I contratti ambientali: una rassegna critica

1.
A partire dalla fine degli anni Ottanta, gli strumenti autoritativi utilizzati al fine di ottenere dagli operatori privati il rispetto di prescrizioni o standard posti a tutela dell’ambente – i c.d. strumenti command and control – sono stati oggetto di serrate critiche, in Europa e negli Stati Uniti.
In sostanza, gli strumenti autoritativi affidati al potere legislativo o alla Pubblica Amministrazione sono stati ritenuti strumenti inefficaci, inidonei al raggiungimento degli obiettivi che si vogliono perseguire, costosi e inefficienti in sede di applicazione, e, secondo molti autori, anche non democratici .
Accanto alle critiche più propriamente giuridiche e di politica del diritto, sono state evidenziate da economisti, esperti di public choice theory e scienziati politici, soprattutto nella letteratura americana, i difetti e i pericoli dell’affidamento della gestione dell’attività privata alla politica, ai partiti, alla burocrazia, di cui, in vario modo, gli strumenti autoritativi sarebbero l’espressione.
Si è così diffusa l’opinione che, nonostante il variegato spiegamento dell’armamentario della metodologia del command and control – autorizzazioni, permessi, divieti, sanzioni previsti con disposizioni normative o regolamentari poste dall’Amministrazione pubblica – poco sia stato ottenuto per la tutela dell’ambiente e per contenere le varie forme di inquinamento, a fronte degli enormi investimenti effettuati in termini di risorse, organizzazione, mezzi .
Le critiche verso l’uso di strumenti command and control nella gestione dell’ambiente hanno trovato nel corso degli anni Novanta rinforzo e ulteriori motivi di fondamento nell’affermarsi delle ideologie di privatizzazione e di deregulation, e si sono così focalizzate intorno ad una richiesta di sostanziale riduzione della disciplina degli effetti dell’attività economica sull’ambiente (quando non di radicale ritirata dello Stato e della Pubblica amministrazione).

2.
Sono stati così proposti, e sono stati variamente sperimentati e messi in pratica, sistemi di tutela dell’ambiente tra loro assai diversi, ma collegati dal comune tentativo di sostituire agli usuali strumenti autoritativi “meccanismi privatistici” o “forme volontarie”: le espressioni utilizzate nella letteratura giuridica sul punto sono assai varie, spesso ambigue e ondeggianti tra concetti assai diversi tra loro quali partecipazione, collaborazione, accettazione preventiva, coinvolgimento e consenso.
In sostanza, l’obiettivo è quello di superare l’antitesi pubblico\privato su cui si basa il sistema command and control con strumenti di mercato, volontaristici, cooperativi e negoziali di tutela.
I vari sistemi possono essere in via di approssimazione ricondotti per comodità espositiva e per esigenze sistematiche all’interno di alcune generali categorie.

3.
Una prima categoria comprende tutti i programmi a base volontaristica (anche se per lo più incoraggiati o sussidiati dall’Amministrazione), cui le imprese sono libere di aderire o meno. Trattandosi di scelte puramente unilaterali, non vi è obbligo di adesione, né vi è sanzione per chi, avendo aderito, non rispetta gli impegni o non raggiunge gli obiettivi prefissati. Naturalmente gli obiettivi individuati da questi programmi non devono essere previsti come obbligatori da norme di legge o regolamentari, né devono essere attuati, come spesso accade, per evitare conseguenze risarcitorie in virtù dell’applicazione dei principi o delle norme vigenti in materia di responsabilità civile: in tutti questi casi, viene a mancare la “base volontaristica” e prevale il rispetto di disposizioni vigenti, sia pure a mezzo di azioni volontarie.
Fatte queste precisazioni, gli esempi di azioni che rientrano in questa prima categoria sono tuttavia numerosi.
In Europa il programma volontario più noto è stato realizzato in Olanda, ed è il Dutch Hydrocarbon 2000 Agreement: le imprese partecipanti si sono impegnate a consistenti riduzioni delle emissioni di talune sostanze, con obiettivi scaglionati entro il 2000 .
Negli Stati Uniti, i più importanti programmi volontari sono stati promossi e gestiti dall’Environmental Protection Agency (EPA) alla fine degli anni Ottanta.
Tra questi, si può ricordare il 33\50 Program, simile al programma olandese: le imprese aderenti avrebbero dovuto ridurre le emissioni di 17 sostanze del 33% entro il 1992 e del 50% entro il 1995. Il programma ha ottenuto buoni risultati, ma con una scarsa partecipazione: solo 1330 imprese hanno effettivamente aderito su 8000 invitate dall’EPA). Altri due programmi volontari organizzati negli Stati Uniti che hanno ottenuto notorietà sono Green Lights e Energy Star, con obiettivi in campo energetico.
Soprattutto negli ultimi anni, si sono intensificate le iniziative di carattere volontario nel quadro dei programmi di controllo delle emissioni e del cambiamento climatico.
Possono farsi rientrare in questa prima categoria anche le svariate iniziative pubbliche che richiedono forme di autoregolamentazione da parte delle imprese, accompagnate dall’obbligo di rendere pubbliche informazioni sugli effetti ambientali della propria attività e sui rischi generati sui processi di produzione utilizzati o dai prodotti immessi sul mercato (in modo da permettere un controllo diffuso da parte dell’opinione pubblica e degli utenti ed elevare l’effetto deterrente delle azioni giudiziarie di responsabilità) .
Particolarmente significativa di questo gruppo è l’esperienza australiana, e, in particolare, il Sustainable Energy Plan adottato nello Stato del New South Wales a livello regionale o locale per coinvolgere le imprese e i privati nell’adozione di misure idonee a ridurre gli effetti negativi sul cambiamento climatico .

4.
Una alterantiva all’uso degli strumenti command and control è costituita poi dall’utilizzazione dell’istituto della responsabilità civile, ricorrendo anche ad ipotesi di responsabilità oggettiva di coloro che svolgono attività potenzialmente produttive di danno all’ambiente (individuato come strumento per una efficiente internalizzazione dei costi delle attività) .
Molti Stati (tra cui l’Italia) hanno da tempo regimi di responsabilità civile per danni ambientali, con esiti peraltro non univocamente positivi.
Ma non va dimenticato che i presupposti per ottenere una effettiva ed efficace funzione deterrente sono un ampio accesso alla giustizia da parte dei danneggiati, risarcimenti congrui e tali da compensare pienamente i danni subiti, e, ovviamente, un celere e corretto funzionamento degli organismi giudiziari preposti alla decisione .
Altri paesi hanno avviato sperimentazioni e riforme rivolte ad una estensione del rgime della responsabilità del danno ambientale, con l’obiettivo di dare attuazione al principio chi inquina paga e al principio di precauzione: tra questi la Germania e l’Olanda in Europa. L’Australia offre un esempio assai significativo: due Stati, il New South Wales e il South Australia, hanno infatti istituito dalla fine degli anni Ottanta appositi Tribunali specializzati nella risoluzione di tutte le questioni di rilievo ambientale e in particolare nella determinazione della responsabilità per danni ambientali (con ampia discrezionalità nella fissazione dell’entità del risarcimento) .

5.
Vi sono poi sistemi alla cui base stanno pur sempre disposizioni normative o amministrative, ma consistenti non in autorizzazioni o divieti, bensì nella individuazione e fissazione di meccanismi di mercato, ai quali viene affidato il controllo degli effetti ambientali (c.d. market-based regulations).
In questo gruppo rientrano gli strumenti più noti e più sperimentati, quelli che – assegnando un valore a predeterminate unità di inquinamento – prevedono il pagamento del prezzo per chi inquini oltre una certa soglia, oppure la cessione o lo scambio di “diritti di inquinare” tra produttori, in modo da rispettare la soglia medesima (c.d. tradable environmental rights). In questo modo vengono premiati i produttori che predispongono mezzi e tecnologie per ottenere risultati ,migliori rispetto alla soglia, mentre vengono incoraggiati a adottare tecnologie più efficienti quei produttori che sono costretti a comprare diritti di inquinare.
Questi strumenti hanno avuto varie applicazioni, in particolare, negli Stati Uniti con gli “emissions trading schemes” predisposti dall’EPA . Assai positive sono stati considerati gli schemi di scambio di permessi d’emissione di diossido di zolfo nell’ambito del programma per il controllo del fenomeno delle piogge acide. Un altra esperienza nota e , sia pure in minor misura, positiva si è verificata in Nuova Zelanda, con uno schema di scambio di quote di pesca al fine di conservare il patrimonio ittico.
Il ricorso a strumenti di mercato è stato inoltre inserito (su sollecitazione, per ragioni diverse, di Stati Uniti, Giappone e Canada) nel Protocollo di Kyoto per il controllo del cambiamento climatico . In esso sono stati previsti tre diversi meccanismi con i quali gli Stati possono operare nel quadro del Protocollo: lo scambio internazionale delle emissioni o International Emissions Trading), che consiste nella possibilità di negoziare permessi di inquinamento; la Joint Implementation, e cioè la attuazione congiunta di un progetto specifico da parte di più stati industrializzati o rientranti nella categoria dei “paesi in transizione” , e il Clean Development Mechanism), in base al quale i paesi industrializzati o in transizione possono raggiungere obiettivi di riduzione delle emissioni sviluppando progetti in Paesi in via di sviluppo

6.
Abbiamo poi, ed è un ulteriore gruppo di strumenti sostitutivi del command and control, la c.d. regolamentazione o legislazione negoziata (i c.d. reg neg nella terminologia statunitense), che a partire dalla metà degli anni Ottanta ha riscosso un discreto successo sia nel settore ambientale che nel settore della tutela della salute e sicurezza pubblica.
Si tratta di una produzione di regole di provenienza non unilaterale (cioè, emanate soltanto dalla Amministrazione preposta al settore), ma frutto della trattativa con i destinatari delle regole stesse o con le associazioni che li rappresentano (in caso di regole con effetti ambientali, è obbligatoria la partecipazione delle organizzazioni ambientaliste e di tutti coloro che sono titolati di interessi contrapposti o comunque degni di tutela nella materia che si intende disciplinare).
Il presupposto è che, in questo modo, si ottengono disposizioni che non determinano conflitti interpretativi tra Pubblica amministrazione e soggetti privati (essendovi un preventivo accordo sul loro contenuto) e quindi non determinano ritardi o costi nell’applicazione.
Naturalmente, il dibattito teorico sull’ammissibilità dei reg-neg è assai aspro.
Da una parte, vi sono i sostenitori di questa procedura, che evidenziano le ragioni di efficienza, economicità e rapidità applicativa.
Dall’altra, coloro che ritengono che in questo modo venga attribuito a gruppi o interessi privati il potere di sostituirsi a valutazioni di interesse pubblico, che debbono restare affidate esclusivamente all’Amministrazione .
Dal 1982, sono stati avviati 67 procedimenti di negoziazione normativa sul territorio federale; 35 hanno prodotto norme che sono state effettivamente emanate dall’Amministrazione interessata. In campo ambientale, la EPA ha emanato 12 regolamenti ottenuti con la procedura reg neg. soprattutto nel settore del contenimento dell’inquinamento atmosferico.
Nel 1990, considerati i risultati positivi, il procedimento è stato oggetto di disciplina legislativa a livello federale: il Negotiated Rulemaking Act (NRA).

7.
Infine vi è la sostituzione dei meccanismo autoritativo con il meccanismo negoziale, e quindi la costituzione di rapporti di tipo contrattuale tra operatori privati (singoli o tramite associazioni rappresentative) e amministrazione pubblica aventi ad oggetto obbligazioni rilevanti per la tutela dell’ambiente. Sono i contratti ambientali.
Dei contratti ambientali molto si discute e si scrive soprattutto a partire dalla metà degli anni Novanta. A questo istituto sono stati dedicati in questi ultimi anni anche due importanti volumi.
Il primo, nel 1998, è costituito dai risultati di una ricerca raccolti e coordinati ad opera di un gruppo di giuristi dell’ambiente di estrazione prevalentemente europeo, Environmental Law Network International (ELNI); passa in rassegna le esperienze di contratti ambientali realizzate in Belgio Danimarca, Francia, Germania, Italia, Olanda, Polonia e Regno Unito . La ricerca costituisce anche la base di un Rapporto alla Commissione dell’Unione europea, pubblicato nel gennaio 2001 .
L’altro volume, pubblicato nel 2001, è scaturito da un progetto di ricerca avviato dalla Law School dell’Università di Pennsylvania; è curato da Eric W.Orts e Kurt Deketelaere (direttori di due centri di studi di diritto e economia ambientale, collocati l’uno in Belgio, l’altro in Pennsylvania) e si propone di offrire una analisi comparativa, sia giuridica che economica, delle esperienze in materia di contratti ambientali realizzate negli Stati Uniti e in Europa .

8.
Un primo problema si pone a livello di definizione e di identificazione del contratto ambientale.
Due requisiti sono pacifici.
Il primo è costituito dalla volontarietà della partecipazione o dell’adesione dell’impresa. Se il comportamento dell’impresa è vincolato, o comunque è l’effetto di disposizioni di legge, non c’è autonomia negoziale e non c’è libera manifestazione di volontà: ritorniamo nell’alveo dei meccanismi command and control.
Il secondo requisito è dato dalla presenza o dal coinvolgimento di una parte privata, che potrà essere un’impresa o un’associazione di imprese, è una parte pubblica, che potrà essere l’Amministrazione centrale, l’Amministrazione locale, o una Agenzia preposta alla tutela dell’ambiente.
Qui finiscono gli aspetti su cui vi è un generale accordo.
In merito ad altri due requisiti, infatti, vi sono opinioni discordanti.
Il primo riguarda la consistenza e il contenuto dell’ incontro di volontà tra le parti.
Molti includono nell’ambito dei contratti ambientali anche gli impegni unilaterali o comportamenti assunti volontariamente dalla parte privata , se essi sono posti in essere al fine o in vista di ottenere vantaggi o benefici dalla parte pubblica.
La casistica di questa tipologia è nutrita.
Per esempio, nel Regno Unito è stato costituito nel 1999 un Comitato, denominato Emissions Trading Group, costituito dall’associazione degli industriali, da un organismo del Ministero dell’Ambiente e da altri rappresentanti pubblici. Il comitato ha messo a punto e avviato un programma che prevede varie possibilità: una riduzione del 20% della specifica tassa prevista per l’adempimento degli obblighi di contenimento del cambiamento climatico oppure l’erogazione di un incentivo a fronte di una accettazione di obiettivi di contenimento energetico; l’acquisto da parte di organismi pubblici di diritti di emissione di CO2 da parte delle imprese che riducono sostanzialmente le loro emissioni.
Se gli impegni assunti non vengono soddisfatti, l’impresa viene assoggettata al pagamento integrale della tassa o alla restituzione dell’incentivo.
I contratti ambientali, se si includono fattispecie similia quella appena descritta , appaiono un istituto di ampia e crescente utilizzazione.
Ma questo risultato viene raggiunto ricomprendendo nella categoria ipotesi che di negoziale hanno ben poco: l’incontro di volontà è infatti ridotto ad una adesione ad un programma pubblico, che prevede benefici o incentivi predeterminati a chi rispetti obiettivi anch’essi prefissati.
Il secondo requisito riguarda gli effetti dell’accordo tra le parti.
Anche in questo caso, se si ritiene che sia sufficiente l’assunzione di obbligazioni non vincolanti, si può affermare che i contratti ambientali integrano gli strumenti command and control già da vari decenni, e stanno attualmente espandendosi.
Viceversa, se si ritiene che la sussistenza di un contratto ambientale in senso proprio richieda la vincolatività degli impegni assunti, e quindi conseguenze riparatorie o risarcitorie in caso di inadempimento, l’uso di questo istituto appare assai puiù limitato.
In conclusione, l’opzione per le due ipotesi più ampie – che in sostanza tende a far confluire nell’unica categoria dei contratti negoziali la maggior parte delle iniziative volontarie che abbiamo preso in considerazione – porta a rintracciare l’esistenza di una consistente quantità di contratti ambientali realizzati in Europa e negli Stati Uniti negli anni Novanta.
Viceversa, la scelta per le due ipotesi più rigorose riduce l’utilizzazione dei contratti ambientali a poche diecine di unità.
Emblematico è il caso dell’Italia: usando l’opzione ampia sono stati schedati 25 contratti nel decennio, che divengono addirittura zero utilizzando l’ipotesi più rigorosa .
A mio giudizio, pur senza sottovalutare l’importanza e l’efficacia di tutti gli strumenti negoziali sui quali ci siamo sinora soffermati, è opportuno verificare la reale applicazione dell’ipotesi più rigorosa, anche per evitare di sfumare la categoria in una moltitudine di comportamenti di incerto significato.
Con l’espressione contratti ambientali viene fatto quindi d’ora in poi riferimento esclusivamente a accordi vincolanti tra due o più parti, delle quali almeno una deve essere pubblica, aventi ad oggetto l’obbligo della parte o delle parti private a porre in essere specifici comportamenti di rilevanza ambientale a fronte di controprestazioni della parte pubblica.

9.
Uno degli aspetti più curiosi è dato dal fatto che in Europa si è convinti che la patria dei contratti ambientali – come di tutte le iniziative basate sul mercato, sulla domanda e sull’offerta, sull’iniziativa privata – siano gli Stati Uniti.
Così, è ricorrente in Europa la lamentela di operatori industriali e delle loro associazioni dell’eccessivo uso di strumenti autoritativi rispetto alla capacità americana di affrontare i problemi ambientali confidando nell’iniziativa e nella responsabilità dei privati.
Per converso, negli Stati Uniti gli esperimenti di contrattazione ambientale posti in essere sono stati considerati come tentativi di seguire i successi dell’esperienza europea in questo settore.
Queste opinioni contrapposte hanno due elementi in comune.
Il primo, quasi ovvio, è che entrambe le convinzioni riflettono un disagio comune ad entrambe le sponde dell’Atlantico e cioè l’insoddisfazione rispetto agli strumenti autoritativi tradizionali e l’aspirazione verso nuovi e non ben identificati meccanismi.
Meno ovvio il secondo elemento comune: esse sono entrambe errate, essendo il frutto di una sorta di doppio miraggio, di schnitzleriano Doppeltraum, fondato sulla (non inusuale) convinzione che il terreno del vicino sia più verde, e quindi, nella specie, più flessibile e propenso alla contrattualità che non il proprio.
In realtà, negli Stati Uniti i contratti ambientali costituiscono una esperienza assai ridotta quantitativamente e qualitativamente, e tutt’altro che positiva per ciò che riguarda i risultati.
D’altro canto, in Europa i successi del contratto ambientale in senso proprio così come sopra definito si limitano pressoché esclusivamente alla componente di lingua olandese dell’Unione europea, vale a dire l’Olanda e la parte fiamminga del Belgio.
Ecco una succinta rassegna della sperimentazione e della pratica in materia di contratti ambientali a partire dagli anni Novanta.

10.
I primi esperimenti negli Stati dell’Unione europea sono stati avviati in Francia e in Germania negli anni Settanta.
In Francia dapprima sono stati attuati i contrats de branche, stipulati tra Pubblica autorità e associazioni imprenditoriali, per disciplinare gli effetti ambientali di determinate attività produttive. Questi sono però stati messi fuori gioco dal sopravvenire della normativa comunitaria e dal conseguente divieto di misure atte a favorire le imprese nazionali. Sono seguiti i programmes de branche e i programmes d’enterprise, con carattere pianificatorio e non direttamente negoziale. Questi sono stati bloccati dopo alcuni anni da una decisione del Conseil d’Etat che li ritenne illegittimi per settori ove vi era una competenza normativa statale.
In Germania sono classificate come contratti ambientali le c.d. Selbsverpflichtungen, cioè le impegnative unilaterali di produttori o di loro associazioni, cui rimane estranea l’Amministrazione, per lo più assunte e il cui rispetto non può essere ottenuto per via giudiziaria o esecutiva (salvo che in sporadiche applicazioni).
Circa 80 sono attualmente vigenti. Esse, per quanto detto, non possono essere considerate come contratti ambientali in senso proprio.
Di particolare rilievo è l’impegno assunto nel 1995 dalle principali associazioni industriali di ridurre le emissioni di CO2, con riferimento agli impegni assunti dall’Europa con la sottoscrizione del Protocollo di Kyoto.

11.
Come accade in Germania, nella maggior parte degli altri Stati dell’Unione europea vengono spesso qualificati come contratti ambientali accordi che però non sono vincolanti, o dei quali non può essere ottenuto, o può essere ottenuto con estrema difficoltà, l’adempimento ; i risultati offerti dai contratti ambientali in senso proprio non sembrano incoraggianti (salvo che, forse, nel settore dei rifiuti).
È il caso dell’Italia ove negli anni Novanta sono stati stipulati numerosi accordi tra l’Amministrazione (e in particolare le Regioni) e associazioni industriali, tutti però non vincolanti. Tra questi, gli accordi con esiti più soddisfacenti hanno riguardato la raccolta di rifiuti (carta, cartone, vetro e plastica).
In Italia inoltre, come in altri paesi europei, sorgono e gradualmente si diffondono anche procedure basate su accordi, dapprima con la sola partecipazione delle varie parti pubbliche interessate alla gestione di uno specifico tema ambientale, poi estese – sotto forma di procedure negoziate – a forme di partecipazione delle parti private. È il caso di istituti quali l’accordo di programma, la conferenza di servizi, e altre procedure, tutte figure anomale sia da un punto di vista della tradizione pubblicistica, ma estranee anche alla metodologia privatistica. Come osserva Sabino Cassese in un suo recente , l’azione amministrativa non diviene una entità di diritto comune e, d’altro canto, il diritto amministrativo continua a svilupparsi, ma in forme privatistiche.
In particolare, l’introduzione della figura generale dell’accordo di programma risale alla legge 8 giugno 1990, n. 142 (art. 27), ed è stata inserita nel Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267 del testo unico sull’ordinamento degli enti locali (art. 34).
Successivamente, il Dlgs. 22/1997 ha previsto varie ipotesi di utilizzazione dell’accordo.
Il decreto ha stabilito che, ai fini dell’attuazione dei principi e degli obiettivi individuati dalla nuova disciplina sulla gestione dei rifiuti, il Ministero dell’Ambiente, di concerto con il Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato promuove accordi e contratti di programma con enti pubblici, con le imprese maggiormente presenti sul mercato o con le associazioni di categoria.
Ulteriore ricorso allo strumento dell’accordo è poi previsto al fine di promuovere l’utilizzo di sistemi di eco-label ed eco-audit, nonché di sviluppare e attuare programmi di ritiro dei beni di consumo al termine del loro ciclo di vita allo scopo specifico del riutilizzo, riciclaggio e recupero di materia prima (art. 25, commi 1 e 2, Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22). Il ricorso all’accordo di programma è infine previsto con riferimento alla gestione e smaltimento di beni durevoli a fine vita quali frigoriferi, surgelatori, congelatori, televisori, computer, lavatrici, lavastoviglie e condizionatori d’aria con lo scopo di istituire dei centri preferenziali di raccolta (art. 44, Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22).

12.
Diversi sono i casi dell’Olanda e del Belgio fiammingo.
In Olanda, l’utilizzazione dello strumento contrattuale in materia ambientale trova le sue origini in un Rapporto pubblicato nel 1988 dall’Istituto Nazionale olandese per la Sanità e l’Ambiente, denominato “Concern for Tomorrow”.
Tra le altre cose, il rapporto evidenziava che uno sviluppo sostenibile in Olanda sarebbe stato possibile solo se le emissioni di molti prodotti chimici fossero state drasticamente ridotte (dal 70% al 90%) entro pochi anni; evidenziava altresì che i tradizionali meccanismi command and control non avrebbero potuto da soli garantire il raggiungimento di questo obiettivo.
I contratti ambientali sono così divenuti il meccanismo aggiuntivo rispetto ai meccanismi tradizionali con il quale l’Amministrazione e le imprese si sono proposti di perseguire quegli obiettivi.
Essi vengono stipulati dall’Amministrazione con specifici settori produttivi, pongono obiettivi di riduzione delle emissioni riguardanti l’intero settore, affidando poi la trattativa concreta al livello provinciale o comunale e alla singola impresa.
Oggetto del contratto Il risultato è la formazione di un Piano ambientale d’impresa (Company environmental Plan) che costituisce la base per i seguenti rapporti tra l’impresa stessa e l’Amministrazione. Sulla base di questo piano, della sua effettiva applicazione e del suo rispetto da parte dell’impresa l’Amministrazione rilascia e gradua i permessi e le autorizzazioni richieste in materia ambientale per lo svolgimento dell’attività produttiva
Pertanto, i contratti ambientali utilizzati in Olanda:
a) sono contratti di settore;
b) non sostituiscono la regolamentazione o la normativa esistente, e non la rendono più flessibile, ma si pongono obiettivi:
– di maggiore efficienza o comunque superiori ai limiti normativamente fissati;
– di impedire l’adozione di norme vincolanti da parte dell’Amministrazione;
– di accelerare l’esecuzione di specifiche disposizioni normative;
I contratti ambientali sono vincolanti per tutte le parti in base alle disposizioni del codice civile, anche se a tutto il 1998 non risulta che ci siano state controversie giudiziarie conseguenti a inadempimenti o violazione degli accordi contrattuali.
Alla base dei contratti ambientali olandesi sta il comune intento dei produttori di internalizzare i costi ambientali, evitando così alterazioni della concorrenza interna, e di partecipare alla protezione dell’ambiente.
Più limitati sia quantitativamente, sia qualitativamente sono i contratti ambientali stipulati nella Regione fiamminga del Belgio.
Con decreto (atto avente forza di legge) del 15\6\1994 la (in base alla costituzione del Belgio, ciascuna delle tre regioni è responsabile anche legislativamente della tutela dell’ambiente) il Governo regionale ha introdotto i contratti ambientali.
Essi possono essere stipulati tra il Governo e una associazione di produttori al fine di prevenire l’inquinamento, limitarne le conseguenze o promuovere una corretta gestione dell’ambiente. I contratti non possono sostituire norme di legge, o prevedere disposizioni più favorevoli.
Durante l’efficacia del contratto, il Governo si impegna a non adottare disposizioni più vincolanti o restrittive.
Tutti i contratti realizzati in base a questa normativa attengono alla gestione dei rifiuti.

13.
L’Unione europea nel 1996, dopo molte esitazioni e con una profonda disomogeneità di vedute, si è schierata a favore dei contratti ambientali.
La Commissione, in una sua comunicazione, ha così evidenziato i numerosi vantaggi che essi potrebbero offrire quali, per esempio, promuovere una partecipazione cooperativa dell’industria nella tutela dell’ambiente, offrire soluzioni efficienti dal punto di vista economico e a costi ridotti, un più rapido raggiungimento degli obiettivi .
Nel 1997, il Consiglio ha adottato una risoluzione che accoglie i contratti ambientali tra gli strumenti a disposizione della politica ambientale comunitaria.
In effetti, a seguito di questi due atti, è stato raggiunto nel 1997 un accordo con alcune associazioni industriali per un contenimento energetico nei televisori, VCR, macchine lavatrici, e un altro accordo nell’ottobre 1998, ratificato dal Consiglio, con l’associazione dei produttori di automobili per la riduzione di emissioni di CO2, nel quadro degli adempimenti per l’attuazione degli impegni connessi con il Protocollo di Kyoto.
Peraltro gli effetti sembrano essere sinora scarsi .
Ciò può essere attribuito, secondo alcuni, alla dichiarata mancanza di entusiasmo da parte della Commissione per l’uso di questo strumento. Ma certamente dipende dall’impossibilità di dare attuazione alle direttive con strumenti diversi dal tradizionale command and control. In particolare, la posizione della Commissione, espressa nella Comunicazione del 1996, è che in tutti i casi in cui le Direttive creano diritti e obblighi per gli individui appartenenti all’Unione, la recezione deve avvenire con atti dotati di forza vincolante per la generalità dei destinatari e di adeguata pubblicità; di conseguenza, non possono essere utilizzate forme negoziali, che al più – se vincolanti – sarebbero comunque vincolanti solo per i contraenti .

14.
Negli Gli Stati Uniti l’utilizzazione di contratti ambientali ha avuto impulso soprattutto da parte del Governo Clinton, negli anni Novanta.
I progetti più importanti al riguardo sono stati Project XL (dove XL sta per excellence) avviato nel 1995, e Common Sense Iniziative.
Project XL, lanciato nel 1995, ha previsto la stipulazione di accordi tra EPA e una specifica impresa; gli accordi avrebbero potuto consentire all’impresa flessibilità nell’applicazione della normativa esistente, e quindi eventualmente deroghe rispetto ai limiti e agli standard previsti dalla normativa medesima, a fronte di un impegno dell’impresa di perseguire in settori predeterminati obiettivi di maggior tutela dell’ambiente di quelli richiesti dalla normativa.
Per esempio, una impresa potrà stipulare un contratto ambientale in base al quale l’Amministrazione concede di effettuare emissioni di un determinato prodotto in quantità superiore a quella consentita dalla legge (purché entro limiti prefissati), a fronte dell’impegno dell’impresa stessa di ridurre al di sotto dei limiti previsti dalla legge le emissioni di altri prodotti .
Se l’impresa non rispetta gli impegni, EPA impone l’applicazione delle regole che erano state contrattualmente derogate, e irroga le eventuali sanzioni per le violazioni. In questo modo, il problema della vincolatività del contratto non si pone, sussistendo per l’Amministrazione uno strumento di tutela efficace, e cioè l’applicazione della normativa contrattualmente derogata.
Project XL ha avuto scarsissima fortuna. L’obiettivo dell’Amministrazione Clinton era di realizzare 50 contratti all’anno a partire dal 1995.
Ne sono stati stipulati in tutto una diecina, e uno solo a partire dal 1996 .
Le ragioni dell’insuccesso sono state due.
In primo luogo, le critiche e le contestazioni da parte delle associazioni ambientaliste, per lo più contrarie non ai progetti XL in quanto tali, ma alle valutazioni in concreto dell’Amministrazione ed agli spazi di deroga concessi all’impresa aderente.
In secondo luogo, le proteste da parte delle imprese non aderenti al progetto, che ritenevano che i contratti ambientali, nella parte in cui derogavano a normative vincolanti, ponessero in essere una violazione della concorrenza e delle regole del mercato danneggiando le imprese che non intendevano partecipare al progetto.

15.
Come si vede, nonostante la diffusa sfiducia verso il command and control e la convinzione che gli strumenti negoziali siano più efficaci e meno costosi, l’utilizzazione di contratti ambientali in senso proprio non rappresenta un successo, né in termini quantitativi, né in termini di risultato, su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Le impressioni diverse e più positive sono in genere provocate – come si è visto – dall’inclusione nello stesso fascio di accordi vincolanti e di altre forme di impegno, non vincolanti per la parte privata, e comunque non consensuali.
Vi è, in Europa, la rilevante eccezione olandese, che meriterebbe ben maggiore attenzione per i positivi risultati conseguiti.
Ma i contratti ambientali sono lì utilizzati per raggiungere effetti diversi e ulteriori rispetto a quelli previsti o imposti dalle normative. Pertanto, in Olanda lo strumento negoziale si aggiunge nella maggior parte dei casi al command and control, e non lo sostituisce.
Del resto, in Europa, essendo la maggior parte della produzione di norme statali in materia ambientale di diretta o indiretta derivazione comunitaria, l’uso di strumenti non generali e vincolanti sembra essere precluso.
Negli Stati Uniti d’altro canto c’è, ed è oggetto di apposita disciplina normativa, una negoziazione in materia ambientale, ma attiene alla produzione di norme di carattere generale (che vengono poi emanate dall’Amministrazione competente) e non alla stipulazione di accordi privati.

16.
In definitiva, la realtà dimostra che il tradizionale sistema command and control è difficilmente sostituibile e che per tutti i modelli alternativi, e in particolare proprio per i contratti ambientali, c’è la tendenza a idealizzare e a generalizzare.
Nella pratica, inoltre, i vantaggi dell’uso degli strumenti negoziali possono rivelarsi assai inferiori di quelli ipotizzabili in teoria. Ed infatti, se si attenuano i tradizionali conflitti tra privato e pubblico, si determinano almeno due conseguenze negative.
In primo luogo, sorgono nuove possibilità di conflitto, non più solo tra privato e pubblico, ma anche tra privato e privato: è il caso, per esempio di tutti i profili di violazione delle regole di mercato e della concorrenza, già prospettati negli Stati Uniti – ma certamente proponibili, se la prassi dei contratti ambientali si estende, anche in Europa.
In secondo luogo, si determina uno spostamento dell’attenzione dall’importanza delle questioni e dei problemi ambientali da risolvere alla loro negoziabilità . In altri termini, questioni importanti o gravi, o comunque prevedibilmente altamente conflittuali, vengono accantonate in favore di questione risolvibili con una trattativa contrattuale.

17.
Infine, c’è un ulteriore aspetto da considerare.
Si è detto inizialmente che la richiesta dell’uso di strumenti contrattualistici e negoziali ha trovato spinta e alimento nell’affermarsi delle ideologie di privatizzazione e di deregulation.
Ma non bisogna dimenticare che, se si riducono le norme di origine pubblica, crescono le norme poste in essere dai privati, o con la loro partecipazione. Questi privati sono, per lo più i soggetti economicamente più forti, in grado di avere accesso e di contrattare con l’Amministrazione o il potere politico.
Si crea così un sistema dove si mescolano disposizioni normative e amministrative, regolamentazioni contrattate o intese tra privato e pubblico, prassi nazionali e sopranazionali.
Per ciò che specificatamente riguarda la disciplina dell’ambiente, questo non significa che scompaiono le regole; significa solo che le regole sono poste non da organismi pubblici che perseguono (o dovrebbero perseguire) l’interesse generale e operare in posizione di indipendenza e terzietà, ma dai quei soggetti economici che hanno la forza di negoziare i problemi ambientali con l’Amministrazione o che sono da quest’ultima prescelti.
Resta allora il serio di problema di individuare preventivamente gli spazi entro i quali permettere l’introduzione della flessibilità negoziale in materia ambientale, perché non si può accettare che le vicende ambientali e tutte le vicende ad esse collegate – tra cui le vicende economiche – si muovano in uno spazio svuotato di regole poste nell’interesse generale, e governato da regole confezionate nell’interesse o con la partecipazione dei soggetti privati dei più forti .
È vero che l’ambiente deve fare i conti con il mercato. Ma il mercato può fare a meno di un ambiente regolato e controllato?