Oltre Kyoto: il presente e il futuro degli accordi sul contenimento del cambiamento climatico

1.
Nel primo semestre del 2004 l’allarme in merito agli effetti del cambiamento climatico ha trovato importanti e impreviste conferme.
Nel maggio John Lovelock, lo scienziato inglese ideatore della ipotesi di Gaia, cioè della terra che si autosostiene mediante l’azione congiunta di tutti gli organismi viventi, tra i primi a lanciare l’allarme sul cambiamento climatico, ha dichiarato che il surriscaldamento atmosferico procede con rapidità assai superiore a quella ipotizzata nei peggiori scenari dei documenti ufficiali e non ci sarà sicuramente il tempo per utilizzare modi di produzione dell’energia sostitutivi dei combustibili fossili, responsabili del cambiamento climatico. Lovelock ha quindi concluso che solo una massiccia reintroduzione dell’energia nucleare – che da questo punto di vista è energia assolutamente “pulita” – può frenare l’intensificarsi dell’effetto serra (le dichiarazioni sono riportate e commentate, con le critiche degli ambientalisti, in The Independent del 24 maggio 2004).
Pochi prima, nel febbraio, è stato reso pubblico un rapporto confidenziale del Pentagono dell’ottobre precedente secondo il quale l’effetto serra potrebbe rivelarsi una minaccia “peggiore di AlQaeda”. Il rapporto avverte che nei prossimi venti anni il cambiamento climatico potrebbe provocare imponenti disastri naturali nel nord-Europa e in Gran Bretagna; prende poi in particolare considerazione i possibili effetti per gli Stati Uniti di una modificazione della corrente del Golfo provocata dallo scioglimento della calotta polare: è l’ipotesi posta a base del film di catastrofismo ecologico L’alba del giorno dopo di Emmerich (si veda Mark Townsend – Paul Harris, Now the Pentagon tells Bush: Climate change will destroy us, in “The Observer” 22 febbraio 2004)
Ancora dagli Stati Uniti: l’agenzia federale National oceanic and atmospheric administration, NOAA, preposta all’osservazione e all’indagine di tutti i fenomeni climatici, avverte che nel mese di gennaio del 2004 le temperature al suolo sono risultate molto al di sopra della media (fino a +5 °C) su gran parte dell’ Asia centro-settentrionale, dell’Europa occidentale (soprattutto in Spagna e in Francia), e del sud America (in Argentina).

2.
A fronte dell’accumularsi di dati scientifici di conferma e di approfondimento del terzo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (noto con l’acronimo IPCC) l’organismo indipendente creato dalle nazioni Unite per lo studio del cambiamento climatico) pubblicato nel 2001 (consultabile on-line: http://www.grida.no/climate/ipcc_tar/vol4/english/index.htm), due punti sono possono ritenersi ormai fuori discussione.
Il primo è che il clima sta effettivamente cambiando. Il secondo è che l’attività dell’uomo e il modo di sviluppo avviato con la Rivoluzione industriale, quindi essenzialmente i gas emessi a seguito dell’utilizzazione di combustibili fossili, i cosiddetti gas serra (soprattutto anidride carbonica) sono tra le cause più importanti del cambiamento.
Non è quindi un caso che il cambiamento climatico si sia imposto negli anni Novanta come la più emergenza ambientale.
In effetti, è l’unica emergenza ambientale – tra le molte qualificate come tali negli ultimi decenni – che può a pieno titolo acquisire la qualifica di globale. Gli effetti del cambiamento climatico non sono infatti limitati al territorio ove le cause del cambiamento si producono o ai territori circostanti, ma si espandono all’intera atmosfera terrestre. Questo determina tre conseguenze.
In primo luogo, ciascuna area della terra risente del cambiamento climatico in misura diversa a seconda della sua collocazione geografica e da altre variabili geofisiche, ma indipendentemente dalla misura in cui la popolazione ivi insediata contribuisce al cambiamento.
In secondo luogo, gli sforzi che ciascun paese pone in essere per contenere il cambiamento climatico producono effetti anche per tutti gli altri paesi, mentre l’assenza di sforzi ha conseguenze negative per tutti.
Infine, poiché vi è una diretta correlazione tra livello di sviluppo industriale ed economico e produzione di gas serra che provocano il cambiamento climatico, i paesi ricchi – per il solo fatto di essere ricchi (perché sviluppati) – producono effetti dannosi sul clima assai maggiori dei paesi poveri, mentre questi ultimi risentono delle conseguenze di tali effetti, pur contribuendovi in misura ridotta. Sono per converso pressoché scomparsi, nel 2003, i sostenitori della non attendibilità dei dati scientifici offerti dall’IPCC, e quindi i sostenitori dell’inesistenza di un cambiamento climatico, o della irrilevanza delle attività umane sul cambiamento (per una posizione tuttora di rigida contestazione dei dati dell’IPCC si veda Fred Singer, autore di Hot Talk, Cold Science: Global Warming’s Unfinished Debate, California, 1999 e, per l’Italia, E.Gerelli, No a Kyoto. Non esistono previsioni certe. È solo inutile catastrofismo, in “Il Sole 24 Ore”, 11 dicembre 2003, pag.10; quest’ultimo, tra l’altro, argomenta l’impossibilità di prevedere il cambiamento climatico sulla base della imprevedibilità delle previsioni del tempo a distanza di pochi giorni, confondendo così concetti del tutto diversi).
Del resto, già dalla prima metà del 2002 il Governo Bush ha cambiato rotta: incalzato da molti organismi scientifici federali, primi fra tutti la National Academy of Science con un Rapporto del 2001 (richiesto proprio dal Governo americano per confutare i dati dell’IPCC, e rivelatosi, alla fine, una conferma degli stessi), dalla Environmental Protection Agency (EPA) con un preoccupato Rapporto del 2002 e dalla sopra citata NOAA, ha riconosciuto che il cambiamento climatico costituisce un problema serio. L’ opposizione alla ratifica del Protocollo di Kyoto è ora giustificata non più sulla base di una infondatezza dei suoi presupposti scientifici, ma solo con riferimento ai danni che la sua applicazione provocherebbe all’economia americana. Nel contempo, il Governo Bush ha avviato varie iniziative per promuovere un volontario contenimento delle emissioni di gas da parte dell’industria americana (la più importante tra queste iniziative è il progetto Clear Skies che assume come obiettivo una riduzione del 18% delle emissioni che provocano l’effetto serra nello spazio di dieci anni).

3.
Nonostante l’intensificarsi degli annunci che confermano la gravità del problema del cambiamento climatico, a quasi sette anni dalla sua stipulazione, nel dicembre del 1997, e a meno di quattro anni dall’inizio del periodo oggetto della sua regolamentazione (2008-2012), il Protocollo di Kyoto non è ancora entrato in vigore.
Pur essendo stato ampiamente raggiunto il primo requisito richiesto, consistente nella ratifica da parte di almeno il 55% degli Stati firmatari della Convenzione quadro sul cambiamento climatico, non è stato raggiunto il secondo requisito, in base al quale gli Stati ratificanti devono complessivamente rappresentare almeno il 55% delle emissioni di gas da sottoporre a controllo alla data del 1990 (art.23 del Protocollo): ad oggi, i 122 Stati che hanno ratificato raggiungono solo il 44,2% delle emissioni globali di gas calcolate nel 1990 (si veda per una rappresentazione grafica della situazione attuale il c.d. Kiotometro, http://unfccc.int/resource/kpthermo).
Due stati – Stati Uniti e Federazione Russa, le cui emissioni erano al 1990 rispettivamente il 36,1% e il 17,4% delle emissioni globali – da soli sarebbero sufficienti a raggiungere anche il secondo requisito, e a far scattare così l’entrata in vigore del Protocollo.
Ma il Governo Bush, come si è detto, si rifiuta di ratificare il Protocollo di Kyoto.
Il Governo Putin, dal canto suo, dopo molti ondeggiamenti, ha annunciato nel settembre del 2003 di non voler ratificare, adducendo motivazioni – “il cambiamento climatico potrebbe avere benefici effetti sull’agricoltura russa e ridurre la spesa per cappotti di pelliccia” – irrise come prive di senso e puerili dai climatologi di tutto il mondo. La partita con la Russia sembra però ancora aperta: molti ritengono che il governo russo stia solo tentando di alzare il prezzo delle concessioni che può ottenere dall’Unione europea in cambio della sua firma, prime fra tutte quelle concernenti le condizioni per il suo ingresso nel WTO: si veda in proposito Russian Reform, Mixed Signals, in “The Economist”, 29 maggio 2004 pag.30)).
Ben diverso è l’atteggiamento dell’Unione europea.
Il Consiglio dei ministri dell’ambiente dell’Unione nella riunione di marzo ha ancora una volta ribadito, superando l’ostruzionismo italiano, di considerare l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto sul contenimento delle modificazioni climatiche e la realizzazione degli obiettivi in esso stabiliti una “priorità assoluta”.
Successivamente, i Ministri degli esteri e dell’Ambiente di Francia e Germania hanno assunto una iniziativa senza precedenti: nel giugno hanno diffuso un comunicato congiunto che esordisce affermando che “bisogna avere coraggio di dire ai nostri concittadini: l’accelerazione del surriscaldamento del clima è divenuto ormai un dato strutturale del pianeta. Si tratta incontestabilmente della sfida più grave che l’umanità deve affrontare, sul lungo termine, per assicurare il suo avvenire. I fatti, sostenuti da numerosi studi scientifici, sono evidenti. E così pure i fenomeni climatici estremi” . Il comunicato prosegue avvertendo che “sono coinvolte sia le responsabilità collettive degli Stati sia quelle personali dei dirigenti politici, e la concertazione internazionale si impone come una necessità assoluta” e confermando la volontà dei due Paesi di rispettare gli impegni assunti con il Protocollo di Kyoto, malgrado l’ostruzionismo di alcuni Stati (il testo integrale del comunicato, ignorato dalla stampa italiana, può essere letto su Le Monde del 25 giugno 2004).
Nonostante gli sforzi dell’Unione europea, la sorte del Protocollo sembra al momento segnata, e sembrano destinati al fallimento gli enormi sforzi organizzativi e finanziari compiuti nel corso degli ultimi quindici anni dalla comunità internazionale, a meno di colpi di scena provocati dall’esito delle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti o da un ennesimo voltafaccia della Federazione russa.
A conferma di questa conclusione sta il rapporto diffuso dal Segretariato generale della Convenzione sul Cambiamento climatico nel giugno del 2003, secondo il quale, sulla base delle proiezioni delle emissioni di gas serra, vi sarà non un riduzione al di sotto del libello raggiunto nel 1990, ma un aumento delle emissioni tra il 2000 e il 2010 stimato addirittura del 17%.
È quindi il momento di fare il punto della situazione, anche per comprendere le prospettive e le reali esigenze di una sottoposizione a controllo del cambiamento climatico in assenza degli impegni posti alla comunità internazionale dal Protocollo di Kyoto.

4.
Se i dati sull’esistenza del cambiamento climatico e sulla responsabilità delle attività umane nel provocarlo possono considerarsi certi, restano oggetto di discussione l’entità degli effetti del cambiamento e, conseguentemente se e come il cambiamento climatico deve essere affrontato e contenuto.
Per ciò che riguarda gli effetti del cambiamento climatico alla fine del secolo, le previsioni contenute nel Rapporto dell’IPCC del 2001 – oggetto di vari differenti scenari, a seconda dell’entità del surriscaldamento ipotizzata – sono state sottoposte a serrate e crescenti critiche. In particolare, è stata segnalata l’omessa valutazione del prezzo fortemente decrescente delle energie rinnovabili, quale l’energia solare e la possibile reintroduzione dell’uso di energia nucleare, che potrebbero provocare una utilizzazione di combustibili fossili assai maggiore di quella stimata dall’IPCC (sul punto, si veda il dossier di Le Monde Les énergies renouvelables dans le monde, che dedica vari articoli alle iniziative in proposito dell’Unione europea). Un altro aspetto che è stato oggetto di forti contestazioni è dato dalla sovrastima operata dall’IPCC dell’incremento delle economie dei paesi sottosviluppati, con conseguente supervalutazione della quantità di emissioni (su quest’ultimo punto si vedano Hot potato revisited e Garbage in, Garbage out, in “The Economist” del 6 novembre 2003 e del 27 maggio 2004).
Le previsioni dell’IPCC potrebbero essere quindi errate per eccesso, e portare ad un aumento assai inferiore ai 2 gradi previsto come probabile nel 2100, con un impatto assai minore sulle economie locali e globale.
Sotto un profilo economico, si tratta di valutare l’entità dei costi delle operazioni di contenimento del cambiamento climatico a fronte dei possibili benefici che possono trarsi.
Il raggiungimento dell’obiettivo di riduzione del cambiamento climatico comporta infatti l’adozione di misure che incidono sensibilmente sull’attuale modo di sviluppo dell’economia mondiale, basato essenzialmente sul consumo di energia prodotta mediante l’utilizzazione di combustibili fossili: sono misure che comportano, per i paesi maggiormente sviluppati, una riconversione del sistema economico e produttivo, con inevitabili conseguenze sui livelli di vita e di benessere delle collettività e con imprevedibili ricadute sugli equilibri politici interni e internazionali.
Per molti esperti, questo imponente sforzo non è giustificato dai benefici che presumibilmente potranno trarsi dalla riduzione del cambiamento climatico ottenuta, sia perché i risultati potrebbero essere ridotti, se non insignificanti, sia perché molti dei possibili danni potranno comunque essere evitati o attenuati dallo sviluppo di adeguate nuove tecnologie nei prossimi decenni.
Bjorn Lomborg aggiunge, nel suo ormai famoso The Skeptical Environmentalist, una considerazione di “benefici comparativi” che induce a riflettere: secondo Lomborg, che si basa su dati UNICEF, il finanziamento necessario per l’attuazione del Protocollo di Kyoto per un solo anno potrebbe eliminare il problema dell’utilizzazione di acqua non potabile nel Terzo mondo, responsabile della morte di 2 milioni di persone all’anno (pag.80; i dati UNICEF sono riportati a pag.322).
Invece, secondo i sostenitori degli interventi di contenimento del cambiamento climatico (e tra questi, come abbiamo visto, stanno la maggior parte dei Governi dei paesi dell’Unione europea) gli interventi sono non solo giustificati, ma indispensabili al fine di evitare gli effetti disastrosi per le future generazioni determinati dalle modifiche al clima – già ora evidenti – prodotte dall’attuale modello di sviluppo.
C’è poi un’altra difficoltà che è diretta conseguenza della globalità del problema, e cioè la distribuzione tra i vari paesi dei costi e dei sacrifici necessari per attuare la politica di contenimento che sia accettabile da tutti i paesi e, in particolare, da quelli ai quali la soluzione proposta impone maggiori sacrifici (o arreca minori benefici).
L’aspetto distributivo dei costi si è alla fine rivelato quello più denso di ostacoli e quello che maggiormente hanno bloccato lo sforzo delle Nazioni Unite e della comunità internazionale per raggiungere un accordo internazionale e per ottenere l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto e quindi in uno scenario di una nuova “disciplina post-Kyoto”, è quello che ha più probabilità di essere ripensato.

5.
Tra i molti problemi posti da questo aspetto, due sono stati di particolari rilievo: i criteri da utilizzare per la distribuzione e le modalità con le quali organizzare la riduzione delle emissioni.
Per ciò che riguarda i criteri, molti avrebbero potuto essere teoricamente quelli utilizzabili.
Per esempio, si sarebbero potuti graduare i costi del contenimento con riferimento ai benefici prodotti dalla riduzione delle emissioni.
Ma questo criterio avrebbe scaricato la maggior parte dei costi su paesi in via di sviluppo (dotati di pochi mezzi economici e tecnologici per far fronte alle emergenze climatiche) o piccoli paesi insulari (la cui stessa esistenza potrebbe essere minacciata dal cambiamento del clima): paesi tutti impossibilitati da un lato a far fronte ai costi, dall’altro a contenere gli effetti del cambiamento, atteso il modesto contributo che essi offrono allo stesso in termini di emissioni di gas serra.
Oppure, si sarebbe potuto ipotizzare un raccordo tra costi del contenimento e prevedibile incremento dell’uso dei gas serra nei vari paesi, nel corso dei prossimi decenni.
Ma anche questo criterio è stato scartato in quanto – tenuto conto del rigido rapporto tra incremento dell’uso di combustibili fossili e sviluppo economico e produttivo – sarebbero stati pesantemente penalizzati i paesi avviati sulla via dello sviluppo (India, Cina, Brasile in primo luogo), e sarebbe stata conseguentemente solidificata e garantita la posizione di supremazia economica conquistata dai paesi ricchi.
Il criterio prescelto è stato invece basato sul principio del diritto internazionale ambientale della responsabilità comune ma differenziata degli Stati che fanno parte della comunità internazionale. È un principio che impone che tutti gli Stati partecipino agli sforzi collettivi, in presenza di emergenze ambientali globali, ma in modo proporzionale alle loro capacità economiche e al loro grado di sviluppo.
Si è così previsto dagli accordi internazionali – prima dalla Convenzione quadro sul cambiamento climatico (Framework Convention on Climate Change, poi dal Protocollo di Kyoto – che, per il primo periodo di attuazione dell’Accordo (dal 2008 al 2012), tutti i costi avrebbero dovuto essere sopportati solo dai paesi industrializzati, cioè da quelli storicamente responsabili della quantità di emissioni già presenti e attualmente immessi nell’atmosfera e quindi del cambiamento climatico così come oggi è prospettabile. Ai paesi industrializzati sono stati assimilati i paesi dell’ex blocco sovietico, i c.d. EIT (economies in transition).
Secondo il criterio fissato dal Protocollo i paesi in via di sviluppo sono quindi liberi fino al 2012 di utilizzare senza limiti i combustibili fossili che provocano il cambiamento climatico, ma sono – come detto – anche strettamente connessi con lo sviluppo economico e produttivo.
Ne segue che alcuni paesi collocati tra quelli in via di sviluppo potranno raggiungere e superare alla fine del primo periodo di impegno (nel 2012) molti paesi industrializzati nella quantità di emissioni, se manterranno l’attuale ritmo di sviluppo economico e conseguentemente di incremento delle emissioni di gas serra.
Così la riduzione di emissioni ottenuta dagli Stati obbligati potrebbe essere, su scala globale, in tutto o in gran parte annullata dall’aumento delle emissioni di Stati non tenuti ad adottare alcuna politica di contenimento delle emissioni mediante un controllo del sistema produttivo: uno scenario che vanificherebbe il raggiungimento degli stessi obiettivi ambientali di stabilizzazione del clima che la Convenzione persegue.
L’adozione dei criteri di distribuzione fissati dal Protocollo determina quindi una alterazione a sfavore dei paesi industrializzati della attuale condizione del mercato internazionale e dei rapporti di scambio: gli effetti delle politiche di riduzione delle emissioni sul sistema produttivo porranno infatti i paesi sviluppati in condizioni di svantaggio competitivo rispetto ai paesi non obbligati più lanciati nella corsa allo sviluppo e quindi più pronti ad approfittare delle favorevoli condizioni del mercato internazionale.
Questo, in altri termini, significa che il criterio previsto può trasformare gli accordi di Kyoto da strumento per la tutela dell’ambiente in strumento di riequilibrio dello sviluppo e del mercato internazionale: per i paesi in via di sviluppo si tratta di una occasione storica di recuperare, in termini di sviluppo economico, il tempo perduto a confronto dei paesi ricchi, e di conquistare nuovi spazi sul mercato internazionale. Per i paesi economicamente sviluppati si tratta invece di accettare queste conseguenze, in nome della protezione dell’ambiente globale.

6.
L’altro nodo controverso è stato costituito dalle modalità con le quali procedere alla riduzione delle emissioni.
Il modo prescelto è stato quello di imporre ai paesi industrializzati di ridurre gradualmente le emissioni, in modo da giungere alla data del 2012 con emissioni uguali o inferiori di una determinata percentuale al livello raggiunto nel 1990.
Questa modalità, considerata la più imparziale tra tutte quelle ipoteticamente utilizzabili, presenta però due difetti.
Da un lato, è pesantemente punitiva di quei paesi – in particolare, Stati Uniti e Giappone – che abbiano avuto un consistente sviluppo economico, e quindi un corrispondente aumento delle emissioni di gas serra – negli anni successivi al 1990.
D’altro lato, attribuisce un enorme vantaggio ai paesi nei quali, per ragioni di carattere politico o economico, lo sviluppo si sia fermato o addirittura sia diminuito: è il caso di tutti i paesi appartenenti all’ex blocco sovietico, i quali, per il crollo della produzione industriale e il conseguente ridursi delle emissioni a livelli ampiamente inferiori a quelli del 1990, non solo non debbono compiere alcuno sforzo di riconversione, ma si ritrovano con consistenti quantità di “diritti di emissioni” che – in virtù dei “meccanismi di mercato” previsti dal Protocollo di Kyoto – possono cedere agli altri paesi industrializzati che non riescano a rispettare i limiti.
Per effetto di queste modalità gli Stati Uniti e gli altri paesi in cui si è verificato un intenso sviluppo economico negli anni Novanta si trovano nell’impossibilità di conseguire gli obiettivi di riduzione fissati (che richiederebbe – su questo punto il Governo Bush ha ragione – una costosissima riconversione dell’apparato industriale e produttivo), se non acquistando enormi quantità di diritti di emissione dai paesi dell’ex blocco socialista (il cui surplus, peraltro, non è il frutto di una oculata politica ambientale, ma semplicemente della crollo del sistema politico economico in cui erano inseriti.

7.
L’atteggiamento di rifiuto da parte degli Stati Uniti, in un a ottica egoista dei rapporti internazionali, è comprensibile. Invece la diversa scelta operata dall’Unione Europea, schierata a sostegno del Protocollo di Kyoto non è stata giustificata, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni osservatori americani, dalla certezza di poter raggiungere gli obiettivi di riduzione fissati dal Protocollo .
Il raggiungimento degli obiettivi fissati dal Protocollo non è infatti certamente per l’Unione europea, a tutt’oggi ben lontana dall’aver posto le basi per l’adempimento dei propri obblighi (se non anch’essa ricorrendo all’acquisto di diritti di emissione).
La posizione dell’Unione europea è dipesa da tre ordini di motivi.
In primo luogo, dall’opinione pubblica europea (di alcuni Stati in modo particolare) e da un sincero sostegno dei valori della cooperazione internazionale nella materia ambientale. Ma questo non è stato certo il fatto determinante.
Più importante è stata invece la considerazione che le difficoltà economiche che l’applicazione del Protocollo avrebbero creato agli Stati Uniti non potevano che portare conseguenze favorevoli alle economie europee ed offrire l’occasione per accentuarne la presenza e la competitività sui mercati internazionali.
Ancor più importante è stata una considerazione strategica di immagine, e quindi di ottenere il risultato, in una situazione mondiale crescentemente dominata da un’unica potenza mondiale, di porsi come entità sopranazionale di riferimento con la comunità internazionale per una visione dei rapporti e degli obblighi internazionali basata sul multilateralismo e sui valori della cooperazione e della tutela degli Stati meno privilegiati.

8.
Nonostante il probabile fallimento del Protocollo di Kyoto, ci sono motivi per essere cautamente ottimisti.
Prima di tutto, lo stesso comunicato del Segretariato generale della Convenzione del giugno del 2003, cui abbiamo fatto sopra cenno, pur denunciando la gravità della situazione e la sostanziale inadempienza dei paesi ricchi, dà atto che sono state adottate, o sono in fase di adozione, da parte di moltissimi governi, ma anche a livello regionale e locale, politiche rivolte al contenimento delle emissioni.
Assai significative sono, sotto questo profilo, le iniziative legislative adottate autonomamente da vari Stati degli Stati Uniti – in primo luogo dalla California e dal Massachussetts – e da varie comunità a livello locale (il più importante tra questi è il Chicago Climate Exchange, che introduce una sorta di mercato locale delle emissioni, a somiglianza di quanto previsto a livello internazionale dal Protocollo di Kyoto).
Un altro aspetto positivo è dato dagli sviluppi a livello di relazioni internazionali e del diritto internazionale ambientale. Il rifiuto degli Stati Uniti di ratificare il protocollo di Kyoto sembrava dovesse segnare la fine del tentativo di affrontare con gli strumenti del diritto internazionale il problema del cambiamento climatico e di porre il clima sotto controllo con strumenti di cooperazione e di solidarietà tra gli Stati.
Sorprendentemente, la decisione americana ha avuto un effetto opposto a quello previsto. Vari Paesi si sono decisi a ratificare il Protocollo di Kyoto proprio per dare una dimostrazione della propria fiducia negli organismi rappresentativi della comunità internazionale e della propria solidarietà nei confronti di una emergenza ambientale. Questo ha evidenziato un dato importante e cioè che oggi vi è un sistema internazionale in piena attività, con organismi appositamente istituiti, incaricato di presiedere alla stabilizzazione del clima. Questo sistema è stato dotato di regole e procedure flessibili, periodicamente rinnovabili e quindi anche adeguabili ai dati scientifici che continuano ad essere acquisiti e elaborati. Alcuni commentatori hanno qualificato questo risultato come una vittoria dell’ideale di multilateralismo europeo sull’unilateralismo americano.
Inoltre, molte multinazionali ed imprese la cui produzione comporta l’emissione di gas che provocano il cambiamento climatico stanno adottando autonomamente misure per contenere le emissioni, rispondendo così alle pressioni degli azionisti, delle compagnie di assicurazione e, più in generale, dell’opinione pubblica.
In definitiva, il cambiamento climatico, in quanto emergenza globale, sta trovando delle risposte diverse da quelle inizialmente immaginate dalle Nazioni Unite, frammentarie e scoordinate, ma su scala altrettanto globale: si sta facendo lentamente strada una applicazione diffusa del principio dello sviluppo sostenibile, alla ricerca di alternative al modo di sviluppo affermatosi dopo la rivoluzione industriale, fondato su una utilizzazione intensiva delle fonti di energia non rinnovabile. Si tratta di un segnale importante: quale che sia la sorte degli accordi di Kyoto, ne resteranno sicuramente gli effetti nell’atteggiamento e nel modo di pensare degli Stati che compongono la comunità internazionale.

Stefano Nespor, “Il Mulino”, 4/2004, p.795