A chi servono i prodotti geneticamente modificati?

Non
è un loro problema

Jacques Diouf,

Assemblea Fao, giugno 2002

1. I prodotti agricoli geneticamente ricombinati: trent’anni di scontri.

Attentato all’integrità della natura, pretesa di sostituirsi a
Dio o espressione della capacità dell’ingegno umano di adattare
la realtà e la natura ai propri bisogni? Cibo avvelenato o cibo
esattamente uguale a quello che si è usato in migliaia di anni
di trasformazioni naturali? Strumento di distruzione o di incremento della
biodiversità? Mezzo per sottoporre l’agricoltura mondiale al controllo
di poche multinazionali avide di profitti, o panacea per eliminare il
problema della fame nei paesi più poveri?

Queste sono le alternative che si contrappongono nelle discussioni in
merito alle ricombinazioni genetiche applicate all’agricoltura, e quindi
dei prodotti agricoli geneticamente modificati, che chiameremo d’ora innanzi
PAGM.

Fin dall’inizio degli anni Settanta, quindi ben prima della loro concreta
immissio-ne e diffusione sul mercato, i PAGM sono stati al centro di uno
scontro che ha ri-guardato non tanto le regole più appropriate
da applicare per utilizzare questi prodotti garantendo la sicurezza dell’ambiente
e la salute dei consumatori, ma l’ammissibilità da un punto di
vista etico e ambientale della loro produzione e del loro uso: un vero
e proprio scontro ideale tra opposte visioni del mondo.

Attualmente, i PAGM sono divenuti, con una crescita costante, una componente
importante della produzione agricola mondiale (anche se le aree agricole
interes-sate sono concentrate per il 99% in soli tre paesi: Stati Uniti,
Argentina e Canada, mentre il residuo 1% è suddiviso tra Cina,
Australia e Sudafrica): complessiva-mente erano coltivati con PAGM nel
1996 1,7 milioni di ettari, divenuti 11 milioni nel 1997, 27,8 milioni
nel 1998, e 39,9 mil nel 1999.[1]

Analoga è stata la crescita in termini economici: si è passati
da un volume d’affari di 75 mil $ nel 1995, a 2.2 miliardi $ nel 1999,
a 3 miliardi $ nel 2000; il volume d’affari è previsto di 25 miliardi
$ nel 2010 .

Lo scontro tra sostenitori e oppositori dei PAGM non è però
diminuito di intensità: osserva in proposito Richard Lewontin che
l’applicazione dell’ingegneria genetica all’agricoltura ha provocato reazioni
ed emozioni come mai si erano viste nella storia della innovazione tecnologica:
neppure i disastri di Three Miles Island e di Cernobyl hanno determinato
nell’opinione pubblica una ostilità nei confronti dell’energia
nucleare analoga a quella esistente nei confronti dei GM.[2]

Il confronto si è però spostato dalla ammissibilità
teorica dell’uso dei PAGM ai problemi connessi con il loro uso concreto.

Due sono le caratteristiche che il confronto ha assunto in questa seconda
fase.

In primo luogo una molteplicità di temi di carattere scientifico,
giuridico o pratico: sanitari, agricoli, ambientali, economici e proprietari
ha sostituito al centro della scena gli aspetti etici e politici, che
avevano polarizzato la fase iniziale del dibatti-to.

Ma questi ultimi non sono affatto scomparsi. Anzi, nella maggior parte
dei ca-si le prese di posizione sono ancora determinate non dall’acquisizione
di dati scientifici e da valutazioni razionali, ma da scelte di campo
operate pregiudizial-mente e fidesticamente in base a quei postulati etici
o politici formalmente scomparsi.

In secondo luogo, si è verificata una radicalizzazione geografica,
ed è penetrata nelle relazioni internazionali, materializzandosi
nella contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Europea in merito alla
coltivazione e alla commercializzazione di PAGM. L’UE mantiene infatti
– soprattutto per le sollecitazioni di taluni Stati membri – una posizione
di sostanziale blocco dell’utilizzazione di PAGM.[3]

Anche in questo caso ci sono, non dichiarati, aspetti che dipendono dai
diversi in-teressi economici, agricoli e soprattutto di concorrenza e
di struttura socio-agricola dei due blocchi.

Non va dimenticato infatti che l’agricoltura tradizionale è praticamente
scomparsa negli Stati Uniti (anche se sopravvive nell’immaginario dell’opinione
pubblica), mentre è assai forte, come componente sociale e politica,
in molti paesi dell’Unione Europea attuale, e soprattutto nei paesi che
sono pros-simi a farne parte (i paesi dell’Est Europa, in precedenza inseriti
nel blocco dell’Unione Sovietica).

Ma vi è un terzo aspetto dell’attuale confronto, ed è costituito
dal quasi parados-sale scambio delle parti tra sostenitori e oppositori
dei PAGM, sul quale vale la pena di soffermarsi.

2.
Il balletto malthusiano.

“La battaglia per raggiungere l’obiettivo di nutrire l’umanità
è fallita. Negli anni Settanta centinaia di milioni di persone
saranno condannate a morire di fame”.

Così esordiva il libro che ha rappresentato l’opinione ambientalista
neomalthusiana [4] degli anni Sessanta
del secolo scorso, The Population Bomb di Ehrlich [5].

Si è trattato di una previsione certamente errata, ma coerente
con la tradizionale impostazione ambientalista di preannunciare catastrofi
ecologiche tendenzial-mente irrimediabili per mobilitare l’opinione pubblica
e creare consenso: tra que-ste una delle colonne portanti era proprio
quella dei limiti della crescita e dell’imminente tracollo delle risorse
disponibili – e in particolare dell’insufficienza del cibo – a fronte
dell’aumento della popolazione .

Viceversa, i sostenitori del progresso hanno sempre irriso gli annunci
catastrofici degli ambientalisti, ritenendo che, come in passato, le scoperte
scientifiche e le innovazioni tecnologiche avrebbero permesso di affrontare
e superare le difficoltà.

La comparsa sulla scena dei PAGM, che – secondo una opinione diffusa –
potreb-bero eliminare o attenuare il problema della fame mondiale, ha
comportato un imprevedibile scambio delle parti.

Infatti gli ambientalisti, posti di fronte alla scelta tra la catastrofe
per fame e la catastrofe da innovazione tecnologica, hanno optato per
quest’ultima soluzione e hanno quindi scelto l’opposizione ai PAGM, abbandonando
il pericolo neomalthu-siano e tutte le argomentazioni connesse con i limiti
della crescita.

Ed infatti, la tesi più diffusa attualmente tra gli ambientalisti
è quella prospettata da Amartya Sen, secondo la quale il problema
della fame non dipende dalla man-canza di cibo o da limiti della natura,
ma dalle relazioni socioeconomiche: l’obiettivo è quindi quello
di agire su quelle cause, mentre l’innovazione tecnologi-ca costituita
dai PAGM permette un inutile aumento della produzione, provoca incontrollabili
rischi per l’ambiente e per la salute e non risolve il problema della
povertà[6] .

Un percorso diametralmente opposto hanno ovviamente dovuto seguire i fautori
del progresso.

Questi, per sostenere la necessità o quantomeno l’utilità
dei PAGM hanno accen-tuato il pericolo di catastrofi alimentari nel prossimo
futuro: l’accrescersi del pro-blema della fame nel mondo e, più
specificatamente, dei problemi agricoli e sani-tari che si proporranno,
in particolar modo nei paesi in via di sviluppo, per effetto dell’incremento
della popolazione mondiale . Secondo costoro, i PAGM permetto-no di evitare
questi pericoli, in quanto consentono di aumentare quantitativamen-te
e migliorare qualitativamente la produzione di cibo, di incrementare le
compo-nenti nutrizionali di singoli prodotti, di ridurre l’impatto ambientale
dell’agricoltura (consistente nella deforestazione e nell’uso di fertilizzanti
e pesti-cidi chimici). Viceversa, senza l’uso di tecniche biotecnologiche,
e ricorrendo e-sclusivamente alle tecniche tradizionali, sarà assai
difficile, e per molti impossibi-le nutrire i 9.4 miliardi di persone
che, secondo le stime, popoleranno la terra nell’anno 2050 .

Recisamente in questo senso sono, per esempio, le conclusioni del Rapporto
“Transgenic plants and world agriculture” predisposto dalla
Royal Society del Re-gno Unito : “La nostra conclusione è
che bisogna agire per venire incontro agli ur-genti bisogni di pratiche
agricole sostenibili a livello mondiale, e se si vuole soddi-sfare la
domanda di cibo di una popolazione mondiale in continua espansione sen-za
distruggere ulteriormente l’ambiente e le risorse naturali. A tal fine,
la tecnologia genetica, insieme alle altre tecnologie, deve essere usata
per incrementare la pro-duzione dele principali fonti di cibo, per migliorare
l’efficienza della produzione, per ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura
e per agevolare la vita dei piccoli pro-duttori” .

Tutto ciò porta inevitabilmente l’opinione pubblica a privilegiare
scelte determina-te dalla fiducia o dall’affinità con uno dei due
schieramenti in campo, piuttosto che da un interesse verso la conoscenza
dei dati scientifici e verso una analisi senza pregiudizi dei dati scientifici
e da scelte pacate e razionali.

*

Il tema degli effetti dell’espandersi dell’utilizzazione dei PAGM sul
problema della sottonutrizione e della fame nei paesi in via di sviluppo
e più in generale sull’aumento della popolazione mondiale ha acquisito
quindi una decisiva impor-tanza nel dibattito concernente la ragionevolezza
della utilizzazione futura di pro-dotti geneticamente ricombinati. Ed
infatti, a fronte dell’ opposizione ambientali-sta all’uso delle tecniche
genetiche applicate all’agricoltura, la insistenza sull’esistenza di un
interesse generale e collettivo – e non solo dei produttori, le multinazionali
della filiera agroalimentare – per l’utilizzazione e la diffusione dei
PAGM può essere giustificata solo se viene dimostrata la necessità,
o quanto me-no l’utilità dei PAGM per adeguare la futura produzione
agricola ai bisogni della popolazione.

È però necessario offrire al lettore alcuni dati che permettono
la comprensione delle argomentazioni che saranno svolte.

3.
Incroci tradizionali e PAGM.

Tutte le attuali coltivazioni agricole sono il risultato di lente e continue
selezioni operate attraverso i secoli, finalizzate a migliorare la produttività,
i valori nutri-zionali, la resistenza alle malattie, il gusto, ed anche
l’odore e il colore.

Questo significa che tutti gli attuali prodotti dell’agricoltura sono
diversi dalle specie originarie, dal loro “prototipo” naturale.
La maggior parte di essi – in Euro-pa oltre il 90% – deriva da specie
che hanno avuto origine in luoghi diversi da quelli in cui esse sono attualmente
coltivate, e sono quindi state importate nei luoghi ove sono attualmente
coltivate modificando in modo sostanziale e irrever-sibile le condizioni
naturali originarie.

Inoltre, molte delle specie da cui hanno tratto origine le specie oggi
coltivate sono ormai estinte: sopravvivono ormai solo gli incroci.

In Europa, più del 90% dei prodotti alimentari appartiene a questa
categoria.

Gli incroci e le clonazioni effettuati con tecniche tradizionali hanno
lo stesso o-biettivo degli organismi prodotti con l’ingegneria genetica,
cioè con tecniche con-sistenti nell’estrarre (con varie modalità
) il DNA corrispondente a uno o più geni specifici da un organismo
“donatore” e nell’inserirlo nella cellula di un organismo ricevente.
L’obiettivo è quello di ottenere varietà che offrono una
resa quantitati-vamente o qualitativamente migliore, incrementando la
resistenza alle condizioni ambientali in cui viene coltivata (per esempio
aridità del terreno, temperature più basse o più
elevate di quelle necessarie per la coltivazione della varietà
non modi-ficata), oppure incrementando la resistenza a parassiti o malattie
proprie della specie su cui si interviene, o infine incrementando la resistenza
a prodotti pesti-cidi o antiparassitari che debbono essere utilizzati.
L’obiettivo può anche essere quello di ottenere varietà
vegetali più pregiate perché gustose, più gradevoli,
più attraenti per il consumatore (per esempio, è per questo
che la carota, da viola che era, è stata resa arancione).

Sia gli incroci tradizionali che i PAGM sono basati sulla modificazione
del patri-monio genetico della specie oggetto dell’intervento. Per i primi
la modificazione è realizzata con il trasferimento casuale, incontrollato
e potenzialmente rischioso, di migliaia o diecine di migliaia di geni;
per i secondi con l’inserimento mirato di uno o più geni predeterminati.
Proprio per la casualità del risultato, l’incrocio di specie effettuato
secondo metodi tradizionali ha in vari casi prodotto nuove specie tossiche
per l’uomo, o specie più resistenti a determinati parassiti e in
taluni casi le specie incrociate hanno determinato l’estinzione delle
specie originarie .

A questo proposito va tenuto presente che – come hanno ricordato alcune
migliaia di scienziati sottoscrivendo un documento di sostegno per l’incremento
delle ri-cerche biotecnologiche e dell’utilizzazione dei PAGM – non vi
è prodotto alimen-tare, comunque ottenuto, che sia esente da rischi:
ogni varietà vegetale, comunque ottenuta, può produrre effetti
indesiderati e talvolta dannosi. Sotto questo profilo non c’è differenza
tra pratiche tradizionali e nuove tecnologie.

Questo significa che non solo gli incroci ottenuti con tecniche di ricombinazione
genetica, ma tutti le varietà vegetali possono produrre effetti
negativi e dannosi sull’ambiente o sulla salute umana; è quindi
privo di senso imputare questo peri-colo solo ai primi, dopo che per centinaia
e centinaia di anni si sono sopportati i rischi degli effetti dannosi
degli incroci tradizionali, in considerazione dei benefici ottenibili.

Vi è però una differenza tra varietà vegetali ottenute
con incroci tradizionali e PAGM. Le pratiche tradizionali sono vincolate
al rispetto dei limiti naturali sulla compatibilità delle specie:
solo specie che si assomigliano possono essere incro-ciate al fine di
ottenere varietà nuove e diverse, mentre specie non compatibili,
come pure specie appartenenti a generi (vegetale ed animale) diversi,
non posso essere incrociate. Al contrario, le tecnologie che utilizzano
il DNA ricombinante possono essere utilizzate per ottenere modificazioni
genetiche che non sarebbe possibile ottenere avvalendosi di pratiche tradizionali,
inserendo in specie o varietà vegetali geni estratti da batteri
o altri organismi animali, e realizzare così i c.d. or-ganismi
transgenici.

Naturalmente, il fatto che con le tecniche di ingegneria genetica si riescano
ad ot-tenere incroci che non si riescono ad ottenere con le tecniche tradizionali
non si-gnifica che solo i primi siano “innaturali”.

Se con il termine natura si intende una realtà non toccata o non
trasformata dall’uomo, non c’è alcuna differenza tra tecniche tradizionali
e tecniche di inge-gneria genetica: entrambe creano prodotti innaturali.
In entrambi i casi l’uomo si è sostituito alla natura o a Dio (utilizzando
le tecniche di volta in volta messe a disposizione dal progresso scientifico
e tecnologico). E – per quanto già detto – so-no innaturali la
quasi totalità dei prodotti alimentari oggi utilizzati.

La differenza – e quindi l’eventuale diverso trattamento giuridico – è
quindi tra prodotti alimentari parimenti innaturali, ma gli uni ottenuti
artificialmente con tecnologie utilizzate da migliaia d’anni, gli altri
ottenuti artificialmente, ma con tecnologie che solo da pochi decenni
sono a disposizione.

È solo in questa differenza e nei loro specifici effetti – se esistono
– che dovrebbero essere individuate le ragioni che determinano l’accettabilità
degli incroci tradizio-nali e l’inaccettabilità dei PAGM, e quindi
divieti o limitazioni alla coltivazione o alla commercializzazione di
questi ultimi, sotto il profilo del pericolo per l’ambiente, o per la
salute.

4.
La popolazione mondiale.

Siamo attualmente più di 6 miliardi di esseri umani.

Eravamo 3.5 miliardi nel 1968.

L’aumento della popolazione è dovuto al generalizzato aumento dell’aspettativa
di vita per effetto delle migliori condizioni di igiene, di assistenza
sanitaria, alla maggiore disponibilità di acqua, al ridursi dell’inquinamento.

Il tasso di aumento della popolazione mondiale è oggi 1,3\1,4%
(era 2,1% nel 1968). Al tasso di crescita attuale, la popolazione mondiale
è destinata a raddop-piare in cinquanta anni: questo significa
12 miliardi di persone nel 2050. Ma è probabile che il tasso decresca
nel prossimo futuro (con il migliorare delle condi-zioni di vita, soprattutto
delle donne) e quindi l’aumento della popolazione sia più contenuto.

Secondo previsioni delle Nazioni Unite del 1996, recentemente aggiornata
e rivi-sta, si dovrebbe giungere a una popolazione di circa 8 miliardi
nel 2025 e di 9 o 10 miliardi di persone nel 2050 (con una stabilizzazione
finale della crescita a 11 miliardi verso il 2200) . Inoltre, nel 2050
circa 9 persone su 10 vivranno nei pae-si in via di sviluppo.

5.
L’agricoltura mondiale nel ventesimo e ventunesimo secolo.

Prima del ventesimo secolo, l’aumento della produzione agricola era determinato
quasi esclusivamente dall’aumento delle aree coltivate .

A partire dagli anni Trenta del secolo scorso, con l’avviarsi dell’utilizzazione
prati-ca di nuove tecniche di ibridazione e con la creazione di nuove
varietà delle specie più coltivate più resistenti
o più prolifiche, comincia ad aumentare la produttivi-tà,
prima negli Stati Uniti, poi, più tardi, in Europa e in Giappone.

Utilizzando queste tecniche, tra il 1935 e il 1975 la produzione di granturco
au-menta negli Stati Uniti del 60%.

A partire dalla fine degli anni Sessanta, proprio la progettazione e l’utilizzazione
di nuove varietà più produttive o più resistenti
(che rendono possibile il passaggio da uno a due raccolti all’anno), insieme
all’uso dell’azoto come fertilizzante e in-sieme a consistenti investimenti
in opere di irrigazione sono le componenti della c.d. Rivoluzione verde
che dapprima coinvolge l’Asia e l’America latina e comincia a far sentire
i suoi effetti in Africa negli anni Novanta.

Tre colture – frumento, granturco e riso – sono state l’oggetto principale
della Rivoluzione verde; essenzialmente per l’aumento della loro produzione
nel corso dei trent’anni è stata evitata quella crisi da mancanza
di cibo nei paesi in via di sviluppo che Ehrlich aveva previsto come inevitabile
.

Queste tre colture oggi coprono circa la metà di tutte le terre
coltivate (che am-montano a circa il 35% della superficie terrestre, escluse
le ragioni polari); esse inoltre costituiscono le principali fonti di
nutrimento della popolazione mondiale e compongono la maggior parte delle
calorie presenti nella dieta umana . A partire dal 1967, la produzione
di queste colture è aumentata tra il 79% e il 97% solo per effetto
della maggior resa ottenuta utilizzando le nuove varietà, i fertilizzanti
chimici azotati e moderne tecniche di irrigazione, e solo per una minima
parte per l’aumento delle aree coltivate (in mancanza di aumento della
produttività, per raggiungere lo stesso risultato si sarebbe dovuta
destinare ad uso agricolo un’area della dimensione dell’intera Amazzonia
, e questo dimostra gli incalcola-bili benefici di carattere ambientali
provocati dalle tecnologie impiegate nella Rivo-luzione Verde).

La situazione attuale è quindi ben diversa da quella prevista da
Ehrlich e da molti neo-malthusiani degli anni Sessanta: nel periodo di
circa quarant’anni la popola-zione mondiale è effettivamente raddoppiata,
ma è più che raddoppiata la disponi-bilità di cibo,
sia pure in modo diseguale tra paesi sviluppati e paesi in via di svi-luppo.
Il risultato è che nei paesi sviluppati il problema è non
la carenza, ma l’eccesso di cibo, e quindi la necessità di sostenere
i prezzi e proteggere la produ-zione agricola (i prezzi dei prodotti alimentari,
proprio per l’abbondanza dell’offerta rispetto alla domanda, sono diminuiti
in media di circa due terzi ri-spetto al prezzo del 1957) . A questo proposito,
deve osservarsi che la rallentata crescita della produzione di cibo nella
seconda metà degli anni Novanta non di-pende – come molti ritengono
– dall’esaurirsi degli effetti della Rivoluzione Verde, ma da deliberate
scelte di politica agricola dei paesi ricchi, che hanno così cercato
di limitare il surplus .

Inoltre, proprio per effetto dell’aumento della quantità di cibo
disponibile e della diminuzione dei prezzi si è ridotto, come abbiamo
visto, il numero di persone cro-nicamente sottonutrite nel mondo: erano
– secondo stime delle Nazioni Unite che però molti esperti hanno
giudicato non attendibili – oltre 900 milioni all’inizio de-gli anni Settanta,
sono nel 1997 circa 800 milioni di persone .

Naturalmente, la Rivoluzione verde non è stata priva di effetti
di carattere am-bientale, economico e politico. Essendo determinata da
tecnologie ad alto uso di energia e di know-how, ha rimpiazzato le tecniche
agricole semplici e spesso a conduzione famigliare; favorendo monoculture
intensive, ha ridotto l’autonomia agricola locale e regionale, creando
nuove forme di dipendenza e immettendo gli agricoltori in un sistema di
banche di sementi, fertilizzanti, macchine agricole, finanziamenti, organizzazioni
politiche; ha creato vincitori e vinti su scala mondiale, privilegiando
coloro che sono riusciti a tenere il passo con i paesi ricchi e danneggiando
chi non ci è riuscito: nel 1950 l’agricoltura dei paesi ricchi
era sette volte più efficiente di quella dei paesi poveri; nel
1985, trentasei volte .

6.
La produzione di cibo: previsioni per il futuro.

Torniamo ora al tema centrale di questo articolo.

Le previsioni concernenti la quantità di cibo disponibile nel futuro
sono di estre-ma importanza per valutare se i PAGM siano utili o indispensabili
per affrontare il problema del nutrimento dell’accrescersi della popolazione
mondiale o quantome-no per evitare un incremento delle persone sottonutrite
e affamate nel mondo. E la necessità di capire se i PAGM siano
necessari, o magari soltanto utili, dipende anche dal fatto che negli
anni Novanta del secolo passato, salvo che in Africa, gli effetti delle
tecnologie utiizzate per realizzare la Rivoluzione Verde sembrano es-sersi
approssimati al limite fisiologico; anche in molti paesi asiatici la produzione,
dopo essere incessantemente salita fino ai primi anni Novanta si è
poi mantenuta stabile .

Naturalmente le previsioni in questo campo sono assai ardue, per la molteplicità
di fattori da considerare (oltre a quello strettamente agroalimentare,
si deve tener conto degli aspetti climatici, economici, politici e di
relazioni internazionali), sia per i diversi e spesso non dichiarati interessi
degli esperti e degli scienziati pro-prio con riferimento all’impiego
di tecniche genetiche (in quanto i sostenitori di queste ultime tendono
ad accentuare la probabilità di un futuro peggiore dell’attuale,
mentre gli oppositori favoriscono ipotesi ottimistiche).

Così, è prima di tutto assai incerto uno dei dati di partenza
di qualsiasi previsione e cioè la quantità delle persone
sottonutrite nel futuro.

Secondo il rapporto della Royal Society (che è nettamente favorevole
all’utilizzazione dei PAGM) l’attuale cifra di 800 milioni di persone
sottonutrite è destinata a raddoppiarsi nel 2050, se non interverranno
consistenti modificazioni sulle cause che generano il sottonutrimento
.

Invece, secondo altre stime (per esempio, la stima della FAO del 1996)
il numero complessivo delle persone sottonutrite dovrebbe continuare a
calare, riducendosi nel 2050 sulla quantità di 600 milioni .

Pur essendo questa contrapposizione di tali dimensioni da rendere di per
sé solo arduo qualsiasi esercizio previsionale, su un dato però
vi è un sostanziale accordo tra tutti gli specialisti: futuri aumenti
della produzione agricola dovranno basarsi su un aumento della produttività,
e non su una estensione dei territori destinati all’agricoltura. Ciò
per due ragioni. Prima di tutto, perché le aree disponibili e in
concreto utilizzabili per l’agricoltura sono già scarse, e continuano
a diminuire, sia per cause naturali (erosione, mancanza di acqua, desertificazione,
ecc.) , sia per l’assoggettamento ad altre destinazioni; poi perché
una estensione delle aree destinate all’agricoltura oltre i limiti attuali
produrrebbe costi economici e orga-nizzativi difficilmente sopportabili
per molti paesi e, inoltre, un aumento non so-stenibile dell’inquinamento
ambientale (per effetto della distruzione delle foreste, dell’habitat
naturale e della biodiversità).

La questione centrale è quindi se sia possibile un aumento della
resa delle colti-vazioni adottando le stesse tecniche introdotte dalla
Rivoluzione Verde (e quindi senza utilizzare le nuove tecnologie genetiche),
senza provocare danni non soste-nibili all’ambiente, in modo da soddisfare
il prevedibile aumento della domanda dovuto all’aumento della popolazione
mondiale.

A questa domanda hanno cercato di dare risposta negli ultimi anni molti
esperti di statistica, di economia agricola, e di politiche di intervento
pubblico nell’economia..

Partiamo con dei dati.

La crescita della domanda di cibo, relativamente alle quattro specie esaminate,
è stata stimata fino al 2020 in misura di 1,2% all’anno per cereali
e riso, 1,5% per granturco .

Questo significa che sarà necessario un aumento di produzione del
44% per i ce-reali, del 43% per il riso e del 56% per il granturco, rispetto
alle quantità attuali, da ottenersi senza un sostanziale aumento
di terre coltivate.

Molti studi sono stati compiuti per verificare quale sia la produttività
massima raggiungibile con le tecniche agricole attualmente utilizzate;
tenendo conto della produttività massima raggiunta dalle varie
specie nelle migliori condizioni am-bientali e tecnologiche possibili,
la conclusione più diffusa è che non potranno essere superati
di molto i livelli raggiunti attualmente dalle colture più produttive
nei paesi più avanzati, se non introducendo nuove sofisticate tecnologie
che per-mettano di intervenire sull’efficienza della fotosintesi e sul
metabolismo delle piante .

Posto questo limite, le previsioni non sono per nulla pessimistiche.

Secondo la maggior parte degli esperti l’obiettivo di raggiungere una
produzione di circa 3 miliardi di tonnellate di cereali per soddisfare
la domanda mondiale di cir-ca 8 miliardi di persone nel 2025 può
essere raggiunto senza aumentare il terreno coltivato e utilizzando le
tecniche attualmente in uso, solo aumentando la produtti-vità dei
paesi meno avanzati in modo da portare la produzione ai livelli già
rag-giunti dai paesi ricchi, anche se saranno necessari imponenti processi
di razionalizzazione nel raccolto, nella conservazione e nella distribuzione
dei prodotti alimentari, eliminando gli sprechi che ora caratterizzano
il sistema agroalimentare mondiale .

In definitiva la situazione mondiale per ciò che riguarda la produzione
globale di cibo dovrebbe continuare nella tendenza al miglioramento .

7.
Molto cibo, ma maldistribuito.

La quantità globale di cibo sarà quindi sufficiente, secondo
la maggior parte delle previsioni, a far fronte alla domanda globale della
popolazione nei prossimi tre\quattro decenni; ma questo dato non è
di per sé sufficiente a concludere che sarà risolto il problema
della fame nel mondo.

Infatti, la produzione di cibo non è distribuita uniformemente
in rapporto alla po-polazione e alle previsioni di crescita. Anzi: si
è visto che la produzione di cibo è già oggi sovrabbondante
nei paesi ricchi, dove l’aumento della popolazione sarà esiguo,
mentre è oggi deficitaria nei paesi poveri – soprattutto in Africa
e in Asia – dove è previsto il più alto tasso di crescita
della popolazione.

Per queste ultime aree, destinate a ricevere il maggior incremento di
popolazione, non sarà prevedibilmente possibile ottenere un aumento
della produzione di cibo che soddisfi le necessità della aumentata
popolazione.

Pertanto per soddisfare la domanda di cibo sarà necessario – se
non si ipotizzano altre soluzioni – realizzare efficienti processi di
trasferimento di cibo dai paesi ric-chi (ove la produzione è in
eccedenza) ai paesi in via di sviluppo.

“Non si getta via la minestra, perché la gente muore di fame”.
Questo ammonimen-to impartito dai genitori ai figli della mia generazione
(mi riferisco agli anni Cin-quanta del secolo scorso), dovrebbe quindi
essere destinato a divenire di pressan-te attualità nel futuro.

Ma è difficile trasferire la minestra avanzata nelle case dei paesi
ricchi verso le capanne dei paesi poveri. Pertanto è proprio sulla
realizzabilità del trasferimento che si concentrano le maggiori
preoccupazioni.

Non è infatti assolutamente chiaro come questo trasferimento potrà
essere realiz-zato e garantito, sotto vari punti di vista: dal punto di
vista commerciale e della global governance, posto che attualmente il
commercio mondiale dei prodotti ali-mentari è stato solo sfiorato
dal vento di libertà e di libera concorrenza portato dalla globalizzazione
(non casualmente, potendo essere la libera concorrenza in questo settore
devastante per le economie dei paesi ricchi); dal punto di vista or-ganizzativo-logistico;
infine, dal punto di vista meramente economico, posto che certamente gli
affamati dei paesi in via di sviluppo non sono in grado di acquista-re
sul mercato mondiale le derrate alimentari prodotte nei paesi ricchi.

In definitiva, le previsioni, seppur rassicuranti e addirittura ottimistiche
per ciò che riguarda la produzione di cibo, non risolvono il problema
essenziale, e cioè quello di far incontrare l’abbondante offerta
con l’abbondante domanda; ma nes-suno indica la strada per risolvere questo
problema. Molti però ritengono che non sia questo il problema.

8.
La fame dipende davvero dalla mancanza di cibo?

L’idea che i problemi alimentari futuri debbano o possano risolversi trasferendo
cibo dai paesi ove è sovrabbondante ai paesi ove manca è
ritenuta da molti irrea-lizzabile e errata.

Costoro osservano che la vera causa della fame non è la mancanza
di cibo: è la di-seguaglianza.

È questo per esempio il pensiero di Amartya Sen secondo il quale
non vi è colle-gamento tra mancanza di cibo e fame: la storia insegna
che la gente muore di fa-me in presenza di sovrapproduzione di cibo al
quale però non ha accesso per mancanza di mezzi . La causa della
fame non è quindi la mancanza di cibo, è la povertà.
Il problema non sta dalla parte dell’offerta, sta dalla parte della doman-da
.

Aumentare la produzione di cibo con le stesse modalità con le quali
viene prodot-to oggi sarà inutile in futuro, come è inutile
oggi: il cibo non viene trasferito da chi lo ha a chi non lo ha, perché
il trasferimento costa troppo e perché chi non produce cibo non
ha neppure i mezzi per comprarlo sul mercato mondiale.

La fame è determinata quindi, come sostengono gli ambientalisti
di oggi, a diffe-renza degli ambientalisti di alcuni decenni orsono, non
da condizioni naturali e dalla mancanza di cibo, ma dalla mancanza di
mezzi per procurarsi il cibo . In questa prospettiva, ciò che risulta
necessario per realizzare l’obiettivo di garantire cibo sufficiente per
tutti è realizzare concretamente la possibilità di aumentare
la produzione di cibo lì dove c’è il bisogno, senza ipotizzare
inattuabili trasferimenti.

Questo significa che la fame nei paesi in via di sviluppo può e
deve essere affron-tata nei prossimi decenni non solo aumentando la produzione
agricola e non tan-to organizzando complessi meccanismi redistributivi,
ma anche – e soprattutto – creando tutte le condizioni economiche, materiali,
politiche, di educazione, di e-guaglianza e non discriminazione, di buon
governo che permettono di incremen-tare il benessere della collettività
e quindi di incrementare i mezzi economici ne-cessari per acquisire il
cibo necessario sul mercato o per coltivarlo. La fame si combatte con
la giustizia sociale.

In proposito, osserva Norman Borlaug, premio Nobel e uno dei padri della
Rivolu-zione Verde, che i raccolti possono essere aumentati del 50% o
addirittura del 100% in India, America latina e nelle aree della ex Unione
Sovietica, e fino al 200% nell’Africa Subsahariana, a condizione che sia
mantenuta la stabilità politi-ca e sia favorita l’iniziativa privata
nel settore agricolo .

9.
Politiche agricole per i paesi in via di sviluppo: l’utilità dei
PAGM.

Eppure, anche questa conclusione non lascia soddisfatti.

L’aspetto che lascia perplessi è proprio quello sul quale, in definitiva,
dovrebbe ruotare l’intero meccanismo cui è rimesso il nutrimento
futuro della popolazione sottonutrita a livello mondiale.

Se le previsioni sull’aumento della produzione di cibo tramite aumento
della pro-duttività utilizzando le tecnologie proprie della Rivoluzione
verde non offrono una rassicurante soluzione al problema del necessario
trasferimento di cibo dai paesi ricchi ai paesi poveri, la soluzione basata
sull’aumento di giustizia sociale in que-sti ultimi nei prossimi tre\quattro
decenni sembra altrettanto irrealizzabile, quan-tomeno per la maggior
parte dei paesi interessati, tenuto conto della situazione attuale caratterizzata
da pesanti disuguaglianze, guerre civili, corruzione, ineffi-cienza amministrativa
e sprechi.

In proposito, è stato osservato che è certamente vero che
centinaia di milioni di persone sono affamate non perché non ci
sia il cibo, ma perché sono povere e non hanno i mezzi per acquistarlo
o per coltivarlo; ma il problema per la grande mas-sa degli affamati non
è ottenere mezzi economici per l’acquisto di cibo, ma avere la
possibilità di coltivare i prodotti agricoli necessari per la loro
sussistenza .

Pertanto, se è vero che chi ha fame non ha cibo perché è
povero, è altrettanto vero che è povero perché non
ha cibo, perché i raccolti sono insufficienti, la resa delle varie
specie agricole disponibili è assai bassa, il terreno è
arido, l’acqua per irriga-re manca, e così via. È questo
lo scenario che caratterizza una grande numero di paesi in via di sviluppo,
dall’Africa all’Asia, ove oggi quasi un miliardo di persone muore di fame
perché vive al di fuori del mercato: non solo del mercato globale,
ma anche dei mercati locali. E non è assolutamente credibile ipotizzare
una radi-cale trasformazione di questo scenario con l’improbabile rapida
adozione di politi-che di giustizia sociale.

Ecco che allora si profila l’utilità dei PAGM per uno specifico
settore di mercato, quello dell’agricoltura dei paesi in via di sviluppo.

Non come alternativa all’incremento di produttività da realizzarsi
con le tecnologie offerte dalla Rivoluzione verde, né come alternativa
all’adozione nei paesi in via di sviuppo di politiche sociali e agricole
che a loro volta incrementino le possibilità di accesso al cibo
per coloro che oggi sono esclusi, ma come strumento specifico di intervento
finalizzato a soddisfare la domanda di sopravvivenza – che vuol dire essenzialmente
domanda di modeste quantità di cibo e di basilare assistenza sa-nitaria
– di chi sta nei paesi in via di sviluppo, e non ha accesso né
al mercato, né alla giustizia sociale; il che significa alcune
centinaia di milioni di persone per le quali la sopravvivenza è
legata soltanto alla possibilità di coltivare i prodotti di cui
hanno bisogno.

In queste economie quindi la tecnologia genetica può esplicare
tutte le sue poten-zialità, creando PAGM resistenti ai parassiti,
alla mancanza di acqua, e in genera-le alle difficili condizioni ambientali.

Per esempio, tutti i prodotti agricoli nei quail si è riuscito
ad inserire il Bacillus Thuringiensis, che produce una tossina fortemente
insetticida hanno rivelato, proprio per questa accentuata resistenza ai
parassiti, un consistente aumento della produttività .

Inoltre, sono state realizzate specie di riso e di granturco transgenico
che sono in grado di tollerare suoli con alta concentrazione di alluminio,
un problema comu-ne dei suoi con elevato tasso di acidità, assai
diffusi nei paesi tropicali, e sinora poco produttivi (ma anloghi prodotti
sono in corso di elaborazione per ridurre, mediante la coltivazione, la
concentrazione di mercurio nel terreno. Altri scienziati all’università
di Delhi hanno allo studio un riso che, a seguito dell’aggiunta di due
geni, è in grado di sopravvivere in situazioni – frequenti in molti
paesi asiatici – di prolungata immersione nell’acqua. Un altro gruppo
di ricercatori ha ottenuto un riso transgenico in grado di produrre betacarotene,
che nel processo digestivo può essere convertito in Vitamina A
(di cui sono carenti in Asia 180 milioni di bambi-ni, con due milioni
di morti per cause connesse alla deficienza di questa vitami-na). È
anche in corso di progettazione un riso con un contenuto di ferro triplo
ri-spetto a quello naturale, utile per evitare anemie che dipendono dall’assenza
di questo minerale. In Kenya è stata realizzata una patata dolce
transgenica che è resistente ad un distruttivo virus . Si sta rivelando
di enorme importanza inoltre la possibilità di utilizzare i PAGM
a fini di assistenza sanitara: sono assai avanzati gli studi per l’inserimento
di vaccini all’interno di prodotti commestibili, come le banana, ottenendo
con ciò il risultato di immunizzare con il cibo i bambini dei paesi
in via di sviluppo ai quali la somministrazione di vaccini è preclusa
da diffi-coltà organizzative, logistiche o finanziarie .

L’elenco potrebbe continuare.

Ma già questi esempi impongono di rifletter sul fatto che, se il
reale problema è quello di creare fonti di nutrimento lì
dove ci sono le persone che ne hanno biso-gno, l’uso dei PAGM può
costituire la soluzione più ragionevolmente realizzabile nel periodo
di tre\quattro decenni in considerazione, senza affidarsi a irrealizzabi-li
trasferimenti di cibo su scala globale, e neppure all’adozione di improbabili
ri-forme istituzionali nei paesi in via di sviluppo, ma soltanto nella
disponibilità del-le sementi necessarie: cioè di beni il
cui costo è irrisorio ed alla portata di tutti.

10.
Lo scontro sui PAGM: gli attori.

Se si tiene conto di questi dati, la moltitudine di attori che popola
il confuso sce-nario dello scontro sui prodotti geneticamente ricombinati
comincia a sgranarsi nelle sue componenti, e le singole posizioni cominciano
ad assumere una forma e un significato.

Partiamo dagli oppositori dei PAGM.

Ci sono prima di tutto i gruppi ambientalisti e l’opinione pubblica che
a loro fa ri-ferimento.

I gruppi ambientalisti tengono essenzialmente conto della situazione di
benessere economico e ambientale dei paesi ricchi, cioè dei paesi
in cui si trovano i loro ade-renti, i loro finanziatori, e l’opinione
pubblica che li sostiene, dove si trovano i consumatori e le loro associazioni.

Per tutti costoro, il rifiuto dei PAGM non comporta alcuna conseguenza
negativa sul tenore di vita e sul benessere alimentare: essi offrono infatti
la possibilità di una superflua aggiunta di cibo in una situazione
in cui i problemi sono l’obesità e l’eccesso di cibo e non la fame
. L’introduzione dell’uso dei PAGM, per converso, non porta alcun beneficio:
non aggiunge nulla a ciò che già c’è, sicché
ogni rischio per quanto minimo e trascurabile, risulta ingiustificato.

Come ha detto Jacques Diouf, Direttore generale della FAO nel suo discorso
i-naugurale dell’Assemblea generale svoltosi a Roma nel giugno del 2002,
“Non è un loro problema”.

I gruppi ambientalisti soprattutto in Europa sono tutt’altro che soli.

Hanno il sostegno – assai importante da un punto di vista ideologico-culturale
– di movimenti fondamentalisti (di derivazione religiosa o puramente conservazioni-sta),
per i quali la lotta ai PAGM costituisce un ottimo strumento per impostare
battaglie a difesa della vita, della creazione o della natura (con tutti
i limiti e le contraddizioni che abbiamo indicato nei precedenti capitoli);
hanno inoltre il so-stegno del frastagliato movimento antiglobalizzazione,
per il quali la lotta ai PAGM assume il significato di lotta contro l’estendersi
a livello mondiale del potere eco-nomico e tecnologico delle multinazionali
americane.

Ma soprattutto c’è, come potente alleato nell’arena dei rapporti
di forza economi-co-politici dei paesi ricchi europei, la filiera agroalimentare
tradizionale: i conta-dini, gli agricoltori, gli allevatori e le organizzazioni
politico-sindacali che li rap-presentano, i vari settori produttivi della
coltivazione dei prodotti agricoli (e quindi i produttori di erbicidi,
pesticidi e sostanze chimiche necessarie per l’attuale mo-do di produzione)
e delle trasformazione dei prodotti agricoli in prodotti di merca-to,
e poi, via via, i settori dell’Amministrazione pubblica e del potere legislativo
che rappresenta i diversificati, consistenti interessi che su tale filiera
convergono.

Per tutti costoro, l’utilizzazione e la diffusione dei PAGM presentano
il rischio di seri danni: rischiano infatti di compromettere il virtuosistico
gioco di prestigio i-stituzionale-giuridico-economico su cui si regge
il sistema agroalimentare dei pa-esi ricchi, rivolto a mantenere, nell’ampia
marea della globalizzazione, un precario equilibrio protezionistico tra
eccesso di produzione e garanzia di profitti.

Se passiamo dall’altra parte dello schieramento, tra i sostenitori dei
PAGM e tra coloro possono trarre benefici, emergono dalla indistinta moltitudine
attori che ri-vestono questo ruolo solo da poco tempo e cioè da
quando il dibattito si è focaliz-zato sul tema agricolo e alimentare,
e che paiono essere i veri destinatari dei PAGM: tutte le diecine e diecine
di milioni di persone che popolano i paesi in via di sviluppo, che non
hanno mezzi per accedere al mercato dei prodotti alimentari finiti, che
non partecipano a formare la pubblica opinione e non partecipano quindi
al dibattito mondiale, che devono fare i conti non solo con un ambiente
o un terreno ostili per trarre l’essenziale per la sussistenza, ma, assai
spesso, an-che con l’indifferenza dei governi dei loro paesi.

Per costoro, l’utilizzabilità di PAGM adatti alle loro necessità
e ai loro bisogni si-gnifica la chance di oltrepassare la linea rossa
della sottonutrizione: significa un aumento di possibilità di sopravvivenza,
a partire dalla disponibilità di poche se-menti .

Ci sono poi le potenti – e famigerate – multinazionali dell’agroalimentare,
cioè le organizzazioni che sui PAGM hanno investito ingentissime
risorse e hanno pro-gettato enormi profitti.

Ma proprio queste – accusate di voler sottoporre al proprio controllo
e alle proprie finalità commerciali la futura produzione agricola
mondiale – si trovano ora di fronte a una inaspettata e paradossale situazione.

Ed infatti i PAGM, prodotto di anni di ricerca scientifica e di sofisticata
tecnologia dei paesi ricchi, oggetto di enormi investimenti finanziari
e di altrettanto enormi aspirazioni di guadagni, rischiano di rivelarsi,
salvo che per alcune produzioni di nicchia, dei beni inutili e forse anche
dannosi proprio per i paesi ricchi ove pos-sono soltanto aggravare il
problema della sovrapproduzione agricola e quindi al-terare il precario
equilibrio di sovvenzioni, protezionismo e contenimento della produzione
che lì tutela gli agricoltori e, indirettamente, l’intero mercato
agroali-mentare. Nello stesso tempo, i PAGM si profilano dei beni preziosi
e indispensabili per i paesi in via di sviluppo, e per i più poveri
tra questi: quindi per un mercato che certamente non è in grado
di soddisfare con i propri mezzi le aspirazioni di profitto e di ripagare
gli investimenti dei produttori dei PAGM.

Così, i principali sostenitori dell’uso dei PAGM, le multinazionali
della biotecnolo-gia, vedono profilarsi defatiganti e costose opposizioni
da parte dei consumatori ai quali i loro prodotti sono diretti, perché
possono pagarli, e nel contempo la do-manda e il bisogno di quegli stessi
prodotti da parte di una massa di possibili consumatori non in grado di
far fronte ai costi.

Gli attori però non finiscono qui.

Tra gli schieramenti si collocano, esitanti, i governi dei paesi ricchi
– soprattutto in Europa -, stretti da un lato dalla pressione della domanda
dell’opinione pub-blica e dalla struttura agroalimentare tradizionale,
contraria all’uso dei PAGM, d’altro lato da necessità – non tanto
e non solo do carattere altruistico, ma di ga-rantire margini di complessiva
stabilità economica e politica nei prossimi decenni in un mondo
la cui popolazione sarà sempre più squilibrata – di soddisfare
le ne-cessità alimentari del prossimo futuro dei paesi in via di
sviluppo. Tutti questi go-verni si trovano nella peggiore delle posizioni,
si trovano cioè di fronte alla scelta tra assumere decisioni gradite
alla generazione presente, da cui dipende la loro elezione e il loro sostegno,
ma tali da compromettere l’equilibrio alimentare e quindi politico fra
pochi decenni, oppure decisioni sgradite agli elettori presenti ma necessarie
per le generazioni future non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche
dei paesi ricchi.

Ci sono anche i governi dei paesi in via di sviluppo, che si trovano assai
spesso in una situazione non migliore: dovrebbero decisamente optare per
l’adozione di nuove tecnologie agricole, ma questo significherebbe indirizzare
investimenti per avviare la costruzione di situazioni di maggior benessere
per gli strati più poveri della popolazione e così alterare
alle radici la struttura sociale, il tessuto di tradi-zioni e di consuetudini
dei paesi che governano, i meccanismi internazionali di aiuti e sovvenzioni,
e in generale minare alle basi i presupposti sui quali si basa il loro
potere.

11.
Conclusioni.

Così la realtà dell’economia agricola mondiale e l’analisi
dei bisogni e dell’offerta nel futuro focalizzano in posizioni più
precise la moltitudine degli attori sulla sce-na dello scontro sui PAGM
e delineano uno scenario per molti versi inaspettato; si scompaginano
così certezze acquisite e vengono allo scoperto pregiudizi e ideolo-gie
sulla base delle quali esse sono state costruite.

Molti sostenitori dei PAGM, bollati come ingenui amanti del progresso,
oggettiva-mente (se non volontariamente) al servizio degli interessi economici
e dell’ansia di profitto delle multinazionali della genetica, risultano
schierati a difesa della ne-cessità di garantire la sopravvivenza
alimentare nei paesi in via di sviluppo.

Viceversa, ambientalisti e altri oppositori dei PAGM, sostenuti dai movimenti
di sinistra e genericamente antiglobalizzazione, si trovano ad essere
schierati con i settori più conservatori delle società ricche,
difensori degli interessi della filiera agro-chimica-alimentare tradizionale,
egoisti difensori del benessere acquisito e indifferenti alle esigenze
di chi, nei paesi in via di sviluppo, muore di fame.

Restano, ancora, difficili problemi da risolvere: non quelli della produzione
di ci-bo, né quelli del suo trasferimento, né quelli di
una trasformazione in senso de-mocratico dei paesi in via di sviluppo,
ma quelli connessi con la soluzione di un problema che sempre più
si porrà sul tappeto delle relazioni internazionali, e cioè
come sarà possibile l’incontro dell’offerta di PAGM da parte delle
multinazionali che sui PAGM detengono la proprietà intellettuale,
alla ovvia ricerca di profitti e di compensi per gli investimenti realizzati,
con la domanda dei paesi in via di svi-luppo che, come si è detto,
sicuramente non saranno in grado di soddisfarne le richieste economiche.

Ed ecco così che, alla fine di questo scritto, scopriamo che il
problema davvero centrale dell’utilizzazione dei PAGM diventa non quello
etico dal quale lo scontro sui PAGM ha preso le mosse, né quello
di economia distributiva, né quello della politica agricola, e
neppure quello di politica internazionale, ma la questione della global
governance e degli equilibri di diritti e di accesso alle risorse nel
mondo globalizzato.

[1] United States Department of Agriculture Economic Research Service
(ERS), Biotech corn and soybeans: Changing markets and the government’s
role, 2000, Washington, DC. [torna su]

[2] Richard Lewontin, Genes in the Food!, in NYRB June 21, 2001 [torna
su
]

[3] Nel dicembre del 1996 la Commissione dell’UE, dopo aver ottenuto
il parere favorevole di tre or-ganismi consultivi, ha autorizzato la commercializzazione
del granturco geneticamente modificato (con un brevetto Novartis) con
un gene che rendeva il prodotto resistente non solo contro un erbi-cida
e un parassita, ma anche contro un antibiotico (l’ampicillina).
Da allora, il granturno modifi-cato è coltivato in Spagna, in Francia
e in Portogallo. Subito dopo, Austria e Lussemburgo hanno vietato l’uso
del granturco modificato sul loro territorio. La Commissione ha ritenuto
illegittima la decisione dei due paesi membri, ma nessuna iniziativa è
stata adottata da parte dell’UE per otte-nere l’eliminazione
dei divieti, che sono quindi tuttora in vigore. Nel frattempo, a seguito
di un giudizio promosso in Francia da Greenpeace e da Friends of the Earth,
il Conseil d’Etat nel settem-bre del 1998 ha sospeso la commercializzazione
del granturco modificato, rimettendo la questione della corretta applicazione
dell’art.16 della Direttiva 90\220\EC sui prodotti geneticamente
modi-ficati alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Nel febbraio
2000 anche la Germania ha sospeso la commercializzazione del granturco
modificato, a seguito della diffusione di dati – duramente contestati
nella comunità scientifica – che indicavano che il granturco modificato
da Novartis ri-sultava tossico anche per una farfalla (Monarca) ed inoltre
che le componenti tossiche del gran-turco permanevano per varie settimane
nel suolo, danneggiando la riproduzione di vari tipi di in-setti (sul
punto, si veda MELDOLESI, …). Nel febbraio 2001 l’UE ha adottato
una nuova direttiva (sostitutiva della direttiva 90\220\EC) qualificata
come la normative più restrittiva del mondo in materia di GMO.
L’annunciata intenzione della Commissione di revocare la moratoria
è duramen-te contestata da vari Stati membri, tra cui l’Italia
e la Francia. Sull’atteggiamento europeo si veda G. Gaskell, Agricultural
biotechnology and public attitudes in the European Union in AgBioForum,
2000 3(2&3), 87-96, consultabile in www.agbioforum.org/vol3no23/
vol3no23ar4gaskell.htm
[torna su]

[4] Il Saggio sulla popolazione di Thomas Malthus, la cui prima edizione
è del 1798, divenuta imme-diatamente un best-seller, è centrato,
come è noto, sull’idea della limitatezza delle risorse naturali
e del necessario sopravanzare della popolazione sulla disponibilità
di mezzi di sussistenza, con ca-tastrofiche conseguenze (morti, carestie,
guerre). Queste previsioni sono state poi attenuate nella seconda edizione
del 1803 (e ridotte a vincoli legali e istituzionali). A questa prima
fase segue per Malthus un periodo più ottimista, rappresentato
dai “Principles of Political Economy” del 1820 (qualificato
assai sbrigativamente da Marx nella Storia delle teoria economiche “un
vero modello di imbecillità mentale”). Su Malthus è
illuminante il saggio di Piero Barucci che funge da introduzio-ne ai Principi,
pubblicati in edizione italiana da ISEDI nel 1972. [torna
su
]

[5] Ballantine Book, 1968. [torna su]

[6] E’ sufficiente ricordare l’opera forse più celebre
dopo quella di Malthus, e più nota di quella di Ehrlich, su questo
tema: Donella H. Meadows e altri, The Limits to Growth: A Report for the
Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind, 1972. [torna
su
]

[7] Si veda per esempio l’articolo di Gregory Conko – Fred Smith,
Jr., Biotechnology and the Value of Ideas in Escaping the Malthusian Trap,
in 2 AgBioForum n.2, 1999, pag.150,consultabile al sito www.agbioforum.org/
vol2no34/conko.pdf
. [torna su]