di risorse interne perché induce ad utilizzare anche risorse scarse e quindi a danneggiare l’assetto ambientale .
In conclusione, i dati e le ricerche condotte non offrono conferma neppure degli effetti di degrado ambientale provocati dalle politiche di risanamento attuate nell’ambito del processo di globalizzazione, e quindi di un altro dei più importanti Leit-motiv dei movimenti che si oppongono alla globalizzazione

5. Conclusioni
Le considerazioni che precedono rendono evidente che il dibattito internazionale sulla responsabilità e sul danno ambientale è attualmente vistosamente distorto sotto due profili.
Prima di tutto, perché è polarizzato su questioni di pericoli ambientali futuri, e in vari casi anche assai incerti e basati su una utilizzazione estrema del principio di precauzione; poi, perché, allorché tratta di questioni di danno ambientale presente, lascia prevalere posizioni puramente ideologiche e di contrapposizione di principio su una documentata analisi della realtà, trascurando anche studi e documenti che pure sono a disposizione.
Una delle posizioni ideologiche che sono fortemente rappresentate nel dibattito è costituita dalla convinzione che in ogni caso la ricchezza danneggia l’ambiente.
Queste opinioni non tengono in considerazione il fatto che, in questo secolo, dove abbiamo avuto una crescita di ricchezza, abbiamo anche avuto un ambiente più sano.
È nei paesi poveri, a crescita zero o molto lenta, che l’inquinamento di aria e acqua è in aumento, che la deforestazione rimane un problema, che è estremamente difficile affrontare gli immensi problemi connessi alla conservazione e alla sicurezza ambientale.
La provocatoria affermazione di Aaron Wildawsky, “wealthier is healthier” usata negli anni settanta per irridere la rigida posizione ambientalista anti -crescita, oggi è corroborata dall’esperienza . Di conseguenza, dovremmo concordare con una delle conclusioni formulate anni fa dal Bruntdland Report: la povertà è la causa principale del degrado ambientale in tutto il mondo.
La povertà nel mondo sta di fatto aumentando a un ritmo sconvolgente.
Nel 1870 la Gran Bretagna e gli Stati Uniti avevano un reddito pro capite nove volte maggiore di quello dei paesi più poveri. 120 anni dopo, nel 1990, il reddito era maggiore di oltre 45 volte.
Se prendiamo i 17 paesi più ricchi del 1870, il loro reddito pro capite era due volte e mezzo quello di tutti gli altri paesi insieme; oggi i 17 paesi più ricchi hanno un reddito di 4,5 volte rispetto a quello del resto del mondo . Se vi è una relazione causale tra ricchezza e qualità ambientale, e se non vogliamo assistere, nel prossimo secolo, alla fine della preoccupazione per l’ambiente e la sua conservazione fatta eccezione per alcuni fortunati angoli del mondo il vero nemico da combattere non è la globalizzazione, ma è la povertà, la cui crescita, come si è visto, non dipende dalla globalizzazione.
C’è poi un altro punto importante.
La povertà di un paese dipende molto di più dal modo in cui questo è governato che dalle condizioni naturali o dalle restrizioni sociali (come a tutti noi piace pensare).
Le vicende di questo secolo hanno dimostrato che c’è un fortissimo legame tra povertà e assenza di democrazia o dittatura, tra povertà e mancanza di libertà civile ed economica, di un clima normativo ed economico prevedibile.
Proteggere i diritti umani e quelli di proprietà, far rispettare la legge, evitando inflazione e corruzione, utilizzare le risorse per miglior educazione, migliore salute e non per acquistare armi o per finanziare inutili conflitti sono le strategie che offrono una via d’uscita dalla povertà e pongono le premesse per una tutela dell’ambiente.
Sotto questo profilo, la globalizzazione politica e quella economica, purché non abbandonata alle sole forze del mercato, può costituire un propulsore – e lo ha già costituito, in molte realtà di PVS – per accettare principi riguardo alla democrazia, ai diritti umani e a una legislazione equa, ignorati fino a pochi anni fa.