Globalizzazione e Ambiente: un bilancio

I. Globalizzazione e ambiente: un rapporto controverso.

Il tema del rapporto tra globalizzazione e ambiente è tra i più controversi.
Da un lato stanno coloro che ritengono che la globalizzazione compiti degrado
ambientale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Costoro – tra cui si collocano molti
movimenti ambientalisti – sono convinti che il libero commercio e liberalizzazione degli
investimenti e dei mercati finanziari finiranno per distruggere l’ambiente globale,
causando una sorta di “gara verso il basso”: i governi, soprattutto quelli dei paesi più
poveri, saranno forzati a fissare standard ambientali più bassi, allo scopo di attirare gli
investitori e le attività industriali più inquinanti pronte a trasferirsi dai paesi
industrialmente avanzati.
D’altro lato, stanno coloro che ritengono che la globalizzazione produca effetti benefici
e vantaggi soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, immettendoli nel circuito economico
e finanziario internazionale, ma anche in un sistema giuridico globale che si sforza di
imporre il rispetto di regole fondamentali con riguardo ai diritti umani e ai diritti
politici. Costoro ritengono che con il progredire della globalizzazione il mondo potrà
diventare più ricco, e questo è il sistema più sicuro per renderlo anche più pulito.
Soffermiamoci su alcuni aspetti del complesso processo che va sotto il nome di
globalizzazione, che appaiono di maggior rilievo per ciò che riguarda i problemi di
danno e responsabilità ambientale.

II. La globalizzazione, gli Stati, la comunità internazionale e l’ambiente.

All’inizio del ventesimo secolo, sulla scena mondiale c’erano soltanto stati-nazione che
si dividevano il mondo intero, con una sovranità interna assoluta e (almeno
formalmente) con pari poteri legali (è l’assetto politico che viene ormai comunemente
chiamato westfaliano, sorto con la pace di Westfalia nel 1648, e durato per oltre due
secoli).
Nella seconda parte del ventesimo secolo, questo processo non soltanto si è
interrotto, ma si è rovesciato: gli organismi legali nel mondo sono in crescita per
numero e genere1.
L’incremento strettamente quantitativo è sorprendente: la carta del mondo conteneva
62 stati nel 1914 (25 nell’Europa secondo la definizione di allora), 74 nel 1946, e più
di 200 oggi.
Da un punto di vista qualitativo, si sono verificati due importanti effetti.
Si è imposta, prima di tutto, una nuova gerarchia spaziale delle relazioni economiche e
politiche articolata su vari piani, globale, internazionale, sovranazionale, nazionale e
regionale (e quest’ultima sta acquisendo una crescente importanza, a scapito del
livello statale). Nell’ambito di questo nuovo assetto gerarchico, lo stato assume
sempre più un compito di mediazione tra il livello regionale e quello sovranazionale:
garante verso il basso delle decisioni sovranazionali, rappresentante verso l’alto delle
esigenze regionali2.
Vi è poi un secondo effetto, costituito dall’affermarsi sulla scena internazionale di
numerosi nuovi organismi: federazioni di stati, unioni di stati, trattati di cooperazione,
organizzazioni politiche (G-7, NAFTA), organizzazioni finanziarie ed economiche
(Banca Mondiale, Fondo Monetario internazionale), organizzazioni militari, e corti
internazionali con poteri crescenti, che erodono la tradizionale, onnicomprensiva
sovranità dello stato e si sovrappongono ad essa.
Abbiamo inoltre organizzazioni non governative internazionali spesso più ricche e più
potenti di decine di stati esistenti. Tra queste, chiese e organizzazioni religiose,
organizzazioni in favore dei diritti umani e organizzazioni sanitarie, organizzazioni
ambientaliste.
Queste ultime, in particolare sono esplose per numero, potere e autorità negli ultimi
venti anni3, proprio traendo vantaggio dall’erosione dello Stato nazione, e
dall’estendersi della globalizzazione. Molte di esse sono più ricche e più potenti di
decine di stati esistenti4. Agiscono come gruppi di pressione internazionali e – come
già osservato – sono generalmente ammesse ai negoziati per la stesura e la
realizzazione concreta degli accordi internazionali riguardanti l’ambiente5.
Inoltre, abbiamo un certo numero di grandi imprese (Microsoft, Toyota, IBM, Siemens
e Samsung sono quelle maggiormente citate nell’ultimo libro di Raymond Vernon6) che
si comportano da potenze indipendenti dagli stati. Certamente sono più ricche e
potenti di molti stati, e sono in grado – direttamente o attraverso organizzazioni che
rappresentano i loro interessi e attraverso istituzioni economiche transnazionali quali
la World Bank – di far prevalere, sul sistema tradizionale incentrato sulle nazioni, le
loro concezioni di relazioni internazionali, di sviluppo sostenibile e anche di protezione
ambientale compatibile con gli obiettivi industriali.
L’attuale situazione, lungi dall’essere stabile, è la seguente: abbiamo molti più stati
sulla scena, ma anche molti altri attori e organismi riconosciuti, in concorrenza tra di
loro per mantenere o conquistare sostegno, consenso, denaro, sovranità e potere.
In conclusione, la sovranità oggi è qualcosa di intrinsecamente diverso dal passato,
anche recente.
1.    È stato detto che “la sovranità, il potere di una nazione di impedire ad altri di
interferire nei suoi affari interni, si va rapidamente erodendo”7. O, in altri termini,
“agli stati sarà sempre più spesso richiesto di tenere conto delle esigenze di tutti i
membri della comunità internazionale per sviluppare o attuare le loro politiche e le
leggi in precedenza ritenute una questione di giurisdizione esclusivamente
interna”89.
Per ciò che riguarda l’ambiente e la sua protezione, la globalizzazione politica –
costituita dal fatto che i governi siano sempre meno liberi di fare quel che vogliono
della loro popolazione e del loro territorio, e sempre più debbano rispettare principi,
regole, accordi a livello sovrastatuale o internazionale – rappresenta un fatto
indubbiamente positivo: danni e responsabilità ambientali, anche con potenti ricadute
transfrontaliere, prima celati e protetti sotto il guscio della sovranità statale, sono
divenuti oggetto di attenzione, di controllo e talvolta di intervento globale.
Ma ci sono anche aspetti negativi.
Vi è attualmente un grave deficit di rappresentanza, dato dal fatto che la maggior
parte dei nuovi attori sulla scena internazionale è costituita da organizzazioni o
associazioni che, pur essendo esponenziali di interessi diffusi largamente condivisi,
operano secondo piani, strategie e obiettivi che sono individuati e realizzati in
attuazione di meccanismi decisionali che non debbono necessariamente rispettare
principi di trasparenza o di democrazia.
Per converso, sembra difficile sostenere che il decrescere della sovranità statale
produca di per sé effetti negativi sull’ambiente.
Non dobbiamo dimenticare che fino a pochissimo tempo fa il mondo non globalizzato,
incentrato sugli stati nazionali sovrani, produceva proprio quei danni all’ambiente –
soprattutto sui paesi poveri e in via di sviluppo – di cui oggi noi subiamo le
conseguenze. Questo perché il modello organizzativo incentrato su stati e governi
liberi formalmente di fare ciò che volevano sul loro territorio, e la vecchia economia
non-globalizzata, hanno contribuito insieme alla distruzione dell’ambiente.

III. La globalizzazione economica e l’ambiente.

Più complessa è la questione delle relazioni tra la globalizzazione economica e
l’ambiente. La questione è stata ampio oggetto di studio e di dibattito, in particolare
negli Stati Uniti ed in Germania, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni
Novanta.
Anche in questo caso, si contrappongono diversi orientamenti.
Secondo alcuni, globalizzazione e tutela dell’ambiente non solo possono armonizzarsi,
ma la prima, generando ricchezza, permettendo il diffondersi di tecnologie e prodotti
meno dannosi per l’ambiente, imponendo una migliore e più efficiente distribuzione
dei fattori produttivi può permettere di ottenere consistenti risultati positivi, in
precedenza impossibili, anche e soprattutto nei paesi in via di sviluppo10.
Secondo altri, invece, globalizzazione e tutela dell’ambiente sono radicalmente
incompatibili: la liberalizzazione del commercio e la globalizzazione della produzione e
dei consumi incrementano necessariamente l’intensità e la diffusione del degrado
ambientale, anche perché crisi economiche a livello regionale – specie nei paesi in via
di sviluppo – divengono estremamente più probabili11.
Infine, si è formato un orientamento intermedio secondo il quale la globalizzazione
può determinare effetti positivi per l’ambiente, purché sia accompagnata da regole, da
limiti e soprattutto costruita intorno a principi che impongano il rispetto dell’ambiente
e ne prevedano la tutela12, tenuto soprattutto conto che l’intensificarsi del commercio
e degli investimenti a livello globale provoca una amplificazione dei punti critici di
mercato per ciò che riguarda un ulteriore degrado di un ambiente già in pericolo in
molti paesi13.
Certamente, allo stato attuale non si è ancora formata una opinione precisa e
condivisa dalla maggior parte degli esperti, in un senso o nell’altro.
Vi sono però specifici punti, sui quali si può ritenere che si sia formato un
orientamento dominante a livello di esperti delle relazioni tra economia e ambiente.
Soffermiamoci su due in particolare.
A.    Globalizzazione e effetti della regolamentazione ambientale.
È opinione assai diffusa – sostenuta anche da alcuni studi compiuti negli anni Settanta
e Ottanta – che la regolamentazione ambientale nei paesi ricchi produca una fuga di
imprese inquinanti verso i paesi in via di sviluppo, e che questo processo sia
determinato dalla globalizzazione. Secondo alcuni, questo processo non è determinato
dalla globalizzazione, ma ha contribuito a determinarla: proprio la delocalizzazione
industriale determinata dai vincoli ambientali dei paesi ricchi e dallo stato di necessità
creato nei paesi poveri ne sarebbe una delle cause. In questo senso, uno dei siti
“antiglobalizzazione” più attivi afferma che “Uno dei fattori che determinano la
globalizzazione è che le imprese transnazionali vogliono collocare attività produttive
industriali inquinanti in paesi dove non ci sono adeguati strumenti di controllo
ambientale”14.
La fuga delle localizzazioni industriali inquinanti verso i paesi in via di sviluppo sarebbe
determinata da fattori tipici dei paesi ricchi con rigorose regolamentazioni ambientali
tra cui: l’aumento dei costi provocato dalle tecnologie pulite da adottare,
l’indisponibilità di discariche per i rifiuti dei processi produttivi o il costo
dell’eliminazione legale dei rifiuti.
In generale, l’attuale squilibrio di regolamentazione ambientale tra paesi ricchi e paesi
poveri, inserito in un sistema globalizzato produce inevitabilmente, secondo molti, la
cosiddetta race to the bottom, sia in termini di creazione di pollution – havens, cioè
stati-paradiso per l’inquinamento verso cui si spostano le attività industriali, sia in
termini di stati-discariche, verso cui si spostano i rifiuti.
Questi punti sono stati l’oggetto negli anni Novanta di approfondite indagini da parte
di economisti, giuristi, esperti di politica e sviluppo industriale15.
I risultati sono tutt’altro che uniformi. Ma la maggior parte delle indagini condotte
smentisce l’opinione diffusa di un rapporto di causalità tra regolamentazione
ambientale e minor competitività internazionale con conseguente spinta alla
delocalizzazione verso i paesi in via di sviluppo16.
Al contrario, molte indagini hanno posto in evidenza l’importanza della
regolamentazione ambientale – quale che essa sia, sia del tipo command and control,
sia affidata a strumenti di mercato o strumenti fiscali – per l’affermarsi nel lungo
periodo di nuove tecnologie meno dannose per l’ambiente17.
Quindi, la regolamentazione ambientale non solo non sembra provocare una
diminuzione della competitività interna sul mercato internazionale con conseguente
fuga verso luoghi meno regolati, ma sembra indurre innovazione verso tecnologie
ambientalmente più pulite, e quindi instaurare un circolo virtuoso per la protezione
dell’ambiente e nel contempo per l’aumento della competitività internazionale sul
mercato delle tecnologie pulite.
Se si prendono in considerazione gli effetti di lungo periodo, non solo questo rapporto
risulta confermato, ma risulta altresì evidente – è un tema che tocco solo
marginalmente, anche se è indubbiamente meritevole di riflessioni prive di pregiudizi –
che i sistemi di regolamentazione ambientale più efficaci per produrre nuove
tecnologie meno dannose per l’ambiente e una maggior competitività sono quelli che
utilizzano meccanismi di mercato (tasse, permessi a pagamento, permessi con schemi
di deposito e rifusione, ecc.) rispetto a quelli di regolamentazione più tradizionale
(technology-based controls, performance standards, input bans).
Infatti, nei paesi che adottano prevalentemente questi ultimi meccanismi, le imprese
che effettuano gli investimenti necessari per rispettare le soglie normativamente
fissate non hanno in genere alcun interesse ad investire per ottenere ulteriori
miglioramenti tecnologici una volta raggiunta la soglia di rispetto (perché questi
miglioramenti costano in ricerca e in applicazione e non portano alcun profitto).
Questo interesse è invece sempre presente nei sistemi di regolamentazione basati sul
mercato. La conseguenza è, in prospettiva, la perdita di potenziale innovativo a fini di
una miglior conservazione dell’ambiente nei paesi ove vengono esclusivamente
utilizzate regolamentazioni del tipo command and control.
Inoltre queste ultime regolamentazioni assai più di non quelle basate su meccanismi di
mercato producono l’effetto di impedire l’avvio di nuove imprese e quindi di alterare
non solo competizione, ma anche il miglioramento tecnologico, in quanto sono proprio
le imprese giovani quelle con maggior iniziativa innovativa.
In conclusione, l’idea di una fuga delle attività produttive verso paesi sottosviluppati
per evitare il calo di competitività prodotto dalle regolamentazioni ambientali non
sembra confermata nella realtà18.
Tuttavia, vi sono alcune indagini che contestano queste conclusioni, e pervengono a
risultati opposti, confermando l’ipotesi della fuga verso i paradisi dell’inquinamento19.
In particolare, uno studio condotto utilizzando una metodologia diversa da quella
tradizionale, con la quale è stato valutato il flusso di investimenti finanziari nei paesi in
via di sviluppo da parte di imprese produttrici altamente inquinanti (essenzialmente,
settore chimico), ha rilevato un diretto effetto delle regolamentazioni ambientali
sull’entità di trasferimenti finanziari – e non trasferimenti di attività produttive – verso
paesi poveri20.
In altri termini, sia pure per il settore (fortemente inquinante) dell’industria chimica, la
mancanza di regole ambientali attrae – secondo questo studio – risorse finanziarie
provenienti da imprese che operano nel settore chimico, presumibilmente rivolte, nei
paesi verso cui si dirigono i finanziamenti, a realizzare produzioni inquinanti proibite o
troppo costose nel paese di provenienza.
In conclusione, è tuttora incerto nelle analisi condotte da economisti se diverse
regolamentazioni ambientali in un contesto globalizzato provocano spostamenti di
produzioni inquinanti verso i PVS – in termini di trasferimenti reali di beni aziendali o
di trasferimenti finanziari – forniti di sistemi di regole ambientali più elastici e
comunque meno rispettati.
Ma soprattutto, mancano, a quanto mi risulta, studi comparativi diacronici, tali cioè da
offrire una comparazione tra eventuali spostamenti di produzioni inquinanti tra paesi
con diversa intensità di regolamentazione ambientale nell’epoca preglobalizzazione e
nell’epoca attuale: si tratta di studi che sarebbero ovviamente indispensabili per poter
effettivamente imputare agli effetti della globalizzazione gli spostamenti che
attualmente si verificano.
Infine, anche ammesso che questo spostamento di produzioni inquinanti verso i Paesi
in Via di Sviluppo si stia verificando, è assai difficile individuare le cause effettive dello
spostamento. Queste possono essere sì regolamenti ambientali meno restrittivi, ma
anche il minor costo della mano d’opera, il minor costo delle aree per la localizzazione
di insediamenti industriali, vantaggi fiscali dichiarati e occulti, e così via.
Inoltre, un altro aspetto di carattere più strettamente giuridico dovrebbe essere preso
in considerazione, e cioè gli effetti benefici della globalizzazione per controllare o
limitare le strategie di spostamento di produzioni inquinanti e politiche di race to the
bottom dei paesi in via di sviluppo.
L’emersione di un sistema di diritto internazionale ambientale e, più in generale,
l’affermarsi di un sistema di relazioni internazionali basato sulla trasparenza, la
partecipazione e la possibilità di mobilitazione e di intervento quasi immediati, e,
contemporaneamente, l’affermarsi di una consistente riduzione dell’ambito della
sovranità degli stati nazionali, hanno portato, e sicuramente porteranno negli anni
futuri, ad una crescente sovrapposizione di livelli sovrastatuali a quelli statali nelle
materie di rilievo ambientale.
Sotto quest’ultimo profilo, molti sostengono che l’attuale situazione di degrado
ambientale dei Paesi in Via di Sviluppo è il frutto non della globalizzazione, ma della
mancanza di globalizzazione, cioè dalla mancanza di regolamentazione ambientale e di
controlli nei Paesi in Via di Sviluppo che garantiscano il rispetto di livelli internazionale
di regolamentazione ambientale uniformi.
In conclusione, sembra possibile affermare che uno dei Leitmotiv che sostengono il
movimento antiglobalizzazione, e cioè la delocalizzazione delle produzione inquinanti
verso Paesi in Via di Sviluppo non sia allo stato dimostrato dalle indagini di economia e
di politica industriale condotte negli ultimi dieci anni: il movimento di delocalizzazione,
anche esaminato sotto il profilo del conferimento non di attività produttive, ma di
attività finanziarie presenta segni ambigui e ambivalenti, in cui gli effetti del passato
sul presente, e il mescolarsi, nel presente, di effetti favorevoli e dannosi non sono
distinguibili e analizzabili con chiarezza.
B.    Degrado ambientale, riforme economiche, i processi di privatizzazione.
A partire dagli anni Ottanta, molti paesi in via di sviluppo hanno avviato processi di
riforme economiche e monetarie, di risanamento economico e di riequilibrio della
bilancia dei pagamenti anche per far fronte al pesante debito pubblico e all’inflazione,
spesso costretti dal pesante indebitamento con l’estero e dalle condizioni poste dagli
istituti finanziari internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) per
la concessione di nuovi finanziamenti.
L’ingerenza di centri decisionali economici, finanziari e monetari a livello internazionale
è considerato uno degli effetti della globalizzazione e, anche in questo caso, vi sono
alcuni che ritengono che la globalizzazione è stata avviata proprio per dare una
struttura alla attività di questi centri decisionali.
Gli effetti di carattere economico, politico e sociale delle politiche di risanamento sono
stati assai diversificati da paese a paese.
Ma assai diffusa a partire dalla fine degli anni Ottanta è stata la convinzione che questi
processi abbiano comunque indotto un pesante degrado ambientale e distrutto risorse
dei paesi poveri. Questo secondo molti è accaduto perché queste politiche non hanno
tenuto conto dei fattori e delle conseguenze ambientali.
Anche in questo caso, molti studi sono stati condotti negli anni Novanta per verificare
la fondatezza di queste opinioni con esiti non coincidenti con l’opinione diffusa.
Una completa indagine sugli studi e le indagini effettuate a partire dagli Ottanta su
questo tema giunge alla conclusione che gli interventi di risanamento economico
possono avere effetti positivi ed effetti negativi sulle condizioni ambientali, e che gli
uni e gli altri dipendono da una molteplicità di fattori, tra i quali le condizioni politiche
e sociali dei singoli stati in cui questi interventi vengono effettuati, le condizioni
preesistenti, i sistemi giuridici e culturali che fungono da contesto all’intervento21.
Per esempio, per limitarci ai soli studi condotti sull’impatto delle riforme di
risanamento economico sull’agricoltura nei paesi in via di sviluppo, è stato evidenziato
che esso è ambiguo e polivalente.
Assai spesso le riforme economiche provocano lo spostamento da coltivazioni
tradizionali a coltivazioni più commerciali e più richieste dal mercato: questo può
determinare effetti ambientali negativi, in termini di una perdita di biodiversità, ma
spesso anche un miglioramento dello stato dei terreni coltivati, essendovi una spinta
ad un uso più efficiente e quindi ad un miglioramento delle condizioni economiche
degli agricoltori, che hanno maggiori possibilità di effettuare investimenti produttivi.
Le riforme inducono assai spesso l’adozione di sistemi proprietari più moderni, e non
basati su consuetudini o affidati a sistemi di allocazione del possesso informali a livello
di comunità, che offrono certezza, trasparenza, garanzie.
La modifica negli assetti proprietari ha generalmente prodotto, secondo tutti gli studi
condotti, effetti benefici sull’ambiente: i piccoli coltivatori sono più protetti dalle
sopraffazioni e tendono a preferire coltivazioni perenni e non annuali, più redditizie e
assai meno erosive e meno bisognose di fertilizzanti chimici.
Inoltre la certezza della proprietà permette il ricorso al credito bancario che, a sua
volta permette l’uso di macchinari agricoli, una maggiore pianificazione dell’uso del
suolo, l’adozione di pratiche di coltivazione intensiva.
Ma vi sono anche gli aspetti negativi del credito bancario reso possibile da sistemi di
proprietà garantita sull’ambiente: esso permette un maggior uso di fertilizzanti per
incrementare i raccolti, e quindi un maggior degrado del suolo; la maggior
disponibilità di denaro può anche incoraggiare pratiche di deforestazione, e spingere i
piccoli agricoltori ad impossessarsi di terreno forestato per approfittare della
possibilità, soprattutto se il terreno coltivabile è scarso (fenomeno verificatosi in molte
aree dell’India22).
Un caso assai noto ed assai studiato di degrado ambientale dovuto alla disponibilità di
credito per aree coltivabili e stato costituito dall’espansione degli allevamenti in Brasile
negli anni Ottanta, fenomeno a cui molti imputano la maggior responsabilità per la
distruzione delle foreste amazzoniche in questo decennio23.
Anche gli specifici studi esistenti in merito agli effetti ambientali dei programmi di
risanamento applicati all’agricoltura non sono univocamente significativi.
Ci sono due ampie indagini promosse dalla World Bank, effettuate proprio per
controbattere alle accuse rivolte dagli ambientalisti di distruggere l’ambiente con gli
interventi economici proposti ai Paesi in Via di Sviluppo.
Una prima indagine del 198924, riferita alla prima parte degli anni Ottanta, conclude
che le politiche di risanamento economico bei PVS, ben lungi dall’essere state una
causa di degrado ambientale, hanno favorito la protezione dell’ambiente.
Ad analoghe conclusioni, anche se formulate con maggior cautela, perviene
l’aggiornamento di questa indagine per il periodo 1989-1992: “il risanamento è
condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una corretta gestione e
protezione dell’ambiente”(pag.16)25.
Entrambi questi studi sono però di scarsa affidabilità perché basati sugli obiettivi
prefissati dal risanamento, e non sugli effetti concreti che lo stesso ha determinato26.
Successivamente, ed anche al fine di rispondere a questa critica, la Banca Mondiale ha
finanziato una serie di ricerche sul campo, allo scopo di esaminare gli effetti delle
politiche di risanamento.
I risultati di questo secondo gruppo di studi – condotti su varie realtà di PVS ove sono
stati sperimentati diversi metodi di risanamento, tra cui Indonesia e Messico – sono
assai meno ottimistici.
È scomparsa la certezza degli effetti benefici delle politiche di risanamento economico
sull’ambiente; resta tuttavia, pur con le varie metodologie utilizzate, un unanime
accordo nell’escludere che queste politiche economiche siano la causa principale di
problemi ambientali, anche se vi sono ammissioni che interventi di riforma a livello
macroeconomico possono pesantemente interagire con preesistenti situazioni del
mercato interno e – proprio per questo condizionamento – in alcuni casi, incrementare
difetti o carenze nella protezione ambientale27.
Questa è la situazione vista da un organismo come la Banca Mondiale, ritenuto
dall’opinione pubblica che fa riferimento agli ambientalisti come non affidabile per ciò
che riguarda una imparziale valutazione degli effetti ambientali delle politiche di
risanamento economico. Ma a queste indagini non se ne contrappongono altre di
segno decisamente opposto.
Agli inizi degli anni Novanta, il WorldWideFund for Nature (WWF) ha infatti finanziato
tre studi sull’argomento in Costa d’Avorio, Messico e Tailandia, raccolti
successivamente in un unico volume28.
Ciascuno dei tre giunge a conclusioni simili: le politiche di risanamento hanno avuto
effetti sia positivi che negativi sull’ambiente e sull’uso delle risorse naturali.
Vi è però da aggiungere che, sempre con riferimento specifico al settore agricolo, vi è
un effetto della globalizzazione che è ritenuto da molti certamente positivo.
Esso è costituito dalla spinta verso la specializzazione: ciascun paese tende, sia a
livello di politica agricola, sia a livello di scelte collettive e individuali degli agricoltori, a
specializzarsi nella produzione di quei beni che permettono un uso delle risorse che ci
sono in abbondanza.
Questo significa che la liberalizzazione del commercio provoca uno sfruttamento
efficiente delle risorse e che un determinato livello di ricchezza può essere raggiunto
con un uso delle risorse a disposizione più razionale e più limitato di quanto non
accadrebbe se ciascuna nazione tentasse di soddisfare i propri bisogni facendo
esclusivamente ricorso alle proprie risorse interne29.
Questa conclusione sembra essere unanimemente confermata dagli studi condotti
negli anni Novanta sui rapporti tra globalizzazione e ambiente30, ed è specificatamente
evidenziata in un esame condotto sugli effetti sull’ambiente della politica commerciale
messicana31.
Per converso, secondo un noto studio dell’inizio degli anni novanta, una limitazione del
commercio internazionale con strumenti protezionistici comporta un maggior spreco di
risorse interne perché induce ad utilizzare anche risorse scarse e quindi a danneggiare
l’assetto ambientale32.
In conclusione, i dati e le ricerche condotte non offrono conferma neppure degli effetti
di degrado ambientale provocati dalle politiche di risanamento attuate nell’ambito del
processo di globalizzazione, e quindi di un altro dei più importanti Leitmotiv dei
movimenti che si oppongono alla globalizzazione.

IV. Conclusioni.

Le considerazioni che precedono rendono evidente che il dibattito giuridico
internazionale sulla responsabilità e sul danno ambientale è vittima di distorsioni,
imposte da scelte e orientamenti della pubblica opinione, che tengono spesso in ben
poco conto i dati e gli elementi offerti dalla comunità scientifica o dall’analisi
economica.
Una delle posizioni ideologiche che sono fortemente rappresentate nel dibattito è
costituita dalla convinzione che in ogni caso la ricchezza danneggia l’ambiente. Queste
opinioni non tengono in considerazione il fatto che, in questo secolo, dove abbiamo
avuto una crescita di ricchezza, abbiamo anche avuto un ambiente più sano.
È nei paesi poveri, a crescita zero o molto lenta, che l’inquinamento di aria e acqua è
in aumento, che la deforestazione rimane un problema, che è estremamente difficile
affrontare gli immensi problemi connessi alla conservazione e alla sicurezza
ambientale.
La provocatoria affermazione di Aaron Wildawsky, “wealthier is healthier” usata negli
anni Settanta per irridere la rigida posizione ambientalista anti-crescita, oggi è
corroborata dall’esperienza33. Di conseguenza, dovremmo concordare con una delle
conclusioni formulate anni fa dal Bruntdland Report: la povertà è la causa principale
del degrado ambientale in tutto il mondo.
Il vero problema è che la povertà nel mondo sta di fatto aumentando a un ritmo
sconvolgente34. Ma la povertà di un paese dipende assai spesso dal modo in cui
questo è governato oltre che dalle condizioni naturali o dalle restrizioni sociali. Le
vicende di questo secolo hanno dimostrato che c’è un fortissimo legame tra povertà e
assenza di democrazia o dittatura, tra povertà e mancanza di libertà civile ed
economica, di un clima normativo ed economico prevedibile.
Proteggere i diritti umani e quelli di proprietà, far rispettare la legge, evitando
inflazione e corruzione, utilizzare le risorse per miglior educazione, migliore salute e
non per acquistare armi o per finanziare inutili conflitti sono le strategie che offrono
una via d’uscita dalla povertà35 e pongono le premesse per una tutela dell’ambiente.
Sotto questo profilo, sembra da condividere la tesi di coloro che assumendo una
posizione intermedia, sostengono che la globalizzazione politica e quella economica,
purché non abbandonate alle sole forze del mercato, ma oggetto di regole
predeterminate e trasparenti, possono costituire un propulsore per accettare principi
riguardo alla democrazia, ai diritti umani e a una legislazione equa, ignorati fino a
pochi anni fa.

1    S. CASSESE, Gli Stati nella rete internazionale dei poteri pubblici, in RTDP 1999,
321 – 329, spec. 328; D. ZOLO COSMOPOLIS, La prospettiva del governo mondiale,
Milano 1995; Daedalus vol.124.

2    ALLEN J. SCOTT, Le Regioni Nell’economia Mondiale, Il Mulino Bologna 2001.

3    cfr. PAUL WAPNER, Politics Beyond The State: Environmental Activism And World
Civic Policy, in World Politics 47, n.3, Apr.1995, p.311-341 Cfr. anche MARGARET E.
KECK – KATHRYN SIKKINK, Activists Beyond Borders: Advocacy Networks In International
Politics, Ithaca, Cornell 1998 e II. D. D. , Transnational Advocacy Networks In
International And Regional Politics in International Social Science Journal v. 51, n.1,
Marzo 1999, p.89.

4    Il bilancio 1997 di Greenpeace era di 130 milioni di dollari, con 92.5 milioni
da investire in campagne specifiche; nel 1999 è cresciuto a 134 milioni di dollari.

5    In generale, sulla partecipazione delle Organizzazioni non governative, e delle
Organizzazioni ambientaliste in particolare, a negoziati internazionali si veda DAVID
FORSYTHE, Human Rights And World Politics, Lincoln, Uni. Of Nebraska 1989; P. J.
SANDS, The Role of NGO in Enforcing International Environmental Law, in W. E. BUTLER
ed., Control Over Compliance With International Law, Dordrecht, Olanda, 1991.

6    RAYMOND VERNON, In the Hurricane’s Eye, Cambridge Uni. Press, 1998.

7    J. ROSENAU, Turbulence in World Politics, Brighton 1994.

8    WALTER B. WRISTON, Bits, Bytes and Diplomacy, in Foreign Affairs Sett.\Ott. 1997,
174.

9    Una rassegna su questo tema si può trovare in Symposium, The Decline of the
Nation State and Its Effects on Constitutional and International Economic law,
in 18 Cardozo Law Review 903, 1997. Una interpretazione stimolante sull’origine
e lo sviluppo della sovranità nell’era moderna è offerta da L. FERRAJOLI, La
sovranità nel mondo moderno, Laterza Bari 1997. Si può vedere inoltre GAETANO
SILVESTRI, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un
concetto, in Rivista di diritto costituzionale n.1, 1996, p.3 ss..

10   PFLÜGER, M., Globalisierung und Nachhaltigkeit in Zeitschrift für Umweltpolitik
und Umweltrecht; 22, 1999 pag. 135-154; BHAGWATI, J. – SRINAVASAN T. N.,
Trade and the Environment, in BHAGWATIi, J., und Hudec, R.E. (a cura di) Fair Trade
and Harmonization; Vol. I, pag. 159-222.

11   J. EATWELL – L. TAYLOR, Towards an Effective Regulation of International Capital
Markets, in Internationale Politik und Gesellschaft 3/1999, consultabile su
http://www.fes.de/ipg/ipg3_99/arteatwell.html; PEOPLE GLOBAL ACTION – PGA,
Peoples’ Global Action gegen “Freihandel” und die WTO, in Manifest, PGA Bulletin;
1999 Nr. 1 consultabile in http://www.agp.org/agp/de/index.html.; D. KORTEN,
Economic Globalization; in Ecological Economics Bulletin, 1997 pag. 14.

12   U. PETSCHOW, Nachhaltigkeit und Globalisierung; Berlin 1998.

13   OCSE, Towards a New Global Age – Challenges and Opportunities, 1997 Paris.

14   http://www.globalisationguide.org: “One of the drivers of globalisation is that
transnational companies want to place environmentally degrading industries in
countries that do not have adequate environmental controls”.

15   Per una rassegna ragionata delle indagini condotte su questo punto si veda J. ADAMS,
“Environmental Policy and Competitiveness in a Globalised Economy: Conceptual Issues
and a Review of the Empirical Evidence”. In: OECD, Globalisation and Environment:
Preliminary Perspectives. Paris: OECD, 1997.

16   In questo senso N. JOHNSTONE, Trade and the Environment: Economic Links,
contributo presentato alla conferenza su Politicas Ambientales y Comercio
Internacional en los Paises del Cono Sur Buenos Aires, 5\6-7-1999. Vedi
anche J. A. TOBEY, The Effects of Domestic Environmental Policies on Patterns
of World Trade’ in Kyklos, 1990 Vol. 43, No. 2, pp. 191-209. Per una rassegna
KULESSA, M. E. – SCHWAAB J. A., Konzepte zur „Ökologisierung” der internationalen
Handels – und Wirtschaftspolitik in Internationale PolitiK und Gesellschaft
3/2000 consultabile in http://www.fes.de/IPG/ipg3_2000/ARTKULESSA.HTM.

17   G. M. GROSSMAN – A. B. KRUEGER, Environmental Impacts of a North American
Free Trade Agreement 35 National Bureau of Economic Research Working Paper
No. 3914, 1991; vedi anche la rassegna di J. AGRAS ED ALTRI, Environment and
Trade: A Review of the Literature 33, in Cornell University Department of Agricultural,
Resource, and Managerial Economies Working Paper No. 94, 11-1994.

18   R. E. LUCAS – D. WHEELER – H. HETTIGE, Economic Development, Environmental
Regulation and International Migration of Toxic Industrial Pollution: 1960 – 1988
in P. LOW (ed) International Trade and the Environment, 1992 Washington D.C.:
World Bank Discussion Paper No. 159, pp. 67-86.

19   Si vedano: D. CHAPMAN – J. AGRAS – V. SURI, International Law, Industrial
Location, and Pollution in Indiana, Journal of Global Studies n.1, 1995, consultabile in
http://www.law.indiana.edu/glsj/vol3/no1/chapman.html; R. LOPEZ, Environmental
Degradation and Economic Openness in LDCs: The Poverty Linkages, 74 American
Journal Agricultural Economy 1993,  p.1197.

20   Y. XING – C. D. KOLSTAD, Do Lax Environmental Regulations Attract Foreign Investment?,
Cambridge, MA: National Bureau of Economic Research Working Paper. Il contributo può essere
consultato in http://www.iied.org/pdf/TEEL.pdf.

21   Si veda C. E. FRICKMANN YOUNG – J. BISHOP, Adjustment Policies and the Environment:
A Critical Review of the Literature, CREED Working Paper Series No 1, luglio 1995.

22   N. S. JODHA, Rural Common Property Resources: Contributions and Crisis in Economic and
Political Weekly, 30 giugno 1990.

23   J. BROWDER, 1985. Subsidies, Deforestation, and the Forest Sector of the Brazilian Amazon.
Washington, DC: World Resources Institute; D. MAHAR, Government Policies and Deforestation
in Brazil’s Amazon Region, Environment Department Working Paper n.7. 1988, Washington,
DC: The World Bank.

24   I. SEBASTIAN – A. ALICBUSAN, Sustainable Development: Issues in Adjustment Lending Policies.
Environment Department Divisional Paper n.6,1989. Washington, DC: The World Bank.

25   J. WARFORD – A. SCHWAB – W. CRUZ – S. HANSEN, The Evolution of  Environmental Concerns
in Adjustment Lending: a Review. Articolo presentato al CIDIE Workshop on Environmental Impacts
of Economywide Policies in Developing Countries, 23-25 February 1993, The World Bank,
Washington, DC.

26   C. F. FRICKMANN YOUNG – J. BISHOP. cit.

27   WORLD BANK, Economywide Policies and the Environment: Emerging Lessons from Experience
Washington, DC, 1994.

28   D. REED (ed). 1992. Structural Adjustment and the Environment, London: Earthscan.

29   N. JOHNSTONE, cit.

30   C. PERRONI – R. M. WIGLE, International Trade and Environmental Quality: How Important are
the Linkages in Canadian Journal of Economics, 1994 Vol. 27, pp. 551-567.

31   J. BEGHIN – D. ROLAND HOLST – D. VAN DER MENSBRUGGHE, Trade Liberalisation and
the Environment in the Pacific Basin: Coordinated Approaches to Mexican Trade and Environment
Policy in American Journal of Agricultural Economics, Vol. 77 1991, pp. 778.

32   H. SIEBERT, Environmental Scarcity: The International Dimension, Tübingen 1991.

33   Su questo tema, cfr. L. PRITCHETT – L. SUMMERS, Wealthier is Healthier, in Journal of Human
Resources ,1996, p.841-869.

34   Nel 1870 la Gran Bretagna e gli Stati Uniti avevano un reddito pro capite nove volte maggiore di
quello dei paesi più poveri. 120 anni dopo, nel 1990, il reddito era maggiore di oltre 45 volte.
Se prendiamo i 17 paesi più ricchi del 1870, il loro reddito pro capite era due volte e mezzo
quello di tutti gli altri paesi insieme; oggi i 17 paesi più ricchi hanno un reddito di 4,5 volte
rispetto a quello del resto del mondo. Se vi è una  relazione causale tra ricchezza e qualità ambientale,
e se non vogliamo assistere, nel prossimo secolo, alla fine della preoccupazione per l’ambiente e la
sua conservazione fatta eccezioneper alcuni fortunati angoli del mondo il vero nemico da combattere
non è la globalizzazione, ma è la povertà, la cui crescita, come si è visto, non dipende dalla
globalizzazione: vedi The Economist, A Survey of the 20th Century, Sept 11, 1999, p.27. Cfr. su
questo argomento R. A. MITCHELL, How to link democratic governance with Economic Growth, in
American Diplomacy vol.3 n.4, autunno 1998 www.unc.edu/depts/diplomat/ amdipl_9/mitchell.html;
cfr. anche con specifico riferimento alla garanzia per la proprietà, Poverty and Property rights,
in The Economist, 31\3\2001, p.19-22.