N. 25 inverno 2003

La tolleranza
La tolleranza è la virtù dei deboli, destinati a convivere con i propri simili. L’uomo, nonostante la sua intelligenza, è così limitato dai suoi errori e dalle sue passioni, che non è mai troppa la tolleranza di cui deve dar prova e della quale ha bisogno per evitare incessanti disordini e discordie.
In realtà, la ragione per cui tanti secoli sono stati l’onta e la sventura dell’umanità, va ricercata nel fatto che la tolleranza è stata bandita.
Non avendo la ragione umana una misura precisa e determinata, ciò che è evidente per l’uno è spesso oscuro per l’altro; giacché l’evidenza è una qualità relativa: può dipendere o dalla luce sotto la quale vediamo gli oggetti, o dal rapporto che esiste fra questi e i nostri organi, o da un’altra causa qualunque, onde un certo grado di luce, sufficiente a convincere l’uno, è insufficiente per un altro il cui spirito è meno vivo o diversamente sensibile. Ne segue che nessuno ha diritto di imporre il proprio pensiero, né di pretendere di assoggettare gli altri alle proprie opinioni. In realtà, volere che io creda in conformità al vostro giudizio sarebbe come esigere che io guardassi con i vostri occhi.
Vediamo tutti i giorni che non esiste verità tanto chiara che non vada incontro a qualche contraddizione; non esiste sistema, al quale non si possono opporre obiezioni spesso tanto valide quanto le ragioni su cui esso si fonda.

Ciò che è semplice ed evidente per l’uno sembra falso e incomprensibile all’altro: ciò accade non solo a causa del diverso grado di intelligenza, ma anche a causa della stessa varietà delle indoli.
La verità differisce dall’errore tanto nei suoi mezzi quanto nella sua essenza; dolcezza, persuasione, libertà sono i suoi divini caratteri; si offra dunque così ai miei occhi, e subito il mio cuore si sentirà attratto verso di essa; ma dove regnano la violenza e la tirannide, non vedo più lei, ma il suo fantasma.
Credete davvero che nella tolleranza universale, che vorremmo instaurare, ci preoccuperemo più dei progressi dell’errore che di quelli della verità?
Se tutti gli uomini, adottando i nostri principi, si concedessero un reciproco aiuto, rinunziassero ai loro pregiudizi e considerassero la verità un bene comune, del quale sarebbe egualmente ingiusto privare gli altri o ritenersi depositari esclusivi; se tutti gli uomini dico, deponendo le loro ostinate convinzioni, si spingessero fino ai confini del mondo per comunicarsi in pace sentimenti e opinioni, pesarli imparzialmente nella bilancia del dubbio e della ragione, non credete invece che, nel silenzio unanime delle passioni e dei pregiudizi, si vedrebbe la verità riprendere i suoi diritti, ampliare il suo potere, e le tenebre dell’errore svanire e fuggire davanti a lei, come ombre lievi che scompaiono all’approssimarsi della fiaccola del giorno?

Jean – Edme Romilly, voce Tolleranza, Encyclopédie di Diderot-D’Alembert, vol.16, Parigi 1765.

Tre poesie di Birago Diop

Sospiri

Ascolta le cose, non gli esseri.
La voce del fuoco, si intende,
ascolta la voce dell’acqua.
Ascolta nel vento
Il cespuglio che singhiozza:
sono il respiro degli antenati.

I nostri padri non sono scomparsi;
sono nell’ombra che si dirada
e nell’ombra che si ispessisce.
Non sono in cielo o sotto la terra;
sono nell’albero che freme,
sono nel bosco che geme,
sono nell’acqua che scorre,
sono nell’acqua che dorme
sono in mezzo alla folla.
I morti non sono morti.

Simpatia

Bagnati dagli stessi fiumi
Nutriti agli stessi banchetti
Vittime delle stesse sbronze
Abbiamo avuto lo stesso destino.
Ora, ammaccati, soli, e più saggi
Seduti a margine del lungo sentiero
Cerchiamo quei giovani volti
Che riscaldarono i nostri gioiosi mattini.
Ascoltiamo i passi strascicati e lenti delle ore
Che si muovono di sera nelle nostre case
Come fantasmi che ritornano
Cullando le nostre preoccupazioni assillanti.
E i silenzi della notte
Si sovrappongono ai rumori del giorno che fugge
E tessono sudari per le nostre illusioni.

Visione

Una figura indistinta si allontana
Nella trasparente oscurità del crepuscolo
E lentamente scende la notte
Che tutto avvolge di nero.
Lontano una lampada luccica
E penetra nella notte dove mi sembra di scorgere
Un’ombra che scivola senza rumore
Nella trasparente oscurità del crepuscolo
Dove la figura si allontana.

Birago Diop (Ouakani 1906 – Dakar 1989). Studia veterinaria in Francia. Conosce a Parigi Senghor. Lavora come veterinario in Sudan, Alto Volta (ora Burkina Faso) e Mauritania. Dal 1960 al 1965 è ambasciatore del Senegal in Tunisia; nel 1965 apre una clinica veterinaria a Dakar. E’ autore di raccolte di poesie (Leurres et Lueurs),, commedie, drammi, romanzi, racconti (Contes d’Amadou Koumba).

Storia di luce e di morte

Un monumento a Topsy è stato eretto, in occasione del centenario della sua morte, a Coney Island, l’isola davanti a Manhattan che ospita il parco dei divertimenti, proprio sul luogo dell’efferata esecuzione. “Questo episodio è una vergogna indelebile nella storia della nostra città”, ha detto il finanziatore del monumento.
Lavorava prima in un circo, poi, divenuto troppo anziano, in un’impresa di costruzioni, sempre a Coney Island.
Fu condannato a morte per aver preso a calci un passante che gli aveva infilato in bocca una sigaretta accesa.
Forse se la sarebbe cavata, se Thomas Alva Edison, il grandissimo ed instancabile inventore – “Invention is ninety-nine percent perspiration, and one percent inspiration” era il suo motto – non avesse fiutato il momento propizio per offrire una dimostrazione dello straordinario potere dell’elettricità e dei suoi innumerevoli impieghi oltre a quello, divenuto ormai di uso generalizzato, di portare ovunque la luce. Edison entrò così sulla scena proponendo un altro impiego di quell’invenzione che lui aveva insegnato come controllare e utilizzare.
L’elettricità portava luce e sicurezza; ma poteva portare anche morte: rapida, indolore e al passo con l’evoluzione tecnologica.

Niente grida, lamenti, spargimenti di sangue: niente più inaffidabili impiccagioni, sanguinose ghigliottine; no anche all’avvelenamento con morfina, in corso di sperimentazione, ritenuto troppo gradevole per il condannato.
La vera soluzione, il vero punto di equilibrio era l’elettricità.
Fino a quel momento, Edison si era limitato a dimostrare le sue teorie su cani e gatti; quella era la prima occasione per affrontare una prova su un corpo di giuste dimensioni e per aggiungere un altro brevetto a quelli già totalizzati (saranno ben 1093 alla sua morte).
Ci furono circa 1500 spettatori in quel freddo giorno di fine gennaio in cui Topsy, senza un lamento, proprio come Edison aveva previsto, esalò l’ultimo respiro e crollo rumorosamente al suolo. Ci furono anche molte proteste, a New York e in tutti gli Stati Uniti. Non rimasero inascoltate. L’opinione pubblica americana insorse. Le modalità con cui l’esecuzione fu condotta a termine furono pubblicamente censurate, e dichiarate una tortura sadica e inutile: non si uccidono così gli animali.
Neppure Topsy, un vecchio elefante omicida, ma solo perché indegnamente provocato, meritava una fine così crudele.
Da allora, l’elettricità non venne più utilizzata negli Stati Uniti per uccidere degli animali.
Fu riservata solo agli esseri umani.

Ma perché Edison si lanciò con tanto zelo in questa campagna?
Il suo piano, degno di un genio del marketing, era quello di dimostrare all’opinione pubblica che l’elettricità poteva essere un pericoloso strumento di morte; ma non quella a corrente continua che lui stesso aveva brevettato, ma quella a corrente alternata, sviluppata dal suo acerrimo concorrente Westinghouse.
In questo modo, l’elettricità prodotta da Westinghouse sarebbe stata collegata dall’opinione pubblica alle conseguenze mortali provocate, inducendo nel contempo una preferenza per la benigna corrente continua. Westinghouse si accorse immediatamente del tranello e, come contromossa, assunse a proprie spese i migliori avvocati per difendere il primo condannato a morte mediante sedia elettrica. Riuscì a condurre la difesa fino alla Corte Suprema.
Nel frattempo però, senza che i due litiganti se ne accorgessero, la nuova condanna fu eseguita su Martha Place, una donna ritenuta responsabile di aver ucciso il marito.
Fu usata la corrente alternata, secondo i piani di Edison.
Furono necessarie tre scosse e oltre un’ora di agonia per ottenere il risultato voluto.
Da Storie di Coney Island, New York 1957; Mark Essig, Edison and the Electric Chair: A story of Light and Death, Walker and Co., 2003.

Una poesia di David Diop

Rideva il sole nella capanna
le mie donne erano belle e flessuose
Come le palme nella brezza della sera;
i miei figli scivolavano sulle profondità del fiume,
Di notte, la luna accompagnava le nostre danze
Al ritmo frenetico e ossessivo del tam-tam,
tam-tam della gioia,
tam-tam della spensieratezza,
in mezzo a fuochi di libertà.

Poi un giorno, il silenzio.
Le mie donne premevano le bocche arrossate
Sulle labbra sottili del conquistatore bianco,
i miei figli lasciavano la loro tranquilla nudità
per marciare con vesti di ferro e di sangue.

Non ci siete più nemmeno voi,
tam-tam delle mie notti d’amore,
tam-tam dei miei giochi notturni,
i ferri della schiavitù mi hanno straziato il cuore.

La poesia, dal titolo “Tutto è perduto”, è di David Diop (1927-1960), uno dei più importanti rappresen-tanti della négritude. Lavorò come insegnante nel Senegal e in Guinea. Morì in un incidente aereo mentre portava con sé i manoscritti della maggior parte delle sue opere.

Nascita di una lingua

Quando e come è nata la prima scrittura?
Studiosi della preistoria, archeologi, filologi cercano da anni una risposta. Alcuni suppongono che i disegni geometrici che si vedono in molte grotte – con le forme più varie, di gazzella, di grillo, di tetto o di virgola – siano elementi di una lingua ormai scomparsa e indecifrabile. Se avessero ragione, si potrebbe forse avviare una analisi genetica a seconda dei tipi di scrittura utilizzati, dai geroglifici egiziani ai caratteri cinesi.
Altri preferiscono interrogare Frédéric Bruly Bouabré: uno dei rari artisti che hanno fatto della scrittura l’oggetto della sua riflessione, e l’unico che si è spinto ad inventare un linguaggio, svilupparlo, spiegarlo, diffonderlo. È il creatore dell’alfabeto bété, dal nome dell’etnia nella quale Bouabré è nato, in Costa d’Avorio nel 1923.
Fino al 1948 la sua vita non aveva avuto nulla di particolare: studi interrotti anzitempo essendo stato espulso dalla scuola, un arruolamento nelle truppe francesi durante la seconda guerra mondiale, un posto da piccolo funzionario statale dopo la Liberazione.
Ma il 1 marzo 1948, all’alba, mentre si recava al lavoro, è colpito da una visione: il sole si moltiplica davanti a lui in molti soli di varie dimensioni e di diversi colori.
Capisce che si tratta di un richiamo divino. Diviene così profeta e si fa chiamare Cheik il Rivelatore.

La sua missione diviene quella di rivelare all’Africa la scrittura che fino a quel momento non aveva avuto, restando condannata cosi a far uso della lingua dei colonialisti bianchi. Ma, come si poteva creare un alfabeto, un alfabeto africano?
In un decennio di lavoro la nuova lingua è pronta, partendo dall’osservazione di elementi naturali, sviluppandone le forme in modo simbolico, e tracciandone i segni con gessetti colorati su carta o cartone. A seconda della loro complessità e dei loro intrecci, i segni indicano una o più sillabe della lingua bété. Bruly Bouabré associa pittogrammi e calligrammi, procedendo da sinistra verso destra. Introduce anche dei simboli universali: la freccia, la stella, la luna, il serpente, attribuendo loro un significato. A molti sembra che nella lingua bété siano racchiuse tutte le lingue originarie e sia espresso l’ideale di una lingua universale, sintesi di storie e di culture di un intero continente..
Nel 1958, Théodore Monod, affascinato dalla costruzione della lingua bété, conosciuta allorché Bouabré partecipa all’esposizione sui Maghi della terra organizzata a Parigi, pubblica per la prima volta un saggio su questa lingua con le riflessioni dell’autore.
Attualmente al Museo Champollion a Figeac è esposta la versione intera dell’alfabeto bété, così come si presentava all’inizio degli anni Novanta.
Disposti su tre grandi pareti ci sono 449 strisce di cartone di 9,5 cm. di altezza e 15 cm. di lunghezza: ciascuna di esse riproduce la trascrizione di un suono in caratteri latini da un lato e in lingua bété dall’altro.

Sono anche esposti libri in lingua bété, tutti scritti integralmente da Bruly Bouabré con spiegazioni che si propongono di far comprendere il processo attraverso il quale la lingua si è lentamente formata ed è stata gradualmente rivelata: questo perché l’inventore di una scrittura non può astenersi dal vedere ovunque e senza soste – in un gruppo di rocce, in una nuvola passeggera – elementi che permettono, adeguatamente trasformati, di sviluppare e migliorare la sua lingua.

S.N.

Quattro poesie di Gertrud Kolmar

La poetessa

Mi tieni stretta nelle mani.
Il mio cuore batte nel tuo pugno
Proprio come quello di un uccellino.
Tu che leggi, fai attenzione:
Perché, vedi, non stai sfogliando solo carta,
ma un essere umano.
Anche se ti sembrano solo pagine stampate,
rilegate con cartone e un po’ di colla;
stai sfogliando un essere umano che rimane muto
e non ti vede con i suoi grandi occhi
Che guardano dalle righe stampate.
Ed è velato come una promessa sposa
E porta orecchini e collane, proprio come piace a te,
e chiede timidamente che tu scacci dalla tua mente,
solo per questa volta, indifferenza e noia.
Con fiori scuri, con catene d’argento, con sete
Sapeva molte cose belle quando era bambina,
ma le più belle ormai le ha dimenticate.
Questo libro è il vestito di una ragazza,
Che vorrebbe essere prezioso e rosso
e invece è povero e fragile.
E sotto dita amorose sopporta di essere sgualcito
E anche, talvolta, strappato.
Così me ne sto qui e rifletto su quel che mi è capitato.

La candeggina lo ha tutto pulito, questo vestito,
Ma le tracce non sono state davvero cancellate.
Così ti chiamo. Il mio appello è flebile e leggero.
Tu senti ciò che dico.
Capisci anche ciò che sento?

La viaggiatrice

Tutte le ferrovie sbuffano tra le mie mani,
tutti i grandi porti ospitano navi che mi aspettano
tutte le strade che si dipartono
precipitosamente verso terreni lontani
iniziano proprio qui; poi, dall’altra parte,
felice di festeggiarle, io le ricevo sorridendo.
Se riuscissi ad acchiappare un lembo di questo mondo
troverei anche gli altri tre,
e allora annoderei il mio foulard
lo metterei su un bastone
e poi lo porterei sulle spalle
con dentro tutta la palla terrestre
con le guance rosse
con i noccioli marroni e il sapore di mele.
Pesanti graticci di ferro strepitando
diffondono lontano il mio nome
Una casa diroccata spia i miei passi di nascosto,
ritornano sullo sfondo immagini
già disperse da tempo in lontananza
e nostalgia della cecità e desideri di paralisi;

crea il mio calice da viaggio: ed io bevo assetata.
Con nude, vigorose braccia
vado arando la profondità dei mari,
mentre nei miei occhi luccicanti assorbo il cielo.
Ci sarà un tempo per restarsene quieti
ricercando scarne provviste, poi ritornare a casa
e essere nient’altro che sabbia nelle scarpe.

La strega

Le lune sorgono, le lune tramontano;
Il mio giorno è sempre lo stesso giorno,
caro visetto. Ti inghirlandano canzoni colorate
l’azzurro suono della cinciallegra,
il cupo rumore del merlo.
Cupo rumore del merlo, un chiarore,
Argentate voci flautate, un fosco panorama.
Giovane donna del bosco,
I muschi ospitano le tue onde.
Alla tua fonte si chinano gli animali selvaggi,
Le teste brune con corna dirompenti.
Le tue notti sono tutte dense di rare grida
con colori del pavone
E del bisbigliare del vento giallo di ginestra.
Lucertola smeraldina. Piccole biscie dorate
Intorno alle quali è ancora visibile il bagliore delle foglie
Che, stanco dell’estate, si spegne
Là dove l’olmo si specchia sul laghetto
Che, insieme al silenzio,

scompare verso la valle.
La mia unica proprietà.
Tu, posso sempre cambiarti, stregarti.
Posso essere la tua strega.
Diventerò nel mio parco
un cespuglio con mandorle dolci.
Sul tavolo sarò
un bicchiere di vino color ambra pura.
O terra trasparente matura.
Avvicinati, voglio berti, mia forza.
E vedere un muro,
tirare la pesante maniglia di bronzo,
e trovarmi nuovamente sotto l’albero del paradiso.

Il cuore

Camminavo in un bosco.
Crescevano molti cuori
erano rossi per il dolore,
erano orgogliosi, verdi e freddi.
Grondavano e pendevano
Da scuri rami, rami di amarene.
Io li soppesavo densi di sole
E li lasciavo dolcemente tintinnare.
Poi ne ho colto uno
Assai scuro, sembrava ormai maturo:
insieme a un verde fiocco e a un fiore
mi ha fatto diventare bellissima.
Il cuore era un battito caldo.

Pensavo che pregasse.
Qualche volta, rossoscura come una granata
Spruzzava fuori una grande goccia.
E allora batteva da tormenti avvizziti
Un piccolo, piccolo cuore blu.

Gertrud Kolmar (Berlino 1894 – Auschwitz ?, 1943). Figlia di un noto avvocato, cugina di Walter Benjamin (con il quale intrattenne una folta corrispondenza), Gertrud Chodziesner sceglie per la sua attività letteraria lo pseudonimo Gertrud Kolmar, dal nome tedesco del piccolo villaggio polacco dal quale la sua famiglia proveniva. Pubblica il suo primo libro di poesie nel 1917. Insegna il francese e l’inglese, traduce dal russo e dal polacco.
Tra il 1930 e il 1931 scrive il suo unico romanzo, die judische Mutter, pubblicato per la prima volta nel 1965 con il titolo die Mutter. Appassionata della Rivoluzione francese, scrive nel 1933 un ” Ritratto di Robespierre” sotto la direzione di Albert Mathiez. Nel 1934 pubblica il ciclo poetico Preußische Wappen, nel 1938 la raccolta Die Frau und die Tiere. All’avvento del nazismo si rifiuta, insieme con il padre, di lasciare la Germania, e si rifugia nella casa di famiglia a Finkenkrug sul Falkensee. E’ inviata ai lavori forzati nel 1941 ; è deportata a Auschwitz nel 1943 e di lei non si hanno più notizie.

Non ci sono traduzioni italiane delle sue poesie. Sulla sua vita e le sue opere c’è un recente volume di Johanna Woltmann, Gertrud Kolmar, Leben und Werk, Surhrkamp 2001. C’è una traduzione francese con testo a fronte di alcune sue poesie: Gertrud Kolmar : Mondes – poèmes, con prefazione e traduzione di Jacques Lajarrige. Seghers, 2003.

Le sirene

Le Sirene nascono da un celebre vicenda di amore. Acheloo, figlio di Oceano (ma secondo altre fonti di Poseidone) e di Teti sfida a duello Eracle per contendergli Deianira. Dopo aver vanamente fatto ricorso alle sue capacità di trasformazione mutandosi prima in serpente, poi in toro, Acheloo viene sconfitto e Ercole, vittorioso, gli stacca un corno (donato in seguito proprio a Deianira, diviene un simbolo di fortuna, chiamato cornucopia). Dalle ferite subite da Acheloo (che andò a nascondersi per l’onta della sua dura disfatta tra le onde del fiume Toante che, poi prese il suo nome ed oggi si chiama Aspropotamo) cadono tre gocce di sangue, dalle quali sorgono le tre Sirene.
Secondo altre versioni le Sirene nascono invece da una sola madre: per Euripide sono nate direttamente dalla Terra, per altri la madre è Sterope, per altri ancora la musa Calliope. Quest’ultima versione sarà poi adottata nella mitologia latina.
In tutti questi casi, esse sono tra i primi cloni della storia.
Altri autori attribuiscono alle sirene origini ancora diverse: In Apollonio Rodio e in Nonno sono figlie di Achello e della musa Tersicore, in Sofocle sono figlie di Forco, in Platone sono generate da Forco e da Cheto, entrambe divinità marine.

Non solo le origini sono incerte, ma anche il loro numero. Non si sa infatti quante fossero: secondo Omero due, secondo altri tre o quattro; addirittura otto secondo Platone.
Erano tutte ottime musiciste: secondo Apollodoro, una suonava il flauto, l’altra cantava e la terza suonava l’aulo.
I nomi che ad esse la tradizione attribuisce riflettono per lo più questa loro dote. Si chiamano Imeropa (colei che con la voce suscita il desiderio), Thexiepeia, Thelxinae o Thelxiope (l’incantatrice), Aglaope, Aglaophonas o Aglaopheme (dalla splendida voce).
Nella Magna Grecia compare una triade di Sirene venerate sulla costa campana denominate Partenope, Keucosia e Ligea.
La raffigurazione più diffusa delle Sirene è quella di mostri ibridi con il corpo di pesce e la testa umana.
È in questa forma che le incontrano Ulisse nell’Odissea e Giasone dopo aver conquistato il Vello d’oro nelle Argonautiche.
Giasone e gli Argonauti resterebbero certamente vittime del loro canto se Orfeo, prudenzialmente imbarcato proprio con questo compito, non suonasse ancora più dolcemente di loro, e non impedisse così ai marinai di gettarsi in mare per raggiungerle (solo uno di loro soggiace al loro fascino, ma viene poi salvato da Afrodite).
Dopo questo smacco le Sirene si gettano dalla loro rupe nei flutti uccidendosi.

Ma, secondo altri, questo suicidio avviene solo una generazione dopo, al passaggio di Ulisse, vicenda che costituisce per le Sirene il secondo gravissimo insuccesso.
In realtà, il rapporto delle Sirene con l’ambiente marino sembra essere formata in tempi successivi. Secondo la tradizione più antica, le Sirene sono legate alla terra e alla morte. Sono psicopompe, cioè hanno il compito di incantare i defunti prima di introdurli al cospetto della regina degli Inferi, Persefone. L’accompagnamento delle anime dei morti nell’aldilà potrebbe essere stata la loro funzione originaria.
Igino racconta nelle sue Favole che esse originariamente erano donne, ed erano state trasformate in uccelli da Demetra per punirle del fatto che, pur presenti, non si erano opposte al ratto della figlia Persefone.
Secondo Ovidio, invece, erano amiche di Persefone che, disperate per la sua scomparsa, dopo averla cercata ovunque, alla fine chiedono agli dei di poter essere dotate di ali per proseguire più efficacemente la ricerca: è quindi per esaudire un loro desiderio, e non per punizione, che sono trasformate in uccelli.
In entrambi i casi, alle Sirene sono associate proprietà sapienziali: chi ascolta il canto delle sirene può vedere il passato e il futuro, può viaggiare con la mente in paesi lontani, può comprendere la verità prima e ultima del cosmo.

Racconta Platone nella Repubblica che le anime in viaggio nell’oltretomba vedono a un certo punto fusi incastrati l’uno nell’altro. Sono otto, e l’ultimo è posto al centro dell’universo. È mosso da Ananch, la necessità; sopra i fusi si muovono otto Sirene, trascinate dal moto circolare. Ognuna emette un canto di un solo tono, cosicché da tutte insieme esce una unica armonia.
Nella traduzione della Bibbia operata dai Settanta, troviamo menzionate le Sirene come traduzione di vocaboli che significano sciacallo e struzzo femmina. Questa traduzione dà luogo ad una serie di tentativi di spiegazione e di commentari nei quali lentamente si perde l’aspetto sapienziale ed emerge la componente sessuale, in precedenza assente.
In particolare nel Libro di Enoch si afferma che le donne che sedussero i figli di Dio diventeranno dopo la loro morte Sirene. La componente sessuale diviene prevalente in ambiente cristiano.
Clemente Alessandrino è il primo a fare delle Sirene il simbolo delle lusinghe del mondo e della voluttà carnale, e, più concretamente, dei pericoli legati all’eresia gnostica.
Nell’ideologia cristiana, soprattutto nei primi secoli, la tentazione sessuale è sempre abbinata alla tentazione intellettuale. Dalla voluttà alle passioni alla conoscenza (e viceversa) il passo è breve.
Secondo Sant’Ambrogio le Sirene esprimevano la lusinga della voluttà. Secondo Isidoro di Siviglia hanno ali e artigli perché l’amore vola e ferisce.

Le Sirene diventano così le grandi tentatrici, il simbolo dell’eresia e del peccato, creature malvage, incantatrici che fanno cadere gli uomini in tentazione illudendoli di poter trasmettere conoscenze al di fuori della portata dell’uomo.

Da Alfredo Cattabiani, Volario; Meri Lao Le Sirene, Roma 1985; e vari dizionari mitologici.

Il potere giudiziario

Due amici trovano un giorno per la strada una borsa con delle monete d’oro. Ciascuno dei due vuole appropriarsene, sostenendo l’una che spetta a chi l’ha vista per primo, l’altro a chi materialmente la ha raccolta. Mentre stanno litigando passa il giudice Nasroddin, e insieme gli chiedono di decidere a chi spetti la borsa.
Accetto l’incarico, dice Nasroddin, purché il mio arbitrato non venga contestato da nessuno dei due.
Entrambi si impegnano solennemente a rispettarlo.
Bene, cari amici, la soluzione migliore è che io per il momento trattenga la borsa con le monete d’oro. Poi, quando deciderò di consegnarvele, dovrete dividervi il tutto da buoni amici.

Da D. Leroy, La sagesse afghane du malicieux Nasroddine, Editions de l’aube, 2002, p. 49.

Crediti

Questo venticinquesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2003 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive. Alcuni mi hanno chiesto spiegazioni per questa condizione. Il motivo è triplice. Economico: evitare spese di stampa e spedizione inutili. Ambientale: risparmiare alberi. Sociale: evitare invasioni sgradite nella privacy altrui.
I Testi Infedeli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.nespor.com (ove sono raccolti anche altri miei scritti e una scelta dei miei disegni).
Il sito è curato e aggiornato da Stefano Rossi. L’inserimento dei Testi infedeli nel sito è stato curato in passato anche da Beniamino Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Marina Nespor, Pasquale Pasquino e Sigi Gruber (senza la quale non sarei mai riuscito a tradurre alcuni passaggi delle poesie di Gertrud Kolmar).

N. 26 estate 2004

Due brani di Vitaliano Brancati

I

Sono facce che di tanto in tanto emergono dai mari dell’umanità, ma forse mai, nemmeno ai tempi della Riforma e Controriforma, hanno posseduto l’opacità, la chiusura e l’assolutezza degli ultimi tempi.
I discorsi, le dichiarazioni e le opere di siffatti entusiasti obbedienti, disposti a tutto fuorché a tollerare, ragionare e amare rimarrano senza dubbio come una grave testimonianza, ma tutti insieme non faranno intuire il segreto dei nostri tempi con la rapidità e l’intimità con cui lo farebbe una di queste faccie rimaste a vivere su una tela.
Nel punto perfettamente opposto a quello in cui la Ragione ha generato la Tolleranza, dalla parte dell’universo in cui la notte permane eterna sono spuntate queste facce.
Una crudeltà priva di follia e di rimorsi, una pedanteria priva di scienza, una ingegnosità senza fantasia e estro, una barbarie senza candore e una corruzione priva di estetismo e perfino di mollezza, una vocazione al male miseramente occultata da nubi di stupidità,
uno sguardo rivolto al basso con lo sconcio rapimento di chi ha scambiato la terra per il cielo, una bocca che si serra a stento per masticare comandi sebbene già slabbrata da urla servili, lo sprezzo del grande capitalista e l’atteggiamento del caporale, il linguaggio del ribelle e l’animo di impiegato, ecco i soggetti del nostro quadro.
Questi personaggi, per anni cresciuti sotto in nostri occhi, ai quali forse pensiamo con raccapriccio di aver potuto assomigliare in taluni giorni della nostra giovinezza, questi personaggi che hanno appiccato il fuoco al mondo della serenità, della cortesia e della civiltà, e contro i quali si sono mossi, da tutti i lati, gli uomini liberi, quando potranno dirsi scomparsi?

II

Ma che ha il nonno, domanderanno, che si guarda sempre alle spalle? E i nostri figli spiegheranno sorridendo che il povero nonno è vissuto in un’epoca nella quale ogni cittadino aveva il suo angelo custode e andava in prigione per aver detto che il capo del governo era vecchio (quando invece lui faceva di tutto per sembrare sempre più giovane).

Ma ci pensi, fra poco potrò dire come la penso in faccia a chiunque?
È possibile? Mi domando certe volte, e proprio possibile dire la propria opinione, qualunque essa sia? E poi, ne sarò capace? Voglio dire: saprò parlare la lingua di una persona libera? Non mi imbroglierò? Non dirò delle enormità? Non farò capire a tutti che per molti anni sono stato un povero servo?
E non cercherò anche allora di piacere a qualcuno, di adulare un potente, di seguire la moda, di tenere in ogni caso discorsi opportuni?

Da VITALIANO BRANCATI, il primo brano è da I fascisti invecchiano, il secondo da Il bell’Antonio, entrambi recentemente pubblicati nel primo volume delle opere di Brancati de “I meridiani”, Mondadori.

Istruzioni per l’esecuzione della musica leggera

Nel repertorio delle orchestre di musica leggera e delle orchestre da ballo le composizioni a ritmo di fox-trot (il cosidetto swing) non devono superare il 20%
Nel repertorio cosidetto jazzistico deve essere data la preferenza a composizioni in tonalità maggiore e a testi che esprimono la gioia di vivere.
Per quel che riguarda il ritmo, deve essere data la preferenza alle composizioni veloci rispetto a quelle lente (i cosidetti blues); il ritmo non deve però mai superare un grado di allegria commisurato al senso della disciplina e della moderazione.
Non si devono in alcun modo permettere gli eccessi negroidi né per il ritmo (il cosidetto hot jazz) né per gli assolo.
La composizione jazz può contenere un massimo del 10% di sincopi, mentre il rimanente deve essere costituito da un movimento musicale legato in modo naturale e quindi privo di isteriche inversioni ritmiche.
Si proibisce l’uso di strumenti musicali estranei allo spirito tedesco così come l’uso di sordine che alterano il nobile suono degli ottoni.

Si proibiscono gli assolo di batteria che superino la mezza battuta a ritmo di quattro quarti (con l’eccezione delle marce militari).
È permesso suonare il contrabbasso solo con l’archetto, ed è severamente proibito il pizzicato delle corde.
Si proibisce di alzarsi i piedi per eseguire gli assolo.
Si proibisce ai musicisti di lanciare grida o strilli durante l’esecuzione.
Si raccomanda a tutte le orchestre di musica leggera e da ballo di limitare l’uso del sassofono e di sostituire questo strumento con violoncelli o viole, ove possibile.
Questa ordinanza è stata diramata nel 1939 dal Gauleiter di Brno durante l’occupazione nazista della Cecoslovacchia; è riprodotta nel libro di Josef Skvorecky, Il sax basso, Adelphi 1982.

Tre poesie per bambini

Ciccio Sansone
Sono Ciccio Sansone
Sono grande, sono forte
Il mio gioco preferito
È il lancio degli elefanti

Una mezza dozzina tutti insieme,
Li lancio in alto in alto,
Non faccio nessuna fatica
Perché son Ciccio Sansone.

I mie muscoli sono enormi
Straripano da capo a piedi
E quando lancio gli elefanti
Si gonfiano come palloncini.

Ma nella mia famiglia
non sono io quello più forte
quando io lancio gli elefanti
La mia nonna mi prende sulle spalle.

L’ospite

È arrivato proprio oggi
è entrato qui in casa
era un po’ più piccolo di un elefante
ma più grosso di un grande topo

ha spinto via la mia sorellina
poi ha dato un pugno al mio papà
poi ha sbattuto per terra la mia mamma
che paura, che paura che ho avuto!

ha sporcato il mio berretto con il miele
ha riempito il lavandino di pietre
e quando mi sono messo a gridare
si è preso le mie scarpe e anche le calze.

Poi si è gentilmente scusato
si è inchinato e è andato via.
Questo è quel che proprio oggi
è successo qui, in casa da me.

Che senso ha?

La mia mamma dice che io sono
una piccola dolce prugna.
La mia mamma dice che io sono
il suo agnellino.

La mia mamma dice che io sono
davvero bellissimo, proprio come sono.
La mia mamma dice che io sono
un piccolo stupendo specialissimo bambino.
La mia mamma ha appena fatto
un altro bambino.
Ciccio Sansone e L’ospite sono di Jack Prelutsky, la prima dalla raccolta From Something BIG Has Been Here, Greenwillow, 1990, la seconda da The Queen of Eene, Greenwillow, 1974. L’ultima poesia è di Judith Viorst, di Newark, New Jersey, 1931

Democrazia, Diritti Civili e Libertà

I

Molti ritengono che la democrazia e la tutela dei diritti civili costituiscano nei paesi poveri un ostacolo per lo sviluppo. Secondo un recente sondaggio, in molti paesi dell’America Latina si sarebbe disposti a rinunciare a un po’ di libertà in cambio di maggior benessere.
In altri termini, molti pensano che la democrazia e la tutela dei diritti civili siano un ostacolo che frena il processo di sviluppo e distoglie dalle priorità economiche.
Non è così. È vero invece che la mancanza di democrazia e la soppressione della libertà di espressione e di discussione riducono le capacità di reazione di un paese di fronte ad ogni tipo di difficoltà.
Uno degli esempi più importanti è costituito dal fatto che non vi è mai stata una carestia che abbia colpito un paese indipendente e democratico, con una stampa libera e possibilità di confronto pubblico.
Lo stesso può dirsi per gli effetti delle calamità naturali e delle crisi economiche, che sono invariabilmente più gravi e catastrofiche nei paesi autoritari, retti da dittature e privi di libertà e del potere protettivo svolto dai meccanismi democratici.

La tutela dei diritti civili oltre a soddisfare esigenze fondamentali della persona umana, svolge quindi un ruolo pratico essenziale per accrescere l’attenzione sugli errori compiuti, per evitare di commetterne altri, per soddisfare le richieste degli strati più disagiati della popolazione.

II

La Dichiarazione universale dei diritti umani consiste di trenta articoli. I primi ventuno riguardano i diritti civili e i diritti politici: libertà di parola e di assemblea, diritto alla privacy; presunzione di innocenza; e così via. Gli articoli successivi riguardano argomenti quali il diritto al lavoro, la sicurezza sociale, il diritto ad un giusto livello di benessere: sono i c.d. diritti economici e sociali.
Sebbene io sostenga tutti gli sforzi per assicurare una giusta distribuzione della ricchezza e per raggiungere gli altri obiettivi di carattere economico e sociale posti dalla Dichiarazione universale, ritengo che sia un errore assimilare i diritti civili e politici a questi ultimi. La ragione della mia opposizione è che questa assimilazione riduce la possibilità di proteggere i diritti civili.

A nessun governo può essere permesso di giustificare la censura, di negare il diritto dei cittadini a riunirsi e a discutere, di autorizzare torture con la scusa del proprio livello di sviluppo.
Queste pratiche sono illegali dovunque e debbono essere vietate e represse ovunque in base agli stessi criteri. La situazione si presenta diversa nella sfera economica. L’idea di un adeguato livello di benessere o di diritto all’abitazione, alla salute e all’educazione varia da paese a paese ed anche nel tempo. Per molti governi, risolvere queste esigenze è una questione di risorse economiche disponibili. Qualificare queste esigenze come diritti non offre nessun vantaggio per stabilire delle priorità e delle scelte nell’effettuare investimenti per soddisfare gli uni o gli altri. Ed è assai pericoloso ammettere che il rispetto di diritti universali possa variare in relazione a situazioni transeunti o a standard locali, o debba essere comunque vincolato dalla disponibilità di risorse. Il linguaggio dei diritti universali deve essere riservato a quelle sole arre dove gli stessi principi possono essere rispettati da tutti in ogni momento.
Inoltre, i diritti civili e politici sono l’essenza della democrazia.

Non è possibile immaginare un governo democratico senza il diritto di espressione, di riunione, di stampa. Lo stesso deve dirsi per il diritto di eguaglianza, indipendentemente dalla razza, dal sesso o da altri status personali. Per converso il concetto di diritti economici e sociali è nella sua essenza profondamente non democratico, in quanto è basato sull’idea che la distribuzione delle risorse non può essere affidato alle istituzioni e ai processi per mezzo dei quali la democrazia opera. Inoltre, riduce l’impatto dei diritti politici e civili in quanto attenua il riconoscimento del potere della libertà di espressione di organizzarsi liberamente al fine di combattere le ingiustizie sociali.

Il primo brano è tratto da AMARTYA SEN, La democrazia degli altri, Mondadori 2004; il secondo da ARYEH NEIER, Taking Liberties. Four decades in the struggle for rights, New York 2003. Amartya Sen è premio Nobel per l’economia nel 1998; Aryeh Neier è stato il direttore della American Civil Liberties Union, poi il fondatore di Huma Rights Watch ed è ora Presidente dell’ Open Society Institute fondato da George Soros.

Ancora poesie per bambini (o quasi)

Notti tempestose

Ogni volta che compaiono la luna e le stele
Quando soffia il vento
Nella notte buia e tempestosa
Un uomo galoppa e galoppa
su un cavallo nero.

Nella notte fonda
Quando ogni luce è spenta
Senti sulla terra umida
Il battito degli zoccoli
Del suo cavallo nero.

Tardi nella notte
Quando gli alberi si lamentano
Quando le navi si infrangono sulle scogliere
L’uomo galoppa e galoppa
Sul suo cavallo nero.

Si allontana,
Poi sembra ritornare,
Lo senti col vento vicino, vicino
Poi senti che si allontana
E scompare nell’oscurità.

Viaggio

Vorrei alzarmi e andare
là dove crescono le mele d’oro
là dove sotto un altro cielo
ci sono isole popolate di pappagalli
e Crusoe solitari che costruiscono zattere
scrutati da uccelli multicolori;

Dove quando il sole sorge
città orientali con giardini sabbiosi
risplendono di moschee e minareti
e nei bazaar sono esposte
merci dagli odori inconsueti
provenienti da luoghi ancor più lontani;

Là dove la Grande Muraglia
protegge l’impero cinese,
da una parte c’è solo deserto
mentre dall’altra popolose città
emettono suoni indistinti
di voci, campane e tamburi;

Là dove ci sono foreste sconosciute
calde come il fuoco
grandi come l’Inghilterra,
alte come piramidi
piene di scimmie e di alberi di cocco
e di capanne di cacciatori;

Dove il grinzoso coccodrillo
giace al bordo del Nilo
occhieggiando sonnacchioso
e il flamingo rosa vola
adocchiando pesci da catturare
mentre fuggono saltando a pelo d’acqua;

Dove nelle giungle, vicine e lontane
vivono tigri mangiatrici di uomini
acquattate nell’ombra,
in paziente attesa della preda
che incauta si avvicini
trasportata su un dorato baldacchino;

Dove sorgono nel mezzo del deserto
città ormai da tempo abbandonate
con le strade tutte vuote,
e le case sgretolate
senza un briciolo di luce
quando dolce cala la notte.

In questi posti certamente io andrò
partirò con una carovana di cammelli
viaggerò con uomini avvolti in scure palandrane
con la pelle chiara e gli occhi fiammeggianti
in questi posti andrò
quando sarò grande;

E accendendo il fuoco nella penombra
di qualche locanda polverosa
vedrò appese alle pareti
scene di duelli e di grandi feste
e troverò, abbandonato in un angolo
il giocattolo del figlio di un Faraone egiziano.

Bolle di sapone

Come la mamma ti vede
dalla finestra di casa
Mentre giochi in giardino
Così tu vedi in questo libriccino
un altro bambino
Che gioca in un altro giardino.

Non puoi parlare
a quel lontano bambino.
Non puoi distrarlo, non puoi attrarlo,
non puoi trascinarlo fuori dal libriccino.
Lui non ti sente e non ti vede.

Molto tempo fa grande è diventato
e dal libriccino se ne è andato.
Quel che tu vedi giocare
Laggiù nel giardino del mio libriccino
È solo una bolla di sapone.

Plug And Pray. La religione al tempo di Internet

I

Cambiare religione è finalmente alla portata di tutti!
Pronti per ogni evenienza, i kit Plug’n’Pray contengono tutto quello che ti serve per convertirti velocemente alla religione più conveniente in ogni momento della tua vita.
Devi compiacere il tuo nuovo general manager israeliano? C’è il pericolo di una invasione talebana? Più semplicemente vuoi diventare buddista per una sera e far bella figura alla cena new age?
Cambia religione, scegli il dio più comodo in ogni momento.
Basta con i riti faticosi e noiosi! Ogni confezione contiene il Kit per la conversione veloce.
In tempi di cambiamenti repentini e di guerre di religione, sono kit da tenere sempre a portata di mano.
Plug´n´Pray ti mette velocemente in contatto con un nuovo dio e con la spiritualità del suo culto, ti fa diventare un credente rispettabile e presentabile.

Un kit realizzato da esperti, rigoroso e rispettoso della tradizione culturale di ciascuna singola religione e completo di ogni aspetto: routine e formule di preghiera, riti di mortificazione e punizione, funzioni sacre, ma anche suppliche preimpostate da esaudire. Posture da assumere e gestualità sono accuratamente descritte su video (in caso di acquisto della versione DeLuxe).
Tutto ciò che può servirti è incluso nei Kit.
Inoltre, con una piccola spesa in più, potrai personalizzare la religione prescelta per raggiungere i tuoi obiettivi. Dimostrerai, insieme alla tua fede, la tua libertà di critica e il tuo senso di indipendenza.
Così, potrai essere cattolico e praticare il controllo delle nascite, essere buddista e andare a caccia di fagiani, essere ebreo ortodosso e gustarti succulente aragoste.
Per poter personalizzare la religione prescelta, chiedi le apposite istruzioni:
– Software su CDrom, assolutamente facile e veloce da installare.
– Supporto online, con spiegazioni, info culturali e i trucchi degli esperti.

II

Il Sommo Ministro della Universal Life Church Charles Simpson ha deciso di espandere la propria organizzazione.
La Universal Life Church è una chiesa interreligiosa e aconfessionale, che non contesta né sostiene le altre religione, accettando tutto ciò che esse ritengono vero.
Per questo, offre anche a te – indipendentemente dalla tua religione e dalle tue credenze – la possibilità di divenire un suo sacerdote, avendo la facoltà di ordinarti come ministro legalmente riconosciuto in 48 ore.
Chiedi di essere ordinato ora direttamente via Internet dal Ministro Charles Simpson!
Come sacerdote, potrai condurre tutti i riti e le cerimonie inerenti la chiesa (purché rispetti le leggi dello Stato in cui ti trovi a tutela delle minoranze religiose).
Potrai in particolare celebrare matrimoni, funerali, battesimi; potrai rimettere i peccati e visitare i peccatori (il tutto, gratuitamente o dietro versamenti di oboli predeterminati).
Ove necessario, riceverai direttamente dal Ministro di Dio Charles Simpson via DHL i necessari certificati da far pervenire all’Autorità dello Stato prima di avviare la cerimonia.

Che mille chiese fioriscano!
Quando avrai raggiunto un buon livello di pratica, e supererai gli esami appositamente previsti, potrai anche promuovere la tua propria chiesa o la tua congregazione e realizzare uno scisma dalla chiesa del Ministro Simpson.
Anche in questo caso, a differenza da come si comportano le Autorità di altre religioni, il Ministro di Dio Charles Simpson ti aiuterà e ti permetterà di trovare la tua strada e di portare nel mondo felicità e consolazione..
Riceverai tutta la documentazione e i certificati necessari nel nostro Kit sacerdotale per soli $29.95. Il Kit include un CD-Rom con istruzioni video per la celebrazione di matrimoni, battesimi, funerali e confessioni e altri riti (benedizioni domestiche, cerimonie votive e di preghiera, riti particolari e di gruppo (processioni, flagellazioni, ecc.). Include inoltre un portafoglio di finta pelle con le tue iniziali e la tessera per il parcheggio gratuito (ove consentito).

S.N.

Poesie di Blaga Dimitrova

Amore

Non ho più la mia andatura trascurata,
non ho più la mia risata orgogliosa,
né il silenzio dolce dell’anima,
né la freschezza nello sguardo,
né, di notte, il sonno.

Non ho più i miei progetti e ciò che volevo raggiungere,
non ho la ribellione e la libertà,
non ho l’imprevisto, e il suono dei canti.
Ho perso tutto,
ma sono diventata la più ricca
e la più prodiga del mondo.

1956.

Abbraccio

Cuore nel cuore. E respiro nel respiro.
Vicino a me, tanto che non ti vedo.
Vedevo lontano, oltre le tue spalle, un monte scuro.
Ero protesa in uno slancio,
forse per oltrepassarti.

Sentivo battere il cuore impazzito delle stelle.
Accoglievo il vento affannato, rivestito di foglie.
Mi aprivo alle ombre dei boschi
e ai rami che si aprivano ad abbracciare la notte.

Assorbivo la lontananza in un sol sorso.
Premevo vento, nubi e stelle al mio petto.
Nel cerchio stretto di un abbraccio
ho rinchiuso tutto l’infinito del mondo.

1957

Senza Amore

Da questo momento vivrò senza amore.
Libera dal telefono e dal caso.
Non soffrirò. Non avrò dolore né desiderio.
Sarò vento imbrigliato, ruscello di ghiaccio.
Non più pallida per la notte insonne,
ma non più ardente il mio volto.
Non immersa in abissi di dolore,
ma non più in volo verso il cielo.
Non aspetterò più, sfinita, la sera,
ma l’alba non sorgerà per me.
Non mi inchioderà, gelida, una parola,
ma il fuoco lento non mi arderà.
Non piangerò sulla crudele spalla,
ma non riderò più a cuore aperto.

Non morrò solo per uno sguardo,
ma non vivrò realmente più.

1958

Perdita

Non so se mi ero innamorata di te.
Mi ero innamorata però di altre cose:
di una stanza scomoda rivolta a nord,
di una teiera che crepitava di sera.
Degli alberi mi innamorai che toglievano il cielo,
dei solitari e soffocanti cinema di quartiere,
dei ricordi di prigione,
di un muro ferito dalle bombe.
Delle fermate del tram, delle foglie ricoperte di brina,
di una calda tasca con castagne bruciate,
della pioggia scrosciante, del suono del telefono,
perfino della nebbia fonda color cenere.

Di tutto il mondo mi ero innamorata, non di te.
Lo scoprivo nuovo, interessante, ricco.
Per questo soffro… Non per averti perso.
Altro ho perduto – il mondo intero.

1958

Ragno

Distende col fiato suo un filo sottile
e con arte raffinata tesse la sua tela.
Al sole la tela risplende dorata –
per attirare uno sciocco moscerino.

E il mio sogno dell’anima come un ragno
di ora in ora tesse e intreccia un laccio,
d’oro e così attraente, lo so:
sono io quel moscerino.

1937

Erba

Nessuna paura
che mi calpestino.
Calpestata, l’erba
diventa un sentiero.

1974

Appunti sotto il cuscino

Li tiro fuori al risveglio
dal fondo dei sogni.

La mia mano ha graffiato,
libera nell’oscurità.

A stento decifro i segni
come iscrizioni runiche.

Mi sono inviata da sola
messaggi da un altro luogo.

E il mattino si rischiara
con la loro mancanza di chiarezza.

1988

Illuminazione

Entro nella vecchiaia in punta di piedi,
come in un bosco d’autunno,
passo dopo passo sulle foglie vive
che ancora cadono.
Davanti a me – l’albero della vita.

E lentamente con sguardo ansimante
salgo verso il passato
e scendo nei giorni futuri.
Finalmente! Tanto infinito è per me
il cammino senza fretta.

Le direzioni non sono avare di curve.
La lontananza non fa male.
Non colpisce il gong della luna.
Non può essere incatenato
lo spirito che ha infranto le catene.

Non ti può essere tolto
quello che hai dato.
Mi rimane un’ultima
goccia di luce senza fine.
E spira pace dal mondo intero.

1988

Le prime quattro poesie sono tratte dalla raccolta A domani.Versi, Sofia, 1959; la quinta dalla raccolta Gong. Poesia scelta, 1976; le ultime dalla raccolta A metà Sofia, 1990.

Blaga Dimitrova è nata a Bjala Satina in Bulgaria il 2 gennaio 1922. E’ autrice di poesie, romanzi, saggi. Ha tradotto autori classici e moderni della letteratura europea. Ha studiato pianoforte con uno dei più grandi compositori bulgari, A. Stojanov. È morta a Sofia il 2 maggio 2003.

Suggerimenti turistici

Siete alla ricerca di chilometri di spiagge incontaminate, di barriere coralline abitate da pesci mai visti altrove, di una vera alternativa al turismo di massa?
Venite in Somalia.
Siamo gli unici operatori turistici autorizzati del Paese e faremo di tutto per soddisfare ogni vostro desiderio. Per cominciare, sarete sistemati a Mogadiscio, nello splendido Hotel Paradiso, cinque stelle lusso, in suite con ogni immaginabile confort e con pareti completamente insonorizzate per proteggere la vostra quiete notturna dalle purtroppo frequenti esplosioni che tuttora si verificano durante la notte.
Dalla terra privata o dalla terrazza ristorante dell’ultimo piano potrete godervi indescrivibili tramonti, assaporando aragoste appena pescate per voi.
Non sarete mai soli.
Saranno sempre con voi le otto guardie del corpo armate che vi accoglieranno all’aeroporto e vi terranno compagnia ovunque, sulla spiaggia e per la visita al caratteristico mercato della città (ove potrete comprare a prezzi vantaggiosissimi tutti gli strumenti bellici più sofisticati).

A vostra disposizione metteremo anche due autisti con jeep completamente corazzata e con vetri antiproiettile.
Potrete così visitare i nostri famosi parchi nazionali (attualmente purtroppo senza fauna, essendo stata tutta mangiata dagli abitanti per le note difficoltà economiche e politiche che hanno colpito il paese).
Il nostro personale farà di tutto per evitare incidenti e per tutelare la vostra incolumità durante il soggiorno.
La vostra incolumità è il nostro bene più prezioso. Se, nonostante le nostre precauzioni, doveste cadere nelle mani di una delle ormai poche bande armate che ancora infestano la città e i suoi bellissimi dintorni, il nostro personale farà di tutto per liberarvi nel più breve tempo possibile. Solo se necessario, pagheremo un riscatto e comunque in misura non superiore a quella d’uso (in proposito, chiediamo un vostra autorizzazione preventiva). In questo deprecabile caso, dovrete restituire la somma versata prima della conclusione del vostro periodo di vacanza (non sono accettate carte di credito, ma potrete effettuare un trasferimento bancario seguendo le nostre indicazioni).
Vi aspettiamo, e faremo in modo che la vostra vacanza sia davvero indimenticabile sotto ogni profilo.

S.N.

Due poesie di Leonardo Sinisgalli

Il guado

Restano poche frasi,
le più turpi, e il sapore
delle unghie nella bocca.
Resta nella vita quest’afa
che ci soffoca, il tempo
insensato tra due estati.
Il torrente era carico di libellule,
le acque basse e rapide,
un solco tra due regni,
un confine, un segno.
Fu un sogno breve, sonno
di banditi, poi l’inverno, la neve,
la vecchiezza e i colpi alle reni
più fitti.

Pianto antico

I vecchi hanno il pianto facile.
In pieno meriggio
in un nascondiglio della casa vuota
scoppiano in lacrime seduti.
Li coglie di sorpresa
una disperazione infinita.
Portano alle labbra uno spicchio
secco di pera, la polpa
di un fico cotto sulle tegole.
Anche un sorso d’acqua
può spegnere una crisi
e la visita di una lumachina.

Da L’età della luna, 1962.

Il re: La vita è qualcosa di misterioso, indecifrabile, affascinante.
Il guardiano delle pecore: Sì, mio sire. Come quasi tutto il resto.

Crediti

Questo ventiseiesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel luglio del 2004 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Marco Capodaglio, in Milano nella tipografia Cinque Giornate srl.
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.nespor.com (ove sono raccolti anche altri miei scritti e una scelta dei miei disegni).
Il sito è curato e aggiornato da Stefano Rossi. L’inserimento dei Testi infedeli nel sito è stato curato in passato anche da Beniamino Nespor. Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Marina Nespor, Pasquale Pasquino. Un ringraziamento particolare a Annelise Herskovitz, che mi ha aiutato a tradurre dal bulgaro – meno simile al russo di quanto si creda – le poesie di Blaga Dimitrova.

N. 27 inverno 2004

Cari lettori, in questo numero di Testi Infedeli troverete: una riflessione su una considerazione di Primo Levi.
Un brano scolastico tratto da un libro tornato di attualità in un momento in cui tutta l’Italia è una grande Vigevano.
E due brani sull’Italia da Lisa Foa e da Italo Calvino.
Un tentativo meccanico di ricreare la vita, che precorre gli odierni tentativi biologici.
Due pezzi sulle vite di esseri di altri mondi.
Poi le poesie: due, provenienti da un Paese che non c’è più, e da due diverse epoche, ma legate da una stessa autoironica tristezza; altre di una poetessa definita da Karl Kraus affascinante, enigmatica, eccentrica, camaleontica; infine le poesie di un autore americano che ha cominciato a scrivere negli anni Sessanta in difesa dei diritti civili.

LE NOVITÀ

L’infedeltà ha travolto anche i Testi infedeli .
Ormai da tanti anni sempre uguali a sé stessi e alla propria casuale immagine originaria, hanno resistito a tutte le proposte e alle richieste di cambiamento del formato o dell’assetto tipografico, subendo tutte le difficoltà che la fedeltà, specie se immotivata, porta inevitabilmente con sé: la carta della copertina sempre più difficile da reperire, il formato sempre più impegnativo da spedire, e molti altri problemi organizzativi minori. Ora, il momento è giunto. Lo scoccare dei quindici anni di produzione (il primo smilzo Testo Infedele è infatti dell’inverno del 1989) e il superamento della soglia dei 200 pezzi di testi infedelizzati offrono una giustificazione e una scusa per lanciare il cambiamento .
Queste ricorrenze non sarebbero però state da sole sufficienti senza il tenace incoraggiamento e l’esperienza editoriale di Salvatore Giannella che ringrazio per i suoi generosi consigli .
Ecco quindi i nuovi Testi Infedeli .
Abbastanza ridotti per essere a scelta conservati in tasca oppure persi o dimenticati senza rammarico su un tram, abbastanza diversi dai precedenti per sedare insani desideri di continuità e collezionismo, abbastanza nuovi per permettere l’introduzione di novità e di modifiche radicali.
Stefano Nespor

LA COPERTINA

Un Nobel africano* L’ambientalista keniota Wangari Maathai ha vinto il Premio Nobel per la pace. Bisogna essere grati per le sue attività e in particolare per aver fondato il movimento Green Belt, che rappresenta il più vasto progetto di riforestazione in corso in Africa. In questo periodo in cui l’Africa sembra sempre più a corto di servitori patriottici e impegnati, Wangari ci porta a sperare che non tutto sia perduto: ci sono ancora persone disposte a operare per il bene della società.

* Da: The Monitor, Uganda .
A lato, disegno di Stefano Nespor.

LA CIVILTÀ EUROPEA

“È avvenuto contro ogni previsione, è avvenuto in Europa”, dice Primo Levi ne “I sommersi e i salvati”, 1991, a proposito dei campi di sterminio nazisti. E, siccome è accaduto nella civilissima Europa, “può accadere dappertutto”, conclude Primo Levi. Ma è proprio così? La conclusione di Primo Levi in realtà non tiene conto del fatto che quel che è accaduto con la Germania nazista rientra a buon diritto nella storia e nella tradizione della civilissima Europa e più in generale nella storia dell’Occidente. Anzi, si può affermare proprio il contrario: questo evento si sarebbe potuto verificare solo in Europa .
Infatti, la caccia e lo sterminio del “diverso”, la violenza radicale, generalizzata, premeditata (che non prevede espressamente, ma non esclude affatto, lo scopo di arricchimento e di profitto per coloro che vogliano inserirsi imprenditorialmente nel settore), è parte integrante della cultura europea a partire quantomeno dalla fine del XII secolo .
È infatti in questo secolo che la Chiesa cristiana – in quel tempo diversa dalla Chiesa cattolica odierna, e assai più vicina, quanto ad assolutismo e repressività, all’attuale fondamentalismo islamico – si propone ufficialmente il programma di 4 eliminare tutti i “seminatori di impurità” che insidiavano una cristianità giunta ormai – come osserva Ottone di Frisinga, cronista tedesco zio di Federico Barbarossa e vescovo di Frisinga – a uno “stato quasi perfetto” .
La realizzazione di questo programma coinvolge tutti gli operatori e i formatori di consenso e di informazione dell’epoca, in un sistema propagandistico di diffusione di falsità ufficiali e di disinformazione educativa privo di qualsiasi antagonista: un sistema che non ha antagonisti quanto a capillarità della diffusione sul territorio .
E’ di questo periodo la suddivisione dell’intero territorio dell’Europa cristiana in parrocchie e l’attribuzione a ciascun parroco di un inappellabile potere di controllo sulle azioni e sul pensiero di tutti gli abitanti presenti nel proprio àmbito di competenza. Ricordate Don Licodori, tenuissimo esempio assai vicino a noi del parroco dei secoli passati? Compare nel Maestro di Vigevano di Mastronardi: allorché il maestro Mombelli decide di non far cresimare il figlio non essendo in grado di spendere la somma necessaria per l’acquisto del vestito, don Licodori lo ammonisce minacciosamente che “le responsabilità che si assume davanti a Dio sono gravissime… se il ragazzo dovesse morire finisce al Limbo?” .
Nel corso di poche generazioni viene così inculcata a una popolazione quasi totalmente analfabeta e terrorizzata dal Diavolo e dall’Inferno una indiscutibile verità ufficiale e soprattutto rivelata da Dio .
È una verità che non lascia speranza di salvezza ultraterrena a chi non vi presti la fede più cieca, né lascia speranza di vita terrena a tutte le potenziali vittime, prescelte perché portatrici di minacce oscure e devastanti (ben più terribili dell’odierno terrorismo perché – secondo la dottrina ufficiale – attentano direttamente all’anima e alla sorte dei credenti nell’eternità) .
Si avvia così l’offensiva generale contro le Forze del Male che farà dell’Europa il teatro di una incessante carneficina: di eretici, di dissidenti, di sette cristiane non allineate, di non credenti, di ebrei, di musulmani, di omosessuali, di lebbrosi, di streghe e di diversi. Tra i diversi si collocano anche le popolazioni nere dell’Africa: interi paesi di quel continente sono saccheggiati e spopolati per rifornire di schiavi e arricchire le cristianissime potenze coloniali europee, sotto l’occhio comprensivo e partecipe, anche se non espressamente consenziente, delle varie Chiese cristiane nel frattempo gemmatesi da quella originaria .
Tutto ciò appartiene al passato. Ma ciò che è rimasto è l’assuefazione delle civili popolazioni europee a percepire come normali, come inevitabili e, soprattutto, come giustificati, abusi, massacri, torture, roghi nei confronti del diverso .
Questa assuefazione si è sedimentata e si è riprodotta di generazione in generazione, formando il patrimonio culturale acquisito della civiltà europea (secondo uno schema di trasmissione che, erroneamente ritenuto dal naturalista francese Jean Baptiste de Monet, cavaliere di Lamarck, proprio delle caratteristiche genetiche, si applica perfettamente alle caratteristiche culturali) .
L’etologo Irenhaus Eibl-Eibesfeldt ha coniato per questo meccanismo esclusivo della specie umana (quello di attribuire agli “altri” caratteristiche dis-umane per poter “giustificare” l’eliminazione del diverso) il concetto di “pseudospeciazione culturale” .
Questo è lo zoccolo duro della cultura europea: un patrimonio ben diverso da quello che siamo stati abituati a conoscere e a studiare fin dalla prima giovinezza, fatto di arte, di cultura, di pensiero giuridico e scientifico, di tolleranza .
Queste idee sono state il vero cemento che ha unificato spiritualmente e arricchito materialmente la cultura europea. È un errore pensare che siano scomparse. Sono tuttora ben presenti, ancorché per lo più pudicamente nascoste e inconfessate, appena intaccate ed erose da due secoli di sforzi, di lotte, di tentativi di rendere civile e tollerante la civiltà europea e occidentale .
Ma, dovunque c’è un’occasione propizia o una congiuntura economica o politica favorevole, sono pronte a emergere e a prorompere .
Si può davvero sostenere che le efferatezze della Germania nazista siano avvenute in Europa contro ogni previsione, come ritiene Levi?
(s.n.)

A proposito: “Traendo ispirazione dal patrimonio culturale, religioso e umanista dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona umana, della democrazia, dell’eguaglianza, della libertà e dello Stato di diritto” (Dal Preambolo della Costituzione europea) .

COM’ERA BELLA LA SCUOLA PRIMA DELLA MORATTI

Avevo lasciato Rino con quaranta di febbre, e adesso me ne stavo seduto in cattedra mentre i bambini facevano cagnara. “Silenzio”, urlai alla scolaresca. Non vedevo l’ora di tornare a casa .
Continuavo a guardare l’orologio. Due scolari urlarono .
Uno aveva cacciato la penna dalla parte del pennino quasi nell’occhio dell’altro. Picchiai un manrovescio in faccia ad uno dei due. Colpii la vittima .
Mi decisi ad andare dal direttore e chiedere un permesso di mezz’ora per andare da Rino .
Bussarono alla porta. Era il direttore .
“Ho il figlio malato, potrei andare a casa mezz’ora?” domandai .
Il direttore mi guardò scuotendo la testa. “Le voglio raccontare un aneddoto, signor maestro Mombelli .
Quando noi eravamo ancora maestro, capitò che mio padre stava morendo. Noi andammo a scuola e ci dimenticammo che nostro padre stava morendo .
Questo perché? Perché, signor maestro, le preoccupazioni personali non si debbono portare nell’aula scolastica. Pensi, signor maestro Mombelli, pensi che la nostra è una missione. Mi faccia vedere il registro .
Sfogliò il registro e si portò le mani nei capelli .
“Signor maestro, stia attento alle anellate. La elle deve toccare la riga superiore; la effe deve toccare 9 quella superiore e quella inferiore; la di è l’unica anellata che non deve toccare la riga superiore ma deve fermarsi poco sotto, alla stessa altezza della ti .
Ah, non c’è una anellata che sia ben anellata, signor maestro. Vede qui: la bi è più alta della elle, la gi è più bassa della effe. Signor maestro, il registro è un documento ufficiale!”.

Da Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano, Einaudi 1994 .

DUE POESIE DALLA BOEMIA-MORAVIA
Solitudine
di Sylvie Richterova*

Ho inventato un fantasma,
e subito ha voluto che gli stirassi le camice
e gli preparassi la colazione
forse perché non lo avevo pensato bene
fino in fondo .
Il bottone del colletto pendeva da un filo
la camicia era tutta stazzonata
e l’intero fantasma mi seguiva passo passo
e pendeva dalle mie labbra .
Forse perché non lo avevo pensato bene
fino in fondo .
Mi seguiva e aspettava quel che gli avrei detto .
Quando gli ho fatto “buh!”
ha solo ripetuto apaticamente il mio verso .

Allora ho inventato due fantasmi;
si sono guardati, si sono presi per mano,
Non si sono proprio occupati di me .
Praticamente, non li ho più visti .

Ho così potuto godere
la paura della solitudine
non pensata fino in fondo .

Rifiuti
di Jaroslav Seifert**

Che è rimasto di quei bei momenti?
Lo scintillio degli occhi,
una goccia di profumo,
un sospiro sul bavero,
un respiro sul vetro,
una briciola di lacrime,
un’unghia di tristezza.

Poi, quasi più nulla.
Un pugno di fumo,
un sorriso al volo,
un po’ di parole che rotolano
come rifiuti sospinti dal vento.

Dimenticavo:
anche tre fiocchi di neve.
Questo è tutto.

* Sylvie Richterova (Brno, 1971) vive in Italia; insegna letteratura ceca e slovacca all’Università La Sapienza di Roma .
** Jaroslav Seifert (Praga, 1901 – 1986); premio Nobel nel 1984. Oltre a numerose raccolte di poesie, ha scritto Vecky Krásy Sveta, pubblicato clandestinamente nel 1981, e tradotto in italiano (Tutte le bellezze del mondo, Studio Tesi 1991), dove racconta l’epoca dell’avanguardia praghese tra le due guerre e il periodo dell’occupazione nazista .

“NON HO NESSUNA CERTEZZA”

All’inizio del XVI secolo Piero De Lucca, un vecchio sacerdote, sospettato di eresia e per questo confinato in un monastero con il rigoroso divieto di allontanarsi, rovistando in un deposito polveroso a fianco della biblioteca, si trovò tra le mani il quinto tomo della “Alchimia meccanica” di Johannes Trassis .
I primi quattro tomi erano già da tempo scomparsi .
L’ultima copia conosciuta era stata bruciata, oltre cinquant’anni addietro, insieme a una catasta di altri libri proibiti di fronte alla cattedrale di Siviglia. Sopra la pila di libri, stava il corpo squartato e bruciato di Johannes Trassis .
Non appena riuscì a venire in possesso del volume, il sacerdote si trasferì nelle cantine del monastero e lì, sfuggendo a ogni contatto con gli altri inquilini del monastero – tutti trasferiti e segregati in quel posto per qualche ignota colpa passata, o semplicemente per essere riusciti sgraditi ai rappresentanti del potere ecclesiastico – iniziò a costruire una creatura di metallo e legno, seguendo le istruzioni dell’autore .
Lavorò senza sosta per un anno .
Riuscì a realizzare un automa che camminava e, con voce metallica, inizialmente si limitava a balbettare qualche parola in latino e a rispondere a domande molto semplici .
Con grandi sforzi, De Lucca lo migliorò e lo educò .
L’automa imparò sempre meglio il latino, il greco, e lo spagnolo. Imparò a rispondere a domande sempre più complesse. Quando non era in grado di rispondere, si limitava ad affermare: “Su questo argomento non ho certezza” .
De Lucca era estasiato e orgoglioso della sua opera .
Ma, a un certo punto, gli venne il sospetto che la creatura potesse essere uno strumento di Satana .
Alla domanda su questo punto, l’automa rispose: “Su questo argomento non ho certezza” .
Allora il sacerdote, impaurito, decise di inviare la creatura a Milano, con una lettera per l’arcivescovo, pregandolo di studiare attentamente il messaggero e di dargli una risposta circa la sua natura .
Passarono gli anni, senza che alcuna notizia pervenisse dall’arcivescovo. De Lucca pensava con crescente nostalgia alla sua creatura .
Ormai vecchio e malato, decise di consultarsi con il suo superiore nel monastero e questi, alla fine, gli permise di recarsi a Milano per non morire nel dubbio e nel peccato .
Tre arcivescovi si erano succeduti a Milano da quando De Lucca aveva inviato la sua creatura .
L’ultimo era morto avvelenato .
De Lucca si mise in viaggio. Aveva più di ottant’anni e giunse esausto, dopo mesi di cammino e di peripezie, a Milano .
Gli diedero una piccola stanza vicino alla cattedrale. Quando arrivò il momento del colloquio con l’arcivescovo, De Lucca non era ormai più in grado di alzarsi dal letto. L’arcivescovo allora, rompendo ogni protocollo, decise di andare lui stesso a fargli visita .
Quando entrò nella cameretta, De Lucca, ormai moribondo, raccontò, con interruzioni, ripetizioni e dimenticanze, la storia che lo aveva portato fino a quella camera. Supplicò l’arcivescovo di dargli una risposta alla sua antica domanda: “La creatura che ho costruito è uno strumento del maligno’?” .
L’arcivescovo, dopo un attimo di riflessione, rispose: “Su questo punto non ho nessuna certezza” .
Da Pablo De Santis, Il calligrafo di Voltaire, Sellerio 2003 .
Dal libro dello stesso scrittore argentino: “Sono arrivato in questo porto con poco bagaglio: quattro camicie, i miei strumenti da calligrafia e un cuore in un barattolo di vetro. Le camicie erano piene di rammendi e di macchie d’inchiostro, le mie penne rovinate dall’aria di mare. Il cuore invece, splendeva intatto, indifferente al viaggio, alle tempeste, all’umidità della cabina. I cuori si sciupano solo in vita; poi nulla può far più loro del male”.
UFO
I Disposto a credere
di Giorgio Manganelli*

La delusione più cocente e insieme più astratta della mia vita e di molti altri come me fu senza dubbio il mancato sbarco dei marziani nel decennio tra il 1950 e il 1960 .
Se siete dell’età giusta, ricorderete quegli anni torvi e eroici .
I giornali erano colmi di dischi volanti. Correvano notizie clandestine: un’astronave di provenienza sconosciuta era precipitata nel Messico, e dentro era affollata di omini alti un metro. Ci fu un periodo in cui la gente alle fermate degli autobus e dei tram guardava in alto per vedere se… Ho amici che passarono le ore notturne e estive a scrutare il moto di luci sospette; qualcuno vide stelle fulminee saettare per il cielo e ne provò traumi di natura politica e religiosa .
Una volta, in campagna, di sera, il magico luccichìo di un nodo di fili elettrici mi raggelò il sangue: sono arrivati. Miope e pigro, non cercavo di scorgere i segni del loro approssimarsi: li aspettavo .
Sono sempre stato disposto a credere nei dischi volanti, perché sono improbabili, infinitamente allusivi e soprattutto perchè non li ho mai visti. È vero, non li ho mai visti, e questa è l’unica prova a favore della loro esistenza che sono in grado, per il momento, di addurre .
Infatti, se fosse un caso di psicosi collettiva, come qualcuno dice, non c’è dubbio che io ci sarei cascato .
Insomma, se non fossero esistiti, io certamente li avrei visti. Ma non li ho visti, dunque non è improbabile che esistano .
Sono luminosi, eterei, allusivi e agili. Soprattutto, provengono da un luogo che, per il solo fatto di essere tecnicamente superiore, supponiamo istintivamente che sia anche benevolo, generoso, ben disposto verso questo pianeta. Dopo tutto, anche quando arrivarono gli uomini di Colombo gli indios pensarono che, essendo bianchi, forti e potenti, sarebbero stati benevoli, generosi e ben disposti verso la loro terra. La loro terra non ha ancora dimenticato i loro massacri e i loro roghi

II Hanno simpatia per l’America
di Carl Sagan**

In un sondaggio del 1992 condotto su circa 6000 cittadini degli Stati Uniti il 18% ha riferito di essersi svegliato talvolta di notte con una sensazione di paralisi, avvertendo una presenza estranea nella camera da letto; il 13% ha riferito di aver subito strani episodi di perdita del controllo del tempo, e il 10% di aver volato senza alcun supporto meccanico .
17 Sulla base di questi soli dati l’organizzazione che ha commissionato il sondaggio – un’associazione di soggetti che affermano di essere stati rapiti in una o più occasioni da UFO – ha concluso che almeno il 2% degli Americani sono stati ripetutamente prelevati da alieni .
Questa conclusione è divenuta da allora negli Stati Uniti una sorta di dato accertato in modo definitivo in merito alle c.d. abduction di terrestri da parte di UFO .
Ovviamente, ciò presuppone che gli alieni nutrano una particolare simpatia per gli Stati Uniti e per gli abitanti di quel paese .
Infatti, se gli alieni distribuissero equamente i propri prelievi di esseri umani sulla superficie terrestre, negli anni Ottanta vi sarebbero stati nel mondo oltre cento milioni di rapimenti: uno ogni pochi secondi.

* Il primo brano è tratto da articoli di Giorgio Manganelli apparsi su Il Giorno e su La Stampa tra il 1973 e il 1979, raccolti in UFO e altri oggetti non identificati – 1972 – 1990, Quiritta Roma 2003 .
** Carl Sagan, “Il mondo infestato dai démoni. La scienza e il nuovo oscurantismo, Baldini e Castoldi 1997 .

TRE POESIE DI C.K. WILLIAMS*

I

Questo è ciò che
Alla resa dei conti,
significa
Essere
Un essere umano .
Non escludere
Nulla, non
Una stella, non
Un passerotto,
non una lacrima .
II

Nella prossima vita,
Cara farfalla,
fra un migliaio d’anni
Ci troveremo seduti qui
Di nuovo
Sotto l’albero,
nella polvere,
ascoltando .
Che il mondo
Debba finire
Prima o poi
Non riguarda
L’usignolo:
è tempo di fare il nido
E lui fa il suo nido .

Nel mezzo
di un ciuffo
d’erba
Una tartaruga
Si ferma e ascolta:
un’ora
Due ore
Tre ore …

III

Il più grande ciclista del mondo
sta nel mio cuore; corre come un matto
Senza mani, a testa in giù
Vicino alle pareti e sopra i rilievi
E gli ostacoli, suonando freneticamente
il campanello, mentre il sole
si riflette fiammeggiante sui raggi .
Ma sta diventando vecchio. I suoi piedi
Non riescono a stare sui pedali .
I suoi denti si stringono
contro le mandibole per lo sforzo;
Temo proprio che ciò che mi resta di lui
È quel che gli fa stringere le dita sui freni
E lo trattiene, ogni volta, sullo stesso punto .

* Calvin Klein Williams è nato negli Stati Uniti, a Newark, New Jersey, nel 1936. Ha cominciato a scrivere poesie sotto la spinta dell’indigniazione per il Vietnam. Insegna alla Princeton University. Ha vinto il premio Pulitzer nel 2000 . Le prime due poesie sono tratte da Poems from Issa, 1983, la terza da Lies 1969 .

È ANDATA COSÌ
di Lisa Foa*

I Nel corso della mia esistenza, ho partecipato a molti cortei per la pace, ma ho incontrato ben pochi pacifisti. Ci sono invece molti contrari alla possibile guerra contro il terrorismo internazionale che si profila all’orizzonte in quel momento .
Molti non volevano intervenire in Spagna quando ci fu il sollevamento del generale Franco; molti non volevano fermare Hitler quando ingoiava boccone dopo boccone pezzi d’Europa; molti volevano lasciare a Milosevic il compito di pacificatore dei Balcani; molti non volevano e non vogliono intralciare la Russia nella sua pacificazione della Cecenia .
Molti sono contrari a una guerra, che è effettivamente difficile da capire e da giustificare se non si comprende appieno il fenomeno del terrorismo su scala planetaria .
C’è chi pensa che il terrorismo internazionale sia l’arma dei poveri e dei reietti contro gli Stati potenti e superarmati che li sfruttano. Ma è semplicistico continuare a fare ricorso alle categorie un po’ vecchiotte del nostro terzomondismo. Il terrorismo è palesemente opera di élite ricche e potenti .
Sono passati diversi anni dal crollo degli imperi coloniali e gli stessi nuovi Stati indipendenti hanno imparato che, nonostante appartengano a un mondo pieno di disuguaglianze e ingiustizie, non tutti i mali sono imputabili allo scambio ineguale e alle spietate leggi del mercato. Molti derivano dai regimi autocratici dispostici e corrotti che si sono instaurati in questi Paesi e dalle guerre che si fanno tra di loro .
Non so se sia una ventata di messianesimo postmoderno o un revival di internazionalismo trozkista a ispirare gli strateghi statunitensi nei loro progetti di esportare la democrazia con bombe e missili. Ma se il ricorso al fanatismo generalizzato è un’idea scaturita dalla mente malata di dittatori che non devono rendere conto ad alcuno delle loro azioni e non devono affrontare controlli, critiche e contestazioni interne, perché escludere che la rimozione di dittatori e strutture totalitarie possa avere esiti positivi? Non credo affatto che la guerra possa sempre essere una soluzione, ma non credo nemmeno che si possa in ogni caso fare a meno dell’uso della forza. Fronteggiare il terrorismo internazionale o condurre l’opposizione nei confronti di dittatori senza scrupoli non è un pranzo di gala .
II Ogni tanto è pur necessario voltare pagina altrimenti si rischia di finire come gli eterni duellanti di Conrad. La cosa essenziale, come ha detto Vaclav Havel, è saper voltare pagina, anche se dopo aver letto e assimilato il contenuto .
Il peggior nemico della memoria non sono la rimozione e l’oblìo, ma il ricordo che tende a semplificare, appiattire, banalizzare ciò che è successo .
Quando gli storici vanno a studiare più da vicino e quando i testimoni scavano più in profondo nella loro memoria, emergono sfumature, luci e ombre, si scopre che le cose sono più ingarbugliate insensate e bizzarre di come ci sono state trasmesse. A questo punto potremmo chiederci se tutto ciò che abbiamo fatto sia servito a qualcosa. Che cosa ci ha spinto a darci tanto da fare quando molti altri nostri coetanei se ne sono stati buoni e tranquilli? In questo volume si è parlato molto di me, di ciò che facevo e pensavo nei vari periodi della mia esistenza .
Forse pensavate che ciò che avevo da raccontare fosse particolarmente interessante, insolito, divertente . Es gibt auch anders, dice Bertolt Brecht nella Dreigroschenoper .
Poteva andare anche altrimenti. Ma a me è andata così in questo lunghissimo secolo che è stato il Novecento.

* Da Lisa Foa, È andata così, Sellerio Palermo 2004 .

SETTE POESIE DI ELSE LASKER-SCHÜLER*

Arrivo

Sono giunta al confine del mio cuore .
Più oltre, non mi conduce alcun raggio .
Dietro, lascio il mondo,
e le stelle si alzano in volo: uccelli dorati .

Innalza la torre della luna l’oscurità –
Oh, come leggera mi colpisce una dolce melodia .
Ma le mie spalle si sollevano, orgogliose cupole .

Un vecchio tappeto tibetano

La tua anima è intrecciata con la mia anima
Nella trama del tappeto tibetano .

Raggio su raggio, colori innamorati,
stelle che gareggiarono lungo tutto il cielo .

I nostri piedi riposano vicini sull’intreccio prezioso,
eppure lontani miglia e miglia .

Dolce figlio del Gran Lama seduto sul trono della rosa
Da quanto tempo ormai la tua bocca bacia la mia
E la guancia la mia guancia, per istanti trapunti di colori?

Mi vedi tu

Tra cielo e terra?
Mai qualcuno calpestò il mio sentiero .

Ma il tuo volto riscalda il mio mondo,
da te proviene ogni fioritura .

Quando mi guardi,
dolce diviene il mio cuore .

Io giaccio sotto il tuo sorriso
E imparo a fare il giorno e la notte,

a evocarti e a farti scomparire,
sempre gioco quest’unico gioco .

Al Cavaliere

Non c’è più il sole,
eppure il tuo volto risplende .

La notte è senza prodigi,
tu sei il mio sonno .

Il tuo occhio brilla come stella cadente
E sempre esprimo il mio desiderio .
Oro puro è il tuo riso,
il mio cuore danza nel cielo .

Se arriva una nuvola –
Allora muoio .

Segretamente di notte

Ti ho scelto
Tra tutte le stelle .

E sono sveglia – un fiore che ascolta
Nel bosco che mormora .

Le nostre labbra vogliono emettere miele
Le nostre notti splendenti sono in fiore .

All’etereo brillare del tuo corpo
Il mio cuore accende i suoi cieli .

Tutti i miei sogni sono appesi al tuo oro,
ti ho scelto tra tutte le stelle .

Il mio pianoforte azzurro

Ho a casa un pianoforte azzurro
E non so suonare neppure una nota .

Sta nel buio di una cantina
Da quando il mondo si è disgregato .
Suonano le quattro mani delle stelle
– la donna della luna canta sulla barca –
Ora danzano i topi allo strimpellio .

Spezzata è la tastiera. .
Io piango la morte azzurra .

Cari angeli, apritemi
– ho mangiato pane assai amaro –
A me ancor viva le porte del cielo –
Anche se ciò non è permesso .

Te solo

In una cinta di nuvole il cielo
porta la curva luna .
Sotto la sua falce
nella tua mano voglio riposare .
Il mio volere dev’essere sempre
quello della tempesta- sono un mare senza riva .

Ma da quando cerchi
le mie conchiglie,
il mio cuore risplende .
Giace
sul mio fondo, incantato .
Forse e’ il mondo il mio cuore,
bussa
e te solo cerca .
Come devo chiamarti?

* Else Lasker-Schüler (1869 – 1945) fu tra i più noti personaggi della boheme berlinese nei primi decenni del secolo e una importante esponente dell’espressionismo tedesco .
Frequentò Karl Kraus (che la definì “il più impervio fenomeno lirico della Germania moderna”), Franz Werfel, Arnold Schonberg, Anton Webern, Oskar Kokoschka, Franz Marc, Gottfried Benn (per il quale “è stata la più grande poetessa tedesca dell’epoca”). Nel 1933 vinse il Premio Kleist ma poco dopo dovette fuggire dalla Germania e tutte le sue opere vennero bruciate. Si trasferì prima in Svizzera, poi in Palestina. Si stabilì definitivamente a Gerusalemme nel 1940. Un vecchio tappeto tibetano – secondo Kraus tra le più incantevoli e commoventi mai lette – fu pubblicata su Die Fackel nel 1910 .
Le poesie sono tratte dal volume Sämtliche Gedichte in einem Band, pubblicato da Suhrkamp. In Italia hanno pubblicato suoi scritti gli editori Giunti (Il mio cuore e altri scritti, 1990), Einaudi (Lettere al cavaliere azzurro, 1991) e Giuntina (La terra degli ebrei, 1993) .

UNA AMARA SERENITÀ
di Italo Calvino*

Così viviamo noi, in Italia, adesso .
Un atteggiamento non fa in tempo a consolidarsi ed è già vecchio: pro o contro perché conservatori o perché progressisti, gli uni e gli altri a pari ragione, essere pro ma avendo fatte proprie le ragioni di chi è contro, essere contro ma nell’interesse di chi è pro, e intanto tutto procede, senza che quelli pro e quelli contro contino davvero qualcosa .
Si va, si incontra gente, e a ogni incontro le opinioni hanno un sobbalzo. Il più delle volte per bisogno di contraddizione, più raramente per consenso, quando riusciamo a parlare con uno giusto .
Uno che lavorando al centro del suo settore ha la sensazione di mandare avanti qualcosa, anche se non si nasconde gli ostacoli e le difficoltà di avanzare in un punto solo, in una situazione generale contraddittoria, tuttavia ha del futuro una immagine chiara .
Oppure uno che lavora in un ambiente marginale e vede tutto il negativo, il rovescio della medaglia, la corruzione che sale, l’andazzo facile, il dismettersi degli ideali, e nel suo pessimismo trova la forza di insistere, di perseverare nella propria linea di condotta, e mantiene una amara serenità.

* Da Italo Calvino, Una amara serenità, in “Il menabo, 7 – una rivista internazionale”, Einaudi, Torino 1964, ora in Opere, “Meridiani”, Mondatori, Saggi, I, 125 .

SEMI D’ORIENTE
antichi proverbi dalla Cina
Quando il sole è al tramonto, anche le ombre dei nani si allungano .

Anche un nano, salendo di gradino in gradino, puo guardare più in alto di un gigante .

Chi è stato morso dal serpente anche una sola volta, avrà sempre paura di camminare nell’erba alta.

INDICE PER AUTORE DEI PRIMI 26 VOLUMI

Il viaggio di Testi Infedeli, lungo quindici anni, è stato scandito dalla riproduzione, per lo più infedele, di pensieri e parole di tanti autori, tra i quali:
A-L THEODOR WIESENGRUND ADORNO – FRANCIS BACON GIORGIO BASSANI – SAUL BELLOW – WALTER BENJAMIN GEORGE BERNANOS – PIERO BIGONGIARI – JORGE LUIS BORGES – VITALIANO BRANCATI – BERTOLT BRECHT JOSEPH BRODSKY – GEORGE BYRON – ITALO CALVINO LUCIANO CANFORA – VINCENZO CARDARELLI ERNESTO CARDENAL – ALFREDO CATTABIANI – NOAM CHOMSKY – MARCO TULLIO CICERONE – LUCIUS IUNIUS MODERATUS COLUMELLA – MARCO D’ERAMO BIRAGO DIOP – DAVID DIOP – BLAGA DIMITROVA BOB DYLAN – ALBERT EINSTEIN – HANS MAGNUS ENZENSBERGER – SERGEJ ALEKSANDROVIC ESENIN MARK ESSIG – EURIPIDE – FEDRO FRANCIS SCOTT FITZGERALD – MICHEL FOUCAULT – FEDERICO GARCIA LORCA – JOHANN WOLGANG GOETHE – MARTIN HEIDEGGER – NAZIM HIKMET ALDOUS HUXLEY ISMAIL KADARÉ – GERTRUD KOLMAR – MERI LAO D. LEROY – BERNARD-HENRY LEVY – CLAUDE LEVI STRAUSS .
M-Z CLAUDIO MAGRIS – KARL MARX – HERMAN MELVILLE – RAFAEL MORALES CASAS – EUGENIO MONTALE – LETIZIA MURATORI – LEON OCTAVIO NEGROPONTE – ARYEH NEIER – ISAAC NEWTON SIMION R. NKANUNI – WILLIAM NKRUMA – PIERGIORGIO ODIFREDDI – ORIGENE – GOFFREDO PARISE ANTONIO PASCALE – PINDARO – SYLVIA PLATH CHEN PO TAI – JACK PRELUTSKY – JEAN EDME ROMILLY – JOHN READER – JOSEF SKVORECKY GREGOR VON REZZORI – JOSÉ SARAMAGO – FULVIO SCAPARRO – AMARTYA SEN – LUCIO ANNEO SENECA MICHELE SERRA – PERCY BYSSHE SHELLEY LEONARDO SINISGALLI – WILLIAM SOMERSET MAUGHAM SOFOCLE – GEORGE STEINER – ROBERT LOUIS STEVENSON – ENZO STRIANO – MANIL SURI J. E. G. SUTTON – ALENA SYNKOVA’ – WISLAVA SZYMBORSKA – ANTONELLA TARPINO – IDEA VILARINO JUDITH VIORST – GEORGE WASHINGTON – STEVEN WEINBERG – WULSTAN – F. YATES – KARIM ZAIMOVIC LIONEL ZANGARO – ELEMIRE ZOLLA .
Questo ventisettesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel novembre del 2004 in 250 copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l .
di Cernusco sul Naviglio, Milano .
Come sempre, tutti i testi sono stati liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore .
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive. Se intendete favorirne la diffusione, indicatemi (all’indirizzo di posta elettronica nespor@nespor.it) fino a 3 nomi ai quali far arrivare la prossima copia del libretto .
I Testi Infedeli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.nespor.com (ove sono raccolti anche altri miei scritti e una scelta dei miei disegni) .
Il sito è curato e aggiornato da Stefano Rossi .
L’inserimento dei Testi infedeli nel sito è stato curato in passato anche da Beniamino Nespor .
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Antonio Civitelli, Manuela Cuoghi, Salvatore Giannella, Marina Nespor, Pasquale Pasquino.
(s.n.)

Questa dei Testi Infedeli, ovvero testi famosi, rivisitati e rimessi a posto perchè piacciano di più a chi l’invia e scuotano d’interrogativi chi li riceve, chi sa, chi capisce, è una storia letteraria ideata, stampata, cadenzata, da un avvocato alto alto, Stefano Nespor… Egli è fedelmente infedele al suo manoscritto che ogni sei mesi si aggira nelle case milanesi di chi sa ed è in grado di scoprire le infedeltà. “Non invidio nessuno e intendo trovare soddisfazione in ogni cosa. Questo, mio caro amico, è il programma della mia marcia”: così disse George Washington. O no?” Da “Testi Infedeli, la nuova moda chic della letteratura” di Lina Sotis, Corriere della Sera, 16 luglio 2003” .

N. 28 estate 2005

Cari lettori,
in questo fascicolo troverete:
Un breve scritto in tema di immigrazione
Una piccolo pezzo dal Don Chisciotte, con una appendice per rammentarne attualità.
Un ricordo del genocidio in Ruanda (con un pezzo tratto da un libro da leggere), dimenticato da tutti, e un ricordo del genocidio di piccioni in Italia, che l’indignazione dell’opinione pubblica ha invece definitivamente impedito.
Subito Santo! Alcune osservazioni su papolatria e genocidi.
La storia poco nota di un incontro di un Papa, di un Cardinale e di un Matematico, per discutere di infinito.
E tre piccoli brani sempre in tema di infinito.
Poi, molte poesie: cinque di una poetessa russa, a cavallo tra Russia e Cina; una di un grande poeta cinese (ricordato dalla poetessa russa); tre di grande poetessa austriaca contemporanea; e poi tre poesie di una autrice milanese. Infine, quattro haiku giapponesi.

LA COPERTINA

Sono quattrocento anni che Don Chiosciotte è tra tutti noi (il primo volume fu infatti pubblicato nel 1605).
Il disegno è liberamente tratto da un bozzetto di Daumier.

IMMIGRAZIONE

Dapprima erano in pochi. Avevano la pelle più scura, come doveva essere la nostra quando, molto, molto tempo fa, secondo la tradizione, siamo arrivati qui. Probabilmente abbiamo fatto la loro stessa strada e abbiamo anche noi attraversato quella sottile lingua di mare che separa la nostra terra da quella che poi sarebbe stata chiamata Africa.
Pochi riuscivano a sfuggire alla nostra vigilanza e a toccare terra: generalmente le zattere si rovesciavano o si frantumavano nel percorso; gli altri era facile ricacciarli indietro, verso il mare. Pochissimi sfuggivano e riuscivano a insediarsi qui da noi. A questo punto, li lasciavamo stare. In fondo, c’era posto per tutti.
Venivano in cerca di cibo, di migliori condizioni di vita. Qui si stava bene: certo, il clima non era gradevole come in Africa, ma la vita era molto più facile: c’erano acqua e selvaggina in abbondanza, pochi erano gli animali feroci e i pericoli.
A un certo punto, però cominciarono a arrivare per via terra, dalla parte dove il sole sorge. Erano gruppi molto più numerosi e organizzati, non era possibile respingerli; spesso, poi, riuscivano a eludere la nostra sorveglianza.
Erano anche intraprendenti e battaglieri, e si spostavano ovunque, non come noi che ci eravamo abituati ad una vita piena di comodità.

A un certo punto, con il passare del tempo, diventarono molti di più di noi.
Fummo lentamente costretti a rifugiarci in luoghi sempre più isolati e disagevoli, abbandonando le fertili pianure e le coste. E poi, venne anche il freddo, che loro riuscivano a sopportare molto meglio di noi. Cominciò così per la nostra gente una lunga agonia.
Alla fine, di noi non rimase traccia. Rimasero solo loro.

SN
Circa 40.000 anni fa l’Homo sapiens, il nostro diretto progenitore, comincio a emigrare dall’Africa verso l’Europa. Trovò dei suoi simili, anch’essi emigrati dall’Africa molto tempo prima, circa 200.000 anni fa: gli uomini di Neanderthal.
Questi ultimi lentamente scomparvero. Secondo recenti ipotesi, ci vollero poco più di mille anni perchè l’Homo sapiens restasse padrone di Spagna e Francia, e di ventimila anni perchè gli uomini di Neanderthal fossero estinti.

RIFLESSIONE PER L’ESTATE

Il curato chiese le chiavi della stanza dove stavano i libri cui si dovevano tutte le sciagure. La governante le consegnò volentieri.
Entrarono tutti insieme, compresa la governante, e trovarono più di cento volumi rilegati e altri piccoli. La governante corse a prendere una scodella d’acqua benedetta e disse: “Signor curato, spruzzi l’acqua benedetta in questa stanza, perché questi libri non esercitino su di noi qualche stregoneria per impedirci di cacciarli da questo mondo”. Il curato ordinò al barbiere di passargli i libri uno per uno per esaminarli: poteva darsi che ve ne fossero alcuni che non meritassero la pena del rogo. Disse la nipote di Don Chisciotte: “Non c’è ragione di risparmiarne alcuno, tutti sono perniciosi. Sarà meglio gettarli dalla finestra, farne una catasta e bruciarli tutti, oppure portarli più lontano, in cortile, in modo che il fumo non dia noia”.
La governante si dichiarò d’accordo. Il curato però decise che bisognava prima leggere qualche titolo. Ma si stancò ben presto, e ordinò alla governante di prendere tutti i volumi e portarli in cortile.

Da MIGUEL DE CERVANTES, Don Chisciotte della Mancia,I, VI. Cervantes scrisse questo brano probabilmente nel 1595. Era certamente nota in Spagna l’iniziativa assunta dal vescovo Diego de Landia. Il vescovo, durante la sua lunga permanenza nello Yucatàn, aveva pazientemente cercato e raccolto tutti i manoscritti in lingua Maya di cui aveva avuto notizia e, prima di tornare in Spagna, li aveva bruciati tutti (probabilmente anch’egli avendo cura che il fumo non desse noia). È stato una dei più disastrosi roghi culturali della storia. Migliaia di testi, praticamente tutto il patrimonio scritto della storia Maya, sono scomparsi: si sono salvati solo quattro manoscritti, sfuggiti casualmente alle metodiche ricerche di de Landia.
Non bisogna mai dimenticare che chi brucia i libri, prima o poi brucia anche chi li scrive o chi li legge.

POESIE DI OLGA SEDAKOVA

da Viaggio in Cina

I

Lo stagno dice:
avessi avuto mani e voce,
come ti avrei amato, come ti avrei cullato.
Sono tutti avidi, sai, e sono malati;
strappano le vesti dei passanti
per farne bende.
Io, invece, non ho bisogno di niente:
solo tenerezza – ecco la guarigione.
Poserei le mie mani sul tuo grembo,
come una docile leonessa,
e come cielo scenderei
dall’alto in forma di voce.

II

Alla vista
della bianca veste del viaggiatore
che possiamo fare, dove nasconderci?
Alla vista,
della veste bianca, delle vecchie spalle –
avrei voluto che i miei occhi diventassero di pietra,
il cuore – di acqua.
Solo alla vista
di cosa succede all’uomo –
io gli andrei dietro, piangendo:
per tutto il suo cammino, gli andrei dietro, marciando
con il suo stesso passo misurato.

III

Con tenerezza e profondità –
solo la tenerezza è profonda,
solo la profondità è tenera –
fra mille volti io saprò
chi l’ha vista, su chi ha gettato lo sguardo
dagli oggetti di pietra, come dai vetri,
tenera profondità e profonda tenerezza.
Allora accenditi,
lanterna calda dell’Occidente,
lampada, trappola per falene.
Parla ancora
con la luce di casa nostra,
sole di tenerezza e profondità,
sole che stai lasciando la terra,
primo e ultimo sole.

IV

Possibile, che anche noi, come tutti,
come tutti gli altri
ci dovremo dire addio?

Noi che sappiamo qualcosa
della passione più veloce della fine,
noi che sappiamo qualcosa del mondo

noi che sappiamo che questa conchiglia è senza perla,
che non c’è né fiammifero, candela, lanterna,
a parte il fuoco dell’estasi,

noi che sappiamo da dove provengono
suono e luminescenza
possibile che anche noi ci diremo addio?

Noi che desideriamo stare insieme,
non meno dei salici che amano crescere nell’acqua,
non meno delle acque
che amano seguire la luce della stella,
non meno di quell’ubriaco di Li-Po che guarda
dentro il vino giallo, come la luna
e non meno del sasso che si posa sul fondo –
possibile che anche noi ci diremo addio?

Lo Specchio

Mio caro, io stessa non so:
dove porta tutto ciò?

Accanto, luccica un piccolo specchio
Grande non più di una lenticchia
o di un chicco di miglio.

Ciò che in esso arde e appare,
ciò che guarda, balena e brucia
è meglio non vederlo.

Ma la vita è una piccola cosa,
a volte sta tutta su di un mignolo,
o sull‘orlo d’un ciglio,

e tutt’attorno, come un mare, non c’è niente.

OL’GA ALEKSANDROVNA SEDAKOVA è nata a Mosca nel 1949 e all’Università di Mosca attualmente insegna. Ha trascorso una parte della sua infanzia in Cina. Dalla metà degli anni ’80 le sue opere sono apparse in riviste letterarie russe e occidentali. Ha tradotto in russo autori italiani, francesi tedeschi e inglesi. Nel 2001 è stata pubblicata la raccolta delle sue opere in due volumi (Mosca, En Ef K’ju/Tu Print). Le sue poesie sono state tradotte in italiano da Francesca Chessa. Tutte le poesie salvo l’ultima sono tratte dall’opera del 1986 Viaggio in Cina, composta di diciotto poesie (quelle pubblicate sono nell’ordine 2,6,11,13). Per sapere come la pensa: “La poesia fuori dal samizdat”, intervista al quotidiano L’Avvenire, 16 gennaio 2004.

UNA POESIA DI LI-PO

Prendo la mia coppa di vino seduto tra i fiori
Per bere da solo, senza amici.
Alzo la coppa per invitare la luna.
Con lei e con la mia ombra siamo in tre.
La luna però non beve,
e la mia ombra se ne sta silenziosa.
Tuttavia, viaggerò con luna ed ombra
Felice dove la primavera finisce.

Quando canto, la luna danza,
e quando io danzo, la mia ombra è con me.
Quando non bevo, dividiamo le gioie della vita.
Quando sono ubriaco, ciascuno sta per conto suo.

Siamo amici fedeli, anche se ci muoviamo,
ci incontreremo comunque nella via lattea.

LI PO (701-762) è uno dei più grandi poeti cinesi. Passò la sua giovinezza nella sua regione natale, Sechuan, poi viaggiò per tutta la Cina. Nel 742 l’imperatore gli assegnò un posto all’Accademia Hanlin, ma pochi anni dopo cadde in disgrazia, fu esiliato e riprese a viaggiare.
La traduzione utilizzata è quella di Hamill.

RUANDA, APRILE 1994

Sono passati undici anni dal più grande massacro dei tempi moderni, dopo l’Olocausto (ed anzi, il primo quanto a rapidità, semplicità ed efficienza: 800.000 esseri umani eliminati per lo più a colpi di machete in poco più di tre mesi). Non se ne era accorto nessuno, allora.
Sarebbe bastato poco per impedirlo: non più di mille soldati, secondo il comandante del contingente delle Nazioni Unite.
Nessun governo occidentale si mosse, nonostante tutti fossero pienamente a conoscenza di quanto stava accadendo (ed anzi, tutti sapessero che sarebbe accaduto). È facile dare la colpa alle Nazioni Unite. Le Nazioni Unite non possono essere molto meglio degli Stati che le costituiscono. E gli Stati non possono esser meglio dei loro cittadini: negli Stati Uniti l’attenzione era polarizzata dal processo a O.J.Simpson, in Italia dalla preparazione della nazionale di Sacchi per i Mondiali di calcio di Los Angeles.
II

Una volta si chiamava Ruanda-Urundi. Vi erano arrivati i tedeschi, poi una lontana guerra aveva sostituito i tedeschi con i belgi. Avevano spiegato che soldati, funzionari, preti venivano per fare un protettorato. Erano venuti portandosi dietro il Grande Protettore, un dio misterioso e invisibile.

Kawa era un hutu, e voleva che il suo figlio primogenito diventasse un intelletuale e andasse a lavorare alla corte del re tutsi.
Lo iscrisse allora nella scuola costruita dai preti belgi in mattoni rossi, ma rifiutò di battezzarlo perché re Musinga non era battezzato e continuava a rifiutare quella strana religione con un dio che si divideva in tre persone, una delle quali era il figlio: restava fedele al suo monoteismo e credeva in Imana, il creatore. I belgi però posero come condizione che Mutara, il figlio di Musinga accettasse di farsi battezzare, se voleva salire al trono. Così Mutara nel 1931 si fece battezzare e divenne Mutara III. Allora anche Kawa fece battezzare il proprio figlio e lo chiamo Célestin.
Un giorno Célestin portò a casa un libro scritto da un medico belga, esperto del Ruanda-Urundi. Così imparò che gli hutu abitavano in quella regione da tempi immemorabili, mentre i tutsi venivano dal Nord, dall’Egitto o dall’Etiopia e non erano veramente neri, ma bianchi scuriti dal sole. “L’hutu” diceva il libro “è basso e tozzo, è mite, ingenuo, rozzo e poco intelligente. È dissimulatore e pigro. Ha il naso schiacciato. È un nero tipico. Il tutsi, allevatore nomade, è alto e slanciato. È intelligente, raffinato, abile nel commercio, è brillante e simpatico”. Dopo aver letto queste parole, Kawa lanciò un urlo. Tutto crollava: il suo orgoglio di patriarca hutu, i suoi progetti per il figlio Célestin.

Per la prima volta gli sembrava di essere guardato con sospetto: perché era alto, e il suo naso non era schiacciato come quello dei suoi fratelli e dei suoi quarantanove cugini. La sua pelle era più scura di quella dei tutsi, ma più chiara di quella degli hutu. Poi, allevava vacche come i tutsi, e non gli sembrava di essere né pigro né stupido.
Era tenuto in considerazione per la sua giovalità e per il suo senso degli affari. Forse, era a sua insaputa un tutsi. O era un hutu deforme. Dopo averci pensato a lungo, decise che avrebbe trasformato ufficialmente, con ogni mezzo, i suoi figli e la sua discendenza in tutsi (nel frattempo, i belgi avevano introdotto documenti di identità dove era iscritta la provenienza, tutsi o hutu, del titolare).
A questa impresa dedicò tutto sé stesso e il suo piccolo patrimonio. Non gli importava: i suoi figli avrebbero dovuto essere tutsi e felici.
Pochi decenni più tardi, tutti i suoi discendenti furono uccisi a colpi di machete dagli hutu.

Il secondo pezzo è tratto da GIL COURTEMANCHE, Una domenica mattina a Kigali, Feltrinelli 2005. Il libro letto da Kawa è di J.Sasserath, Le Ruanda-Urundi, étrange royaume féodal, Bruxelles 1930.
Sull’eccidio ruandese c’è un film: Hotel Ruanda, del regista irlandese Terry Gorge, con colonna sonora di Andrea Guerra. Il protagonista è Paul Rusesabagina (Don Cheadle nel film), direttore di un hotel a Kigali, un hutu benestante sposato con una tutsi, che salva la vita a 1200 cittadini tutsi ospitandoli nel suo albergo.

I PICCIONI PERO’ SONO SALVI

Non è più lecito uccidere piccioni in nobile gara di mira esatta e di polso fermo.
Prima, per molti, uccidere il piccione al volo era uno spasso. C’è da dire che i piccioni facevano di tutto per eccitare smanie omicide: volavano, anzi, svolazzavano con quel loro remigare d’ali erratico e instabile, cui dava estro la paura, l’inseguimento della morte, l’odore e il fragore degli spari. Insomma, i piccioni avevano una vocazione al bersaglio. E chi bersaglio si fa, sportivo gli spara.
C’era poi una certa molle grazia nella languida caduta del piccione colpito: era una morte delicata, che attirava coloro che avevano il gusto dell’eleganza. Tutto è finito. L’incerto volo, la mira astuta, il rimbombo contro la magra grazia del volatile, la morte bella e gratificante, tutto ciò è ormai vietato per sempre.

Da GIORGIO MANGANELLI, Improvvisi per macchina da scrivere, Adelphi 2003.
TRE POESIE DI INGEBORG BACHMANN

Salvacondotto
(Aria II)

Con uccelli assonnati
e alberi sfiorati dal vento
sorge il giorno, e il mare
gli vuota addosso una coppa di schiuma.

I fiumi peregrinano verso la grande acqua,
e la terra emette promesse d’amore
con fiori freschi
sulla bocca dell’aria pura.

La Terra non vuole sostenere un fungo di fumo,
né vomitare creature verso il cielo
o cancellare con pioggia e tuoni irosi
le voci della perdizione.

Insieme a noi vuol vedere il risveglio
dei fratelli variopinti e delle grigie sorelle,
il Re Pesce, Sua Maestà l’Usignolo,
e la Salamandra, Principessa del Fuoco.

Per noi pianta coralli nel mare,
ordina ai boschi di restare in silenzio,
al marmo di gonfiare la sua bella vena
e alla rugiada di camminare ancora sulla cenere.

La Terra vuole dalla notte
Ogni giorno un salvacondotto verso l’eternità
perché, per mille e un mattino ancora,
la antica bellezza diventi giovane pietà.

Alienamento

Negli alberi non riesco più a riconoscere alberi.
I rami non hanno le foglie che si oppongono al vento.
I frutti sono dolci, ma senza amore.
E non saziano neppure.
Che può accadere?
Davanti ai miei occhi Il bosco fugge,
vicino al mio orecchio tacciono gli uccelli,
non c’è prato che mi faccia da letto.
Sono sazia di tempo
ma ho fame di tempo.
Ora che accadrà?
Sui monti arderanno di notte i fuochi.
Devo aprirmi e di nuovo avvicinarmi a tutto?
In nessuna via riesco più a trovare una via.

Tutti i giorni

La guerra non viene più dichiarata,
ma solo proseguita. Le assurdità
sono un fatto quotidiano. L’eroe
se ne sta lontano dalla lotta. Il debole
è sospinto in prima linea.
L’uniforme di oggi è la pazienza,
e la medaglia è la misera stella
Di speranza sul cuore.

La conferiscono
quando non succede più niente,
quando il fuoco delle armi si spegne,
quando il nemico non si vede più
e il cielo si copre
dell’ombra dell’eterno riarmo.

La conferiscono
per la diserzione dalle bandiere,
per il mostrarsi coraggiosi con l’amico,
per il tradimento di indegni segreti
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.

INGEBORG BACHMANN è nata a Klagenfurt in Carinzia nel giugno del 1926, studia a Innsbruck, Graz e Vienna. Dal 1953 vive in Italia, a Roma e Napoli. Scrive racconti, pubblicati in due volumi: Das dreißigste Jahr (1961 e Simultan (1972) e il romanzo Malina (1971). Le traduzioni italiane sono edite da Adelphi e Laterza. È stata compagna prima di Werner Henze per il quale ha scritto libretti d’opera (Der Idiot e Der Prinz von Homburg) poi di Max Frisch; è stata amica di Nelly Sachs, di Hans Magnus Enzensberger e di Witold Gombrowicz. Ha tradotto Anna Achmatova e Giuseppe Ungaretti. Si è impegnata in battaglie femministe e contro la guerra del Vietnam. È morta nell’ottobre del 1973 per un incendio nella sua abitazione a Roma. I suoi 34 reportage da Roma sono raccolti da L’Espresso del 12 marzo 1998 nel volume L’Italietta secondo Inge.

PAPOLATRIA

Cinque milioni di fedeli hanno assistito di persona ai funerali di Giovanni Paolo II il Grande. Varie altre diecine di milioni li hanno seguiti alla televisione. Avrebbero potuto essere molti di più.
Purtroppo, non hanno avuto la possibilità di partecipare, dal vivo o davanti ad uno schermo, alcune diecine di milioni di fedeli, in maggioranza africani: erano già morti, di AIDS o di denutrizione, a causa della ripetuta proibizione di Giovanni Paolo II all’uso della pillola o di preservativi.
Non hanno neppure potuto partecipare alcune centinaia di migliaia di tutsi che popolavano il Ruanda, paese interamente cattolico: sono rimasti vittime, nel 1994, dell’eccidio realizzato dalla maggioranza hutu, nella assoluta indifferenza del Vaticano e delle gerarchie cattoliche africane.
Neppure il generale Augusto Pinochet è potuto intervenire al funerale, in ricordo del caloroso incontro avvenuto in Cile nel 1987, pochi anni dopo aver diretto e organizzato – con l’aiuto degli Stati Uniti – l’eliminazione di migliaia di cileni sostenitori di Salvador Allende: in quell’occasione il generale rendeva felice il Papa, confessandogli che il successo nel golpe del 1973 era stato ottenuto perché aveva posto le sue truppe sotto la protezione della Vergine del Carmelo.
Giovanni Paolo II il Grande annuiva, sorrideva e stringeva affettuosamente la mano del feroce assassino, proprio sul balcone della Moneda che portava ancora i segni del bombardamento golpista (per una completa documentazione fotografica dell’incontro si veda http://anticomunismo.8m.com/tata4). Non ha potuto intervenire, il Generale Pinochet, sol perché è stato posto agli arresti domiciliari dall’Autorità giudiziaria cilena, che, sia pure con qualche ritardo, lo ha accusato di molte diecine di omicidi (oltreché di essersi intascato tangenti per centinaia di migliaia di dollari a spese del popolo cileno liberato dal pericolo comunista).
Sono tutte assenze che nessuno ha notato.

SN

TRE POESIE DI ANTONIA POZZI

Altura

E l’ultimo battello
attraversava il lago in fondo ai monti
Petali viola
mi raccoglievi in grembo
a sera:
quando batté il cancello
e fu oscura
la via del ritorno.

La vita

Alle soglie d’autunno
in un tramonto
muto
scopri l’onda del tempo
e la tua resa
segreta
come di ramo in ramo
leggero
un cadere d’uccelli
cui le ali non reggono più.

Notturno

Curva tu suoni
ed il tuo canto è un albero d’argento
nel silenzio oscuro
Limpido nasce dal tuo labbro – il profilo
delle vette – nel buio –
Muoiono le tue note
come gocce assorbite dalla terra
Le nebbie sopra gli abissi
percorse dal vento
sollevano il suono spento
nel cielo

ANTONIA POZZI (Milano 1912 – Chiaravalle 1938). Nessuna delle sue opere venne pubblicata prima della sua morte. Studiò filologia moderna. Viaggiò molto in tutta Europa. Nel dicembre del 1938, sconvolta dall’evolversi degli eventi, si trasferì nella sua casa di Chiaravalle, dove pochi giorni dopo fu trovata morta. La famiglia bruciò il suo testamento (Il Giorno, 17.4.89, “Resta ancora un mistero l’ultimo, tragico perché”). Tra le sue opere: Parole, Mondadori, Milano, 1964; La vita sognata ed altre poesie inedite, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino, Scheiwiller, Milano, 1986; Diari, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino, Scheiwiller, Milano, 1988.

TRE INFINITI

I
Se si indebolisse la sua sagacia,
se lo si liberasse dal caos,
se non si limitasse il suo essere brillante,
e lo si rendesse simile ad un granello di polvere,
allora sembrerebbe davvero infinito.

II

Se scorgi un mondo in un granello di polvere,
e il cielo in un fiore di campo,
saprai tenere l’infinito nel palmo della mano
e racchiudere l’eternità in un’ora.

III

Il mio carico è illimitato come il mare
Il mio amore come il mare è profondo:
quanto più te ne offro,
tanto più ne ho da offrire
perché entrambi sono infiniti.

Il primo pezzo è tratto dall’opera attribuita a LAO TZE, fondatore del taoismo e autore del Tao-te Ching, nato, secondo la tradizione, nel 604 a.c. Il secondo è l’inizio di Auguries of Innocence, 1, di WILLIAM BLAKE. Si può reperire in tutte le raccolte delle opere di Blake e in The Oxford Book of English Mystical Verse, Oxford University Press 1917. Il terzo è tratto da Romeo e Giulietta di WILLIAM SHAKESPEARE, II, 2, 133.

INFEDELE INFINITO

Nel gennaio del 1874 Pio IX, ancora scosso per essere stato qualche anno addietro privato del suo regno, e autorinchiusosi per protesta nei Palazzi Vaticani da cui non uscirà sino alla morte, incaricò il Prefetto della Congregazione delle indulgenze e delle reliquie di convocare un giovane matematico, pietroburghese di nascita ma docente in una oscura università tedesca, al fine di chiedergli spiegazioni in merito ad alcune sue sconcertanti affermazioni che, seppur pubblicate solo su riviste scientifiche, erano in breve tempo trapelate anche nell’opinione pubblica.
Il Prefetto incaricato di questo delicato compito era l’austriaco Johann Baptist Franzelin (1816-1886), professore di teologia dogmatica e, inoltre, di arabo, siriano, caldeo, aramaico ed ebraico presso il Collegio Romano dei Gesuiti nel 1857. Franzelin si era distinto per la sua vasta cultura teologica: aveva scritto opere fondamentali tra cui nel 1868 De eucharistia e De sacramentis in genere; l’anno seguente De Deo trino; e nel 1870, addirittura tre importanti saggi: De divina Traditione et Scriptura, De Deo uno e De Verbo incarnato. Nelle sue opere aveva sostenuto la tesi che Dio era l’effettivo e unico autore delle Sacre Scritture, in quanto autore di un libro è chi offre i pensieri e i contenuti del libro, anche se lascia il compito della formulazione scritta ad uno o più collaboratori.

Il giovane matematico che aveva destato l’attenzione e la preoccupazione del vecchio Papa – ideatore dei dogmi dell’infallibilità del Papa e dell’Immacolata concezione, divenuto da tempo il campione della lotta contro ogni idea liberale e contro ogni innovazione in campo sociale e scientifico, e distintosi per l’acceso antisemitismo e il disinvolto uso della ghigliottina nei confronti degli oppositori – era Georg Ferdinand Philipp Cantor (1845-1918). Cantor si era dedicato allo studio della teoria degli insiemi e avrebbe pubblicato nel 1884, dopo molti anni di lavoro, un trattato sull’argomento in sei volumi che costituisce tuttora uno degli eventi più importanti della storia della matematica e della logica.
La ragione della convocazione era la pubblicazione su un periodico per matematici tedeschi, nel dicembre del 1873, della dimostrazione di una scoperta così sconcertante che Cantor, allorché la concepì per la prima volta, qualche mese prima, scrisse, stupito, all’amico Dedekind, anch’egli illustre matematico: “Vedo ma non credo”.
Cantor aveva scoperto l’infinito.
Ma la Chiesa, Pio IX e anche Monsignor Franzelin consideravano, secondo la tradizione, l’infinito uno specifico attribuito di Dio e quindi uno di quei concetti con i quali – specie in quei frangenti drammatici in cui il rappresentante di Dio in terra era spodestato dai suoi possedimenti – non si deve scherzare: proprio come l’origine dell’uomo, sulla quale da qualche anno uno scienziato inglese sosteneva teorie assurde che addirittura negavano la creazione dell’uomo da parte di Dio.

Così, una sera dell’autunno del 1873 Cantor, intimorito da quella perentoria convocazione, e avendo ben presente nella mente l’infelice sorte toccata al proprio maestro elettivo, Bernhard Placidus Johann Nepomuk Bolzano, per aver parlato ai frequentatori del corso di filosofia tenuto presso l’Università di Praga dei problemi posti dalla tradizionale idea di infinito, si presentò in Vaticano.
Il Prefetto Franzelin, dopo averlo fatto accomodare su una scomoda sedia di legno e avergli rivolto qualche breve frase di cortesia, gli chiese seccamente di chiarire perché si fosse messo a studiare proprio l’infinito, in un momento così drammatico per le sorti della Chiesa. Che intenzioni aveva?
L’obiezione formulata da Cantor di essersi occupato solo di alcuni aspetti matematici dell’infinito, senza alcun secondo fine, fu scartata con impazienza: a questa spiegazione lui, Franzelin, certamente non avrebbe abboccato.
Cantor riuscì allora ad ottenere dal Prefetto il permesso di esporre brevemente il contenuto delle sue scoperte.
Il suo esordio – “Lei sa, signor Prefetto, che i numeri interi sono infiniti” – fu accolta con un gesto di condiscendenza da parte di Franzelin: “Questo lo sanno tutti, professore”.
“Si”, continuò Cantor, “ma anche i numeri pari sono infiniti. E i numeri dispari. E, nonostante che numeri pari e dispari siano la metà dei numeri interi, formano un infinito uguale a quello dei numeri interi: si può infatti mettere in corrispondenza ciascun numero intero dispari con ciascun numero intero pari (1:2, 2:4, 3:6;4:8; 5:10 e così via) o dispari (1:1, 2:3, 3:5, 4:7, 5:9 e così via) ”.
Qui, Franzelin cominciò a dare segni di irritazione: questa faccenda di molti infiniti, uno più grande dell’altro, ma tutti uguali tra di loro, non gli piaceva molto. “Herr Professor, c’è qualcosa che non va: i numeri pari sono una parte dei numeri interi, e sappiamo tutti che una parte è sempre inferiore al tutto”.
“È vero, signor Prefetto. Ma questa regola vale nel mondo finito. Non quando ci si sposta nel mondo infinito. Qui, la regola che il tutto è sempre maggiore del sua parte non vale: la parte è uguale al tutto”.
Cantor decise di non interrompersi facendo finta di non accorgersi dell’espressione sempre più irritata del Prefetto, a cui proprio non garbava che questo giovane parlasse di infinito come se si trattasse di una località dove lui si recava spesso.
“L’aspetto veramente curioso di quel che ho scoperto è però un altro: se prendiamo tutti i numeri, razionali e irrazionali, che stanno tra 0 e 1, scopriamo che sono anch’essi un infinito. Ma sono di più dell’infinito di tutti i numeri interi. Questo significa, signor Prefetto, che, dato un infinito, ce ne è sempre uno maggiore: ci sono infiniti infiniti e ci sono infiniti più grandi e infiniti più piccoli”.
Franzelin sobbalzò, bianco in volto, e lanciò un urlo. Cantor, atterrito, saltò in piedi, incerto sul da farsi. “Lei, giovanotto, è un eretico. Si rende conto che, con la sua supponenza scientifica, vuole distruggere uno dei principi fondamentali della Chiesa? Lei vuole ricreare il politeismo”.

Che sarebbe successo, si chiedeva angosciato Franzelin, se la gente veniva a sapere che non c’erano un mondo finito e un solo Dio infinito, ma tanti infiniti, senza che uno fosse più grande, più potente, più infinito dell’altro? Sia Giordano Bruno che aveva provocatoriamente immaginato l’esistenza di più infiniti (ipotizzando che l’universo e Dio fossero infiniti di tipo diverso), sia Galileo, che sull’infinito aveva enunciato strane proprietà, avevano avuto il fatto loro.
Tuttavia, il Prefetto si rese conto che con questo giovane e compunto scienziato bisognava agire con pazienza e diplomazia: purtroppo i mezzi tradizionali per ridurre al silenzio gli imprudenti che vogliono occuparsi di concetti riservati ai teologi oggi – Dio voglia non per molto – non si potevano più utilizzare.
“Caro Herr Cantor, mi perdoni, ma le sue teorie affascinanti, pericolosamente affascinanti, mi hanno scombussolato. Dobbiamo parlarne in modo più approfondito. Voglio invitarla a cena, questa sera e voglio che rimanga qui in Vaticano per qualche giorno, ospite mio e del Santo Padre”.
Per una settimana, Cantor fu ospite di Franzelin e fu intrattenuto con tutti gli onori.
Al termine, si convinse che, per il bene della Chiesa e dell’umanità, la sua teoria doveva essere modificata. La gente non doveva sapere. L’idea di Franzelin era semplice. Sarebbe bastato chiarire che tutti gli infiniti oggetto delle sue indagini erano infiniti relativi.

Ed erano, come aveva brillantemente dimostrato, infiniti. Poi, sopra tutti, c’era l’Infinito. Vero, Uno e Assoluto. Dio. Un Infinito al di fuori della matematica. Cantor non si azzardò ad osservare che, secondo la sua teoria, anche quell’Infinito Assoluto doveva per forza avere un Infinito Assoluto superiore, se era davvero un Infinito.
Anzi, con un gesto di simpatia per Franzelin, propose di chiamare gli infiniti matematici “transfiniti”, per distinguerli dall’Infinito Assoluto.
Franzelin sorrise.
La Chiesa era salva.
Monsignor Franzelin fu nominato cardinale da Pio IX nel 1876, come premio per il successo ottenuto nel proteggere l’Infinito Assoluto.
Cantor dopo anni di angosciosi interrogativi sulla natura dei suoi infiniti, e sulla compatibilità delle sue teorie con la dottrina cattolica, finì la sua vita in manicomio.

Sull’infinito si vedano BRIAN CLEGG, A Brief History of Infinity, Londra, Constable & Robinson 2003 ; all’incontro tra Cantor e Franzelin accenna PIERGIORGIO ODIFREDDI, Le menzogne di Ulisse, Longanesi 2005. Sul Cardinale Franzelin si vedano la Catholic Enciclopedia on CD-ROM e il Biographisch-Bibliopraphisches Kirchenlexizon, www.bautz.de.bbkl; su Cantor, si veda JOSEPH WARREN DAUBEN, Georg Cantor, Princeton University Press 1979.

HAIKU – IL TEMPO DI UN RESPIRO

I

Sulla punta di un filo d’erba
Davanti all’infinito del cielo
Una formica

II

Passo dopo passo
Avanzo
Prigioniero della luna.

III

L’acqua diviene ghiaccio
Le lucciole si spengono
Nulla esiste.

IV

Tra i giochi delle fate
Discese sulla città
Il vuoto.

V

Nella brina del mattino
I gatti
Avanzano lentamente.

Un haiku non deve essere più lungo di un respiro.
Deve essere composto di tre frasi di 5, 7 e 5 sillabe.
Diceva Leang-Kiai: “una frase è morta quando le parole rimangono parole; nelle frasi che vivono, le parole non sono più parole”.
Gli autori, nell’ordine, sono Ozaki Hosai (1885-1926); Hirahata Seito 1905-1997; Chiyo-ni 1703-1775; Kimura Toshio 1956. L’ultimo haiku è di Jack Kerouac.
Da Haiku – Anthologie du poéme court japonais, a cura di Corinne Atlan e Zeno Bianu, Gallimard 2002.

Questo ventottesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 2005 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano.
Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.nespor.com (ove sono raccolti anche altri miei scritti e una scelta dei miei disegni).
Il sito è curato e aggiornato da Stefano Rossi. L’inserimento dei Testi infedeli nel sito è stato curato in passato anche da Beniamino Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Salvatore Giannella, Marina Nespor, Pasquale Pasquino.

N. 29 inverno 2005

LA COPERTINA

Albert Einstein è morto cinquanta anni fa. Cento
anni fa enunciava la teoria della relatività ristretta.
Nel 2000 è stato nominato dalla rivista Time
“uomo del secolo”. Gli archivi di Einstein possono
essere consultati nel sito www.alberteinstein.info/.
Il suo volto è scolpito anche sulla parete della
Riverside Church, la principale chiesa presbiteriana
di New York, insieme a quello di altri tredici
scienziati di ogni tempo. L’iniziativa è stata di
Harry Emerson Fosdick, il più celebre pastore di
quella chiesa, oppositore del fondamentalismo religioso,
del razzismo e delle ingiustizie sociali.
Davanti alla raffigurazione di Einstein hanno parlato
Martin Luther King contro la guerra del
Vietnam, Nelson Mandela contro l’apartheid e, nel
1999, Fidel Castro.
Il disegno in copertina è in gesso e acquerello.

L’INDICE

Dopo un breve promemoria tratto da uno scritto di
Einstein del 1933, ma sempre attuale, troverete:
le poesie di una poetessa cilena e di una poetessa
polacca insignita del Premio Nobel nel 1996 e, per
chiudere, una poesia di Henry Michaux;
alcuni scritti su temi tradizionali dei Testi Infedeli:
le apparizioni della Madonna in questi ultimi
tempi e i complessi problemi che esse pongono;
il ritratto di un profeta incontrato in Terrasanta;
la triste storia di Giorgio Siculo, il cui finale è
stato reso possibile dalla recente scoperta di un
documento rimasto in precedenza ignoto;
inoltre, due brani sulla globalizzazione di un
autore non più apprezzato come un tempo;
infine, la descrizione di un paradiso perduto per
effetto di una piccola riforma legislativa.

A lato, disegno di Stefano Nespor.

PROMEMORIA

È in tempi di disagio come quelli in cui oggi viviamo che si vede l’intensità delle energie morali che sono presenti in un popolo.
Speriamo che lo storico futuro che emetterà il suo giudizio quando l’Europa sarà politicamente e economicamente libera e unita possa dire che in questi giorni l’onore di questo continente è stato salvato da coloro che con grandi sacrifici resistettero alle tentazioni dell’odio e dell’oppressione e che gli
europei difesero con successo quelle libertà che ci hanno permesso l’avanzamento del sapere, delle arti e della scienza. ?

Da ALBERT EINSTEIN, da uno scritto del 1933, in Pensieri degli anni difficili, Boringhieri 1950, pg 15.

TRE POESIE DI MARIA EUGENIA BRAVO CALDERARA

Immagini

Quando ci stavamo abituando
A vederci nello specchio
A scoprire chi eravamo e da dove venivamo
I militari fecero il loro colpo di stato.
Devastarono, arrestarono, uccisero
E la cosa peggiore
è che non solo ci portarono via lo specchio
Ma lo ruppero in mille pezzi.

Non c’è amore

Non c’è amore il cui nome
non sia scritto sulla sabbia.
Come bambini costruiamo
Piccoli altari sulla riva del mare
Per ciascun amore.
Sulla riva del mare,
Voci chiamano di notte.
Sono voci udite
Solo dagli innamorati.
Ma, di notte,
il mare lunare mette in funzione i suoi segreti,
perpetui meccanismi di onde e di acqua,
e le sue macchine misteriose
cancellano i segni, le impronte, le tracce
lasciate dagli amanti sulla spiaggia.
All’alba,
la spiaggia si sveglia per un nuovo giorno
è pulita e pura,
pronta per nuove geografie

Esili e sconfitte

No, non è andata così male a Chena,
con gli aspri interrogatori
davanti a improvvisati tribunali di guerra.
Non mi hanno sconfitto
Né il fucile che mi ha colpito sulla spalla,
né le minacce di esecuzione,
né le torture
né l’inferno dello stadio
né le grida di terrore tutt’intorno.
Non mi hanno sconfitto neppure
le sbarre alla finestra
che ci tagliavano a pezzi dalla vita.
Quel che mi ha sconfitto
Era la strada non mia,
La lingua presa a prestito in corsi raffazzonati,
Mi ha sconfitto la mia solitaria figura
Collocata in longitudini che non mi appartenevano
Greenwich, longitudine zero,
Quel che mi ha sconfitto è stata la pioggia straniera,
Le parole dimenticate,
Gli amici lontani,
l’attesa per lettere che non arrivavano.
Sono stata sconfitta poco a poco
Dall’ostico calendario,
e tra Lunes – Monday e Martes – Tuesday
mi sono trasformata in una straniera.
Ciò che mi ha sconfitta era l’assenza
Della tua dolcezza, mia cara patria.

La prima poesia è stata scritta a Santiago del Cile nel 1990. La seconda e la terza a Londra nel 1997.
L’autrice, docente universitaria a Santiago, è stata imprigionata nel 1973 a seguito del colpo di stato di Pinochet. Liberata, si è trasferita a Londra. Ha pubblicato poesie in riviste e antologie pubblicate in Cile e in Inghilterra. Ha scritto La primera ordenación del universo americano: mito, historia e identidad en el Canto General de Pablo Neruda, Santiago del Chile, 1991. In Italia Katabasis ha pubblicato Preghiera nello stadio nazionale, 1991.

APPARIZIONI

I

Zaro, Montefera, Manduria e Mammaledi. C’è un sottile legame che unisce questi posti sconosciuti: in ciascuno di essi è ufficialmente apparsa negli ultimi anni la Madonna.
La Madonna infatti, non dimentichiamolo, continua ad apparire, con crescente frequenza: le apparizioni furono solo 49 in tutto il mondo nell’800, 261 nei primi 90 anni del Novecento; sono duecento negli ultimi vent’anni solo in Italia: quasi uno al mese.
Questi sono solo i dati ufficiali. È però ovvio che le apparizioni sono ben più numerose. Prima di tutto, ci sono le apparizioni in paesi extracattolici. Che volete che facciano animisti o indù se vedono la Madonna? Non se ne rendono conto, o la confondono con uno dei tantissimi personaggi soprannaturali dei loro confusi olimpi politeisti.
Ma anche in Italia molti si astengono dal denunciare le visioni, per timore, per egoismo, o obbedendo alle richieste della stessa madonna che, apparendo, impone, per ragioni a noi sconosciute, il silenzio.
Infine, ci sono le apparizioni non percepite come tali: vicino ad una fermata del tram, davanti al frigorifero dei surgelati alla Esselunga, comprando il pane, la Madonna è lì, che appare, osserva, lancia segnali: ma la gente non se ne accorge e continua indifferente per la sua strada.
Quest’ultimo punto apre complessi e tuttora irrisolti problemi teologici: il destinatario è un uomo qualunque o un predestinato? Tutti possono vedere la Madonna, o solo chi ha particolari doti per nascita, o chi è stato eletto, o chi si è a lungo preparato (magari cominciando a vedere qualche santo minore, per poi passare ai santi più importanti)?
In definitiva, possiamo essere sicuri che le apparizioni registrate sono solo la punta dell’iceberg.
Per ogni apparizione ufficiale ci sono almeno cento apparizioni effettive, vale a dire apparizioni che non appaiono.
Questo porta il totale delle apparizioni negli ultimi vent’anni nella sola Italia da duecento a ventimila: cento al mese, più di tre al giorno.
Anche la qualità delle apparizioni sta cambiando. A differenza di un tempo, in cui la Madonna preferiva l’apparizione singola, oggi la maggior parte delle apparizioni sono seriali: avvengono a cadenze regolari, in modo da creare una specifica fidelizzazione.
Infatti, pochi ormai si qualificano come devoti di una Madonna qualsiasi: ci sono i devoti della Madonna dell’Eucarestia, o della Madonna della Rivelazione, e così via. L’effetto di fidelizzazione specifica è incrementato anche dalle nuove tecniche di messaggistica.
In ciascuna apparizione seriale, la Madonna parla, racconta, ammonisce, rivela con linguaggio, espressioni e contenuti di volta in volta destinate a particolari target di utenti e a particolari fasce di devoti. L’uso della posta elettronica e dei siti web per la diffusione dei messaggi contribuisce poi a creare un rapporto continuo tra una specifica apparizione e un determinato gruppo di devoti.

II

Se le apparizioni della Madonna sono ben più numerose di quelle ufficialmente registrate, altrettanto numerose sono le false apparizioni. Si tratta di eventi assai pericolosi, in quanto evidentemente di origine demoniaca: il Diavolo infatti ama travestirsi, e si traveste assai spesso proprio da Madonna per ingannare i fedeli.
Ma: come si fa a distinguere una apparizione genuina da una falsa? La risposta è semplice: non si può, anche perché il Diavolo è in gamba, e produce Madonne del tutto simili a quelle vere. Solo i demonologi esperti – e sono pochissimi dotati della professionalità necessaria (diffidate di coloro che si pretendono demonologi ed offrono le loro prestazioni senza esibire appropriate credenziali e garanzie!) – riescono, usando tecniche particolari, a smascherare le false Madonne. Così, coloro che vedono una falsa apparizione, e ne sono testimoni, possono, in piena buona fede, ritenere che sia una apparizione genuina.
Sono state dichiarate certamente false le apparizioni alla signora Silvana a Ostina di Reggello (Firenze) del febbraio del 1995; false anche le apparizioni a Pat Mundorf, a Phoenix, Arizona nel 1995, a Terrence Ross a Brooklyn nel 1996, e, sempre nel 1996, a sorella Natalie (portatrice di stimmate) in Ungheria. Falsa indiscutibilmente anche l’apparizione dell’agosto 2000 a Aslut (Egitto), dove la Madonna è stata vista sopra la Chiesa copta di San Marco.

III

Ed ecco alcuni dati sulle apparizioni cui ho accennato all’inizio. Non ancora dichiarate false, ma non per questo certamente vere.
Nel Santuario di San Lazzaro in Capua la Madonna è apparsa il 25 febbraio 2001 definendosi come la “Vergine della Rivelazione degli ultimi Tempi” e chiedendo la venerazione della propria immagine in cambio di grazie e conversioni. Destinatario dell’apparizione è stato Antonio, che vedeva regolarmente la Madonna di Fatima, senza farne parola ad alcuno. Poi, verso la fine del 2000, assume l’incarico di tenere aperto tutti i giorni il santuario di San Lazzaro. Dopo pochi mesi, il 25 febbraio 2001, sente improvvisamente una voce mentre era intento a preparare l’altare che gli dice: “non temere, sono la Vergine della rivelazione degli ultimi tempi”.
Si volta e vede sulla sinistra del tabernacolo una donna vestita di azzurro con un manto color crema che partendo dai capelli scende fino ai piedi. Aveva sulla testa una corona di dodici stelle ed era circondata da milioni di angioletti. Da allora, Antonio non vede più la Madonna di Fatima, vede solo la Vergine della rivelazione degli ultimi tempi.
A Montefera, vicino al Monte Grappa, la Madonna appare a Paola Albertini dal giugno 1986. Qui vuole essere chiamata “Regina degli Angeli
Custodi”. Dal 1986 le apparizioni sono continue, ma solo dal 1996 Paola le ha rese pubbliche, su invito della stessa Madonna. Da allora il 4 di ogni mese le apparizioni si verificano puntualmente di fronte a una crescente folla di fedeli.
A Manduria, in Puglia, un centro noto per il vino e per l’olio, la Madonna è apparsa per la prima volta alla diciottenne Debora il 20 maggio del 1992, presentandosi come “la Signora”.
Dopo una successione di apparizioni settimanali al sabato, la Signora ha scelto il 23 come giorno dell’apparizione mensile.
Il 24 Luglio 1990 la Madonna appare all’agricoltore Giuseppe Auricchia a Mammaledi (frazione di Avola), collocandosi su un pino del suo giardino.
Giuseppe, impaurito e tremante, cade in ginocchio,ma la voce della Madonna lo invita a rialzarsi. Giuseppe ascolta l’invito della Vergine ad annunciare al mondo la lieta novella. Da quel giorno a Mammaledi la Madonna ritorna sempre puntualmente alla stessa ora (ore 12.00) e nello stesso posto (in cima al pino) ogni ultima domenica del mese (quindi, nei mesi pari, l’apparizione avviene in contemporanea con quella di Ostina).
Il 9 ottobre 1994 la Madonna è apparsa nel bosco di Zaro. Lì le famiglie di Paolo e Luigi e di Immacolata e Marianna, dopo pranzo, andarono a
fare una passeggiata. Dopo aver camminato per qualche tempo, si trovarono di fronte a due rocce alle quali era una piccola radura. Parve loro un posto adatto per recitare un rosario. Ed ecco che la Madonna appare a Paolo e gli dice: “Questo è un luogo benedetto”. La stessa sera, durante un altro rosario in gruppo, la Madonna si rivolge a Luigi e gli dice: “Zaro sarà luogo di pellegrinaggio”. Il 14 ottobre, sempre a Zaro, anche Immacolata vede la Madonna preceduta da una forte luce. Il giorno dopo, nello stesso luogo, durante la abituale recita del rosario di gruppo, la Madonna si presenta a Paolo, Immacolata e Marianna.
Infine, unico caso registrato di apparizione urbana: dal 1971 la Madonna appare a Roma a Marisa Rossi e porta messaggi di Dio per tutta l’umanità. L’apparizione avviene in forma privata. Per svolgere adeguatamente la propria missione, Marisa si fa assistere da Mons.Claudio Gatti, che ha fondato il “Movimento Impegno e Testimonianza – Madre dell’Eucarestia”. Mons. Claudio Gatti ha anche accertato l’origine soprannaturale delle apparizioni a Marisa con proprio decreto del 14 settembre 2000.

SN

Si vedano Marco Tosatti, Le nuove apparizioni. Dove e come appare oggi la Madonna, Mondadori 2002. L’elenco delle apparizioni della Madonna sino al secolo XII è sulla rivista “Jesus” dell’aprile 1989. Per un costante aggiornamento sulle false apparizioni, consiglio due siti: http://www.theotokos.org.uk/pages/unapprov/ e http://mypage.bluewin.ch/cafarus/. Per ricevere i messaggi della Vergine della rivelazione degli ultimi tempi: www.verginedegliultimitempi.com.
Sulle apparizioni della Madonna si veda anche Reincantamento tecnologico in Testi Infedeli, estate 2002.

C’ERA UNA VOLTA LA GLOBALIZZAZIONE?

I

Nell’ambito del sistema capitalistico, ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e per spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di impegno economico.
Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro un bisogno essenziale per ottenere in questo modo maggiori guadagni, maggiore ricchezza e la soddisfazione dei propri bisogni. Con la massa degli oggetti prodotti cresce quindi la contrapposizione tra esseri umani e la loro estraneità: ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa sempre più ricco di bisogni e più povero come uomo, ha sempre più bisogno del denaro per impadronirsi del mondo ostile, e la potenza del suo denaro sta in proporzione inversa alla massa della produzione: la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce.

II

Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria, tutto ciò che è sacro viene profanato e l’uomo alla fine è costretto a prendere atto delle sue reali condizioni di vita e delle sue relazioni con i suoi simili. Le necessità di un mercato mondiale in costante espansione spingono in ogni parte del
globo manager e imprenditori dei paesi ricchi.
Dovunque si sistemano e stabiliscono relazioni commerciali. Lo sfruttamento del mercato mondiale ha omogeneizzato la produzione e il consumo in ciascun paese.
Tutte le nazioni devono adottare il modo di produzione imposto dai paesi ricchi, se non vogliono scomparire, e devono introdurre al loro interno
quel che viene definito civilizzazione, che altro non è che il modo di vivere dei paesi ricchi. In conclusione, i paesi ricchi stanno creando il mondo a loro immagine e somiglianza.
Da KARL MARX, il primo pezzo è tratto dai Manoscritti filosofico-politici, III, 1844 (si può consultare l’edizione curata da Norberto Bobbio nel 1949, il secondo brano dal Manifesto del Partito Comunista, traduzione italiana Einaudi 1957.

UN PROFETA IN TERRASANTA

La Terra Santa esercita una prepotente attrazione sugli eccentrici, i profeti, i monomaniaci e i riformatori; vi sono probabilmente più esaltati nei due chilometri e mezzo di Gerusalemme che in qualsiasi altra città. Uno mi impressionò assai. Viveva in una delle settanta cripte funerarie conosciute con nome di Tombe dei Giudici, alla periferia della città, dove comincia il deserto. Avevo letto un articolo su di lui su un giornale locale: diceva che era venerato dagli ebrei orientali del quartiere bokhariano, i quali ogni sabato si radunavano intorno al suo antro e credevano che fosse il Messia. Così, un pomeriggio del dicembre del 1927, mi diressi alle Tombe dei Giudici. Un ragazzino bokhari che mi faceva da guida mi additò la cripta in cui viveva il Messia e scappò. Scesi nel sotterraneo fino a una piccola umida cella infestata dall’odor di sporcizia: lì trovai il profeta. Era piccolo di statura, aveva capelli neri arruffati che gli ricadevano in riccioli sulle spalle, il viso esangue e occhi dolci. Era sotto i trent’anni e parlava con voce gradevole.
Mi disse che qualcuno lo credeva matto, ma molti avevano fede in lui; che aveva fatto il medico in Ucraina, e più tardi aveva vissuto da eremita nel deserto del Sinai e infine sul Monte Nebo, proprio dove morì Mosé. “Lì stavo davvero in pace. Solo i beduini mi disturbavano. Un giorno, dovetti ucciderne tre”. Mi raccontò con lo stesso tono convincente che all’età di quattro anni aveva previsto tutto ciò che si sarebbe poi verificato.
Mi disse che l’anno seguente ci sarebbe stato il Giudizio Universale e che Dio era donna dalla testa alla cintura e uomo dalla cintura in giù. Su ogni nove persone, sette sarebbero morte. “Ma lei”, spiegò, guardandomi fissamente “lei sarà tra i due che resteranno”. Fumando una sigaretta, mi disse che stava lavorando a un libro che avrebbe decifrato tutti i segreti dell’universo racchiusi nelle velate allusioni della Bibbia. Poi, improvvisamente, si mise a cantare uno di quei salmi della chiesa orientale ebraica che strappano il cuore con la loro straziante lamentosità. Quando ebbe finito, disse: “so che lei vuole delle prove che io sono il Messia. Eccone una. Pensi al terremoto dell’altr’anno: quattrocento vittime. Lo ho fatto io. Fu una cosa da nulla. Ho fatto così” e raccolse due pietre lanciandole l’una contro l’altra. “È convinto ora?”. Dissi di sì e promisi che sarei tornato. Non tornai più.
Nel gennaio del 1951, a quasi venticinque anni da quegli avvenimenti, ricevetti una lettera scritta su carta di lusso: era lui. Diceva di aver letto il mio ultimo libro, ricordava con piacere l’articolo da me pubblicato sulla Neue Freie Presse a seguito della visita alla sua tomba, e mi comunicava di aver concluso il libro sui misteri dell’Universo: avrei potuto riceverlo a prezzo di favore, versando cinque dollari con l’accluso modulo.
Mi invitò ad unirmi ai seguaci del culto da lui fondato, che si riunivano nella chiesa di St.Lenardo Valley, in California.

Da ARTHUR KOESTLER, Freccia nell’azzurro. Autobiografia 1905-1931.
Koestler nasce a Budapest nel 1905, ultimo erede di una famiglia sorta due generazioni prima, con il nonno Leopold X, fuggito dalla Russia durante la guerra di Crimea. Il nonno non rivelò mai il suo nome, e prese il nome di Koestler (solo “perché gli ungheresi non riuscivano a pronunciarlo”). Arthur Koestler studia a Vienna, partecipa al movimento sionista, si trasferisce in Palestina dove lavora come corrispondente per il Medio Oriente di una casa editrice tedesca. Nel 1929 ritorna in Europa, prima a Parigi, poi a Berlino. Aderisce al Partito comunista, visita l’Unione sovietica, partecipa alla guerra di Spagna, è condannato a morte dai franchisti (il libro Dialogo con la morte racconta l’esperienza spagnola). Nel 1938 lascia il Partito comunista. Allo scoppio della guerra riesce a riparare in Inghilterra, dove si arruola nell’esercito. Nel dopoguerra si impegna attivamente in campagne contro il comunismo sovietico – scrive anche il bestseller Buio a mezzogiorno sulle purghe staliniane – e per i diritti civili. Si uccide a Londra con la moglie nel 1983.
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POESIE DI WISLAWA SZYMBORSKA

Amore a prima vista

Sono entrambi convinti
Di essere stati uniti
da un improvviso colpo di fulmine.
E’ bella questa certezza
ma l’incertezza è più bella.

Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incontrarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano
una volta un fuggevole faccia a faccia
forse in una porta girevole?
uno “scusi” nella ressa?
un “ha sbagliato numero” nella cornetta?
– ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Sarebbero stupiti dall’apprendere
che già da molto tempo
il caso stava giocando con loro.

Non era ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro da caso in destino,
così li avvicinava, li allontanava,
e, facendoli incontrare,
soffocando un risolino
si scansava con un salto.
Vi furono segni, segnali,
indecifrabili, ma non importa.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
dalla spalla dell’uno su quella dell’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse come la palla
tra i cespugli dell’infanzia?

Ogni inizio
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.

Riso

La ragazzina che ero –
la conosco, ovviamente.
Ho qualche fotografia
della sua breve vita.
Provo un´allegra pietà
per un paio di poesiole.
rammento solo una storiella:
l´amore infantile
di quella bruttina.

Racconto
com´era innamorata di uno studente,
cioè voleva
che lui la guardasse.

Racconto
come gli corse incontro
con una benda sulla testa sana
perché almeno, ah, le chiedesse
cos´era successo.

Buffa piccina.
Come poteva sapere
che anche la disperazione dà benefici
se si ha la fortuna
di vivere più a lungo.

Le pagherei un dolcetto.
Le pagherei il cinema.
Vattene, non ho tempo.

Eppure vedi
che la luce è spenta.
Certo capisci
che la porta è chiusa.
Non scuotere la maniglia
quello che ha riso,
quello che mi ha abbracciato,
non è il tuo studente.

Faresti meglio a tornare
da dove sei venuta.
Non ti devo nulla,
donna qualunque,
che sa solo
quando
tradire un segreto altrui.

Non guardarci così
con quei tuoi occhi
troppo aperti,
come gli occhi dei morti.

Vietnam

Donna, come ti chiami?
Non so.
Quanti anni hai? Da dove vieni?
Non so.
Perché hai scavato questo rifugio?
Non so.
Per quanto tempo sei rimasta nascosta?
Non so.
Perché mi hai dato un morso?
Non so.
Non sai che noi non ti vogliamo fare male?
Non so.
Da che parte stai?
Non so.
Siamo in guerra, devi scegliere?
Non so.
Quelli sono i tuoi figli?
Sì.

Niente accade due volte

Niente può accadere due volte.
La triste conseguenza è che
Arriviamo qui senza nessuna preparazione
E ce ne andiamo
senza possibilità di fare esperienza.

Anche se nessuno è stupido,
e perfino quelli più intelligenti
non possono ripetere la classe:
le lezioni si possono seguire una volta soltanto.

Nessun giorno sarà uguale a quello di ieri
Non ci sono due notti che insegnano la felicità
Proprio allo stesso modo
E con gli stessi baci.

La prima poesia è in La fine e l’inizio, 1998, la seconda in Taccuino d’amore 2002, entrambi pubblicate da Scheiwiller. Le ultime due sono tradotte dall’inglese e pubblicate in Poems new and collected, 1957 – 1997, traduzione di Stanislav. Baranczak and Clare Cavanagh, Harvest Book, New York, London, 1998. Un’altra raccolta di poesie in inglese è Miracle Fair, Selected Poems of Wislawa Szymborska, W.W. Norton & Company, New York 2001. Con la traduzione di Joanna Trzeciak e la prefazione di Czeslaw Milosz. Wislawa Szymborska è nata a Kórnik, in Polonia nel 1923. Nel 1993 riceve in Germania il premio Goethe, nel 1995 in Austria il premio Herder, nel 1996 del Nobel per la letteratura “per aver saputo rappresentare vivamente la realtà polacca in tutta la sua complessità”. Ha pubblicato raccolte di poesie e di recensioni, traduzioni dal francese e un libro che raccoglie le risposte e i consigli agli aspiranti scrittori che inviano i loro manoscritti: Posta letteraria ossia come diventare (o non diventare) scrittore, edito in Italia da Scheiwiller. Altre poesie sono state pubblicate nei Testi Infedeli, Inverno 1998.

UNA VITA PER UN LIBRO

Ore 10.30, 30 marzo del 1551, lunedì dopo la Pasqua. Tutto è predisposto alla perfezione. La chiesa di San Domenico a Ferrara, sede del
Tribunale dell’Inquisizione, è allestita con ogni cura e in pompa magna; sono presenti il duca di Ferrara, il futuro Commissario generale dell’Inquisizione romana (poi papa Pio V) Michele Ghislieri di Bosco Marengo vicino a Alessandria, in rappresentanza del pontefice; un gruppo di cardinali che forma una ondeggiante macchia rosso sangue, scrutata dalla folla, arrivata da ogni parte dell’Italia centrale, con terrore e reverenza; poi i maggiori dirigenti dell’ordine dei benedettini giunti appositamente da Cassino.
L’Inquisitore del Tribunale inquisitoriale di Ferrara si alza e legge la lunga lista dei capi d’accusa.
L’eretico, tratto in arresto nel settembre dell’anno precedente, è sul palco: porta visibili i segni delle torture subite, è vestito con un saio bianco, ed è pronto – secondo i meticolosi accordi intervenuti in precedenza a prendere la parola per abiurare solennemente, dichiararsi pentito dei suoi gravissimi errori ed implorare umilmente il perdono di Santa Madre Chiesa. Secondo gli accordi, avrebbe ricevuto una condanna a soli tre anni di carcere, salvandosi dal rogo.
L’Inquisitore finisce e si siede, soddisfatto della sua arringa: uno dei casi più difficili di eresia sta per chiudersi con un successo della Chiesa.
Molto teso resta invece il volto del Commissario generale Michele Ghislieri. Dopo un lungo silenzio l’eretico prende la parola: dichiara con voce ferma di non aver intenzione di abiurare o di pentirsi. Poi, nello sgomento degli astanti, scende lentamente dal palco e, sorreggendosi alle guardie, fa ritorno nella sua cella. L’affronto è imperdonabile, l’eretico ne è ben conscio: poche settimane dopo, il 23 maggio, alle tre di notte, viene strangolato in carcere e il corpo viene gettato nel Po. Questa inusuale scelta di segretezza – invece dell’abituale rogo nella pubblica piazza – intendeva evitare una nuova protesta popolare, dopo quella verificatasi, pochi mesi prima, per l’esecuzione dell’eretico faentino Fanino Fanini, prima impiccato, poi bruciato pubblicamente per aver rifiutato ogni abiura. L’eretico protagonista di questa vicenda era all’epoca un personaggio assai noto, non solo in Italia, anche se oggi completamente dimenticato. Il suo nome era Giorgio Riolo, più noto come Giorgio Siculo (era nato vicino a Catania). Era un monaco benedettino della congregazione cassinese, amato e considerato come un profeta dai suoi
seguaci che si definivano georgiani: tra i più importanti Luciano degli Ottoni, abate di Pomposa, processato per eresia nel 1552, e morto in circostanze non chiarite prima della fine del processo, sicuramente destinato a concludersi con la sua condanna al rogo; il medico Francesco Severi, decapitato e poi bruciato – prima la testa e poi il busto – sempre a Ferrara nel 1570; poi, molti altri, tutti vittime dell’Inquisizione, torturati, bruciati o condannati a lunghe pene detentive.
Era invece considerato da molti altri un empio criminale dedito ad organizzare segretamente gli adoratori del Demonio per l’attacco finale alla chiesa di Dio. Giorgio Siculo era riuscito nella singolare impresa di essere odiato e ricercato da tutte le chiese in attività, la chiesa cattolica e le altre chiese protestanti che in quell’epoca si stavano sanguinosamente spartendo l’enorme torta della religiosità europea.
Era odiato perché nei suoi scritti attaccava indifferentemente ogni potere religioso costituito. Ma anche perché era divenuto il raffinato e pericolosissimo teorico della simulazione e del diritto per ciascun libero pensatore di difendersi fingendo di aderire al potere religioso del luogo: Giorgio Siculo ricordava a tutti i suoi seguaci e a tutti i liberi pensatori che si può vivere sottraendosi alle persecuzioni della Chiesa di Roma, delle Chiese protestanti e di ogni altro potere religioso mentendo, perché Dio è misericordioso e sa che può essere necessario simulare aspettando la sua venuta.
Giorgio Siculo raccontava che Gesù gli era apparso molte volte di persona e lo aveva incaricato di dedicare la sua vita a diffondere una semplicissima verità: l’unica cosa che garantiva la salvezza eterna era la fede in Dio, l’uso della ragione, il rispetto della dignità della natura umana. Tutto il resto, messe, indulgenze e sacramenti, erano fandonie. Il culto della madonna e la venerazione dei santi erano rigurgiti di politeismo. Andava respinta l’autorità papale, andavano attaccate e distrutte tutte le gerarchie ecclesiastiche.
Eppure, a differenza di Fanini e di molti altri eretici affascinati dalle nuove idee protestanti, Giorgio Siculo non diventerà un martire per nessuno
e nessuno protesterà per il suo assassinio: bollato come martire del diavolo, scompare dalla storia e viene dimenticato insieme ai suoi fedeli e
alle sue opere, metodicamente ricercate e bruciate dall’Inquisizione.
Nessuna copia è stata a tutt’oggi rinvenuta della sua opera più importante, quella dove Giorgio Siculo aveva immesso, poco prima di essere incarcerato, la rielaborazione finale del suo pensiero e tutti i messaggi ricevuti da Gesù. Aveva come titolo “Delle verità christiana et dottrina appostolica rivellata dal nostro signor Giesu Christo al servo suo Georgico Siculo della terra di santo Pietro”, ma era noto a tutti i suoi seguaci come Libro grande. L’operazione di rastrellamento delle copie dovette essere così capillare, la macchina della confisca così meticolosa e efficiente che nessun esemplare del Libro Grande sembra essere sopravvissuto. Ma perché Giorgio Siculo, violando i suoi stessi insegnamenti, cambia idea poche ore prima del programmato pentimento e per la prima volta abbandona ogni finzione?
È una domanda che molti si sono posti e che mai avrebbe potuto ricevere risposta se un giovane biografo polacco di Pio V non fosse stato autorizzato a consultare il suo lascito. Così, sfogliando un piccolo libro di preghiere appartenuto al Papa e riposto in un faldone, si trovò tra le mani un foglio piegato in quattro e fittamente manoscritto.
La grafia era indubbiamente quella del Papa. Ecco, in base a quanto il foglio riferisce, ciò che è accaduto il 29 marzo 1551, giorno di Pasqua.
È la notte prima della cerimonia di abiura. Un uomo incappucciato, accompagnato da un soldato di guardia, entra nella cella di Giorgio Siculo
che, ancora sveglio, a lume di candela sta rileggendo il testo della sua abiura.
– Monaco, come potremo noi essere sicuri che anche la tua abiura non sia una simulazione?
– La mia abiura viene dal profondo del mio cuore, risponde Giorgio Siculo, ma non posso offrire altre garanzie che la mia parola.
– La parola di un eretico simulatore professionale non vale nulla. Ma non sono qui per questo. Guarda: sai che cosa è questo?
– Certo, risponde Giorgio Siculo, è una copia a stampa del mio libro, il Libro Grande. Vedo che ne rimangono ancora delle copie.
– Non è esatto. Rimane questa sola copia. Tutte le altre, quelle a stampa e quelle manoscritte, sono state trovate e distrutte. Solo una manca, probabilmente portata in terre straniere da uno dei tuoi seguaci. Ma troveremo presto anche quella.
– Non posso certo oppormi a chi ha scelto non la discussione e il confronto, ma la prevaricazione e la forza. Purtroppo, non solo libri ardono in questa nostra triste epoca. Ma, qual è la ragione di questa visita da me non richiesta?
– Eccola. Ti offro la vita del tuo libro in cambio della tua. Se domani non ci sarà l’abiura, ti garantisco di conservare questo libro, quest’ultima
copia, in un posto sicuro: potrà essere trovato e letto un giorno, quando l’eresia sarà stata definitivamente debellata ed ogni eretico eliminato.
Se invece abiurerai, quest’ultima copia del Libro Grande sarà bruciata, e certamente tu non potrai scrivere ancora senza essere immediatamente giustiziato. Con la tua morte, scomparirà tutto ciò che hai voluto comunicare al mondo.
Giorgio Siculo rimase in silenzio ad osservare il misterioso uomo incappucciato.
– Se non abiuro, che sarà di me?
– Non sarai bruciato. Dopo il rifiuto di abiurare, sarai ricondotto nella tua cella e sarai giustiziato senza farti soffrire, anche se non lo meriti: meriteresti solo il rogo.
– Come posso fidarmi di te ed essere certo che conserverai il libro?
– Hai la mia parola. Lo giuro sulla santa Croce. Il libro sarà conservato nelle carte del tuo processo, che saranno sottoposte a totale segreto e a divieto di consultazione. Sarà possibile consultarle solo quando l’eresia sarà scomparsa e tutti gli eretici sterminati: fra molto tempo, il tuo Libro, il Libro Grande, potrà essere letto
– Avrai la mia risposta domattina, disse il monaco dopo un lungo silenzio, ora lasciami solo.
Michele Ghislieri, l’incappucciato, si girò senza rispondere e lasciò la cella. Giorgio Riolo scelse di far vivere il suo libro, rinunciando alla propria vita. Pio V naturalmente non mantenne la parola data e diede alle fiamme la copia del libro in suo possesso (chiedendo perdono a Dio per il giuramento mendace, ma a fin di bene). Così scomparve la copia del Libro Grande per la quale Giorgio Riolo ha sacrificato la sua vita.
Nessuno ha mai trovato la copia che venne portata all’estero – probabilmente in Spagna.

SN

Su Giorgio Siculo si veda Adriano Prosperi, Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Feltrinelli 2001. Si veda anche Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Sansoni Firenze 1939, riedito da Einaudi nel 1992 a cura di Prosperi Su Michele Ghislieri (1504-1572) si vedano www.cronologia.it/biogra2/piov.htm e Autori Vari, Pio V nella società e nella politica del suo tempo, Il Mulino 2005.
Fu prima Commissario generale dell’Inquisizione romana, poi Papa Pio V. Fanatico cacciatore di eretici e presunti tali, si autodefiniva “dedito alla fede fino all’olocausto“; ha fondato la Congregazione dell’Indice, ha vietato il carnevale, ha espulso gli ebrei dallo stato pontificio (salvo Roma e Ancona) distruggendo tutti i loro beni. Fu dichiarato santo nel 1712.

PARADISI PERDUTI

Catanzaro è stato un vero e proprio paradiso per chi voleva diventare avvocato. Nelle sedi del Nord Italia, gli esami erano severi: generalmente erano ammessi all’orale dopo le tre prove scritte il 25% dei candidati. A Catanzaro, quasi tutti.
Si era così sviluppato un rigoglioso turismo concorsuale, che portava giovamento all’economia cittadina e prosperità agli abitanti.
C’erano studi legali che, per modici compensi, accettavano frotte di giovanotti provenienti da ogni luogo d’Italia desiderosi di fare lì il praticantato di due anni (senza farsi mai vedere se non, ovviamente, nei giorni degli esami). Si potevano agevolmente ottenere fasulle residenze (requisito necessario per partecipare all’esame). I cancellieri firmavano le presenze (obbligatorie) senza troppi controlli.
Gli alberghi e villaggi sulla costa offrivano la formula «tutto compreso» (vitto, alloggio e pulmino per andare e tornare dalle sedi d’esame). I nightclub organizzavano «Lawyers Party».. Tutto era basato sulla garanzia di un tasso di promozioni stupefacente: un anno si arrivò all’esatto opposto di Milano: 94% di candidati bocciati a Milano, 94% di candidati promossi a Catanzaro. Poi, nell’estate del 2000, emerse che all’esame del dicembre 1997 su 2.301 partecipanti ben 2.295 (tutti meno 6) avevano scritto, parola per parola, gli stessi temi. Il locale ordine degli avvocati, davanti allo scandalo, si limitò ad accusare di diffamazione e di scandalismo i giornali del Nord.
Il Corriere della sera pubblicò le confidenze di una candidata: «Come vuole che sia andata? Entra un commissario e dice: “Scrivete”. E comincia a dettare, lentamente». Paura? Macché: «Non ci possono fare niente. Siamo troppi».
Aveva ragione. Il procedimento penale, dopo alcuni anni, si è concluso con la prescrizione per tutti.
Tutti gli imputati sono ormai da tempo avvocati, dispersi nelle città dalle quali erano confluiti a Catanzaro. Uno di loro potrà anche diventare il
vostro avvocato. La notizia delle modalità con le quali si superavano gli esami di avvocato a Catanzaro non sollecitò nessuno ad adottare rimedi; incrementò ulteriormente l’afflusso di candidati.
Agli scritti del dicembre 2003 furono 3.261 (mille in più rispetto a prima dello scandalo) e gli ammessi all’orale 2.768, poco meno del 90%. Tanti
quanti in Veneto, Piemonte, Val d’Aosta, Umbria, Liguria, Toscana e Marche messi insieme.
Poi, il sistema è improvvisamente cambiato. C’è stata una modifica legislativa. Adesso la Commissione che corregge i compiti non è più quella della sede dove si svolgono gli esami, ma viene sorteggiata. Per i candidati di Catanzaro, la correzione quest’anno è stata affidata alla
Commissione di Firenze. Gli ammessi sono stati 609, il 30% dei candidati. È bastata una riga del legislatore, ed ecco un Paradiso perduto, e un fiorente commercio ridotto in polvere.

Da GIAN ANTONIO STELLA, Catanzaro è un paradiso perduto, in Corriere della Sera, 21 settembre 2005.

UNA POESIA DI HENRY MICHAUX

La mia vita
Tu te ne vai senza di me, vita mia.
Tu scorri.
E io aspetto ancora di fare il primo passo.
Tu porti altrove la battaglia.
Mi lasci qui
Io non ti ho mai seguita.
Non ho capito ciò che mi offrivi.
Il poco che voglio, non me lo porti mai.
Proprio per questo, desidero così tanto.
Così tante cose, che non si possono contare.
Solo per quel poco che mi manca,
che tu non mi porti.

HENRY MICHAUX (Namur 1899 – Parigi 1984).
Dopo essersi imbarcato come marinaio per visitare le Americhe, si stabilì a Parigi nel 1928. Entrò in contatto con il gruppo surrealista, diresse la rivista «Hermès» interessata ai rapporti tra mistica e poesia. Nel 1929 riprese a viaggiare. Dopo il 1945 si avvicinò all’esistenzialismo e si dedicò alla pittura. Dal 1955 si dedicò alla sperimentazione degli allucinogeni. Morì a Parigi nel 1984. Tra le sue opere più importanti: Un certain Plume, 1930 e Plume, 1937. Molti i libri collegati ai suoi viaggi: Ecuador (1929), Un barbare en Asie (1933), Ici Poddéma, 1946. Tra le ultime opere: L’infini turbulent, 1957 e Les grandes épreuves de l’esprit et les innombrables petites, 1966. Interessante, di Sergio Crapiz, Henry Michaux: le poetiche dello spazio interiore, Libri Atheneum, Firenze 1990.

Questo ventinovesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel novembre del 2005 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano.
Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.nespor.com (ove sono raccolti anche altri miei scritti e una scelta dei miei disegni). Il sito è curato e aggiornato da Stefano Rossi. L’inserimento dei Testi infedeli nel sito è stato curato in passato anche da Beniamino Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Salvatore Giannella, Marina Nespor, Pasquale Pasquino.

N. 31 inverno 2006

LA COPERTINA
Franz Kafka. Dipinto con colori a olio solubili in acqua winsor & newton, matita e acrilico, su tela

QUESTO NUMERO TRENTUNO
In questo trentunesimo fascicolo dei Testi infedeli troverete un pezzo su verità e politica di Hanna Arendt (di cui ricorre il centenario della nascita), insieme a un motto di Clemenceau e a un frammento di Agatone.
Sullo stesso tema, alcuni brani dal Galilei di Brecht (di cui ricorre il cinquantenario della morte).
Poi, alcuni pensieri da testi meno noti di Franz Kafka.
C’e un brano di George Orwell che ricorda il suo breve periodo come commesso di libreria.
Ci sono poesie di Frantisek Halas (anch’egli per qualche tempo, come Orwell, commesso di libreria, e come Orwell in Spagna durante la guerra civile), di Gioconda Belli, di Giorgio Mannacio e di Giovanni Giudici.
C’è, infine, un resoconto sull’iniziativa 25 euro per Luweero.
Il consueto tema dell’eresia è naturalmente presente con Galileo, con Halas (eretico comunista) e con la poesia di Giudici.

LA NOTTE È CHIARA
Sagredo: Galileo, ti vedo camminare su una terribile strada. È una notte di sventura quella in cui l’uomo vede la verità: è un’ora di accecamento quella in cui crede l’essere umano capace di ragionare. Pensi che i potenti lascerebbero mai andare libero uno che conosce la verità, sia pure in merito a stelle infinitamente lontane? Pensi che il Papa ascolterà la tua verità, e scriverà tranquillamente sul suo diario “Oggi, 10 gennaio 1610, abolito il Cielo?”

*

Cardinale: Mi è stato riferito che questo Galileo vuole togliere l’uomo dal centro dell’universo per relegarlo in un punto imprecisato ai suoi margini. È evidente che Galileo è un nemico del genere umano e va trattato di conseguenza: l’uomo è la gemma del creato la suprema e prediletta creatura di Dio.
È concepibile che Dio abbia affidato la sua più sublima fatica a un piccolo grumo di terra fuori mano? E che per di più abbia inviato lì il suo figlio adorato, per farlo uccidere? Possono esistere cervelli così pervertiti che possono creder questo?
(Poi, in preda all’ira e rivolgendosi a Galileo come se fosse presente) Galileo, avete voluto degradare la terra di cui vivete e che vi dà tutto. Avete sputato sul piatto che vi nutre. Ma sappiatelo: io non sono una nullità collocata su una stella qualunque, che si muove di qua e di là. Io cammino con passo sicuro sulla Terra che sta ferma ed è al centro di tutte le cose, e io sto al centro e l’occhio di Dio è sopra di me. Intorno a me, fissate a otto volte di cristallo, girano le stelle fisse e il sole, creato apposta per diffondere la sua luce su tutto ciò che mi circonda e su di me, in modo che Dio possa vedermi.

*

La figlia Virginia: Com’è la notte, padre?
Galileo: La notte è chiara.

I tre brani sono tratti da BERTOLT BRECHT (1898 – 1956), Leben des Galilei, Aufbau 1958. Su “La vita di Galileo” di Brecht si può vedere su La Stampa del 13.10.95 l’intervista a Giorgio Strehler “Strehler-Brecht: la passione ci chiama” in occasione della lettura che il regista dedicò a Brecht al Piccolo Teatro di Milano. Una poesia di Brecht è su Testi Infedeli, estate 2001.

TRE POESIE DI GIOCONDA BELLI

Castelli di sabbia

Perché non mi hai detto che stavi costruendo
Questo castello di sabbia?
Sarebbe stato così bello
Poter entrare per quella piccola porta
Correre per i suoi corridoi dal sapore di sale
Aspettarti in stanze tappezzate di conchiglie
Parlarti dal balcone
Con la bocca piena di schiuma trasparente
Con parole leggere
Che non pesano più
Dell’aria che passa tra i miei denti.

Sarebbe stato così bello il mare
Visto dal nostro castello di sabbia
E rivivere, mentre il tempo è lambito
dall’onda tenera e profonda dell’acqua
le storie che ci raccontavano
quando, bambini, eravamo tutt’uno con la natura
intorno a noi.
Adesso l’acqua si è portata via il tuo castello di sabbia
Con l’alta marea
Si è portata via le torri,
i fossati, la porticina dove avremmo potuto passare
con la bassa marea
quando la realtà era ancora lontana
e c’erano castelli di sabbia
che ci aspettavano sulla spiaggia.

Frantuma la luna

Frantuma la luna tra le tue mani
Falla a pezzi
E cospargiti della sua polvere
Fine e scura.
Proteggiamoci dai simboli
E dai sogni
Respingiamo le insidie della vita con un duro schermo di realtà. Accettiamo
il giorno e la notte
attraversando il tempo
con spalle rette e occhi ben aperti.

Lucciole

Alle cinque della sera
Quando il chiarore si attenua
E il giardino si immerge nell’ultima dorata luce del giorno
Sento il gruppetto di bambini
Che va a caccia di lucciole.
Correndo sul prato
Si disperdono tra gli alberi
Gridano la loro eccitazione
Poi in gruppo corrono vicino alla bimba più piccola
Che esibisce la luminosa concavità delle mani giunte
Tremando.
Ti ricordi dell’ultima volta nella quale abbiamo creduto
Di poter illuminare la notte?
Il tempo ci ha svuotati di ogni brillio.
Ma l’oscurità
Continua ad essere popolata di lucciole.

GIOCONDA BELLI è nata in Nicaragua nel 1948. È vissuta in esilio in Messico, è ritornata in patria nel 1978 dopo la vittoria dei Sandinisti collaborando con il governo rivoluzionario. Poi, si è trasferita negli Stati Uniti. Ha scritto romanzi e poesie. Línea de Fuego ha vinto il premio Casa de las Américas nel 1978. Nel 2001 El País Bajo mi Piel, Memorias de amor y de Guerra e, da ultimo, nel 2005 una biografia di Giovanna la Pazza, El pergamino de la seduciòn 2005. Le sue poesie sono raccolte in El Ojo de la mujer poesia 1970 – 1990. Gioconda Belli è stata intervistata da Anna Maria Torriglia: si veda “Faguas di passioni” in l’Unità del 26 giugno 1995. I libri in italiano (L’occhio della donna, La fabbrica delle farfalle; Waslala; Sofia dei presagi; La donna abitata sono tutti editi da E/O.) Si veda anche il sito www.giocondabelli.com.

VERITÀ E POLITICA

I

Un esponente della Repubblica di Weimar chiese a Clemenceau negli anni venti del secolo scorso che cosa, secondo lui, avrebbero detto gli storici del futuro sulla questione della responsabilità dello scoppio della prima guerra mondiale. “Non lo so”, rispose Clemenceau, “ma certamente nessuno dirà che è stato il Belgio a invadere la Germania”.

II

Nessuno ha mai dubitato che verità e politica siano termini conflittuali e nessuno, d’altro canto, ha mai inserito la sincerità tra le virtù del politico.
Al contrario, le bugie sono sempre state considerate come strumenti necessari o comunque giustificabili non solo del politico ma anche dello statista più rispettabile.
Qual è la ragione di ciò? C’è un detto latino, Fiat justitia et pereat mundus (coniato però solo nel sedicesimo secolo, probabilmente dall’imperatore Ferdinando I) che, se adattato alla verità, esprime sinteticamente questa situazione di conflitto: la ricerca della verità ad ogni costo può far crollare l’organizzazione sociale.
Solo Kant ha apertamente manifestato il proprio dissenso, osservando che “gli uomini non vorrebbero mai vivere in un mondo privo di giustizia e di verità; quindi questo valore deve essere considerato sacro, a prescindere dai sacrifici richiesti al potere politico e dalle conseguenze sulla vita associata”.
Ma è davvero ragionevole questa anteposizione ad ogni costo della verità alla salvezza dell’organizzazione sociale? Non avevano invece ragione i filosofi del Settecento allorché affermavano, per usare le parole di Spinoza, che “non c’è legge più alta che quella che impone la sicurezza e la salvezza della collettività”? Non è quindi più ragionevole sacrificare la verità, se il prezzo è la salvezza della comunità?
Del resto, osservava Hobbes che in molte occasioni la menzogna è spesso utilizzata per raggiungere i fini voluti, al posto di mezzi più rudi o violenti, sicché le menzogne possono essere ritenute strumenti sostanzialmente innocui nel vasto armamentario dell’azione politica. È però vero anche il contrario: la storia recente – è il caso dell’aggressione all’Iraq da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia – dimostra che le menzogne sono assai spesso usate non per evitare, ma per favorire l’uso di mezzi violenti. In questo caso, esse possono costituire strumenti letali dell’azione politica.
D’altro canto, se sembra inconcepibile la vita in un mondo privo di giustizia o, magari, di libertà, addirittura incomprensibile sembra la vita in un mondo privo di verità, dove sia impedito all’uomo, come dice Erodoto, to legein ta eonta, raccontare ciò che esiste.
Eppure, nel corso della storia, coloro che hanno detto la verità si sono trovati spesso a malpartito quando hanno tentato di convincere i propri concittadini ad abbandonare menzogna ed illusione.
Già Platone osservava (nella sua allegoria della caverna) che chi insiste nel dire la verità a coloro che vivono nell’inganno corre il rischio di essere ammazzato.
A questo rischio è sottratto, secondo Hobbes, solo chi enunci verità indifferenti rispetto al potere, al profitto o al piacere, quali le verità matematiche o fisiche; eppure lo stesso Hobbes riconosce che anche queste sarebbero soppresse o contestate non appena costituissero un pericolo per il potere o per gli interessi economici della collettività: l’esempio di Galileo è nella mente di tutti.
Certamente però per il potere la verità dei fatti è più facile da falsificare o nascondere che la verità delle idee: l’esempio della scomparsa di Trotsky da tutti i libri e le foto sulla rivoluzione russa esistenti nell’Unione sovietica o la damnatio memoriae inflitta dai faraoni egiziani ai loro predecessori sgraditi sono un ottimo esempio. I fatti sono più fragili che gli assiomi, le scoperte e le teorie; e, una volta cancellati o perduti, è spesso assai arduo farli riemergere o ricostruirli con esattezza. Al contrario, sembra probabile che le teorie di Euclide, di Galileo o di Einstein, quand’anche vietate o soppresse per lungo tempo, sarebbero prima o poi tornate alla luce e “riscoperte”.
Tuttavia, anche se le verità politicamente più rilevanti sono quelle che concernono i fatti, il conflitto tra verità e politica si è inizialmente manifestato con riguardo alle teorie, alle verità razionali.
In proposito, è interessante notare che nel plurisecolare dibattito in merito al conflitto tra verità e politica, da Platone a Hobbes, a nessuno è venuto in mente che la menzogna politicamente organizzata potesse costituire un’arma terribile contro la verità. Il pericolo, come insegna ancora Platone nel mito della caverna, era rappresentato dall’ignoranza, non dalla menzogna.
In effetti, nessuna delle maggiori religioni dell’epoca – salvo lo Zoroastrismo – includeva il mentire tra i peccati capitali.
Solo con il Puritanesimo e con il contemporaneo affermasi del metodo scientifico che presupponeva la verità dei fatti e la sincerità dello scienziato la menzogna comincia ad essere considerata un’offesa grave. Prima di questa data, l’opposto della verità non era la menzogna, ma l’opinione, parificata secondo Platone all’illusione e all’ignoranza.
“Tutti i governi sono basati sull’opinione” e non sulla verità, affermava James Madison: nessuno, neppure un tiranno, potrebbe mantenere il potere senza sostegno di gente che ne condivide le opinioni.
Nel contempo, chiunque affermi di proclamare delle verità assolute che in quanto tali non necessitano di essere sostenute da opinioni favorevoli, costituisce un pericolo per ciascun governo.
Tracce di questo conflitto sopravvivono ancora nell’era moderna. Molti ritengono che l’affermazione di Lessing “ciascuno dica ciò che gli sembra vero, e lasciamo la verità nelle mani di Dio” significhi che l’uomo non può conoscere la verità: quelle che considera verità sono solo opinioni.
Lessing intendeva dire, al contrario, che gli uomini sono fortunati perché non possono conoscere la verità: l’inesauribile ricchezza delle opinioni diffuse tra gli uomini è quindi meglio che la conoscenza della verità. Ecco che quindi che la fragilità della ragione umana, incapace di conoscere la verità, in sostanza l’opinione, acquisisce gradualmente una connotazione positiva.
Si giunge così alla critica della ragion pura kantiana, ove la ragione si rende conto della sua limitatezza e all’idea di Madison secondo cui “la ragione umana è timida quando è sola ma diviene forte e coraggiosa se le idee sono condivise da molti”.
Sono queste le considerazioni, molto più che la difesa dei diritti umani, che conducono nell’epoca successiva alla vittoria nella battaglia per ottenere la libertà di espressione. È per questo che Spinoza, ancora sicuro che l’uomo possa arrivare a conoscere la verità, non difende mai il valore di questa libertà, ritenendo anzi una debolezza della mente umana quella di aver bisogno di comunicare con altri e di essere incapace di mantenere il silenzio e il segreto sulle proprie idee.
Per converso, Kant ritiene che “il potere che priva l’uomo della libertà di comunicare pubblicamente i suoi pensieri priva l’uomo anche della sua libertà di pensare”.
Nel mondo contemporaneo, le tracce di questo conflitto tra verità razionale e politica, tra verità e opinione, sono ormai da tempo scomparse. Né la verità delle religioni rivelate, né quella dei filosofi riesce ormai ad esplicare influenza decisiva sugli affari umani.
Al contrario, si è sviluppato il conflitto tra la verità dei fatti e la politica. Anche nei paesi più liberi, i fatti sgraditi non sono cancellati, ma sono deformati e trasformati in opinioni.
Si riapre così l’antico conflitto tra verità e opinioni, concentrato però non più sulle idee, ma sui fatti.

III

Una sola cosa neppure a Dio può essere concessa: cancellare il passato.

Il primo brano è tratto da MADELEINE MICHEL CLEMENCEAU, Georges Clemenceau – Sa Vie Racontee A La Jeunesse De France, L’inconnu, Parigi 1972. Il terzo brano è quasi tutto ciò che resta degli scritti di AGATONE, nato a Leonzio nel 447 a.C. vissuto ad Atene dove morì nel 400 a.C. Autore di liriche e tragedie, amico di Socrate e Platone, citato da Dante (nel XXII canto del Purgatorio). Il secondo è una sintesi della prima parte della lunga dissertazione di HANNA ARENDT, Reflections. Truth and Politics, pubblicata sul New Yorker del 25 febbraio 1967. Hannah Arendt è nata cento anni fa, nel 1906, a Konigsberg.
Studia a Berlino, Marburgo, Friburgo e Heidelberg negli anni venti con Heidegger, Husserl e Jaspers. Frequenta Benjamin e Broch.
Abbandona la Germania nel 1933 (sfuggendo alla Gestapo) e si rifugia prima in Francia, poi, nel 1941, negli Stati Uniti. Nel 1951 pubblica la sua opera più nota, Le origini del totalitarismo. Nel 1961 segue a Gerusalemme il processo contro Adolf Eichmann, inviando al New Yorker corrispondenze, poi rielaborate nel volume La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme (1963). Scrive per la Partisan Review e per la New York Review of Books, schierandosi contro la guerra del Vietnam e le tendenze imperialistiche degli Stati Uniti. Muore a New York nel 1975. L’archivio di Hanna Arendt, che comprende anche, in copia, i documenti custoditi negli Stati Uniti presso la Library of Congress, è presso l’ Hannah Arendt-Zentrum dell’Università Carl von Ossietzky di Oldenburg (consultabile all’URL www.uni-oldenburg.de /arendt-zentrum/1078.html). È stata recentemente tradotta in italiano e pubblicata da Bollati Boringhieri una accurata biografia della Arendt, scritta da una sua allieva, Elisabeth Young-Bruhl.

POESIE DI GIORGIO MANNACIO
Figure fuori campo

A volte i pazzi scorgono
nell’angolo della stanza o dove
un corridoio finisce
luoghi chiusi, stremati –
ombre che si dileguano o qualcosa di simile.
Non c’è neppure il tempo per richiamarle
Anche se conosciute
Tanto veloce è il moto che le torce e le incalza
(e poi fuga, abbandono
Disperazione, sangue e morte infine
Sono da pronunciare a cuor leggero?)
Per questo forse nel medesimo istante
Dolcissimo e feroce il loro sguardo brilla.
Patire sorridendo tutto quanto è invincibile
Può essere segno di grande saggezza
O invece
Fingere anima indomita, senza pietà
(lei che sa amare e uccidere con la stessa
Struggente serenità).

Il sonnambulo bambino

Si dice che il sonno allenti
Catene di sospetti, trame di falsità;
bisogna, dunque, fingere un discorso dormendo
e affidare a mezze parole, a gesto strano
una sonnambula verità?
Ma quale è il luogo sconosciuto e lontano
Dove potrà restare in eterno
Il dipinto spostato da quell’incerta mano?
È solo un bambino o almeno
Così si mostra nell’incerta luce
E questa non è neppure una malattia
Ma forse il filo di un’utopia
Con un occulto ardore lo conduce ad apparenti difficoltà
E poi, nell’amnesia che l’accompagna
Si legge la cifra di un destino
comune a tutti, che non conosce l’età.

Preparativi contro tempi migliori

I

Era un giorno di meraviglia che incantava
il reticente visitatore,
la residua pietà che lo portava
nel silenzio d’estate a commentare
malattie immaginarie.
Ride bene chi ride l’ultimo e poi
bisogna prepararsi alla guerra
contro i tempi migliori che verranno.

II

Frugando col bastone in mezzo all’erba
cercava quella radice, forse un fiore
o soltanto il suo nome (la memoria
ha stremato la forma ed i colori;
non ho tempo per ricordare perché devo
prepararmi alla guerra
contro i tempi migliori che verranno).

Le prime due poesie sono tratte da Visita agli antenati, con la prefazione di Arturo Schwarz, Philobiblon edizioni 2006. La terza da Preparativi Contro Tempi Migliori, Aleph, Torino 1993. Giorgio Mannacio è stato per molti anni Presidente prima del Tribunale, poi della Corte di appello del lavoro di Milano; è autore anche di Fragmenta Mundi Edizioni del Leone 1998, Storia di William Pera, Campanotto 1998.

MEMORIE DI LIBRERIA
Quando lavoravo in un negozio di libri usati ciò che più mi stupiva era la scarsità di clienti amanti dei libri. Il negozio aveva uno stock di libri assai consistente e di grande pregio, ma ben pochi riuscivano a distinguere un libro buono da uno cattivo. Gli snob alla ricerca di prime edizioni erano più comuni che gli amanti della letteratura; ancor più frequenti erano studenti asiatici alla ricerca di libri di testo a poco prezzo; la categoria più numerosa era però costituita da signore interessate all’acquisto di regali di compleanno per i loro nipotini.
La gran parte degli avventori, poi, sarebbe stata considerata un flagello quasi ovunque, mentre in un negozio di libri usati riuscivano ad ottenere attenzione. Per esempio, la vecchia signora che vuole un libro adatto per un amico malato (richiesta questa assai frequente), e quell’altra che vuole una copia del libro così interessante che aveva letto dodici anni prima: purtroppo non ricordava né il titolo, né l’autore; ricordava solo che si trattava di una storia d’amore e che la copertina era rossa.
Ci sono inoltre due ben note tipologie di clienti pericolosi che affliggono tutti i negozi di libri usati. La prima è costituita dall’avventore attempato, con vestiti logori che odorano di briciole di pane, che viene tutti i giorni, spesso più volte al giorno, e cerca di vendere pacchi di libri senza alcun valore.
L’altra è il cliente che ordina libri che poi non intende acquistare. In realtà, circa la metà delle persone che ci chiedevano di procurare un libro, per lo più assai raro, costoso e difficile da trovare, non si faceva più vedere. All’inizio, non riuscivo a capire perché si comportassero in questo modo. Mi resi conto pian piano che la maggior parte erano dei paranoici. Ce ne sono sempre molti che si aggirano per città come Londra, e tutti, per lo più, gravitano intorno alle librerie perché è uno dei pochi posti dove si può sostare per un po’ senza dover acquistare o consumare qualcosa. Tutti questi provano piacere per il semplice fatto di ordinare un libro costoso: probabilmente, si illudono di essere davvero ricchi.
Uno dei nostri principali settori di attività era costituito dal prestito: avevamo a questo scopo circa seicento volumi, tutti di narrativa. Non chiedevamo alcun deposito: certamente, c’erano quelli che ottenevano in prestito il libro versando la somma pattuita e poi, dopo aver rimosso l’etichetta, lo rivendevano ad un altro negozio. Tuttavia, l’esperienza insegnava che era preferibile subire alcuni furti che scoraggiare molti da richiedere il prestito pretendendo un deposito.
Solo nel prestito si vedono i reali interessi dei lettori. Per esempio, pochissimi richiedono volumi degli autori classici come Dickens, Thackeray, Austen, Trollope. I libri di questi autori sono invece facili da vendere, come è sempre facile vendere Shakespeare. La ragione è che questi libri devono essere presenti nelle biblioteche, ma non vengono necessariamente letti.
Mi sono spesso chiesto se mi sarebbe piaciuto dedicarmi durevolmente a questo lavoro. La risposta, tutto considerato, è no. La ragione è che lavorando in una libreria si perde interesse per i libri e per la lettura. Infatti, in quel periodo smisi di comprare libri. Ancora oggi, a tanti anni di distanza, l’odore dolciastro delle pagine che invecchiano non mi attira più.

Da GEORGE ORWELL, Selected Essays, Penguin 1957. Bookshop Memories è stato originariamente pubblicato su Fortnightly nel Novembre del 1936. In quello stesso anno George Orwell (Eric Arthur Blair) sposa Eileen O’Saughnessy e con lei parte per la Spagna per difendere la Repubblica contro il colpo di stato di Franco. Una biografia di Orwell e una amplissima selezione dei suoi si trova in http://www.orwell.ru/. Da segnalare anche l’articolo: “Fbi scatenata, Marilyn ed Einstein nel mirino degli agenti”, in Corriere della Sera del 3.2.97. Dedicato all’inchiesta del giornale inglese Sunday Times, il Corriere pubblica rivelazioni sui controlli svolti dall’Fbi su George Orwell (oltre che su Marilyn Monroe e i Kennedy, Albert Einstein, Ernest Hemingway, Pablo Picasso, John Wayne, John Steinbeck, Elvis Presley).

NOVEMBRINA
Per insonnie nel tempo che si compie
Di vita eterna il tuo settantesimo anno
E non da mio volere che forse tu lo decidi
Dal tuo mai più riemersa quando in me
Trabocchi notturne lacrime:
Tu mia spenta lucerna e vaghezza di cenere
Però non dimenticartene – portami
Dalla scuola il gessetto col quale navi e navi
Disegnavamo alla piccola lavagna più i nostri
Cancellabili nomi – non lasciarmi
Qui adesso senza un dove onde impetrare asilo:
Ahi novembrina ahi rovo di tenerezza.

GIOVANNI GIUDICI, Eresia della sera, Garzanti, 1999.

DAI MANOSCRITTI DI FRANZ KAFKA

I

La disgrazia di Don Chisciotte non è la sua fantasia. È Sancio Pancia.

II

Galoppavamo nella notte. Una notte scura, senza luna e senza stelle, ma ancor più scura di quanto non siano solitamente le notti senza luna e senza stelle. Avevamo una missione importante da compiere, che la nostra guida teneva scritta in una busta sigillata. Per paura di perdere la strada, ogni tanto qualcuno di noi si spingeva avanti e affiancava la guida. Quando toccò a me, mi accorsi che la guida non c’era più. Allora decidemmo di tornare indietro.

III

21 settembre 1920.
Raccolti i resti.
Le membra felicemente sciolte.
Le ginocchia rilassate
Sotto il balcone, nella notte chiara
Alla luce della luna.
Sullo sfondo,fogliame
Nero come i miei capelli.

IV
La via passa su una corda, tesa non in alto, ma vicino al suolo. Non è fatta per essere percorsa, ma per inciampare.

V

Il momento decisivo dell’evoluzione umana è sempre in corso. Quindi, non conta ciò che avvenuto prima. Nulla è ancora avvenuto.

VI

Da un certo punto in là non c’è più ritorno.
Questo è il punto da raggiungere.

VII

Una gabbia andò in cerca di un uccello.

VIII

Capire quale fortuna sia che il terreno sul quale stai non sia più largo dello spazio coperto dai tuoi piedi.

Il primo brano è nel terzo degli Otto Quaderni in ottavo 1916-1918. Il secondo e il terzo sono in Frammenti. I brani seguenti sono in Betrachtungen uber Sunde, Leid, Hoffnung und den wahren Weg 1917-1918. Si possono leggere le traduzioni di Italo Chiusano in Kafka, Confessioni e diari, Meridiani Mondadori 1972. Su Franz Kafka (1883-1924) si veda www.kafka-franz.com, con ampio materiale fotografico e documentario.

TRE POESIE DI FRANTIŠEK HALAS
L’attesa

Non attendo nessuno
Eppure guardo sempre la porta
Se arrivate
Vi prego, non entrate
Non attendo nessuno
Attendo solo me stesso

Passi

Passi che si spengono lontano
A chi appartenete
Come vi amavo
Voi non lo sapete

Appartenete forse a una donna
Che mi amava
Tremare e non riconoscere
Quale sia passata

Passata e non ritorna
È davvero svanita
Il desiderio scompare
Se la passione è perita

Passi che si spengono lontano
A chi appartenete
Forse vi amavo
Sparite e vi perdete.

Quando la bomba esploderà

Striscerà più lontano
Lasciando la sua traccia nella melma
Si aprirà

Una conchiglia
Pallido sesso delle acque

Tutto comincerà di nuovo
Tra l’apatia dei primi pesci
E le stelle
Plancton dei poeti antichi
Si scrolleranno per la noia
Nel tempio delle galassie.

La prima poesia è tratta dalla raccolta Il gallo spaventa la morte del 1930; la seconda dalla raccolta Genziana del 1933; la terza dalla raccolta Ebbene? Del 1957. Le poesie sono tratte dalla edizione di tutte le poesie Bàsnê, curata da Jan Grossman (Praga 1957). Halas nasce a Brno, in Moravia nel 1901 e muore nel 1949. Tra il 1916 e il 1921 lavora come commesso in una libreria. Si iscrive al partito comunista nel 1921, svolge intensa attività politica e viene arrestato. Nel 1925 è a Parigi si stabilisce a Praga dove lavora come redattore della casa editrice Orbis. Qui pubblica il suo primo libro di poesie, Seppie. Firma nel 1938 un appello per denunciare i processi di Stalin.
Durante la guerra e l’occupazione nazista, partecipa alla resistenza in Moravia. Dopo la guerra, è deputato nel Parlamento e presidente degli scrittori cecoslovacchi, ma rinuncia alla carica dopo il colpo di stato comunista del 1948.
Nel 1950, dopo la morte, è accusato dal regime stalinista di pessimismo morboso, amore del disfacimento, spiritualismo, decadentismo e esistenzialismo. È bollato come eretico e le sue opere sono messe al bando. Rimane uno dei più amati poeti di lingua ceca. In italiano, alcune sue poesie sono tradotte, con una bellissima introduzione, da Angelo Maria Ripellino in Imagena, Einaudi 1971.

NOTIZIE DA LUWEERO
Ecco il resoconto del progetto “25 euro per Luweero”, lanciato con lo scorso numero dei Testi Infedeli. Ho raccolto complessivamente 2.110,00 euro offerti da alcune diecine di donatori (molti dei quali hanno deciso di incrementare, talvolta in modo consistente, la somma richiesta). Li ho consegnati direttamente a Piero Pomponi di passaggio a Milano che ha destinato €. 500,00 all’acquisto di retrovirali per la cura di Perpetua, la bambina affetta dall’HIV. Di Perpetua si è occupato Raffaele Masto in due radiocronache a Radio Popolare. La restante somma di €. 1.610,00 è stata consegnata alle suore di Luweero per l’acquisto periodico dei medicinali di prima necessità, in particolare antibiotici indispensabili per la cura delle infezioni secondarie nei pazienti in stato avanzato da HIV/Aids. I medicinali verranno erogati gratis e solo a persone in effettivo stato di necessità sotto la diretta sorveglianza di Piero. Non un euro sarà sprecato o utilizzato per finalità religiose.
Molti dei donatori hanno già ricevuto le foto-regalo promesse (alcune ritraggono, appunto, Perpetua). Chi non l’ha ricevuta me lo segnali. In aggiunta, Piero Pomponi offre ai donatori una piccola strenna per il capodanno (inclusa nella busta).
Grazie a tutti: l’iniziativa, grazie alla piccola comunità dei lettori dei Testi Infedeli, ha avuto un discreto successo. Agli interessati darò ulteriori notizie su Luweero.

SN
Questo trentunesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 2006 in duecentocinquanta
copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano.
Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.stefano.nespor.it, e non più sul sito www.nespor.com.
Il sito è curato e aggiornato con perizia e scrupolo ineguagliabili da Stefano Rossi.
Ringrazio Maria Inglisa, Marina Nespor, Pasquale Pasquino e Salvatore Giannella che hanno compiuto la consueta opera di supervisione del testo. Ringrazio inoltre Giorgio Mannacio e Benedetta Barzini.

Non è difficile essere saggi quando si è in compagnia. Basta pensare di dire una cosa molto stupida, poi restare in silenzio.

N. 33 estate 2007

LA COPERTINA

riproduzione fotografica su carta opaca, rielaborata a matita, carboncino e acquerello Winson & Newton del disegnato su un tratto residuo del muro di Berlino. Il pezzo di muro e il graffito sono stati rimossi nell’aprile del 2007 per avviare la costruzione del nuovo Ministero dell’Ambiente. Il Governo tedesco ha promesso che il muro e il graffito saranno conservati e ricollocati in altra posizione.

IN QUESTO NUMERO
In questo trentaduesimo fascicolo dei Testi Infedeli troverete, dopo una breve commemorazione della Trabant, una riflessione, a partire da due testi di Cervantes e di Proust, del tema dell’identità individuale e collettiva, quest’ultimo recentemente affrontato da Amartya Sen. Poi, alcuni brani su fanatismo e compromesso di Amos Oz e delle considerazioni sulle ragioni delle scelte dietetiche, da Pitagora ai giorni nostri, tra religione, etica e ambiente. Infine, ancora sull’ immancabile tema dell’eresia, un pezzo tratto da un discorso di Nadine Gordimer. Ci sono poesie di Jodorowsky, di Czechowski e di Vaghenas.

P50
Come si fa a raddoppiare il valore della Trabant?
-Facendo il pieno.
-E poi, come si fa a raddoppiarne ancora il valore?
-Comprando una banana e appoggiandola sul sedile.
Sono alcune delle innumerevoli barzellette – i Trabant-Witze -diffuse nella DDR (chiamata anche Germania Est) riguardanti la automobile prodotta a Zwickau, in Sassonia.
Sono passati cinquant’anni da quando, nel 1957, la produzione della “Trabi” – in italiano, satellite – è iniziata. Presto, la P50 (celebrata in vari film: Go, Trabby, go, Good Bye Lenin e il cecoslovacco Kolja) sarebbe stata esportata in tutti i paesi del blocco socialista.
Le prestazioni erano scadenti (velocità massima 112 km.\ora), il motore a due tempi era inquinante, la carrozzeria era addirittura in materiale plastico (Duroplast) rinforzato con lana; però aveva quattro posti e spazio per i bagagli, era indistruttibile (la sua vita media era stimata in 28 anni), ed era estremamente stabile: negli anni Novanta, quando già era fuori produzione, superò il test dell’alce (che consiste nell’effettuare una brusca frenata come per evitare un grosso animale che improvvisamente attraversa la strada), mentre la Mercedes Classe A fallì.
Alla caduta del Muro, la Trabant divenne il mezzo più utilizzato per fuggire nella Germania Occidentale.
Fu quindi prima il simbolo delle capacità imprenditoriali della Germania comunista, poi del suo fallimento.

Sulla storia dell’auto che fu oggetto del desiderio nella Germania dell’Est: “La Trabant inquina, va fermata. In pensione il simbolo della Ddr”, di Antonio Castaldo, sul Corriere della Sera, 10.4.2007.

QUESTIONI DI IDENTITÀ
Caro Sancho, disse Don Chisciotte, io proprio vedo solo tre contadine su tre asinelli.
Dio mi liberi!, rispose Sancho. Come è possibile che tre stupende puledre, bianche come la neve, sembrino asini a vossignoria? E come è possibile che tre signore d’alto lignaggio, sicuramente principesse, paiano contadine?
Eppure, mio buon Sancho, disse Don Chisciotte, è tanto vero che sono asini e contadine quanto è vero che io sono Don Chisciotte. Quantomeno, a me sembrano tali.
Stia zitto, mio signore, e venga a riverire la signora dei suoi pensieri, la duchessa Dulcinea del Toboso.
Così dicendo, Sancho si avviò verso le tre contadine, scese dal suo somaro, prese per la cavezza l’asino di una delle tre e, inginocchiandosi, disse: Principessa e duchessa del Toboso, si compiaccia di ricevere il cavaliere che è lì, tutto intontito al vedersi all’improvviso dinanzi la vostra magnifica persona. Io sono Sancho Panza suo scudiero ed egli è Don Chisciotte della Mancia.
Mentre Sancho parlava, Don Chisciotte già si era messo in ginocchio e guardava con occhi stralunati colei che Sancho chiamava regina e duchessa. Non vedeva però che una ragazza del contado e neppure bella, con la faccia tonda e ingrugnita, e restava smarrito, senza osare muoversi o parlare.
Anche le contadine erano sorprese nel vedere davanti a loro quei due uomini, così diversi tra loro, in ginocchio.
A questo punto, mentre la contadina il cui asino era stato fermato, stizzita e scortese, chiedeva ai due di spostarsi e di lasciarla andare, Sancho disse: “O principessa del Toboso! Come il cuor vostro non si commuove al vedere inginocchiato davanti a voi il sostegno della cavalleria errante, Don Chisciotte della Mancia?
A queste parole Don Chisciotte, improvvisamente illuminandosi in volto, rivolgendosi alla contadina, disse: Duchessa, ultima perfezione che possa desiderarsi da un uomo valoroso, unico rimedio di questo cuore, il maligno incantatore ha posto una nube e un velame davanti ai miei occhi ed ha mutato il tuo viso in quello di una povera contadina, e magari ha mutato anche il mio, al vostro sguardo carezzevole e amoroso in quello di un mostro orrendo. Ti prego, dammi un segno osservando in questa mia sottomissione l’umiltà con cui ti adora l’anima mia.

*

Qualcuno degli innumerevoli e nascosti “io” che fanno parte di noi non era ancora al corrente della partenza di Albertine e si doveva comunicargli la notizia; si doveva – ed era molto più doloroso che se fossero stati degli estranei e avessero preso in prestito la mia sensibilità nella sofferenza -annunciare la sciagura piombata all’improvviso su tutti questi diversi esseri, questi “io” che – a differenza di me, pur facendo parte di me – non sapevano ancora nulla.
Bisognava che ciascuno di questi “io”, a turno, sentisse per la prima volta queste parole: “Albertine ha chiesto le sue valige” (quelle valige a forma di bara che avevo visto preparare a Balbec vicino a quelle di mia madre) e poi: “Albertine è partita”. A ciascuno di questi “io” dovevo comunicare il mio tormento, che non era una conclusione pessimistica conseguente a un insieme di circostanze funeste, ma una intermittente sensazione di rivivere una specifica e non voluta impressione esterna.
C’era qualcuno di questi “io” che non avevo visto da tanto tempo, per esempio, l’”io” che io ero quando mi facevo tagliare i capelli. Avevo dimenticato questo “io”, questa parte di me, e io suo sopraggiungere mi ha fatto sussultare.

*

Si è sempre identici a sé stessi? Sembra una domanda stupida e inutile, e, secondo Wittgenstein, lo è. Tuttavia, la questione è meno ovvia di quanto sembri.
In quest’ultimo passo, tratto dalla Recherche, il protagonista, messo di fronte a un improvviso dolore, si accorge di essere composto da molteplici identità, con le quali si deve confrontare.
Nel brano che precede, tratto da uno dei passi più geniali contenuti nel secondo volume del Don Chisciotte, Cervantes scambia le identità dei suoi
personaggi e rovescia le parti. Sancho, che rappresenta la solidità della realtà e della concretezza, decide di far contento il suo padrone che si è messo alla ricerca della sua immaginaria signora, Dulcinea del Toboso, e, volendolo imitare, trasforma tre contadine che viaggiano su degli asinelli in tre signore a cavallo, ed una di esse nella ricercata Dulcinea.
Don Chisciotte però, uscendo dal suo ruolo e da sé stesso, questa volta vede la realtà così com’è, vede identità reali e non quelle immaginarie propostegli dal suo scudiero. A un certo punto però, la fiducia in Sancho, e la consapevolezza degli errori fino a quel punto commessi vedendo cose che non c’erano, lo induce a convincersi che ciò che vede appartiene al suo mondo di illusioni: reinserisce la realtà nel suo mondo illusorio e immagina che la trasformazione dell’identità di Dulcinea in contadina sia frutto di una magia di cui lui solo è vittima.

*

Anche l’affermazione “Dopo quell’incidente, il mio amico non è più lo stesso” esprime la convinzione che una persona può essere o divenire diversa da sé stessa, eppure restare la stessa persona.
Analogamente, l’affermazione che chi ha commesso un delitto non può essere punito a vent’anni di distanza manifesta la convinzione che l’identità è mutevole, che non si resta sempre uguali a sé stessi, e che la punizione colpisca un uomo ormai diverso dall’originario delinquente. Ovviamente, questa convinzione demolisce l’intera costruzione del diritto penale moderno, il cui presupposto è quella finzione che Foucault chiamava l’Homo poenalis.
Così, appena si accantonano i rassicuranti luoghi comuni, si apre un mondo di incertezze, di interrogativi, di problemi, che può portare anche ad affermare, proprio al contrario di ciò che sembrava ovvio a Wittgenstein, che nessuno è mai identico a sé stesso.
È un problema che varie religioni hanno risolto inventando un’anima. Per la chiesa cattolica, in particolare, l’anima ha due fondamentali caratteristiche.
La prima è quella di sopravvivere alla morte del soggetto di pertinenza; la seconda, essendo immutabile e sempre uguale a sé stessa in un corpo che muta, di permettere il giudizio di Dio: non potrebbero essere assegnate pene o ricompense in mancanza di una entità cui possono imputarsi tutte le azioni. È, più o meno, l’anima descritta da Platone nel Fedone che “assomiglia assai a ciò che è divino, immortale, semplice, indissolubile, sempre la stessa e sempre uguale a sé stessa; il corpo è ciò che è umano, mortale, multiforme, dissolubile e sempre diverso da sé”.
Se non si utilizza lo stratagemma dell’anima per risolvere il problema dell’identità della persona attraverso il tempo, il problema si complica. Per esempio, John Locke, uno dei primi ad occuparsi seriamente di questo tema, riteneva che l’identità consista nell’accumulo di un comune bagaglio di esperienze e memorie che salda insieme i tanti sé stessi del passato e del futuro.
L’identità individuale, l’affermazione che qualcuno è sempre identico a sé stesso, è non solo una fragile finzione per la costruzione di sistemi sociali basati sulla responsabilità personale; costituisce anche il fondamento delle varie teorie dell’identità collettiva, dell’identità con altri membri di un determinato gruppo.
L’attribuzione di una identità con riferimento esclusivo ad una specifica caratteristica, considerata fondamentale, di una persona che proprio così resta sempre uguale a sé stessa (la religione, o la provenienza etnica, o le propensioni culturali o politiche) è uno dei meccanismi più frequenti di classificazione collettiva.
Si tratta, ovviamente, di una finzione ancor più grave di quella che sorregge l’identità individuale. La stessa persona può essere “identificata” come di cittadinanza italiana, di origine polacca, cristiana, progressista, femminista, sostenitrice dei diritti degli omosessuali, ambientalista, tennista, amante del jazz, Ciascuno di questi aspetti compone la sua identità. Nessuna di queste diverse identità è però sufficiente a definirla. Ognuna delle collettività cui appartiene le conferisce e le sviluppa una determinata identità. Nessuna di esse è l’unica, o la prevalente. Proprio come accade a Don Chisciotte, ciascuno vede nelle persone le identità che vuole vedere,anche se la realtà dovrebbe indurre a conclusioni diverse.
L’identità collettiva è anche uno degli strumenti più utili e più utilizzati per provocare conflitti sanguinosi e irragionevoli. In questo modo, assumendo la diversa religione – meglio se monoteista – o la diversa provenienza etnica come caratteristiche identitarie fondamentali, sono state inventate le guerre di religione e le purghe etniche, i massacri e i genocidi degli ultimi secoli. Naturalmente, l’operazione funziona se si convince anche un discreto numero di persone della importanza decisiva ed esclusiva della sua identità con un determinato gruppo e del carattere dominante o superiore di questa identità rispetto ad altre.
Il passo successivo è che le altre identità sono inferiori, e possono, o devono, essere eliminate. Dalla quantità di volte in cui questa operazione ha avuto successo nella civile Europa, è agevole concludere che l’operazione non sia troppo difficile da realizzare.
Naturalmente, ci sono identità che permettono di provocare conflitti più agevolmente di altre. È il caso dell’appartenenza ad una religione o a una etnia. Ma quasi tutte le identità, se divengono dominanti per classificare un individuo, hanno una potenzialità letale: si possono costruire conflitti basati sull’identità data dall’appartenza ai sostenitori di una squadra di calcio, dalla nascita in una città, o addirittura in un rione della città.
L’identità può uccidere.

Ho utilizzato: DEREK PARFIT, Reasons and Persons, Clarendon Press 1984; AMARTYA SEN, Identità e violenza, Laterza 2006; JOHN LOCKE, Saggio sull’intelletto umano, Bompiani 2004 (con il testo inglese a fronte); CARL VON LICHTENBERG, Schriften und Briefe, Carl Hanser Verlag 1971; PASQUALE PASQUINO, How to cope with time: a propos de rationality, time et personal identity chez D.Parfit, ou de ce qui est vrai en theorie et peut etre faux en pratique, non pubblicato. Il passo dal Don Chisciotte è nel capitolo 10 del secondo volume. Il passo della Recherche è tratto dal volume XIII, Albertine disparue, dell’edizione Gallimard del 1925.

DUE POESIE DI ALEJANDRO JODOROWSKY
Assenza

Mi rivolto nella cenere
Cercando di trovare un po’ di brace.
Mi siedo a chiacchierare con l’ombra
Che un giorno d’estate hai dimenticato sul sofà.
Sogno le orme di passi
Che una notte persero la memoria.
Nessuno passò mai da queste parti.
Si affitta vuoto l’appartamento
Di una casa che non c’è più

Piccoli gesti di bontà

Non mi resta che
Offrire un bicchier di vino al mendicante
Accompagnare silenzioso la vecchia signora,
offrire lenzuola pulite al poveraccio
applaudire attori scalcagnati
prestare un po’ di denaro a un imbroglione
mandare un mazzo di rose a una ragazza antipatica
regalare il mio bastone al cieco.
Piccoli gesti di bontà
Fatti nell’indifferenza
Di un dio che non distingue
Il bene dal male.

ALEJANDRO JODOROWSKY figlio di immigrati ucraini, è nato a Iquique, nel Cile del Nord, nel 1929, studia a Santiago. Nel 1953 si trasferisce a Parigi. Lavora come clown in un circo e riceve lezioni di mimo da Marcel Marceau.
Appassionato di magia e occultismo, fonda con Fernando Arrabal e Roland Topor il movimento di “teatro panico” (secondo la filosofia di questo movimento, nulla nel mondo avviene per caso).
Jodorowsky è direttore di teatro, autore di pantomime e pièce teatrali, di romanzi e libri di fumetti (tra cui L’Incal e La casta dei metabaroni). La sua notorietà è dovuta soprattutto all’attività come regista cinematografico: tra i film più importanti Il paese incantato, dall’omonima opera di Arrabal, El Topo, La montagna sacra e Santa sangre (Sangue santo).
La sua vita è raccontata nell’autobiografia La danza della realtà (Feltrinelli, 2004).
La due poesie sono tratte dalla raccolta No basta decir, pubblicata nel 2003. Alcune delle poesie di questa raccolta sono pubblicate in Italia nel volume antologico Solo de amor (Giunti 2006).

FANATISMO E COMPROMESSO
Sono un sostenitore del compromesso. So che questa parola gode di una pessima fama: il compromesso è considerato come una mancanza di integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà.
Il compromesso puzza, è disonesto.
Non per me. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. Dove c’è vita, ci sono compromessi. Il contrario di compromesso è fanatismo.
Quando dico compromesso non intendo dire capitolazione, non intendo porgere l’altra guancia a un avversario. Intendo incontrarlo più o meno a metà strada. Non esistono compromessi felici.

II

Sono un esperto di fanatismo comparato.
E posso dire che l’11 settembre non ha nulla a che vedere con la questione se l’America sia buona o cattiva, se la globalizzazione deve fermarsi o meno, se il capitalismo sia un male o un bene. È invece espressione della consueta pretesa del fanatismo: visto che questo è male, lo elimino insieme a ciò che gli sta intorno. Il fanatismo è spesso legato a un contesto di disperazione. Dove le persone non avvertono che disfatta, umiliazione e indegnità, ricorrono a svariate forme di violenza disperata.
Ma non solo. Il fanatismo è presente nelle sue forme più civili intorno a noi e forse anche dentro di noi.
Ci sono non fumatori capaci di bruciarti vivo se accendi una sigaretta vicino a loro. Ci sono vegetariani capaci di mangiarti vivo se ordini una bistecca. Non voglio dire che ogni opinione convinta sia una forma di fanatismo. Però penso che il seme del fanatismo si annidi dentro la rettitudine inflessibile. L’essenza del fanatismo sta nel desiderio di costringere gli altri a cambiare.
Quell’inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, a educare il tuo coniuge, a raddrizzare tuo fratello minore, invece che lasciarli vivere.
Il fanatico è la creatura più disinteressata che ci sia. È un grande altruista. Vuole salvarti l’anima, vuole redimerti, vuole affrancarti dal peccato, dall’eroe, dal fumo, dalla tua incredulità, vuole impedirti di bere o di votare nel modo sbagliato.
Il fanatico si preoccupa di te. Magari ti uccide, ma ti ama: lo fa per redimerti.
Il fanatismo non si combatte con l’indifferenza.
L’indifferenza non è il contrario del fanatismo: può essere una reazione al fanatismo, quindi in un certo senso ne è un sottoprodotto, una fuga dalle responsabilità.
Chi si mura nell’indifferenza finisce per essere interessato soltanto a se stesso, diventa un fanatico di sé.

III

Una delle cose che rendono il conflitto israelopalestinese particolarmente grave è il fatto che esso sia un conflitto tra due vittime.
Due vittime dello stesso oppressore: l’Europa.
L’Europa ha colonizzato il mondo arabo, lo ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura; la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato e sterminato in massa gli ebrei.
A rigore, due vittime dovrebbero manifestare d’istinto un senso di solidarietà tra di loro, e unirsi contro l’oppressore. Per esempio, nelle opere di Brecht vittime diverse sviluppano d’istinto una solidarietà reciproca, diventano fratelli e marciano insieme. Ma nella vita reale, come qualcuno sa per esperienza, alcuni dei più aspri conflitti vedono in campo due vittime dello stesso oppressore.
Guardando l’altro, entrambi vedono l’immagine dell’oppressore di un tempo.

IV

I pacifisti hanno fatto un’insalata di parole: mettono insieme pace, amore, perdono. Ma per fare la pace non c’è bisogno di dimenticare né di perdonare, tantomeno dell’amore: basta deporre le armi e smettere di fare la guerra» .

AMOS OZ (Amos Klausner) è nato nel 1939, i genitori erano di origine lituana e ucraina. Insegna letteratura all’Università del Negev. Nel 1998 ha ricevuto l’Israel Prize, nel 2005 il Premio Goethe Nel suo romanzo autobiografico, Una storia di amore e di tenebra (2002), Oz ha raccontato, attraverso la storia della sua famiglia, le vicende storiche del nascente Stato di Israele dalla fine del protettorato britannico.
I suoi libri sono pubblicati in Italia da Feltrinelli e Bompiani. Tra questi: Michael mio (1968), Una pantera in cantina, (1995), Non dire notte (2007).
I primi tre brani sono tratti da AMOS OZ, Contro il fanatismo, Feltrinelli 2004. Il quarto da una intervista di Oz al Corriere della sera del 5 marzo 2007.

CINQUE POESIE DI HEINZ CZECHOWSKI
Picasso: L’etreinte

A volte trovava tutto in lei
Speranza, paura, sud e mare.
E allora dimenticava il mondo gelato.
Nei suoi occhi sognava,
Finché il rosso del mattino
Bussava sui vetri ciechi.

Quando la baciava, pensava:
Blu era il colore della parete sopra il letto,
E il rosso come sangue del pavimento
Non lo dimenticherò mai.

Venezia

Incantato, la vidi nel ghetto.
Era francese.
In disparte bevemmo del vino
e mangiammo pesce arrosto.
Mentre appoggiata a un cancello mi guardava, io
le toccai il collo con la mano; lei disse “scusi”.
Provvisto solo della fretta dei vecchi
me ne tornai a Chioggia
per dimenticare
tra caldo e rumore.

Niobe

La casa è tra alberi e cespugli: una anziana signora
dà un po’ di cibo a tre gatti, e dice:
avevo tre figlie, la guerra
me le ha prese, se ne andarono
per strade ormai coperte dall’erba; non
sono più tornate. Mio marito
stava vicino alla ferrovia, proprio quando sulla
città
giunsero i bombardieri. Me lo portarono: il suo
petto
era un catino insanguinato. Nel giardino
gli scavai la fossa, la vicina
mi aiutò a seppellirlo. Ora
ricevo una pensione,
il resto me lo danno le galline,
almeno questo
nessuno me lo porterà via.

La morsa

La morsa che mi serrava
ha ceduto.
Non mi sono mai sentito
così libero. Ora
dovrei subito
imitare gli uccelli:
cuore che vaga, fluttuante al vento
in fuga dalle tenebre, rosso,
grumo di sangue
che maschera a se stesso: libertà
sento cantare
ma il cuore
non sa dove andare.

Ex-DDR

Seduto in auto, stavo di fronte alla casa
in cui avevo abitato sette anni. Era notte:
solo in due alloggi
era accesa la luce.

HEINZ CZECHOWSKI è nato nel 1935 a Dresda. Si trovava in città durante il bombardamento e la distruzione della città. Dopo gli studi letterari lavora come drammaturgo per il teatro comunale di Magdeburgo e come lettore all’università. Nel periodo della DDR fu tollerato, ma non amato. Nel 1977 ottiene il premio Heine e nel 1989 il premio Heinrich Mann. Nel 1995 si trasferisce in Westfalia. Ha curato una edizione delle opere di Holdernin e varie antologie di poesia contemporanea tedesca. Tra le sue opere: Das offene Geheimnis – Liebesgedichte, Einmischungen, Die Zeit steht still, tutte edite dalla casa editrice Grupello di Düsseldorf.

BLACK PUDDING

Tra la metà del diciassettesimo secolo e i primi decenni del secolo seguente, l’Inghilterra fu dilaniata da un violento dibattito religioso e gastronomico, noto come le “great black-pudding controversies”.
Il cibo eponimo di questo dibattito, il black pudding, è una salsiccia tradizionale inglese (ma presente in tutta Europa: in Germania è il Blutwurst, in Italia il sanguinaccio): è preparato con sangue caldo di un animale appena ucciso (generalmente un manzo o un maiale).
Il black pudding, per molti secoli consumato senza problemi dagli inglesi durante il breakfast, diviene un cibo controverso allorché si affermarono sette religiose nei Paesi Bassi e in Inghilterra – ben presto qualificate eretiche – che ritenevano che il mondo terreno era un’espressione di Dio, il quale era anche presente in ogni creatura vivente.
Uomini e animali condividevano quindi la stessa divina creatura. Mangiare il sangue a colazione era quindi un peccato e peccatori erano esponenti religiosi e politici che consentivano la manifattura e il commercio di black pudding.
A quei tempi, a differenza di oggi, la gastronomia era strettamente collegata alla teologia. E, per converso, la teologia si occupava di regole dietetiche: Dio non è mai stato molto chiaro nell’indicare che cosa si può mangiare e che cosa si deve evitare (facendo la fortuna di schiere di teologi e la disperazione di schiere di bongustai).
Alcuni studiosi recenti hanno cercato di affrontare l’argomento alla radice: Don Colbert ha così indagato le preferenze gastronomiche di Gesù giungendo a conclusioni parzialmente diverse da quelle di Benedetto XVI, secondo cui Gesù non avrebbe mangiato l’agnello a Pasqua (il successo ha indotto Colbert a pubblicare anche un libro di ricette di Gesù). Un gruppo di scienziati sta indagando direttamente su quale sia la dieta preferita da Dio.
Torniamo al black pudding. A sostegno delle nuove tesi teologico-gastronomiche interviene anche il bibliotecario di Oxford, poi vescovo di Lincoln, Thomas Barlow (noto tuttavia soprattutto per il suo opportunismo e la sua capacità di adeguare le sue idee alle diverse necessità): in una dotta opera concluse che non solo il Vecchio ma anche il Nuovo testamento proibivano di cibarsi di sangue, “pratica barbara e innaturale”.
Anche Isaac Newton si astenne sempre dal mangiare il black pudding. Molti ritenevano che ciò dipendesse da convinzioni religiose. Solo dopo la sua morte, nel 1727, però, la nipote rivelò che il nonno non mangiava il black pudding per ragioni etiche, in quanto preparato procurando all’animale una lenta e dolorosa morte per dissanguamento.
L’argomento è stato oggetto di molte discussioni: alcuni biografi sostengono che Newton aderisse ai principi dietetici posti da Pitagora, il quale vietava il consumo di carne perché riteneva che le anime trasmigrassero tra tutti gli esseri viventi, uomini e animali (è la dottrina della metempsicosi).
Per i cristiani però, da molti secoli (non da sempre, però), l’anima non trasmigra tra esseri viventi: quando l’uomo muore, l’anima si muove solo verticalmente, tra terra, paradiso e inferno. Il movimento orizzontale delle anime, su cui si basa la metempsicosi, è così divenuta una grave eresia e poteva condurre a conseguenze pericolose e spesso funeste per i suoi seguaci: è nota la triste fine dei catari, la cui fede imponeva di non uccidere alcun animale (e non mangiarne quindi la carne), onde evitare di danneggiare anime umane nel loro percorso terreno.
Molti ritengono che anche Giordano Bruno aderisse a questa credenza: ricorda Giovanni Mocenigo (che l’ospitò a Venezia e tentò in tutti i modi di carpirgli i segreti della magia; poi, irritato per l’insuccesso, lo consegnò poi all’Inquisizione) che Bruno “affermava che egli era stato altre volte in questo mondo, e che molte altre volte saria tornato doppo che fosse morto, o in corpo humano, o di bestia, et io ridevo, e lui mi riprendeva, che io mi burlassi di queste cose”.
Newton aveva quindi ottime ragioni per celare le proprie convinzioni.
Sangue e carne erano strettamente connessi. Infatti, insieme al sangue, la carne è stata tra i cibi teologicamente più discussi.
Così, per alcune religioni ogni carne è proibita; per altre, solo la carne di alcuni animali; per altre ancora, la carne in alcuni giorni della settimana o in alcuni periodi dell’anno.
Tuttavia, anche l’astinenza da carne non garantisce la salvezza eterna: basta vedere quel che è successo ad Adamo e Eva mangiando frutta.
Anzi, secondo alcuni la punizione inflitta ai due progenitori per aver mangiato il frutto proibito (che, per inciso, non è assolutamente detto che fosse una mela) è stata proprio quella di costringerli a uccidere altri animali e a mangiarne carne (pratica assolutamente non prevista nell’Eden).
Secondo questa interpretazione, mangiare carne per gli esseri umani è un obbligo: chi si ciba di carne rispetta la volontà e la punizione di Dio.
Così, per Descartes, gli animali non sono altro che macchine, senza sentimenti o sensazioni, creati da Dio per nutrire gli uomini. Analogamente, Locke sosteneva che non mangiare fagiani è peccato.
Certo questa organizzazione gerarchica degli esseri, strettamente antropocentrica, è tipicamente occidentale: i cinesi sostenevano, secondo Gernet, che non vi è nessuna gerarchia tra gli esseri e che un cane buono è superiore ad un uomo malvagio.
A partire dal Settecento il vegetarianesimo trova nuovi sostenitori su basi etiche (anche per l’influsso delle dottrine hindu che affascinano l’Europa). Per Mandeville, per esempio, ben pochi mangerebbero carne se fossero costretti ad uccidere personalmente gli animali, o se vedessero quello che succede in un macello. Secondo Jeremy Bentham mangiare carne era espressione di crudeltà. Per Shelley, Robespierre non avrebbe mai scatenato il Terrore se fosse stato vegetariano.
Anche Rousseau e Franklin ritenevano eticamente riprovevole il consumo di carne. Al contrario, per Kant, è mostruoso provare affetto o tenerezza per gli animali, trattandosi di sentimenti da riservare solo agli esseri umani.
Certamente, il collegamento tra astensione dalla carne e comportamento virtuoso o pacifico è smentito dalla storia recente: Hitler era infatti rigorosamente vegetariano e Himmler ha cercato in varie occasioni di imporre l’astensione dalla carne alle S.S.
Attualmente, la scelta vegetariana è spesso basata anche su ragioni di tipo ambientale. In verità, non sono ragioni nuove.
Già nel Settecento il reverendo William Paley e l’economista Adam Smith sostenevano che lo Stato doveva limitare i terreni destinati a produrre cibo per animali, così aumentando la disponibilità di prodotti agricoli per i propri abitanti. Tuttavia, il loro obiettivo era quello di consentire l’aumento della popolazione. Attualmente, l’obiettivo è quello di garantire cibo per la popolazione esistente. Un recente rapporto della FAO calcola che il 40% del prodotto agricolo mondiale è utilizzato per nutrire animali e non esseri umani (e la percentuale è in aumento esponenziale, per l’estendersi del benessere in paesi come la Cina e il Vietnam, in precedenza quasi esclusivamente vegetariane per scarsità di carne). Se questa produzione fosse convertita come nutrimento umano, vi sarebbe cibo per sfamare tutti (anche se il problema della fame, come ha segnalato Amartya Sen, non è tanto la mancanza di cibo, quanto la disuguaglianza sociale).
Sempre secondo la FAO, il 18% dell’effetto serra dipende dall’agricoltura finalizzata all’allevamento: di più di quanto provocato dal trasporto mondiale.

Si vedano: TRISTRAM STUART, The Bloodless Revolution: A Cultural History of Vegetarianism from 1600 to Modern Times, Norton New York 2007; STEVEN SHAPIN, Vegetable Love. The history of vegetarianism, in New Yorker 22 gennaio
2007; MARVIN HARRIS, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Einaudi 2005; JACQUES GERNET, Chine et christianisme, Tra gli autori citati: THOMAS BARLOW, Trial of a Black Pudding, 1652; tra gli altri libri di questo autore è di un certo interesse Cases of Conscience (1692); DON COLBERT, What Would Jesus Eat, 2002 e The What Would Jesus Eat Cookbook 2004. Su Giordano Bruno; BERNARD DE MANDEVILLE, La favola delle api. Vizi privati, pubbliche virtù, Le Lettere 1995. JEREMY BENTHAM, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789.

TRE POESIE DI NASOS VAGHENÀS

Genesi

In principio era il principio:
con qualche titubanza uscì dal niente,
da una coltre di buio senza tempo
macchiata in rosso, come per esempio
i paesaggi di Edipo.

E poi la Sfinge, le ali ricoperte
di diamanti – ancor prima che all’aperto
le acque zampillassero veementi –
preparava solerte
tutto il rimanente.

Ode Barbara XIII

Miei vecchi amori. Ore visibili
di un secolo che non vuole spirare.
Lune intorno a me si spezzano
di continuo.
La luce che mi illumina sarà certo
di stelle spente.

Per tutta la notte sradico sentimenti
dal mio petto che rimane sempre verde.
Erba secca con radici di eternità.

Mi confonde il rumore del tempo.
Scendo.

Ballata Oscura, II

Molti da vecchi imparano moltissimo.
Altri di meno, o almeno qualche cosa.
A me la mente invece è stata erosa
da quanto ho visto, oscuro o commovente,
negli ultimi vent’anni, totalmente.
Restano della vergine foresta
qualche erbaccia, due piante poco aulenti;
e tutto è scolorito, sbiaditissimo.
È torbido anche quello che non resta:
i recinti, gli uccelli e le sorgenti.
O Zeus Padre, che i fulmini governi
del cielo, tu purifica i miei occhi:
torna a riempirmi con le fonti eterne
della tua scienza, e la mia mente culla
in mezzo ai cedri, ai pini e alle betulle

NASOS VAGHENÀS è nato a Drama, nella Grecia settentrionale, nel 1945. La prima raccolta di poesie, Campo di Marte, è del 1974. Sono seguite: Biografia (1978); Le ginocchia di Roxane (1981); Vagabondaggi di un non viaggiatore (1986); La caduta dell’uomo in volo (1989); Odi barbare (1992). È autore di saggi di teoria letteraria e di teoria della traduzione (La veste della dea, 1988; Poesia e traduzione, 1989), e di studi sui maggiori autori della letteratura greca contemporanea (tra i quali Il poeta e il ballerino, 1979, su Seferis). In Italiano è stato pubblicato Vagabondaggi di un non viaggiatore, a cura di Caterina Carpinato (Crocetti,1997) e Ballate oscure a cura di Filippo Maria Pontani (Crocetti,2006).

VEDI ALLA VOCE ERESIA
Ho partecipato alla battaglia contro l’apartheid sostenendo attivamente il clandestino ANC, ma vorrei ora considerare un altro tipo di guerra, la guerra contro chi scrive. La guerra contro la parola, che ho personalmente vissuto come scrittrice, e la guerra ulteriore, assai più seria, letale, che minaccia la stessa vita di giornalisti e scrittori nei conflitti attuali. Recentemente dei giornalisti sono stati presi in ostaggio nelle guerre in atto in molti Paesi, soprattutto in quella irachena. Ancor prima, in uno di questi Paesi un giornalista era stato ucciso dopo aver subito, come ostaggio, un inenarrabile calvario.
Fin dall’ antichità vi è stata una lunga serie di azioni contro scritti giudicati eretici sotto il profilo religioso. L’ elenco dei libri proscritti dai cattolici esiste ancora. Ma nei tempi moderni l’interdizione dei libri si è di solito basata su un linguaggio troppo esplicito in fatto di sesso, mentre l’ eresia ha assunto la veste della trasgressione all’ ortodossia politica. Nel primo caso, il sesso, vengono subito in mente Madame Bovary e L’ amante di Lady Chatterley e, per il secondo, l’eresia politica, mi si perdonerà se in margine ai tanti episodi di libri messi al bando ne cito uno personale. È su questa base che il regime dell’ apartheid in Sud Africa ha proibito tre miei romanzi uno dopo l’ altro. Vietare un’opera per ragioni politiche, impedendone la distribuzione e la vendita o, più drasticamente rigettarla bruciandola in pubblico – atti che sembrano avere presupposti razionali – sono in realtà azioni dettate da una fede non religiosa ma ideologica.
Un’ideologia abbracciata con veemenza diventa una fede in nome della quale i seguaci vivono e agiscono. La purezza della razza per Hitler, il proposito di eliminare una classe sociale per Stalin, sono solo due esempi delle vie per sopprimere la libertà di espressione in nome di ideologie politiche elevate a fedi, ciascuna delle quali si attribuisce il compito salvifico di combattere l’altro presente nell’umanità. Fede e ragione: ci siamo abituati ad accettare che questi aspetti, all’apparenza opposti, siano di fatto uniti in simbiosi nella messa al bando di opere letterarie da parte di regimi politici oppressivi. Basta leggere i rapporti, Paese per Paese, della commissione PEN sugli scrittori in prigione. Contro uno scrittore c’è stata poi un’azione inconcepibile nei tempi moderni, i nostri tempi: una condanna a morte sentenziata nei confronti di Salman Rushdie. L’ accusa è di aver pubblicato un romanzo eretico dal punto di vista religioso. La condanna a morte contro Rushdie è stata firmata dal fondamentalismo, che nel mondo attuale lancia le sue minacce e i suoi assalti non solo sul terreno della libertà di espressione, ma in molte altre aree della vita contemporanea.
Come si devono affrontare, non tanto i singoli conflitti e offensive, quanto le cause più profonde che determinano le azioni dell’idra fondamentalista? Amartya Sen offre un’analisi che possiamo anche pensare di prendere come guida, quando osserva che “il mondo è spesso ritenuto una federazione precostituita di “civiltà” o “culture”, ignorando l’importanza degli altri aspetti in base ai quali la gente si considera, che hanno a che fare con la classe, il genere, la professione, la lingua, la scienza, la morale, la politica.
Questo riduzionismo può dare un notevole contributo alla violenza della piccola politica quotidiana: le persone sono collocate in scatole anguste, ignorando tanti altri modi – economici, politici, culturali, civili e sociali – in cui interagiscono tra di loro all’interno e al di là dei confini regionali. Invece, la maggior speranza di armonia nel nostro mondo tormentato sta nella pluralità delle nostre identità, che si intersecano e si oppongono alle divisioni nette segnate da un sola, profonda e fossilizzata linea di confine che si pretende inevitabile. Gli aspetti umani che ci accomunano passano bruscamente in subordine quando le nostre differenze vengono costrette in un sistema prestabilito e fortemente categorizzato”. Non è una risposta possibile ai fondamentalisti della fede e della ragione?

È un brano tratto dal discorso di Nadine Gordimer, vincitrice del premio Nobel nel 1991, in occasione dell’assegnazione del Grinzane Cavour, pubblicato sul Corriere della Sera il 14.1.2007., con il titolo “Così politica, popoli e religioni fanno la guerra agli scrittori”. La traduzione è di Maria Sepa.

Questo trentaduesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno 2007 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano.
Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.stefano.nespor.it, e non più sul sito www.nespor.com.
Il sito è curato e aggiornato con perizia e scrupolo ineguagliabili da Stefano Rossi.
Ringrazio Maria Inglisa per le pazienti verifiche cui ha sottoposto il testo; Pasquale Pasquino, Marina Nespor e Salvatore Giannella per la ormai tradizionale revisione. Devo inoltre a Salvatore Giannella la segnalazionevento di Nadine Gordimer su uno dei temi abituali dei TI, ad Alice Winkler il regalo del libro di Oz, a pasquale Pasquino alcune utili indicazioni sul tema dell’identità individuale.

N. 34 inverno 2007

LA COPERTINA
Riccardo Nespor, 6 anni, dipinto a olio su tela

IN QUESTO NUMERO
In questo trentatreesimo fascicolo dei Testi Infedeli troverete: un ricordo di Rachel Carson in occasione del centenario della sua nascita, e un ricordo di ignote operaie di Chittagong; due storie italiane di sport e spettacolo; una riflessione sulla menzogna e l’infedeltà; la storia di un eretico finito sul rogo a Campo dei Fiori qualche tempo prima di Giordano Bruno. Troverete inoltre poesie di Ivan Lalìc, e poi di due autori che sono vissuti insieme per qualche tempo a Praga e si sono anche vicendevolmente tradotti: la spagnola Clara Janés e il boemo Vladimìr Holan. Infine, un piccolo pezzo da Le petit prince. Troverete infine una fotografia scattata a Lipsi, nel Dodecanneso, nell’ottobre di quest’anno da Marina Nespor.

PRIMAVERA SILENZIOSA
“Benvenuta, così è lei la donna che ha dato inizio a tutto questo”.
Con queste parole Rachel Carson fu accolta dal Presidente della Commissione d’inchiesta sull’utilizzazione dei pesticidi del Congresso degli Stati Uniti, nel giugno del 1963. L’inchiesta che porterà al bando del DDT e all’introduzione di severe regole per l’uso di prodotti chimici nell’agricoltura, fino a quel momento utilizzati in modo indiscriminato nelle campagne (ricordate tutti la indimenticabile scena di Intrigo internazionale di Hitchcock ove James Stewart sfugge all’aereo incaricato di spargere il DDT). Sono le stesse parole con cui Abraham Lincoln accolse alla Casa Bianca Harriet Beecher Stowe, il cui libro La capanna dello zio Tom contribuì alla presa di coscienza collettiva che dette il via alla Guerra di Secessione.
Nata nel 1907 in un piccolo villaggio della Pennsylvania, laureata in biologia marina, scrive nel 1951 Il mare intorno a noi, con cui vince il National Book Award e diviene famosa. Collabora con riviste scientifiche e di informazione (tra cui il New Yorker, dove apparirà, a puntate, Primavera silenziosa) Quando una residente di Long Island denuncia il Governo perché l’uso a pioggia dei pesticidi ha distrutto il suo giardino e chiede il suo aiuto, Rachel Carson accetta e si lancia nella battaglia che segna l’inizio del movimento ambientalista negli Stati Uniti e nel mondo: Primavera silenziosa è pubblicato nel 1962. È uno strepitoso best-seller internazionale. Di lì a qualche anno, il DDT sarà bandito negli Stati Uniti e in molti paesi europei.
Scrive l’Autrice: “Credo fermamente che in queste generazioni dovremo scendere a patti con la natura: l’intera umanità si trova di fronte a una sfida mai verificatasi prima, e in questa sfida dobbiamo provare la nostra maturità e la nostra capacità di controllare non la natura, ma noi stessi”.
Rachel Carson muore nell’aprile del 1964. Il suo ultimo libro, The sense of wonder, è pubblicato postumo.

Una breve biografia di RACHEL CARSON è in Americane avventurose di Cristina De Stefano, Adelphi 2007.

LA CHIAVE IN TASCA
La chiave non è stata trovata.
Il padrone della KTS Textile Mills di Chittagong (Bangladesh) l’aveva messa da qualche parte al sicuro dopo aver chiuso le porte, per impedire che qualche operaia, approfittando di un momento di disattenzione delle sorveglianti, potesse allontanarsi.
Per lo stesso motivo anche le finestre erano chiuse, sprangate dall’esterno.
Così, alle 5.30 del mattino, quando i rotoli di stoffa si sono incendiati per lo scoppio di un radiatore elettrico, e le fiamme si sono rapidamente propagate nella stanza, le operaie sono rimaste bloccate da ondate di fumo e di fuoco: 65 sono morte bruciate.
Alcune sono riuscite a sfondate i vetri delle finestre, e si sono gettate nel vuoto dal terzo piano.
L’odore di carne bruciata non è arrivato qui in Europa: i telegiornali hanno ignorato la notizia.
Sei miliardi di dollari annui sono il fatturato complessivo delle esportazioni di manufatti tessili dalle lontane fabbriche delocalizzate nel Bangladesh verso l’Europa.
Sono magliette e T-shirt che vengono acquistate pochi centesimi di euro l’una, e vengono poi rivendute, dopo che sono stati apposti i marchi più noti, per svariate diecine di euro. Con targhette che spesso dicono made in Italy. È l’effetto dell’immenso valore acquisito dalla proprietà intellettuale nell’epoca della globalizzazione.
In molte nostre città sono presenti i prodotti della KTS Textile Mills. Non c’è tempo né distanza che ci separi da Chittagong, Bangladesh e dalle operaie prigioniere, asfissiate, bruciate delle quali non si sapranno mai i nomi.
Di quella chiave che non si è trovata, molti ne hanno una copia in tasca.

Da MARIUCCIA CIOTTA, Donne al rogo, in Il Manifesto 25\2\2006. Oltre a operaie anonime, a Chittagong ci sono annualmente centinaia di annegati anonimi, a causa dei cicloni che, con crescente violenza si abbattono sul Bangladesh, secondo molti per effetto del cambiamento climatico: anche qui, come si sa, i paesi ricchi hanno qualche responsabilità in proposito.

DUE STORIE DI SPORT E SPETTACOLO

I

Nel 1922 debutta a Malta Ugo Zacchini (1898 – 1975): Ugo viene prima collocato all’interno di un cannone ad aria compressa – solo la testa sporge ed è visibile dal pubblico – e poi scaraventato a cinquanta metri di distanza.
Il successo dell’uomo proiettile è enorme. Lo spettacolo è portato dal padre Ildebrando (che possedeva un piccolo circo) in Italia e in Europa.
Nel 1929 c’è il grande salto verso la notorietà internazionale: Ugo è scritturato dal più famoso circo del tempo, il Circo Barnum, per una tournee negli Stati Uniti.
Lì l’uomo proiettile acquisisce notorietà e popolarità. Ugo si stabilisce quindi in America. È seguito dapprima dal fratello Mario, poi dalle sorelle.
Tutti, e anche i figli (tra cui Hugo II e Hugo II jr.) e i nipoti seguono la sua strada e divengono proiettili umani.
A un certo punto c’erano trentasei proiettili Zacchini che si esibivano insieme, sparati in rapida successione da 12 cannoni ad aria compressa: a seguito di numerosi perfezionamenti tecnologici, raggiungevano una altezza di trenta metri e atterravano a oltre sessanta metri di distanza. L’ultima erede della famiglia, Duina (nipote di Edmondo), che con la sorella Vittoria formò la coppia di donne proiettile nota come “The Zacchini Sisters”, è morta a 82 anni nel dicembre del 2006.
Tutti i proiettili Zacchini vivevano insieme a Tampa, in Florida. Il giardino della loro casa però era troppo piccolo per poter compiere gli allenamenti al suo interno, così Ugo e i suoi parenti si sparavano al di là della strada, in un prato poco distante. Ma a seguito dei numerosi incidenti di automobilisti di passaggio che pensavano ad allucinazioni o ad invasioni di extraterresti quando vedevano i proiettili umani schizzare in alto, la polizia proibì gli allenamenti.
È però frutto della fantasia di Federico Fellini (nel film Clowns) il fatto che il Sindaco di Tampa avesse posto, all’entrata della città, un cartello con la scritta “Se vedete un uomo che vola, non spaventatevi. Sono gli Zacchini che stanno allenandosi”. Ugo Zacchini amava raccontare che l’idea di diventare un proiettile gli era venuta durante la prima guerra mondiale: mentre era al fronte, aveva proposto al proprio generale di progettare un cannone per lanciare soldati dotati di paracadute oltre la trincea nemica, in modo da prendere i nemici alle spalle. La proposta non dispiacque allo stato maggiore italiano. Ma la guerra finì prima che il progetto fosse realizzato. Allora Ugo propose al fratello Edmondo, che lavorava alla Fiat, di elaborare con lui un progetto di cannone per un corpo specializzato di soldati proiettile da utilizzare nella guerra seguente. I comandi militari italiani però lo respinsero come impraticabile. Al fratello Bruno venne allora in mente che il lancio con il cannone poteva essere uno spettacolo da inserire nel circo del padre. In realtà, gli uomini proiettile erano diffusi da oltre cinquanta anni.
Secondo gli storici del settore, il primo uomo proiettile fu nel 1871 un inglese chiamato George Farini, che utilizzava però un cannone a molla e riusciva quindi a compiere un tragitto assai breve. Due anni dopo, nel 1873, Lulù (in realtà un uomo vestito da donna) si sparò in aria a New York compiendo una traiettoria di oltre dieci metri di fronte a un folto pubblico. La prima vera donna proiettile fu Zazel, nel 1877, anch’essa assoldata ben presto dal Circo Barnum.

II

Luigi Merli e Pierino Pozzi iniziarono il loro viaggio da Luino a Roma in barca a remi ai primi di giugno, salutati dal Segretario politico (da cui avevano ricevuto una calorosa lettera di presentazione che avrebbe dovuto servire per ottenere assistenza, pasti e un letto dovunque arrivassero) e da un piccolo gruppo di sostenitori.
Il percorso – a lungo studiato – prevedeva di scendere il Ticino, confluire nel Po, immettersi nell’Adriatico, costeggiare fino alla foce del Tevere e poi, risalitolo, giungere a Roma.
A Pavia, Piacenza, Cremona e Revere, nonostante la lettera, nessuno offrì loro del cibo: saltarono i pasti e dormirono sulla spiaggia, vicino alla barca. Un letto fu offerto solo dal Segretario politico di Ficarolo.
Mangiati dalle zanzare e con il sedere piagato, bruciati da sole, cominciarono a costeggiare l’Adriatico verso la fine di giugno. Fino a Cesenatico, fu un calvario di piccole tappe. Luigi e Pierino dormivano all’umido, sulla spiaggia, svegliandosi alle quattro del mattino. A Riccione – finalmente! – furono ricevuti da Bruno e Vittorio Mussolini i quali scrissero alcuni motti di augurio sul loro libro di bordo e subito se ne andarono; non ricevettero però né pasti, né letti, né aiuti economici.
Poi, i due fecero naufragio a Capo Focaia e persero gran parte degli indumenti e degli strumenti. Distrutti dalla fame e dalla sete toccarono via via Marotta, Senigallia e altri porti. A porto San Giorgio furono gettati dai marosi sulla spiaggia e furono rifocillati e ospitati dalla locale società di canottieri. A Porto d’Ascoli e nelle tappe successive furono aiutati dalle guardie di finanza. A Polignano furono invitati ad una cena di nozze; nel frattempo però qualcuno rubò il timone, costringendoli ad una lunga sosta. A Torre Chianca furono ancora derubati e fecero indigestione di frutta. A San Cataldo fecero nuovamente naufragio. Il segretario politic di Taranto, cui si presentarono in mutandine, li fece rivestire. Ridotti a una magrezza impressionante, furono tuttavia seguiti da un grosso pescecane fino a Rocca Imperiale. Dopo nuovi naufragi e nuovi furti, rimasero di nuovo con le sole mutande che, per decenza, indossavano con l’apertura nella parte posteriore quando si presentavano alle autorità locali.
Ai primi di novembre, intirizziti e bagnati, imboccarono la foce del Tevere e giunsero a Roma, dopo cinque mesi e dodici giorni dalla partenza da Luino. La barca affondò nella darsena della società Aniene, lasciandoli con i remi in mano. Ma li aspettavano le notti romane e i sognati trionfi.
Mussolini però non volle riceverli. Elda, che all’avvio li aveva incoraggiati, non diede alcuna notizia: era all’estero. Luigi e Pierino attesero in una darsena giorni e giorni fino a che un generale della Milizia, incaricato di allontanarli da Roma, lì munì di indumenti e di biglietti ferroviari. Fecero così ritorno a Luino.

La storia della famiglia Zacchini è tratta dal Dizionario dello Spettacolo del Novecento, Baldini & Castoldi, e da articoli apparsi su quotidiani italiani, francesi e americani.
La storia di Luigi Merli e Pierino Pozzi è tratta da Il piatto piange di Piero Chiara, ripubblicato ora nella raccolta di tutti i romanzi da Mondadori nei Meridiani.

TRE POESIE DI IVAN LALIC

Ultimo Quarto

La luna comincia a rodere sé stessa
Alla fine di giugno: è l’ultimo quarto.
Il secolo si divora come la luna,
si dirige alla foce, accelera e curva.

Sull’oceano naviga la flotta,
il suono si frantuma in schegge
che trafiggono l’atmosfera.

Uno spirito maligno di notte sconvolge
Il senso di un libro amato
Nel tempo del primo equilibrio.
Il bicchiere sul tavolo scoppia.
Intanto, si spengono i fuochi:
non c’è più combustibile.

Tu però non permettere al cuore
Di appesantirsi troppo nell’attesa:
riconta le parole fidate
l’ultima tienila per te.

Ciò che ogni albero sa

Impara, cuore, ciò che ogni albero sa:
disporre la radice, conficcarla
con giusto orientamento nel buio sparso;
non dentro il sasso, ma attorno;
non dentro l’argilla, ma verso l’acqua lontana.
Se non fa così, rachitica sarà la chioma
Gibboso lo sforzo di ergersi, brutta la corteccia,
secco e rado il frutto.
Ogni albero lo sa. Tranne l’ulivo.
Non imparare, cuore, dal folle albero d’ulivo
Che ricorda gli dei ellenici, innamorato della pietra
E del serpe che custodisce nella sua radice.

Il monologo del corvo

La colomba, lo so, è molto meglio
Per portare la buona novella
Nel piccolo becco stanco che già è un simbolo.
In ramoscello, speranza, modello per pittori,
nei manifesti di pace.
Io scelgo l’assenza,
ora che sono chiuse le sorgenti dell’abisso
e le cateratte del cielo. Scelgo la coscienza limpida.
Sulle mie piume nere porto il sole, dopo il diluvio.
Becco gli occhi del peccatore. Gracchio.
Sarò dipinto sugli stemmi, diritto sulla neve,
nero come una parola funesta.
Mi insegneranno a dire nevermore. Sarò famoso.
Ma non come la colomba: nel suo volto,
si ricopre di piume la speranza, nelle mie piume
invece, si materializza la paura.
IVAN LALIC, nato a Belgrado nel 1931 e morto nel 1996. È considerato il più grande poeta serbo del ventesimo secolo. Ha tradotto la Divina Commedia. Le poesie sono tratte dalla raccolta Strasna mera (Ultima misura) del 1984.

CAUTAMENTE DISSIMULARE, PIAMENTE TACERE
Fra i sette vizi capitali non è compresa la menzogna. Nella dottrina cattolica, a partire da Papa Gregorio Magno (eletto nel 590), la menzogna è considerata solo un “peccato derivato”: strumento dell’avarizia (nella forma dei raggiri), o strumento dell’invidia (nella forma della maldicenza).
È del resto significativo il fatto che nella Divina Commedia non sia riservato ai mentitori un girone specifico.
Questo atteggiamento aveva precise ragioni: con l’inganno e i raggiri la Chiesa aveva costruito il suo impero.
Ben nota è la falsa donazione di Costantino che aveva posto le basi per giustificare il potere temporale; meno noti sono gli atti con i quali Ottone il Grande, l’imperatore analfabeta, confermava al papa Giovanni XII le donazioni effettuate dai suoi predecessori e gli donava i territori conquistati a Berengario marchese di Ivrea sottoscrivendo atti predisposti dal suo seguito di religiosi incaricati di scrivere per suo conto, e firmati nella convinzione che si trattasse solo di piccole concessioni di terra.
In entrambi i casi, secondo la Chiesa si trattava di menzogne e di inganni a fin di bene, quindi moralmente non riprovevoli, ed anzi addirittura encomiabili.
La menzogna a fin di bene – il peccatillum dei gesuiti – passa da principio dell’educazione cattolica a cardine della pratica politica, insieme ad altri espedienti, tutti giustificati dal fine perseguito.
Alcuni tra i più celebri sono indicati da Immanuel Kant nel suo Trattatello Zum ewigen Frieden, scritto nel 1795 in occasione della pace di Basilea tra Francia, Spagna, Olanda e Prussia.
Kant ricorda la reservatio mentalis, consistente nel formulare delle affermazioni in modo che, alla bisogna, possano essere interpretate anche in altro modo, a proprio vantaggio; il peccatum philosophicum, in base al quale si sostiene che l’occupazione di un piccolo stato da parte di uno più grande porta comunque vantaggi al mondo globalmente considerato; il probabilismo, con il quale si attribuiscono intenzioni ostili ad altri, ipotizzando che siano in possesso di poteri e forze non dichiarate per poterli eliminare. Sugli ultimi due espedienti si è basata la politica estera di conquista e sopraffazione degli Stati Uniti: dalla guerra fredda, al Vietnam, all’Iraq.
L’importanza della menzogna a fin di bene nel suo passaggio da strumento religioso a strumento politico è evidenziata dalla vicenda che contrappone Girolamo Tartarotti agli ecclesiastici trentini nella seconda metà del XVIII secolo.
Con la sua Lettera intorno alla santità e martirio di Alberto vescovo di Trento Tartarotti svelò nel 1752 l’ingannevole costruzione che aveva portato a venerare come santo e martire il vescovo (De origine ecclesiae tridentinae et primis eius episcopis, 1743). Tartarotti dimostrò che il santo in realtà altro non era che un mercenario a sostegno dell’imperatore Federico Barbarossa è mori non già come martire ucciso da infedeli o da eretici a motivo di religione, ma combattendo “ contro altri cattolici in guerra civile”.
Le proteste degli ecclesiastici trentini e dei loro sostenitori furono veementi. Il barone Leopoldo Pilati ricordò minacciosamente a Tartarotti che “ruina est homini devorare sanctos”, ammonendolo che il corretto comportamento da seguire, conformandosi alle tradizioni ecclesiastiche, avrebbe dovuto essere quello di “contentarsi di privato esame per dare pascolo alla sua erudizione” e poi “cautamente dissimulare, piamente tacere”.
Invece, il francescano Benedetto Bonelli, con il quale Tartarotti già si era scontrato a proposito di streghe e di maghi (che, a differenza di Bonelli, Tartarotti riteneva il frutto dell’esasperata immaginazione di villici abbrutiti dalla miseria, il cui tragico abbaglio è sostenuto dai tribunali e dall’inquisizione che sulla pelle di quegli infelici consolidano la propria forza) aveva risposto con una voluminosa Dissertazione intorno alla santità e martirio del Beato Adalpreto vescovo di Trento (pubblicata nel 1754) ove osservava che, quando anche si ammetta che Adalpreto sia morto combattendo con la lancia in resta, “il suo sacrificio non cessa di essere un santo martirio perché è dovere dell’ecclesiastico tutelare con tutti i mezzi il prestigio della propria Chiesa”.

Da: Franco Rositi, La tolleranza della menzogna nella scena pubblica, versione provvisoria; Immanuel Kant, Per la pace perpetua, Feltrinelli 2003, in particolare la I Appendice: In merito all’armonia che il concetto trascendentale di diritto pubblico stabilisce tra moralità e politica. La Lettera di Tartarotti può essere letta in La letteratura italiana –Storia e testi, volume 44, tomo V Dal Muratori al Cesarotti, con una nota introduttiva di Marino Berengo. Su questi temi, si può vedere “Verità e politica” tratto da uno scritto di Hanna Arendt nel numero di dicembre 2006 dei testi Infedeli.

TRE POESIE DI CLARA JANÉS

I

Bevi le ombre – disse
Bevi l’oscurità
Dell’amore mortale
E chiudi gli occhi tra le mie ali
Che sono la barca che oltrepassa
Spazio e tempo

II

Isole siamo nel mare
Delle meraviglie.
La parola si squama
Le spiagge in movimento
Minacciano da ogni parte
E l’orizzonte
È la lama di una spada
Pronta a tagliare il giorno.
Ma ad ogni tramonto
Tra il verde delle acque
Emerge il canto del navigatore solitario
Come la vela di una nave amica
Che si dirige senza esitazione
Verso la notte.

III

E mentre si faceva sera
Il cielo spostava la porpora fiammeggiante.
Scendeva l’ombra
E si ripiegava il giorno.
Non per amore
Il passero crudele
Rovesciò le sue lacrime sul mio petto.

Da CLARA JANÉS, Arcàngel de sombra, Visor Madrid 1999. Clara Janés è nata a Barcellona nel 1940, ha studiato a Pamplona e a Parigi, risiede a Madrid. È autrice di romanzi, saggi, raccolte di poesie -Eros (1981), Vivir (1983) Fósiles (1987) e Lapidario (1988) – e traduzioni dal francese, dal turco, dal persiano e dal boemo. Particolarmente importante nella sua formazione è stato l’incontro a Praga con Vladimir Holan, cui ha dedicato nel 1986 il libro di poesie Kampa – dall’omonima isola di Praga ove Holan viveva – e dai cui temi ha tratto ispirazione per un’altra raccolta poetica, il Libro de alienaciones (1980). Molte delle sue opere si richiamano anche alla mistica islamica: la più nota è Diván del ópalo de fuego o La leyenda de Layla y Machnún del 1996, che riprende un racconto folclorico persiano. Ha vinto il prestigioso Premio Nacional de Traducción nel 1997. Arcàngel de sombra (1999) – da cui sono tratte le tre poesie – ha vinto il premio Melilla per la poesia.

QUATTRO POESIE DI VLADIMIR HOLAN

Voce umana

Le pietre e le stelle non impongono
la loro musica su di noi
I fiori sono silenziosi
Le cose trattengono i loro messaggi
Noi non riconosciamo
La loro armonia, fatta di innocenza e sicurezza.

Il vento possiede sempre la castità
dei suoi semplici gesti
E quale sia il suo canto solo gli uccelli lo sanno

Essere è sufficiente e non ha bisogno di parole. Noi
invece abbiamo paura non solo nel buio,
anche in piena luce
Non vediamo i nostri vicini

E disperati, gridiamo impauriti:
Ci siete? Parlate

Notte di capodanno

Che cosa porterà il vento questa notte ?
la pioggia, la neve o una lettera?
Una lettera di chi? Bella o brutta?
Tutto, perfino il silenzio
Ha qualcosa da dire.
Ma tutto, anche ciò che non si può dire,
qualcuno finirà per dirtelo.

Neve

La neve cominciò a cadere a mezzanotte. Ed è
vero che si sta meglio in cucina,
anche se è una scelta dovuta all’insonnia.
È caldo, ti cuoci qualcosa, bevi del vino
e guardi dalla finestra l’intima eternità.
Che importa se nascita e morte sembrano solo dei
piccoli punti
Quando la vita è una linea imprecisa.
Perché dovresti tormentarti guardando il calendario
chiedendoti che senso ha tutto?
Perché confessare che non si hanno i soldi
Neppure per comprare un paio di scarpe?
E perché pretendere che tu soffri più degli altri?

Se qui tutto non fosse silenzio
La neve l’avrebbe inventato.
Sei solo. Risparmia i movimenti.
Non c’è bisogno di mettersi in mostra.

Stelle

Ho imparato questa notte da un libro
di astronomia
Che alcune stelle sono assai vecchie
E prossime ad estinguersi. Allora
Ho aperto la finestra
E ho cercato la stella più giovane.
Ma ho potuto vedere solo nuvole,
mentre il riso sottile di uno sconosciuto
mi indusse a vedere
una stella lontana,
proprio quando l’alba stava rompendo la notte.

Da VLADIMÍR HOLAN (Praga, 1905 – 1980). Dopo aver studiato legge, si dedica alla poesia. La prima raccolta di versi, Il ventaglio delirante, è del 1926,. Nelle raccolte seguenti Trionfo della morte (1930) e L’arco (1934) i critici hanno individuato l’influenza di Mallarmé e del simbolismo. Aderisce al partito comunista e scrive Primo testamento (1940), Terezka Planetova (1944), Viaggio d’una nuvola (1945), Ringraziamento all’Unione Sovietica (1945), Requiem (1945). Quando la Cecoslovacchia diviene comunista, è espulso dal partito per decadentismo, e le sue opere sono proibite.
Da questo momento fino alla morte visse praticamente autorecluso nella sua casa nell’isola di Kampa, a Praga, divenendo un mito vivente ed essendo considerato da tutti il più grande poeta praghese. In questo lungo periodo, scrive Una notte con Amleto (1964; la traduzione italiana è del 1993, con la prefazione di Angelo Maria Ripellino); Ma c’è la musica (1968), Un gallo a Esculapio (1970), I documenti (1976), Ovunque è silenzio (1977). Su Holan, si può leggere L’oracolo di Praga, colloquio con Giovanni Raboni, nel libro edito dal Fondo Pier Paolo Pasolini. Le poesie qui pubblicate sono state anche tradotte da Clara Janés.

RITORNO A CAMPO DEI FIORI: STORIA DI UN ERETICO DIMENTICATO
Antitrinitaristi, unitariani, universalisti, anabattisti, mistici: sono migliaia gli eretici dichiarati o, più spesso, i sospetti di eresia che fuggono nel XVI secolo prima dai territori controllati dalla Chiesa cattolica, riparando nei Grigioni, o a Basilea; poi debbono lasciare anche la Svizzera e i paesi controllati, con modi sempre più intolleranti, dalle chiese protestanti.
Fuggono dai roghi e dalle torture, o, nel migliore dei casi, dai lunghi anni di prigionia: le religioni in Europa mietono vittime.
Seguono spesso le tracce di altri italiani, che sono in precedenza emigrati alla ricerca di opportunità di affari o di lavoro.
Cercano luoghi ove sia possibile vivere professando liberamente le proprie idee, sempre pronti a spostarsi quando si profila il pericolo di essere consegnati agli emissari delle Chiese che li ricercano per bruciarli.
L’esodo si indirizza verso la Polonia (Cracovia soprattutto), la Moravia, la Transilvania, la Lituania.
Alcuni dei fuggitivi sono agiati: sono loro che assistono quelli privi di mezzi. Altri riescono ad ottenere protezione dai signori locali, sfruttando le loro conoscenze, le loro capacità professionali, altri ancora si arrangiano come possono. Raramente la loro presenza è gradita alle popolazioni locali, che vedono gli esuli come potenziali concorrenti negli affari, o come clandestini pronti a rubare occasioni di lavoro, e sono pronti a denunciarli per sbarazzarsene.
Tutti sono vittime dell’intolleranza e della repressione delle Chiese ufficiali, e difensori di principi di libertà e di dignità. Tra loro, ci sono estremisti, fanatici, visionari, profeti e pseudoprofeti, ma ci sono anche gli epigoni dei liberi pensatori dell’Umanesimo e gli antesignani dell’Illuminismo.
Molti sono noti, di altri si sono perse le tracce e rimangono pochi cenni in lettere e in documenti ufficiali mai tradotti o pubblicati.
Tra i primi, anche se non personaggio di primo piano, vi è Jacopo Paleologo. D’origine greca (nacque a Chio nel 1520), entrò nell’ordine dei domenicani e studiò teologia a Genova e a Bologna. Ben presto cominciò a sviluppare idee universaliste sostenendo che non solo i cattolici, ma anche i fedeli di altre religioni, in particolare gli ebrei ed i mussulmani, potevano aspirare alla vita eterna.
Erano tesi già sostenute nel secolo precedente da Marsilio Ficino e, più cautamente, da Pico della Mirandola e da molti altri umanisti neoplatonici; pochi anni addietro, le stesse tesi sosteneva Zwingli a Basilea. Ma ormai, dopo la Riforma, il rifiuto della supremazia assoluta del cristianesimo era una eresia ovunque perseguita: per i suoi sostenitori non c’era scampo.
Jacopo fu inquisito varie volte, fu deportato a Roma e qui incarcerato e torturato. Fu condannato al rogo. Campo dei Fiori era già allestita per l’esecuzione, ma riuscì a fuggire all’ultimo momento, approfittando dei moti popolari scoppiati alla morte del papa Paolo IV.
Si rifugiò in Moravia, da qui fu costretto a riparare in Transilvania: un’isola ancora felice, dove riuscì addirittura a divenire preside del ginnasio di Kolozsvár. Poi, nel 1576, si spostò in Polonia, a Cracovia.
Qui scrisse il trattato De discrimine Veteris et Novi Testamenti ed altre opere meno note, con le quali attaccava il papato e le istituzioni cattoliche, ma anche le chiese protestanti e perfino altri compagni di sventura: non aveva un carattere facile, Jacopo, aveva molti nemici e non molti amici.
Quando tornò clandestinamente in Moravia, nel dicembre 1581, un delatore rimasto ignoto avvertì il vescovo di Olomouc. Questi immediatamente lo fece arrestare e condurre a Vienna. L’imperatore Rodolfo II, protettore di maghi e di alchimisti, cedette alle richieste del Papa Gregorio XIII Buoncompagni con il quale aveva nei mesi precedenti collaborato per la riforma del calendario (il 4 ottobre del 1582 fu seguito dal 15 ottobre). A Roma Jacopo fu nuovamente incarcerato e torturato. E di nuovo condannato al rogo.
Il 18 febbraio 1583 si avviò verso Campo dei Fiori, dove lo attendeva quel supplizio dal quale era riuscito fortunosamente a sfuggire quindici anni prima.
Era in compagnia di altri due eretici. Questi ultimi furono effettivamente bruciati (uno, essendosi pentito, fu prima impiccato e poi arso, mentre il secondo, avendo rifiutato ogni pentimento, fu bruciato vivo).
Ancora una volta, all’ultimo momento, Jacopo si salvò.
Per ragioni mai ben chiarite, e nonostante il suo curriculum ereticale di prim’ordine, fece ritorno da Campo dei Fiori per ordine dello stesso Gregorio XIII. Fu imprigionato nel carcere di Tor di Nona. Passarono due anni, e Jacopo pensava di essersela cavata anche questa volta.
Non fu così. Non sappiamo che cosa successe: forse incautamente Jacopo ricominciò a sostenere le sue tesi universaliste. Forse Papa Gregorio, ormai ottantaquattrenne e prossimo alla fine, decise di non lasciare questo problema scottante al suo successore.
Il 22 marzo 1585, di buon mattino, Jacopo venne condotto per la terza volta a Campo dei Fiori proprio mentre Roma si apprestava a festeggiare la visita dei primi giapponesi convertiti al cattolicesimo.
Questa volta la fortuna lo abbandonò. Fu prima decapitato e poi bruciato: nello stesso punto dove, qualche anno più tardi, avrebbe subito la stessa sorte Giordano Bruno.
Dopo neppure un mese, il 10 aprile, moriva anche Gregorio XIII.

Da: Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Sansoni 1967; Domenico Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania, Sansoni 1970.

DOVE SONO GLI UOMINI?
Il piccolo principe traversò il deserto e incontrò solo un fiore. Un piccolo fiore con tre petali.
Buon giorno, disse il piccolo principe.
Buon giorno, disse il fiore.
Dove sono gli uomini?, domandò il piccolo principe.
Gli uomini? Ne esistono, credo, sei o sette in tutto.
Li ho visti passare molti anni fa. Era una carovana, con dei cammelli. Non sai mai dove trovarli: il vento li spinge di qua e di là. Non hanno radici, e questo, credo, li affligge molto.
Addio, disse il piccolo principe.
Addio, disse il fiore.
Da ANTOINE DE SAINT-EXUPERY, Le petit prince, Gallimard 1943. L’edizione italiana nei tascabili Bompiani è del 2005, con la traduzione di Nini Bompiani Bregoli

Questo trentatreesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel novembre del 2007 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano.
Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989.
I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.stefano.nespor.it.
Il sito è curato e aggiornato da Stefano Rossi.
Ringrazio Maria Inglisa per le pazienti verifiche cui ha sottoposto il testo; Salvatore Giannella per i suggerimenti; Marina Nespor e Pasquale Pasquino per la tradizionale revisione.

Finito di stampare da Compostudio nel mese di novembre 2007.

N. 35 estate 2008

LA COPERTINA
Ritratto ad olio su tela di Charles Darwin da una fotografia del 1881 (Stefano Nespor, 2007).
Per partecipare alle iniziative del Darwin Day (12 febbraio 2009) organizzate dallo Swarthmore College, si può consultare questo sito.

IN QUESTO NUMERO
Giornali e televisioni di questo paese sono ormai quotidianamente invasi da papi, vivi e morti, da questioni e tormenti sull’esistenza di Dio e da sempre più numerose manifestazioni di un politeismo dilagante: contando le centinaia di nuovi santi (tra cui vari finti o imbroglioni), il nostro Olimpo ha ormai surclassato quello greco. Non deve quindi sorprendere che questo numero tratti, più del solito, di religione, “superstizione infantile e prodotto dell’ umana debolezza” come scriveva Albert Einstein in una delle sue ultime lettere, del gennaio 1954: superstizione il cui finanziamento pubblico costa però ogni anno a tutti noi molto più di una spedizione in Iraq. Non è fuori tema la copertina, dedicata a Charles Darwin, del quale ricorrono il prossimo anno il bicentenario della nascita e 150 anni dalla pubblicazione dell’Origine delle specie.
Ma molto precedente, del 1838, è il primo scritto nel quale Darwin concepisce l’idea dell’evoluzione. Quest’anno è stato completato il sito (http://darwinonline.org.uk/) che permette di consultare tutte le sue opere, il suo immenso archivio privato e gran parte del suo epistolario.
L’introduzione è affidata al tema del quotidiano massacro sui luoghi di lavoro. C’è poi la consueta scelta di poesie: del russo Dmitri Prigov e di due poetesse statunitensi, Maya Angelou e Lousie Glück (insieme a un piccolo brano di Ovidio). Infine, voglio ricordare Vladimiro Scatturin, recentemente scomparso, sempre pronto e disponibile ad offrire il suo impegno nelle controversie in cui era necessario un consulente chimico di prestigio. Docente di chimica inorganica all’Università di Milano, fondatore di Medicina Democratica, fu tra i primi ad avvertire del pericolo del disastro di Seveso, lavorando poi per anni come consulente per i legali dei lavoratori nelle vicende giudiziarie di Marghera.
S.N.

NON SOLO KRUPP

I.

Ribolla, un villaggio minerario in provincia di Grosseto, la Montecatini cominciò con il mandare a casa gli operai ultrasessantenni; poi ci furono premi per chi voleva andarsene. Dei cinque pozzi attivi due sono stati abbandonati, gli altri sono in via di esaurimento. Si pratica lo scavo di rapina: non ci si preoccupa della sicurezza, di colmare la terra e la gallerie esaurite, di controllare la presenza di gas tossici o infiammabili; questo rende più probabili vuoti d’aria, frane e incendi. Negli ultimi tre messi ci sono state dodici frane. Il nuovo direttore ha l’incarico di risparmiare ad ogni costo, fino alla chiusura definitiva, senza però diminuire la produzione. Così, agli operai rimasti è stato imposto di estrarre almeno trenta vagoncini per ciascuna squadra (fatta di due uomini) ad ogni turno: venti sono stati licenziati per non aver raggiunto la soglia fissata. In gennaio, l’operaio Giovanni Brizzigotti è morto schiacciato sotto la gabbia dell’ascensore: gli mancavano tre vagoncini, la fine del turno era vicina, la fretta, la stanchezza, una distrazione, ed è avvenuto l’”incidente”. Nel marzo, 48 operai minacciati di licenziamento si sono chiusi per protesta nei pozzi. La polizia, subito intervenuta, ha bloccato le uscite, per farli arrendere per fame, ma senza successo. Dopo tre giorni, si è deciso l’intervento armato: le operazioni sono state dirette dal vicequestore, dal direttore della miniera e dal commercialista della miniera, ex-sindacalista. La polizia ha invaso i pozzi e catturato gli operai. Il direttore ha preteso che fossero portati fuori ammanettati, per dare l’esempio agli altri. Il giornale della Democrazia Cristiana ha parlato di “brillante operazione della polizia”.
Il 4 maggio 1954, a causa delle mancanza di manutenzione e dell’inosservanza delle norme di sicurezza, c’è un’esplosione di gas: muoiono 43 operai nella sezione “Camorra Sud” del giacimento di lignite. Molti muoiono asfissiati: si sarebbero potu- ti salvare, ma nelle dotazioni di sicurezza mancavano le maschere antigas per permettere l’intervento dei soccorritori.
Tutte le denunce dei sindacati e di alcuni quotidiani che richiedevano interventi urgenti per rimediare alla situazione di estremo pericolo erano rimaste inascoltate. Dopo, tutti hanno parlato di tragica fatalità. Il processo a carico dei dirigenti della Montecatini si conclude con l’assoluzione di tutti gli imputati: la strage dolosa è declassata a “imprevedibile incidente”.

II.

La mattina di martedì 4 dicembre 2007 una stringata nota di agenzia di stampa informava che il gruppo siderurgico tedesco ThyssenKrupp chiudeva l’esercizio fiscale 2006-2007 con utili in crescita del 29 per cento rispetto all’anno precedente. L’utile prima delle tasse: tre miliardi e trecento milioni di euro. “I buoni risultati”, concludeva la nota, “hanno spinto il management della ThyssenKrupp a proporre un incremento dei dividendi del 30 per cento, da un euro a 1,30 euro per azione”. Poche ore dopo queste trionfali righe, la notte tra il 5 e il 6 dicembre, in uno stabilimento della ThyssenKrupp a Torino, sette operai hanno trovato la morte investiti da fuoco e olio bollente, in un rogo che ricorda le atrocità di un barbaro medioevo. Un medioevo dove in nome del profitto si abbandonano le più elementari precauzioni: gli estintori semivuoti, i telefoni dell’allarme che non funzionavano, la bicicletta usata per chiamare i soccorsi. La ThyssenKrupp, allora soltanto Krupp, comprò lo stabilimento torinese dall’Iri nel 1994. In tredici anni non ha trovato il tempo e i soldi per applicare la barriera d’azoto della fabbrica gemella di Essen, in Germania, che avrebbe potu-to evitare la strage.
In due giorni, due volti dell’industria: la crescita dei profitti, la morte degli operai.
*

Michele Di Biase, un ex sindaco di Trinitapoli, il paese del Tavoliere pugliese dove sono nato, ha raccolto una preziosa documentazione sul primo laureato della nostra piccola comunità: Scipione Staffa, economista, efficiente direttore dell’Ufficio di statistica della città di Napoli dal 1865, “propugnatore di un socialismo temperato e razionale” (dal quotidiano “Roma”, 12 giugno 1867) il quale parlava di lavoratori che al suo tempo perdevano la vita “in mezzo a fornaci ardenti”. E’ passato quasi un secolo e mezzo e dello stesso tenore sono le parole che ascolto a Torino, davanti allo stabilimento della ThyssenKrupp, da un altro pugliese, l’operaio Antonio Boccuzzi, sopravvissuto al rogo.

Il primo brano è tratto da Luciano Bianciardi, Si smobilita in silenzio nelle miniere di Ribolla in Avanti 28 luglio 1953 e da Ribolla è morta in Critica sociale 5 marzo 1969. Per una storia della miniera di Ribolla si può vedere anche www.ribollastory.net. Il secondo brano è da “Voglia di cambiare” di Salvatore Giannella, edito nell’aprile 2008 da Chiarelettere (www.chiarelettere.it): un diario di viaggio nell’Europa trasparente ed eccellente che ha saputo risolvere problemi che l’Italia trascina irrisolti, di Governo in Governo, da decenni.

TRE POESIE DI DMITRI PRIGOV

Banale ragionamento sul tema della libertà
Hai appena lavato i piatti Ne
vedi già dei nuovi Ma quale
libertà Qui ci vivo sino alla
vecchiaia. In verità, puoi anche
non lavare; Ma ecco arrivano
varie persone Dicono: ci sono i
piatti sporchi – Ma dov’è qui la
libertà?

***

Ecco friggerò una polpettina
Cuocerò un piccolo brodino E lo
lascerò riposare Aprirò la finestrella
che dà Sul cortile e subito balzerò in
cielo Spiccherò il volo, volerò
Volerò, poi ritornerò Mangerò la
polpettina, se mi andrà.

***

Esco in cucina Ecco
subito gli scarafaggi Mi
avvicino a uno
Salve – dico – amico mio Mi riconosci?
Ti riconosco – mi risponde. Ricordi –
chiedo io – Che ti ho quasi ucciso?
Ricordo, ricordo – dice senza rancore.
Che fortuna vivere con questi qui.

Chi sono

In Giappone potei essere Catullo,
A Roma potrei essere Hokusai, e
in Russia sono la stessa persona
che avrebbe potuto essere Catullo
in Giappone E Hokusai a Roma.

Vita d’idraulico

L’idraulico va in giardino, è inverno. Si
ferma e guarda: è già primavera. Lo
stesso accade con lui: era uno studente,
ora è un idraulico. E poi, avanti così. In
fondo, c’è la morte, e prima la maturità,
e prima ancora, e prima ancora e prima
ancora, ecco: un idraulico.

Dmitri Prigov (Mosca 1940 – Mosca 2007) e il suo amico Lev Rubinstein sono stati tra i più importanti componenti della corrente di arte concettuale affermatasi negli anni Sessanta. Ha sostenuto di aver scritto circa 36.000 poesie, diffuse durante l’epoca sovietica in Samizdat clandestini (e spesso su contenitori per il latte o su lattine per bevande) o in raccolte pubblicate all’estero.
Nel 1986 fu arrestato dal KGB e relegato in un ospedale psichiatrico; fu liberato solo a seguito delle proteste internazionali.
Negli anni Novanta Prigov ha cominciato a essere pubblicato in Russia. Ha composto anche romanzi, tra cui Vivere a Mosca e Solo il mio Giappone, racconti, opere teatrali; e poi disegni, video, performances e composizioni musicali.

NON SOLO GESÙ
I .

Il Monte Amiata è luogo di grande religiosità: vi predicò S.Bernardino da Siena; vi rimase per vari anni Santa Caterina da Siena, vi si rifugiò San Filippo Benizi, per sfuggire all’elezione a pontefice nel 1269. Vi operò, da ultimo, David Lazzaretti di Arcidosso, il “profeta dell’Amiata”. Lazzaretti nasce nel 1834, e per oltre trent’anni rimane con il padre ad aiutare la famiglia facendo il barrocciaio. Nel 1868 vede la Madonna e San Pietro che gli comunicano la missione affidatagli da Dio: allora inizia ritiri, digiuni ed altre pratiche ascetiche (rimane per alcuni mesi da solo sull’isola di Montecristo), poi si impegna attivamente nella costruzione di un santuario in Arcidosso e di un eremo sul monte Labro. Ha enorme successo tra la popolazione locale che lo chiama Santo David. Ai suoi fedeli, chiede di lavorare tutti insieme e di mettere in comune i beni, così come voleva la Chiesa prima della sua degenerazione. Stabilisce regole che prevedono la distribuzione dei prodotti della terra secondo l’apporto lavorativo e secondo il grado di bisogno, l’estensione del diritto di voto alle donne, l’organizzazione di scuole gratuite e obbligatorie. Ottanta famiglie aderiscono al suo progetto. Il Regno d’Italia appena unificato considera sovversive le sue regole: è arrestato prima nel 1871, poi nel 1873 per vagabondaggio, truffa e cospirazione. In entrambi i casi è condannato in primo grado e assolto in appello. Nel 1877 Lazzaretti riceve, questa volta direttamente da Dio, l’ordine di proclamarsi “re dei re” e di annunciare una nuova era. La Chiesa lo convoca a Roma, lo sottopone a un processo – probabilmente l’ultimo processo dell’Inquisizione in Italia e lo condanna come eretico. Nel 1878 i suoi seguaci, divenuti nel frattempo alcune migliaia, lo proclamano “Cristo Duce e Giudice”: sono convinti che la Chiesa cattolica abbia esaurito la sua missione e debba essere sostituita dalla Chiesa “giurisdavidica” che sarà inaugurata da una grande processione in cui Lazzaretti, come monarca e giudice del mondo, scenderà dal Monte Labbro. Il 18 agosto 1878 la processione, composta da migliaia di fedeli, è attesa dalla polizia e dai carabinieri che sparano sulla folla: David Lazzaretti è ucciso con tre suoi seguaci, considerati i primi martiri della chiesa giurisdavidica. Furono processati non gli autori degli omicidi, ma i più diretti collaboratori di Lazzaretti con l’accusa di “aver commesso atti diretti a rovesciare il governo e a mutarne la forma, nonché a muovere la guerra civile ed a portare la devastazione e il saccheggio in un Comune dello Stato”. Furono assolti nel novembre 1879 (allora i processi rano rapidi) dai giudici della Corte d’Assise di Siena. Tutti i fedeli però subirono persecuzioni e angherie e il culto fu, di fatto, vietato. Nonostante la repressione, la religione giurisdavidica è però sopravvissuta sotto la guida di Sommi Sacerdoti: l’ultimo è stato Turpino Chiappini morto nel 2002; gli è succeduto il figlio Mauro, che non ha però ancora formalmente assunto il titolo di sacerdote. I fedeli sono attualmente poche diecine e si riuniscono periodicamente per le loro funzioni nei casolari e nelle abitazioni intorno ad Arcidosso. Ma naturalmente, la verità di una religione non dipende dal numero dei fedeli.

II.

È esistito davvero John Frum? Mancano fotografie, documenti, ed anche testimonianze dirette che lo confermino in modo inequivocabile. Tuttavia, della sua esistenza non si può dubitare: vi erano, fino a qualche decennio orsono, alcuni ormai anziani abitanti dell’isola di Tanna, nelle nuove Ebridi (denominata Vanuatu dal 1980) che lo ricordavano distintamente, erano rimasti con lui per vari periodi di tempo, lo avevano ascoltato ed avevano raccolto, in appunti manoscritti, ciò che diceva. Nessuno però ricordava bene com’era: alcuni dicevano che era piccolo, altri che era più alto della media; per alcuni aveva i capelli biondi e lunghi, per altri (la maggior parte) i capelli erano bianchi o argentati. Gli anziani che lo ricordavano però erano d’accordo sul fatto che John Frum era arrivato a Tanna alla metà degli anni Trenta del secolo scorso, si era fermato per alcuni anni vivendo da solo in una capanna alla periferia di un villaggio; girava spesso per l’isola facendo profezie, parlando di un regno futuro ove tutti sarebbero vissuti ricchi e felici, ed era circondato dall’affetto e dalla devozione di molti abitanti dell’isola che, appena possibile, gli stavano vicino. Lo chiamavano il Maestro. Erano sicuri che fosse stato mandato da Dio. John Frum scomparve all’improvviso nell’estate del 1941. Aveva sempre avvertito che un giorno sarebbe tornato dai suoi antenati, promettendo però che poi avrebbe fatto ritorno a Tanna e avrebbe condotto tutti nel regno della ricchezza e della felicità. Tuttavia, vi fu chi sospettò che fosse stato ucciso da alcuni missionari cristiani presenti sull’isola, che lo consideravano un inviato del demonio. Col passare del tempo, i suoi fedeli aumentarono gradualmente di numero. Si diffuse la convinzione che Frum sarebbe tornato in aeroplano. Così, fu disboscata un’area nel centro dell’isola per preparare una pista d’atterraggio, che tuttora esiste e funge da punto di raccolta per i fedeli. Nel 1950 un famoso giornalista australiano, David Attenborough, andò a Tanna. Lì intervistò il capo del culto, un uomo chiamato Namba, venerato da tutti i fedeli di John Frum come un santo. Namba asserì di essere in continuo contatto con il Maestro, che chiamava familiarmente John, per mezzo di una donna che, legata con un filo elettrico, cadeva in trance e profferiva parole che solo Namba poteva capire. A un certo punto, verso l’inizio degli anni Sessanta, si diffuse la convinzione che Frum avrebbe fatto ritorno il 15 febbraio, anche se non si sapeva l’anno. Da allora, ogni 15 febbraio migliaia di fedeli si ritrovano, vicino alla pista d’atterraggio, per attendere il suo arrivo. Un turista che visitò Tanna nel 1971 chiese a uno dei fedeli di Frum, chiamato Sam: Sam, sono ormai trent’anni da quando John Frum se ne è andato, promettendo che sarebbe ritornato con regali per tutti. Non ti sembra che lo state aspettando ormai da troppo tempo? Sam rispose: C’è gente che aspetta da centinaia e centinaia di anni che Gesù faccia ritorno. Perché io non posso aspettare diciannove anni che torni John Frum? Oggi, la maggior parte degli abitanti dell’isola di Vanuatu venera John Frum e il partito costituito dai suoi fedeli, il Song Keaspai è al governo, guidato dal quarto successore di Namba, Isaac Wan.
S.N.

PERSEFONE

Il rapimento di Persefone.

Non lontano dalle alte mura di Enna c’è un lago Chiamato Pergo, dove cantano numerosi i cigni.
Una foresta circonda le acque del lago da ogni parte Le sue fronde fanno riparo ai raggi di Apollo.
È fresco sotto i rami, e dalla terra umida escono fiori purpurei. Eterna è lì la primavera. Mentre Proserpina girava nel bosco E con le compagne coglieva gigli e viole, e riempiva cestelli e il grembo della veste, all’improvviso fu scorta da Plutone e subito desiderata e rapita. Così può esser veloce l’Amore. Terrorizzata, Proserpina, saldamente tenuta da Plutone sul dorso del suo cavallo nero chiama la madre e le compagne. E vede, intanto, che dalla veste lacerata cadono tutti i fiori raccolti. Anche per questo piange la ragazzina rapita.

Persefone e l’innocenza

Un giorno d’estate, girando per i campi, Persefone si ferma allo stagno dove spesso
Si specchia, e studia
I cambiamenti del suo volto.
Sono ancora una ragazzina, pensa.
Il sole sembra, riflesso sull’acqua, assai vicino.
È di nuovo Apollo, mio zio, che mi spia, lei pensa.
Ma tutto nella natura è, in qualche modo, suo parente.
Qui, sulla terra, non sono mai sola, pensa.
Poi questo pensiero si trasforma in una preghiera.
Subito Ade, il dio della morte, la prende.
Nessuno più si ricorda quanto era bella.
Solo lei si ricorda. Ricorda anche che il dio della morte la ha abbracciata
Proprio vicino allo stagno, mentre suo zio guardava,
Poi, Ade la porta via.
Ricorda, anche se con minor chiarezza, la sensazione che da quel momento non può più vivere senza di lui.
La ragazzina che è scomparsa vicino allo stagno non tornerà più.
Tornerà periodicamente una donna, cercando la giovane che era stata un tempo.
Si ferma vicino allo stagno e si lamenta, ogni tanto, sono stata rapita.
Ma le sembra strano, non è ciò che ha provato.
Allora dice:
Non sono stata rapita.
E poi dice:
Mi sono offerta, volevo sfuggire al mio corpo.
Dovevo essere, pensa, una ragazza semplice.
Ma non riesce a ricordarsi esattamente come era.
Forse lo stagno dove un tempo si specchiava si ricorda ancora di lei e può spiegarle il senso di quella sua preghiera.
Potrà così capire se è stata esaudita o no.

Persefone vagante

In una prima versione, Persefone
È sottratta a sua madre
E la divinità della terra Punisce così gli umani.
Il soggiorno di Persefone negli Inferi
Continua a far discutere gli esperti:
era d’accordo con il rapitore,
o è stata trascinata via contro la sua volontà
magari drogata, come accade così spesso alle
ragazze anche oggi?
Come si sa, il ritorno a casa della ragazza non
cancella ciò che è successo: Persefone ritorna
con una indelebile macchia sul corpo, come un
personaggio di Hawthorne. Ma torna davvero a
casa Persefone? È la terra la sua casa,
o è ormai sottoterra, insieme alla
divinità? Dov’è davvero la sua casa?

Oggi nevica. Il vento freddo invernale Ci dice che
Persefone è con la sua divinità infernale. A
differenza di noi, lei non sa come è fatto l’inverno.
Sa solo che è proprio lei che lo provoca, mentre
sta abbracciata con Ade, mentre sua madre,
Cerere, continua a governare la terra. Questa
unione terribile con il dio della morte, alla quale
lei è stata destinata fin da quando era ragazzina
durerà ormai per sempre.

Riflessioni sulla poesia contemporanea

Condivido con i poeti della mia generazione gli obiettivi e le aspirazioni; ma non sono d’accordo su alcuni punti. Non credo che la ricchezza di informazioni offra una poesia più ricca. Sono attratta dalle ellissi, da ciò che non viene detto, dalle allusioni, dai silenzi che parlano. Ciò che non si dice è più potente di ciò che si dice: vorrei poter costruire un intero poema basato su allusioni. Vale lo stesso per ciò che non si vede: il potere evocativo delle rovine o delle opere d’arte danneggiate o incompiute. Queste opere inevitabilmente alludono a più larghi contesti.
Creano tensione perché non c’è tutto, anche se tutto si può intravedere. L’obiettivo della creazione artistica è cogliere il potere dell’incompiuto. Tutte le esperienze sono parziali: non solo perché sono soggettive, ma anche perché ciò che non conosciamo è molto più vasto di quello che conosciamo. Ciò che è incompiuto o è stato distrutto partecipa di questo mistero.
Il primo brano è di OVIDIO, Le Metamorfosi, V libro, vv.385-482. I due brani che seguono sono tratti da composizioni inserite in Averno, la più recente opera di Louise Glück (nata a New York nel 1943), pubblicata nel 2006 e dedicata al mito di Persefone, Demetra e Ade (Proserpina, Cerere e Plutone per i Romani).
Alla riflessione in chiave moderna degli antichi miti greco-romani Louise Glück ha dedicato altre opere poetiche: Meadowlands (1966) che tratta del mito di Odisseo e Penelope e Triumph of Achilles (1985) che ha ricevuto il National Book Critics Circle Award. Nel 1999 con Vita Nova Louise Glück ha vinto il Boston Book Review’s Bingham Poetry Prize and The New Yorker’s Book Award in Poetry. L’ultimo brano è tratto dal saggio Disruption, Hesitation, Silence, pubblicato in una raccolta di riflessioni sulla poesia moderna: Proofs & Theories: Essays on Poetry (1994).

LA BIBBIA RACCONTATA AI RAGAZZI

Tra le varie leggi morali che il dio della Bibbia impone di seguire vi è il comando di uccidere tutti coloro che praticano la magia e di sterminare coloro che offrono un sacrificio agli dei e non al vero Dio (Esodo, 22,19). Il dio della Bibbia commette violenze, ordina torture e stupri ed elimina con le più varie ed efferate modalità tutti coloro che non seguono il suo insegnamento: “Sterminerò ogni mattina tutti gli empi del paese per estirpare dalla città del signore quanti operano il male” (salmi, 101, 8). Coloro che non seguono i suoi insegnamenti debbono perire tutti insieme, il giovane e la vergine, il lattante e il vecchio (Deuteronomio, 32, 22-25). C’è da stupirsi se, in attuazione di queste indicazioni, i rappresentanti di questo Dio abbiano ordinato di trucidare milioni e milioni di persone e se i fedeli di questo dio abbiano meticolosamente eseguito? Eppure, questo libro, del quale dovrebbe essere sconsigliata la lettura, è considerato un libro sacro: per molti, anzi, è un libro che proviene direttamente da Dio. Un noto quotidiano sta diffondendo volumi ove la Bibbia è raccontata ai ragazzi. Sono omesse però le leggi da seguire e sono pudicamente censurati molti episodi sacri. Eccone, tra i molti, due. Il primo assai noto, incomprensibilmente raccontato come una vicenda esemplare di obbedienza a Dio, è invece uno dei primi resoconti scritti di una manifestazione di follia da parte di un sadico criminale che oggi sarebbe certamente trattato e punito come tale. È anche la più antica dimostrazione che è dentro le mura domestiche che si compiono i delitti più crudeli e disumani. Il secondo, di pari truculenza, contiene l’importante insegnamento che di patti e gli accordi non si rispettano, e il tradimento non è immorale. Insegnamento che è stato seguito con scrupolo dalle varie religioni che assumono la Bibbia come libro sacro.

I – (Genesi 21,25)
Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, e offrilo in olocausto su un monte che io ti indicherò”. Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con se due servi e il piccolo Isacco, tagliò la legna necessaria per l’olocausto e si mise in viaggio. Quando giunse al luogo che Dio gli aveva indicato, disse ai suoi servi: “Fermatevi qui con l’asino, io e il ragazzo andremo su quel monte”. Prese la legna, la caricò sul figlio Isacco, prese il coltello e si mise in marcia. Isacco chiese al padre: “Qui abbiamo il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello da sacrificare?” Abramo rispose: “Sarà Dio a fornirci l’agnello per il sacrificio”. Proseguirono così insieme, arrivarono al luogo indicato da Dio. Qui Abramo costruì con l’aiuto di Isacco l’altare, collocò la legna, legò il figlio e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi prese il coltello per immolare il figlio. A questo punto l’angelo lo chiamò dal cielo e gli disse: “Non uccidere il ragazzo. Ora so che tu temi Dio e non gli rifiuti neppure il tuo unico figlio”.

II – (Genesi, 33,13).
Quando Dina, la figlia di Giacobbe e di Lia, andò a fare una passeggiata, Sichem, figlio di Camor, la vide, e la rapì con violenza. Poi disse al padre: “Prendimi in moglie questa ragazza”. Allora il padre si recò da Giacobbe e dai suoi figli e disse: “Mio figlio vuole Dina. Dategliela in moglie. Vi darò quel che mi chiederete”. Raggiunsero un accordo. Ma, dopo pochi giorni, i figli di Giacobbe, Simeone e Levi, presero una spada, entrarono nella città di Camor, e passarono a fil di spada Camor e suo figlio Sichem, uccisero tutti i maschi, e portarono via Dina. Poi tornarono e saccheggiarono la città per vendicare l’onore di Dina. Presero così le greggi, gli asini e tutto quanto era nella città. Portarono via i bambini e le donne. ?
S.N.

TRE POESIE DI MAYA ANGELOU

Ancora mi alzo

Puoi cancellarmi dai tuoi libri di storia
Con le tue amare e contorte bugie Puoi
calpestarmi nel fango Ma io, ancora,
come polvere, mi rialzo.

La mia sfrontatezza ti disturba? Ti dà fastidio
l’oscurità? Perché io cammino come se avessi
pozzi di petrolio Che pompano nel mio salotto.
Proprio come lune e come soli Con la certezza
delle maree Proprio come speranze che saltano
in alto
Io mi alzo.

Volevi vedermi distrutta? Con il capo
chino e gli occhi abbassati, Con le
spalle cadenti come lacrime, Abbattuta
dal mio pianto accorato?

Consideri la mia arroganza offensiva? La
prendi davvero male Perché io rido come se
avessi miniere d’oro Da scavare nel mio
cortile. Puoi colpirmi con le tue parole Puoi
ferirmi con le tue occhiate,
Puoi uccidermi con il tuo odio, Ma poi,
ancora, come l’aria, io mi rialzo. Il mio
fascino ti disturba? Ti sorprende Che io
danzi come se avessi diamanti Lì dove si
uniscono le mie cosce?

Fuori dalla vergogna della storia
Mi alzo
Dal passato immerso nella pena
Mi alzo.

Io sono un ampio tumultuoso oceano nero, Mi
muovo nella marea con l’onda e con il sudore.
Lasciando dietro di me notti di terrore e paura Mi alzo
In un’alba che è stupendamente chiara Io
sono il sogno e la speranza dello schiavo.
Mi alzo.

Presunzione

Dammi la tua mano.
Fammi posto Per guidarti e
seguirti Oltre la rabbia
della poesia.

Lascia che altri possano
Da soli scambiarsi Dolci
parole E amare la perdita dell’amore.
A me, basta la tua
mano.

Lavoro femminile

Ho bambini da accudire
Vestiti da rammendare
Il pavimento da pulire
Il cibo da comprare Poi
devo friggere il pollo.
Cambiare i pannolini al bambino.

Ho gente da nutrire
Ho l’orto da coltivare
Ho le camice da stirare
I ragazzi da vestire
Devo pulire questa baracca
E poi assistere gli ammalati.
Splendi su di me, sole,
Bagnami, pioggia,
Appoggiati con dolcezza, rugiada,
e rinfresca la mia pelle.

Tempesta, portami via da qui
Con il tuo vento impetuoso
Fammi volare nel cielo

Finché posso trovare riposo.
Cadete con tenerezza, fiocchi di neve,
copritemi con bianchi
gelidi baci e fatemi riposare questa notte.
voi siete tutto ciò che è mio.
Maya Angelou (il cui vero nome è Marguerite Ann Johnson), poetessa, scrittrice, attrice, musicista, docente universitaria, e combattente per i diritti civili, è una delle più importanti figure della cultura afroamericana contemporanea.
È nata nel 1928 nel Missouri, la sua famiglia discende dalla etnia Mende della Sierra Leone. Ha lavorato a lungo con Malcom X, conosciuto in Ghana dove Maya lavorava dal 1961 alla scuola di musica e drammaturgia di Accra; tornata negli Stati Uniti, lo ha aiutato a costituire la Organization of African American Unity. Ha collaborato anche con Martin Luther King. Ha scritto sei autobiografie (la più importante del 1969 I Know Why the Caged Bird Sings). Del 1971 è il volume di poesie Just Give Me a Cool Drink of Water ‘Fore I Die. Ha scritto varie opere teatrali e una commedia musicale, Georgia, Georgia, rappresentata con successo a Broadway.
In questo periodo ha conosciuto Oprah Winfrey, aiutandola nella sua carriera. Ha prodotto una serie di episodi per la TV sulle tradizioni e la cultura africana negli Stati Uniti.
Nel 1981 è divenuta docente di American Studies alla Wake Forest University in North Carolina. Ha letto il suo poema “On the Pulse of Morning” alla cerimonia inaugurale della presidenza di Bill Clinton nel 1993 (l’ultimo poeta a ricevere questo onore era stato Robert Frost, invitato da John F. Kennedy nel 1961).
Le poesie sono tratte da The Complete Collected Poems of Maya Angelou, Random House, 1994.

MIRACOLI
Nascita di Gargantua

Soprassaltò il bambino nel ventre della madre, e si infilò nella vena cava. Poi, risalendo per il diaframma fino al disopra delle spalle, prese dove la vena si biforca, e uscì dall’orecchia sinistra. Appena uscito, Gargantua gridò subito “Da bere, da bere”, e fu sentito da tutto il paese. Qualcuno di voi non crederà a questa strana natività. Farebbe male: un uomo dabbene crede sempre a ciò che gli viene detto. Non dice forse Salomone (Proverbi XIV) “Innocens credit omni verbo”. Perché mai voi non dovreste credere a questa storia? Perché, voi risponderete, non c’è nessuna parvenza di vero. Ma io dico appunto che proprio per questo voi dovete crederci. Poi, nella Bibbia non c’è niente che sia contro una cosa simile. Del resto, se Dio avesse voluto far nascere Gargantua in questo modo, direste forse che non avrebbe potuto farlo? Nulla è impossibile a Dio, e se lui così volesse, d’ora innanzi tutte le donne di Francia farebbero bambini dalle orecchie. Del resto, Bacco non fu generato da una coscia di Giove? E Minerva non nacque dal suo cervello? E Gesù non nacque da una donna vergine? E Castore e Polluce non nacquero dal guscio di un uovo, fatto e covato da Leda?

La pallina

C’è stato un periodo in cui avevo creduto in Dio. La volta in cui ci avevo creduto di più era quando avevo perso la mia pallina di gomma. Giocavo in casa, la lanciavo contro il muro e la prendevo saltando sul divano. Un giorno un rimbalzo era andato storto e quando mi ero rialzato dal divano la pallina era scomparsa. L’avevo cercata ovunque tutto il pomeriggio. Sotto i mobili, fra i cuscini sulle mensole. Nulla, svanita. La mia unica pallina. Allora mi ero inginocchiato davanti all’immagine della Madonna che splendeva dietro il plexiglas, avevo unito le mani e chiuso gli occhi. Avevo detto, tra me e me: Se mi fai ritrovare la pallina giuro che rifiuterò ogni invito dei miei amici ad andare a tirare i sassi contro la campana della Chiesa Nera, la più grande della Romania e non parlerò neppure mai più di quelle cose che sai, con i miei amici. Lo giuro”. Poi avevo fatto quattro volte il segno della croce perché venisse meglio. Poi mi ero sdraiato a terra poggiando la guancia contro le piastrelle avevo chiuso l’occhio opposto. La sagoma della pallina mi era apparsa immediatamente dietro la gamba interna della credenza.
Avevo pensato: Dio esiste. Però, quando avevo pregato la Madonna dietro il plexiglas ancor più intensamente perché non faces-se morire mia madre, e lei invece, poco prima dell’alba aveva soffiato dal naso come se avesse il raffreddore e non si era più mossa, avevo capito che Dio era un imbroglione, che esisteva solo quando gli andava.

Benefici delle preghiere

Il cugino di Darwin, Francis Galton, è stato il primo a studiare in modo scientifico gli effetti benefici delle preghiere. Esaminò, per esempio, lo stato di salute della famiglia reale inglese, oggetto di preghiere pubbliche settimanali da parte dei sudditi britannici, e non constatò che vi fosse una rilevante differenza nella salute dei reali rispetto al resto della popolazione, di cui nessuna preghiera si occupava. Più recentemente, è stato condotto un esperimento finanziato dalla Templeton Foundation. L’esperimento è costato oltre due milioni di dollari e si è svolto al Medical Institute di Boston, sotto la guida del cardiologo Herbert Benson. Sono stati prescelti casualmente 1800 pazienti ricoverati in sei diversi ospedali, tutti ricoverati per un bypass alle coronarie, e sono stati suddivisi in tre gruppi. Nessuno dei pazienti sapeva a quale gruppo era assegnato. Tuttavia i pazienti del primo gruppo erano al corrente di ricevere preghiere per la loro salute. I pazienti del secondo gruppo non ricevevano preghiere e non lo sapevano. I pazienti assegnati al terzo gruppo, infine, ricevevano preghiere senza saperlo. Né gli infermieri, né i medici dei vari pazienti erano al corrente di quali fossero i destinatari delle preghiere, i cui nomi erano invece noti ai tre gruppi di persone che, quotidianamente, e per un mese, da chiese collocate in città diverse, pregavano per la loro salute. I risultati sono stati esposti nel American Heart Journal dell’aprile 2006. Sorprendentemente, non è emersa alcuna differenza sullo stato di salute dei pazienti che avevano ricevuto preghiere e sullo stato di coloro che non le avevano ricevute. Invece, c’era una significa differenza tra quelli che erano al corrente di ricevere preghiere e quelli che non lo sapevano. I primi risultavano in condizioni di salute più precarie. Secondo alcuni autori della ricerca, la causa è da ricercarsi nello stress da performance subito dai pazienti che sapevano di essere destinatari di preghiera; secondo altri, nella preoccupazione derivante dal fatto di essere stati prescelti. Secondo il teologo Richard Swinburne, Dio non ha accolto le preghiere perché altrimenti avrebbe offerto una non necessaria prova della sua esistenza.

Qualche dato su Lourdes

Il più famoso santuario mariano del mondo, Lourdes, ha 150 anni (la prima apparizione della Madonna a Bernadette è del 1858). Con l’aiuto del Bureau Medical di Lourdes e del Comité Medical di Parigi sono state elaborate delle stime sul numero dei visitatori di Lourdes e sul numero dei miracolati riconosciuti ufficialmente dalla Chiesa. Ecco alcuni dati. Stima dei pellegrini in 144 anni (1858 – 2002): 300.000.000. Stima minima dei malati di varia gravità: 20.000.000. Casi dichiarati ufficialmente miracolosi: 67 (l’ultimo riguarda un italiana ed è del novembre 2005). Percentuale dei malati miracolati sul totale dei malati: 0,00033% (3,3 casi su un milione). Numero di casi miracolosi rispetto al numero complessivo di malati: 1 miracolo ogni 300.000 malati. Percentuale di donne miracolate sul totale dei casi miracolosi (66 casi): 54, cioè 81,8%. La Madonna, come forse è ovvio, ha una netta preferenza per il genere femminile. Se si esamina quanti miracoli si sono avuti in un periodo piuttosto che in un altro, si scopre che i miracoli sono in netto, inarrestabile calo. Sotto la presidenza del prof. Boissarie (1892 1917) sono stati analizzati 1536 casi, dei quali 33 furono considerati miracolosi, cioè il 50% del numero complessivo dei miracoli accertati. Sotto la presidenza del prof. Mangiapan (1977 1995) sono stati analizzati, più o meno nello stesso arco di tempo, soltanto 3 possibili miracoli, e tutti sono stati considerati miracolosi. Nessuno prende in considerazione l’eventualità che il calo dei miracoli dipenda da una scelta della Madonna. Secondo alcuni, il calo dei miracoli dipende da chi dirige il Bureau Medical di Lourdes: le Commissioni incaricate di valutare sono divenute via via più esigenti con il passare del tempo. Altri attribuiscono la causa ai progressi della medicina: ciò che una volta era miracolo, oggi viene curato. La Madonna non ha più bisogno di fare miracoli: il suo era un intervento sussidiario e temporaneo, in attesa che il progresso medico fosse autosufficiente. Altri ancora se la prendono con i criteri troppo rigidi fissati dalle Autorità ecclesiastiche: le verifiche richiedono spesso anni e anni e, nel frattempo, non si può parlare di miracolo. Chi ne fa le spese è la città di Lourdes e tutto il settore di attività collegato alla produzione di miracoli (che, con l’indotto, assomma alcune centinaia di migliaia di persone e un giro di incassi notevolissimo).
Ed allora, le autorità municipali stanno prendendo in considerazione la possibilità di cambiare le regole, affinché un numero di guarigioni più ampio sia collegato a un eventuale intervento divino. Più miracoli, tutto sommato, significa più partecipazione di Dio alle cose terrene. Conviene a tutti. In questo senso si è pronunciato anche il vescovo di Lourdes, che ha proposto di poter annunciare una guarigione inspiegabile appena si verifica. Le guarigioni potrebbero così essere classificate come “inaspettate” o “eccezionali”, una sorta di categoria inferiore al miracolo, ma comunque produttiva per la città.

Il primo brano descrive la nascita di Gargantua ed è tratto da Francois Rabelais, Gargantua e Pantagruel, cap.VI. Il secondo è tratto da Fabio Geda, Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, Instar Libri 2007. Per il quarto brano ho utilizzato alcuni dati contenuti nel libro di Maurizio Magnani Spiegare i miracoli (Dedalo, 2005). Magnani confronta i miracoli di Lourdes con le guarigioni inspiegabili che avvengono in un ospedale qualunque.
La percentuale dei miracoli ospedalieri (le guarigioni incomprensibili) è 100 volte superiore a quella di Lourdes.

CREDITI
Questo trentaquattresimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno 2008 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore. Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive. I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.stefano.nespor.it, curato e aggiornato da Stefano Rossi. Ringrazio Maria Inglisa per le verifiche cui ha sottoposto il testo; Salvatore Giannella, Marina Nespor e Pasquale Pasquino, per la ormai tradizionale revisione.

N. 35 inverno 2008

IN COPERTINA, UNA PANCHINA DI RIMINI

Sul retro, per ricordare i quarant’anni dell’elezione di Papa Wojtyla, un ritratto con il generale Augusto Pinochet, responsabile di crimini contro l’umanità.
La foto ritrae il Papa e il dittatore sul balcone del palazzo presidenziale, a Santiago del Cile, dal quale Salvador Allende parlò prima di essere assassinato, rifiutando di arrendersi.
Ricordo che il 12 febbraio 2009 sarà il Darwin Day.

IN QUESTO NUMERO

Lentamente, il paese si sta assuefacendo alla normalità del razzismo e delle discriminazioni. Fatti gravissimi ormai non sono considerati più tali anche da persone insospettabili. La capacità di indignazione di questo paese è ormai riservata solo a decisioni arbitrali errate nelle partite di calcio.
Per questo ho pensato di iniziare con due fatti di cronaca, assai diversi ma accomunati dall’ indifferenza e dalla noncuranza dell’opinione pubblica e delle istituzioni. A questi temi rinviano anche le due allusive e misteriose poesie che seguono, di René Char. C’è poi una parte dedicata all’Africa, passando dal Congo degli anni Trenta (il brano è di Emily Hahn, una scrittrice statunitense sconosciuta in Italia) a due cronache dall’Angola che descrivono, in modo molto diverso, gli stessi fatti e gli stessi giorni che precedono l’indipendenza. Attratto dall’omonimia, ho pubblicato alcune poesie di Ulla Hahn (tra cui quella, bellissima, dedicata al padre) e poi delle poesie e un brano di Wolfgang Borchert che, come Ulla Hahn, ha descritto il dramma della secondo guerra mondiale sul fronte russo, visto dai tedeschi. Il consueto appuntamento con eretici e eresie è rispettato con la pubblicazione della poesia di Federico Tavan (la cui figura è stata ricordata quest’anno da una mostra fotografica a Pordenone). Un antico motto buddhista (tratto da una raccolta conservata nel Museo nazionale di Singapore) chiude, non del tutto fuori tema rispetto all’inizio, questo volume. S.N.

ROGHI, PERQUISIZIONI, PERSECUZIONI
I.
La panchina di Rimini riprodotta in copertina era da anni l’unica abitazione stabile di Andrea Severi, 46 anni, di Taranto, senzatetto, un uomo gentile e tranquillo, senza problemi con la giustizia. La panchina è annerita: sono le tracce del fuoco e delle fiamme scaturite dai vestiti e dal corpo di Andrea. Accanto, non visibile sulla foto, c’è una bottiglia vuota. Conteneva la benzina che è stata gettata da quattro ragazzi di buona famiglia, incensurati sul corpo di Andrea mentre dormiva, prima di appiccare il fuoco. Ha detto uno dei quattro al giudice, quando è stato arrestato a seguito delle indagini: “Lo abbiamo visto sulla panchina, gli ho svuotato la tanica di benzina sulle gambe e ho gettato il fiammifero, Ha preso fuoco subito. Si è alzato urlando. Volevamo solo divertirci”.
Ora, Andrea è in ospedale, con il 40 per cento del corpo coperto di ustioni. Quando sono venuti a soccorrerlo, Andrea non voleva abbandonare la sua panchina.

II.
Nel giugno del 2008, alle sei del mattino settanta tra agenti di polizia e vigili si sono presentati con vari mezzi blindati al campo ove vive una comunità sinti, tutta composta da cittadini italiani. Tra questi vi è il signor Goffredo, invalido civile, pensionato, reduce da un delicato intervento chirurgico al cuore. E’ stato deportato nel campo di concentramento di Tussicia (Abruzzo) nel 1942, all’età di quattro anni in base alle leggi razziali del 1938 in quanto appartenente all’etnia sinti. È stato decorato con la medaglia d’oro.
Con lui abitano la moglie e due nipoti: il nipote più grande lavora presso un bar in Milano, il più piccolo frequenta la scuola media.
Dopo averli svegliati di soprassalto (senza tenere conto della presenza di minori e delle cagionevoli condizioni di salute del signor Giorgio), gli agenti di polizia e i vigili li hanno “schedati” (è l’espressione usata nei verbali) mediante rilievo fotografico dei loro documenti di identità e li hanno poi fotografati di fronte alle loro abitazioni; queste ultime sono state poi minuziosamente perquisite.
L’incursione è durata più di due ore durante le quali ai presenti è stato impedito di allontanarsi. Per andare a lavoro o a scuola, hanno dovuto attendere le autorizzazioni da parte dei funzionari di pubblica sicurezza.
Tra i cittadini italiani, vi sono, come è noto, delle minoranze linguistiche e delle minoranze etniche. Tra queste ultime, vi è la minoranza sinti, composta di alcune centinaia di persone. Questa minoranza, al pari delle altre, ha diritto di essere trattata senza discriminazioni in base a quanto stabilisce la Costituzione. Non solo. Le minoranze nazionali, e tale è la minoranza sinti, in base alla Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali degli Stati membri del Consiglio d’Europa del 1 febbraio 1995, ratificata dall’Italia con Legge n. 302/28.8.1997, hanno diritto a una protezione rafforzata rispetto agli appartenenti alla maggioranza etnica o linguistica, in quanto “gli sconvolgimenti della storia europea hanno mostrato che la protezione delle minoranze nazionali è essenziale alla stabilità, alla sicurezza democratica e alla pace del continente”. L’art. 1 della Convenzione stabilisce quindi che “La protezione delle minoranze nazionali e dei diritti e delle libertà delle persone appartenenti a queste minoranze forma parte integrante della protezione internazionale dei diritti dell’uomo”. Inoltre, l’art. 3 della Convenzione quadro precisa che “Ogni persona appartenente a una minoranza nazionale ha il diritto di scegliere liberamente di essere trattata o di non essere trattata come tale e nessun svantaggio deve risultare da questa scelta o dall’esercizio dei diritti che a essa sono legati”. Pertanto, gli appartenenti a una minoranza hanno diritto di scegliere se essere qualificati e riconosciuti come tali, godendo dei relativi vantaggi, oppure se essere trattati esattamente come gli altri cittadiniitaliani. È la questione che si è sollevata all’epoca in cui si era introdotto in Trentino Alto Adige l’obbligo per i residenti di scegliere se appartenere alla popolazione italiana o a quella tedesca, contro il quale si è a lungo battuto Alexander Langer.
Il signor Giorgio, anche a nome dei suoi nipoti, si è rivolto all’Autorità Giudiziaria perché fosse riconosciuto che era stato vittima di una ingiustificata discriminazione, per il solo fatto di essere sottoposto a identificazione e schedatura in quanto appartenente a una minoranza, e inoltre per le modalità ingiuriose e volutamente insolenti dell’operazione.
L’autorità giudiziaria ha però ritenuto che non ci sia nessuna ragione di urgenza nel decidere se il comportamento della forza pubblica statale e comunale è stato discriminatorio: il signor Giorgio può attendere i tempi di un giudizio ordinario (che, come tutti sanno, nel nostro paese non è breve: piuttosto che effettuare investimenti per accelerare la durata dei processi, si preferisce risarcire le vittime della – pressoché normale – irragionevole durata degli stessi). Dal canto loro il Ministero dell’Interno e il Comune di Milano ritengono che non vi sia stato nulla di anormale: una operazione di controllo come tutte le altre.

DUE POESIE DI RENÉ CHAR

I.
Sono venuti,
gli stranieri dell’altro versante del monte.
Non li conosciamo,hanno usi diversi dai nostri.
Sono venuti in tanti.
Sono apparsi là dove c’è il confine tra i cedri
E il campo irrigato e verde dopo la mietitura.
Erano stanchi per il lungo andare.
I loro berretti ricadevano sugli occhi,
il loro piede spossato si appoggiava nel vuoto.

Ci hanno visto e si sono fermati.
Chiaramente, non pensavano di trovarci là,
Su terreni piani con solchi ravvicinati.
Tuttavia, non erano preoccupati per l’incontro
Noi abbiamo alzato lo sguardo e li abbiamo
incoraggiati.
Quello incaricato di parlare si è fatto avanti,
seguito da un altro, anche lui malmesso.

Siamo venuti, ci dissero,
per avvertirvi che sta per giungere l’uragano,
il vostro implacabile avversario.
Come voi, anche noi non sappiamo bene
che cosa sia,
se non per quello che ci hanno raccontato
i nostri antenati.

Ma perché siamo così contenti di essere con voi?
Noi abbiamo ringraziato
e abbiamo detto che potevano andare.
Prima però hanno bevuto,
le loro mani tremavano, e i loro occhi ridevano.

Erano uomini della foresta, avvezzi alle scuri,
capaci di affrontare qualsiasi pericolo,
ma inadatti a fare una conduttura per l’acqua,
o una costruzione dai colori gradevoli.
Avremmo potuto assalirli
e sconfiggerli senza difficoltà
Mentre erano angosciati per l’uragano in arrivo.

Certo l’uragano stava arrivando.
Ma, valeva la pena di parlarne e di crearci
problemi per il futuro?
Dove ci troviamo,
non c’è nessun motivo di avere paura.

II.

Oh solitudine sempre più affilata
Dalle lacrime che salgono verso le vette
Quando si dichiara la sconfitta
che una vecchia aquila senza più forza
Vede ritornare la sua sicurezza d’un tempo
Allora si slancia a sua volta la felicità
Sul fianco del precipizio le riacciuffa.
Cacciatore rivale, non hai imparato nulla,
tu che senza fretta mi sorpassi
verso la morte a cui io cerco di resistere.

René Char (1907 -1988) è nato e vissuto per la maggior parte del tempo in Provenza, e la sua terra gli ha fornito lo spunto per la sua opera letteraria. È stato definito un lupo solitario con molti amici (tra cui Eluard, Picasso, Braque, De Stael, Lam, Da Silva, Giacometti, Bataille, Celan, Blanchot, Camus). Nel 1929 ha aderito al movimento surrealista e nel 1930 ha sottoscritto il secondo manifesto del Surrealismo con André Breton, René Crevel e Louis Aragon. Nel 1934 ha pubblicato la raccolta di poesie Le marteau sans maitre, musicate successivamente da Pierre Boulez. Allo scoppiò della guerra si è unito subito alla Resistenza ed è diventato il famoso “Capitano Alexandre”, comandante dei servizi segreti. Ha raccontato la sua esperienza di guerra in scritti, poesie e in un diario Feuillets d’Hypnos (1946). La raccolta Fureur et mystère comprende tutta la sua produzione poetica tra il 1938 e il 1947. Nel 1955 ha conosciuto Martin Heidegger, con il quale ha stabilito una profonda relazione di amicizia. Heidegger definì la poesia di Char “un faticoso viaggio nell’indicibile” .
Del 1955 è il libro di saggi Recherche de la base et du sommet; del 1962 la raccolta più vasta di poesie, La Parole en archipel .
Le sue opere sono state inserite nel 1983 dall’editore Gallimard nella collezione de La Pléiade (Oeuvres Complètes). Tradotti in italiano, oltre ai Fogli d’Ipnos, si possono trovare I canti della Balandrana, Ritorno sopramonte, Le vicinanze di Van Gogh, Mulino primo, Lontano dalle nostre ceneri, Alleati sostanziali.

 

UN VIAGGIO NEL CONGO
Quando nel 1931 arrivai alla Foresta dell’Ituri, nel Congo, avevo paura di tutto. Mi faceva tremare la vista delle narici di un coccodrillo adagiato nell’acqua in mezzo al fiume. Guardavo per terra per evitare i serpenti e scrutavo gli alberi per individuare i leopardi. Mi vergognavo di me stessa, e non volevo che gli abitanti di Tange, così si chiamava il villaggio dove vivevo, se ne accorgessero. Poi non ero qui, sulle sponde dell’Ituri, solo perché avevo fermamente voluto venire in Congo da sola, dopo aver ottenuto la mia laurea in ingegneria mineraria, investendo tutti i miei risparmi in questo viaggio? Per fortuna, le paure mi passarono dopo qualche settimana. Fui aiutata in questo accorgendomi che gli africani avevano più paure di me: una lucertola di un colore diverso dal solito, uno stormo di uccelli prima di sera potevano farli tremare. Questi pericoli mi furono spiegati da un ragazzo di cinque anni, Matope. Era venuto a Tange per curarsi un piede infetto. Poi, rimase, dormendo sotto il portico della mia casa e mangiando con me.
Dopo molti mesi, decisi di partire e di andare verso est; volevo vedere il Lago Kivu. Avrei dovuto essere accompagnata da alcuni portatori, da Matope e da Angelica, un piccolo babbuino che mi stava sempre vicino.
Non sapevo ancora che fare di Matope alla fine del viaggio. In Congo tutti i ragazzi, quando compiono diciotto anni devono lavorare per due anni nelle miniere belghe, e molti non sopravvivono a quell’esperienza. Mi sarebbe piaciuto portarlo con me negli Stati Uniti, mi immaginavo di allevarlo nella mia futura casa, dovunque essa fosse stata. Tuttavia, proprio per non perdere i propri schiavi, il Belgio imponeva una tassa per ogni giovane che lasciava il paese: 10.000 franchi francesi, circa 250 dollari.
D’altro canto, non ero certa che le autorità americane avrebbero concesso il permesso di immigrazione a Matope, dopo il prescritto soggiorno a Ellis Island.
Quando chiesi al capo del villaggio il permesso di portare con me, per qualche tempo, degli abitanti come portatori, cercò di dissuadermi. Nessuno è mai andato verso est, mi disse. A est di Tange non ci sono strade: con ciò, lui intendeva lo stretto sentiero ove si cammina uno alla volta che collegava un villaggio all’altro nella foresta dell’Ituri. Per di più, aggiunse, avremmo incontrato gente sconosciuta, diversa da quelli che abitano a Tange. Magari era-no violenti, quasi certamente non ci avrebbero dato cibo o aiuto. Avrei corso il rischio che i portatori impauriti tornassero indietro e mi lasciassero sola nella foresta.
Ma in Congo, se si ascoltano i consigli delle popolazioni locali, non si fa nulla. Così, insistetti e il capo villaggio si arrese, imponendomi solo di assumere come guida un pigmeo che affermava di conoscere il percorso.
Così, una mattina, dopo aver passato quasi un anno a Tange, mi misi in marcia. Eravamo lontani circa cento miglia dal confine con l’Uganda, dove avrei potuto probabilmente trovare un passaggio su un camion per il lago Kivu.
Per i primi giorni costeggiammo l’Ituri, camminando dentro le orme lasciate dagli elefanti, in modo da avere terreno solido sotto i piedi e non affondare nella melma. C’erano mosche e zanzare. Mi distraevo ascoltando i canti dei portatori.
Quando finalmente uscimmo dalla zona paludosa, i portatori fecero festa. A un certo punto, anche la foresta cominciò a diradarsi e finalmente vedemmo di fronte a noi una pianura dove risplendeva il sole. I portatori erano spaventati, non avevano mai visto niente di simile. Quella notte per la prima volta dormimmo in un villaggio con le capanne fatte di pietra e non di fango, e spirava un forte vento.
Nella foresta, il vento si vede solo perché muove le foglie sulla cima degli alberi, o increspa l’acqua del fiume, ma non si sente mai sul corpo. Ora lo sentivamo, e per alcuni era la prima esperienza. Avevamo tutti freddo.
Il capo villaggio mi avvertì che non eravamo lontani da un insediamento di europei, e da una strada adatta alla percorrenza di veicoli.
Una fase della mia vita era finita. Anche perché dovevo rinunciare ai miei portatori. La legge prevedeva che non si potessero usare se c’erano mezzi di trasporto che permettevano di non andare a piedi.
Il giorno dopo ci rimettemmo in cammino e, a un certo punto, vidi una sorta di piccolo centro minerario, con molti abitanti utilizzati nel trasporto di materiali. Un uomo bianco uscì da una delle capanne e ci scorse. Sembrava perplesso; poi, ci attese con le braccia incrociate e con fare bellicoso.
Quando gli fui abbastanza vicino, la sua prima domanda non fu diversa da quella che mi rivolgevano i capi dei villaggi africani: “Dov’è vostro marito, madame?”. Diedi la risposta consueta: “Non ho marito, sono sola”. Gli dissi il mio nome, e lui disse di chiamarsi de Blank; poi mi chiese scortesemente “Che cosa fate qui” . Questa domanda non me la avevano mai fatta i capi villaggio. Gli risposi che stavo andando verso il lago Kivu. Si mise allora a scrutare i miei portatori, come per scoprire qualcosa che potesse comprovare un mio misfatto. Mi chiesi che cosa fosse successo, se per caso fosse stata dichiarata una guerra mentre mi trovavo a Tange. “Siete andata a caccia?”. Compresi che sospettava che fossi entrata in quel territorio per cacciare senza licenza. Ma subito notò che non avevamo zanne o trofei di alcun tipo. Allora mi invitò nel suo ufficio.
C’era un altro belga, più giovane. De Blank ordinò un te. Io mi sistemai su una poltrona. Pensai che fino a pochi giorni prima, vivevo tranquillamente insieme a persone cortesi, rispettose, completamente a mio agio. Ora, tornata tra uomini bianchi, ero nervosa, vedevo inimicizia dove probabilmente non c’era: mi ero dimenticata come gli uomini bianchi si comportano.
De Blank sporse una mano e disse “Il suo passaporto, Madame”. Pensai che forse era un poliziotto. Glielo diedi, e lui cominciò a studiarlo pagina dopo pagina. Poi emise una esclamazione, mi mostrò il passaporto e disse “Me lo aspettavo! Non potete negarlo, ora”. Guardate. E mi mostrò trionfante, alla voce “occupazione”, la scritta “Ingegnere minerario”. “Sì”, risposi, “era il mio lavoro quando mi hanno rilasciato il passaporto. Che problema c’è?”. “Il problema è che siete un ingegnere minerario americano giunto qui per spiarci. Volete le nostre miniere d’oro e di uranio. Che cosa avete da dire in proposito?”.
Non dissi niente, perché non sapevo che cosa dire. Mi venne in mente che i Belgi erano tutti convinti che altre potenze volessero privarli della loro colonia africana.
Alla fine, risposi “Dico solo che non è vero”.
La semplicità della mia risposta sembrò averlo impressionato. Forse si è accorto che era assurdo pensare che un paese ricco e potente come gli Stati Uniti inviassero una donna sola per una delicata opera di spionaggio, nel mezzo dell’Africa.
“In ogni caso, per entrare in questo territorio avreste avuto bisogno di un permesso: questa è una concessione dove nessuno può entrare senza uno speciale lasciapassare”, osservò.
Risposi che non capivo di che cosa stesse parlando, né che cosa fosse la concessione. De Blank prese una mappa della regione, mi invitò ad avvicinarmi e mi mostrò il percorso che avevo compiuto.
“Siete partita da qui e siete arrivata qui”, disse.
“Davvero ho fatto tutto questo cammino?” chiesi, sentendomi anche un po’ orgogliosa.
“Sembra di sì. E, a parte i primi due giorni, tutto il percorso è dentro la nostra concessione” dichiarò, e proseguì: “Mi spiace, ma devo trattenervi qui fino a che avrò compiuto le indagini necessarie sul vostro conto. Manderò immediatamente un incaricato alla città per contattare il vostro console. Saranno necessari un paio di giorni. Nel frattempo, vi alloggerò in una tenda. I miei uomini si occuperanno dei vostri portatori”. Vi attendo per il pranzo”.
Sapevo che i Belgi vivevano in Congo in modo elaborato e cerimonioso, ancor più degli inglesi, ma non mi aspettavo che de Blank e il suo amico si presentassero a tavola in giacca bianca e cravatta, e il pranzo fosse servito da uno stuolo di camerieri.
De Blank parlava del più e del meno, la Depressione, il tempo, la famiglia reale belga, e il suo amico assentiva quando era necessario. Io però non ascoltavo: ero concentrata sul cibo. Mi ero dimenticata quanto gli uomini bianchi riuscivano a mangiare.
Alla fine, scorsi un cameriere avvicinarsi con il dessert.
Rimasi incantata a guardarlo, mentre si avvicinava e posava il piatto sul tavolo. Portava una torta coperta con una torre di incredibile altezza fatta di meringhe. Non avevo mai visto nulla di simile nella mia vita.
De Blank tagliò la torta lentamente in porzioni, e le distribuì sui piatti. Il ripieno era fatto di papaia, arancio e canditi.
Cominciai a mangiare, e mi resi conto subito che la fetta che mi era stata servita non sarebbe stata abbastanza. In realtà lo sapevo fin dal primo momento, da quando avevo visto la torta che si avvicinava. Mi misi addirittura a tremare al pensiero che non mi sarebbe stata offerta una seconda porzione.
De Blank se ne accorse, capì la ragione del mio stato, sorrise e mise l’intero piatto di portata davanti a me: “È a sua disposizione, Madame” mi disse.

Emily Hahn (1905 – 1997) si laureò ingegnere minerario all’Università di Madison, nel Wisconsin, nel 1926. Era la prima donna laureata in questa materia negli Stati Uniti. Quando si iscrisse al corso, le associazioni degli studenti fecero un ricorso, sostenendo che la materia era riservata agli uomini. Dopo aver lavorato per breve tempo in una miniera di zinco, andò a fare la guida turistica in Messico. Ma presto partì per il Congo, dove rimase oltre un anno. Da quel momento non smise mai di viaggiare, su tutti i continenti. “Nessuno mi ha detto di non farlo”, era la sua proverbiale risposta se taluno sollevava obiezioni ai suoi progetti. Le sue esperienze sono raccolte in 52 libri e in quasi duecento articoli apparsi sul New Yorker (da cui è tratto anche il brano qui pubblicato, dal titolo “Pawpaw Pie”): la sua opera è un gioiello letterario, secondo molti critici. Passò quasi sei anni a Shangai e a Hong Kong (dal 1936 fino nel 1941), conoscendo e mantenendo relazioni con tutti i personaggi più in vista della cultura dell’epoca, anche cinesi (nonostante che fosse proibito).
Quando i giapponesi occuparono Hong Kong, fu obbligata a dare lezioni d’inglese agli ufficiali occupanti, fino al momento del suo rimpatrio, nel 1943. Nel 1944, scrisse un libro che ebbe un grande successo sulla sua vita in quegli anni, China to me. Nel 1945 sposò un ufficiale inglese rimasto a lungo prigioniero dei Giapponesi e si stabilì in Inghilterra, continuando la sua collaborazione con il New Yorker. Nel 1978 scrisse Looking Who’s Talking, sulla comunicazione tra uomini e animali (un argomento a lungo studiato) seguito nel 1988 dal suo ultimo libro Eve and the Apes.

QUATTRO POESIE E UN PICCOLO BRANO DI WOLFGANG BORCHERT

Anima mia, dove vai?

Il vento disperde
amore e dolore
Il vento disperde
foglie e tempo.

La pioggia scorre
Nella notte
Ed io sono sveglio.

Che sogni, mia anima,
luce solitaria sul molo
che sogni?
Solo la notte e la nebbia
Passano silenziose
e la mia anima le segue.

Dove vai, mia anima,
vela senza pace nel vento
dove vai?
La tua nostalgia
È un lamento di bimbo
Dove vai?

Il vento disperde
amore e dolore
il vento disperde
foglie e tempo.
La pioggia, comincia
A cadere
Io comincio a dormire.

Il bacio

Piove – ma lei lo nota appena
Il suo cuore trema ancora per la felicità
In quel bacio tutto il mondo è affondato nel sogno
Il suo vestito è bagnato e stropicciato

E così scompostamente sollevato
Che tutti possono vederle le gambe.
Solo una goccia di pioggia, subito dissoltasi,
È però riuscita per un attimo a vedergliele

Lei non si è mai sentita così,
Forse gli animali sono così assurdamente felici
I suoi capelli sono avvolti in un’aureola
E la luce dei lampioni filtra come in una ragnatela.

L’altro

Sono quello di ieri
quello di prima
quello di sempre
quello che dice di sì
io sono l’altro che sempre esiste
al mattino
alla sera
a letto
di notte
non riuscirai a liberarti di me
io ho mille volti
io sono la voce che tutti conoscono
io sono l’altro
che è sempre presente
l’altro uomo
quello che risponde
che ride
quando tu piangi
che ti sprona
quando ti stanchi
io sono l’ottimista che vede il bene nei cattivi
e i lampioni nelle tenebre più profonde
sono colui che crede
che ride
che ama
sono colui che continua a marciare
anche quando gli altri zoppicano
e che dice di sì quando tu dici di no
ecco chi sono io.

Notte

Sono come un lampione di strada.
Quando cala la notte e spuntano le stelle
Comincio a esistere.
Cerco di orientarmi nel buio,
innamorato come i gatti
sui tetti notturni, con verde scintillio
negli occhi.

Gli uomini e i passeri dormono.
Solo le navi oscillano nel porto.
Si alza la luna sul limitare
del tetto di una chiesa.
Nei miei occhi
c’è un fiammifero acceso che scoppietta
e io sorrido.
Piove.
Con me c’è solo la mia ombra e il vento.

Requiem per un amico

Marciamo. Marciamo di giorno e marciamo di notte. Dormiamo di giorno, dormiamo di notte.
Loro sparano di giorno, sparano di notte. Loro sparano – ho detto, perché noi non sentiamo più i nostri spari, soltanto gli spari degli altri.
Le ore affondano come barche a vela sull’orizzonte insanguinato del mare del cielo. Il sole muore e con lui muore il giorno. Talvolta il tempo si ferma – e allora grava con tutto il suo spietato peso sui nostri visi.
Spettrali e grigi come corvi gettiamo uno sguardo dall’oscurità nell’oscurità, e aspettiamo che faccia giorno.
Tacciamo molto e parliamo poco. Solo alcuni ridono troppo, troppo forte. Ma anche quelli che tacciono sono pieni di vita.
Non ho mai dimenticato quando tu, dopo una giornata di marcia, nella casa bombardata prendesti dalla cenere una piccola patata raggrinzita, come si prende un frutto prezioso, e con devozione ne aspirasti il profumo. Fuori c’erano 48 gradi sotto zero.
C’era anche una bambina; la osservavo con tristezza – tu invece, penetrando i laghi scuri dei suoi occhi, vedevi una ragazza bionda e leggera. Tu sentivi il tocco loquace delle sue mani sui tuoi capelli e trovavi un senso in tutto ciò che all’apparenza è insensato.
La neve continua a cadere sui cavalli morti sulla strada e noi parliamo di fiori – ma tutto vuole irrigidirsi in freddo e ghiaccio. Forse anche i nostri cuori.
-Poter camminare ancora sotto una calda pioggia d’estate e sentire il profumo dei gigli – dice uno.
Ma tutto è sempre, soltanto neve – questa neve spietata. Poi ci distendiamo, l’uno vicino all’altro, sentiamo il nostro respiro, e siamo contenti di essere vivi. All’improvviso le bombe ci scoppiano intorno – e ci accucciamo nella neve, ci aggrappiamo alla terra tremante.
Non possono essere le stesse che brillavano sulla nostra patria, le stelle che adesso se ne stanno indifferenti in silenzio sul nostro dolore – bianche ed estranee e fredde.
– Forse domani arriva posta da casa – penso.
In questo momento il ghiaccio scoppia di nuovo nel suo canto di morte, e sangue cola nella neve.
-A casa – dici, ed è la tua ultima parola. Poi la tua anima se ne va con il vento che la sera sussurra attorno alla nostra casa e fruscia nei cespugli – e i tuoi occhi cercano il cielo.
– Sole e terra – dicevi quando odoravi un fiore – E adesso tu stesso sarai nuovamente terra e la terra sarà piena di sole. Io penserò che tu mi guardi mentre ti sto in piedi davanti e dialogo con te. E poi ti racconterò del mare, che in patria ancora si frange contro le rive.
E quando all’alba fa giorno, un uccellino grigio si posa sull’elmo posto sulla croce di legno, e canta.
E molto lontano, a oriente, si leva grande il sole del mattino.
Nel novembre del 1947, a Basilea, muore a ventisei anni (era nato a Amburgo nel 1921) Wolfgang Borchert. Da tempo soffriva delle conseguenze di una malattia contratta sul fronte russo, dove Borchert è inviato con la Wehrmacht nell’inverno del 1941 e dove rimane, con il solo intervallo di degenze in ospedali militare e in prigione: è due volte processato e condannato dalla corte marziale (per disfattismo nell’estate del 1942 e per una parodia del nazismo nel settembre del 1944, e subito rinviato al fronte).
Poi, costretto nell’aprile del 1945 a un’ultima difesa sul Meno, si lascia catturare dalle truppe alleate, e giunge infine nel maggio a Amburgo.
Gli rimangono poco più di due anni di vita. In questi due anni scrive la maggior parte dei suoi racconti – il genere per il quale è divenuto famoso – spesso riferiti al periodo della guerra sul fronte russo.
Sono il prodotto più rappresentativo di un gruppo di scritti noto come Ostfront-Literatur, la letteratura del fronte orientale. Le raccolte di racconti più importanti sono: Schneegeschicthen (Storie della neve), tutte ambientate su vicende accadute sul fronte russo, pubblicate postume (“Non c’era mai stato niente di cosi bianco come questa neve. Eppure era quasi azzurra. Verde azzurra. Ma terribilmente bianca”); Die Hundeblume – Erzählungen aus unseren Tagen, 1947, basate su ricordi dei soggiorni nelle carceri militari. L’opera per la quale Borchert diviene famoso è un dramma radiofonico, Draussen vor der Tur. La maggior parte delle opere di Borchert è raccolta in Das Gesamtwerk, Rohwolt Amburgo del 1949, anche se molte poesie e racconti sono stati pubblicati negli anni seguenti. Il brano qui riprodotto è tratto da Allein mit meinem Schatten und dem Mond. Briefe, Gedichte und Dokumente (Solo con la mia ombra e la luna. Lettere, poesie e documenti), Rowolt, Amburgo 1996. In Italia una scelta delle opere è stata pubblicata da Guanda nel 1968, con una ampia e accurata prefazione di Roberto Rizzo.

QUATTRO POESIE DI ULLA HAHN
Rimesso a posto
Leggermente
Ti sei vestito
Leggermente
Hai di nuovo mentito
Leggermente
Sei uscito chiudendo la porta
Leggermente
Hai rimesso a posto il tuo cuore.

In Attesa

Seduta a un tavolo per due
sola con quello sguardo vigile e fisso
scruta attorno
come se avesse perso qualcosa
aggrappandosi a un libro:
è il laccio
che la sottrae agli occhi
che le guizzano intorno
aguzzi e spietati
e si rovesciano su di lei
abbattendola
sulla sedia di plastica
che le s’incolla sotto le cosce.
Lei agita
il bicchiere di ghiaccio
si scioglie
in repentino tintinnio
si fa sempre più piccola
vorrebbe sprofondare

come un personaggio
nel romanzo
che ora chiude.
Prima di riemergere,
pagare e andarsene.

Parlato con immagini

Se io fossi un albero crescerei
Nel cavo della tua mano
Se tu fossi il mare
Costruirei bianchi castelli di sabbia.

Se tu fossi un fiore
Ti raccoglierei con tutte le tue radici
Se io fossi un fuoco produrrei
Cenere leggera per la tua casa.

Se fossi una ninfa
Ti risucchierei con me nel suolo
E se tu fossi una stella
Con un colpo ti tirerei giù dal cielo.

Mio padre

Chi è?
Chiedono i miei amici
E mostrano la foto
Dell’uomo sulla mia scrivania

Collocata tra Salvador Allende e Angela Davis

Rispondo:
Mio padre. È morto.
Nessuno chiede più nulla.

Chi sei
Chiedo a quell’uomo
Che non sorride mai
Neppure per farsi la foto del passaporto
Che mi guarda
Come per salutare
Persone sgradite

Figlio di contadini, undicesimo di dodici,
a undici fuori di scuola:
aveva imparato a guardare
sempre con capo chino
verso l’alto.
È divenuto curvo
Come operaio sulle macchine
E come soldato in guerra
trascinato sul fronte contro i Rossi.

Poi, si credeva che non capisse.
Ma lui continuava
Come operaio alle macchine
Come padre in famiglia
E domenica in chiesa
Per far piacere alla moglie
E ai compaesani.

Questo è l’uomo che ho odiato.

Di notte,
quando dalla fabbrica
tornava a casa
gli gridavo in faccia
parole in latino e in inglese.

Al tavolo dei professori
Quando mi versavo
Con mano tremante
Qualche goccia di te
sulle ginocchia
ho inventato battute
sulle tazze che puzzano di olio di macchina.

È stato difficile cambiare idea
È stato difficile capire.

Questo è l’uomo
Che amerò fino alla morte
Di tutti quelli
Che sono colpevoli
Della sua vita
E del mio odio.

Qualche volta,
aveva già una coperta
per coprire le gambe
sulla sedia a rotelle,
mi prendeva la mano
e misurandola
con le dita e con lo sguardo
mi ha chiesto
come lo avrei fatto,
il nuovo mondo.

Con te,
gli ho risposto
con il mio pugno raccolto nel suo.

Chi è?
Chiedono i miei amici.
Ed io rispondo:
Uno di noi.
Solo il fotografo si è dimenticato
Che lui mi guarda e ride.

Ulla Hahn è nata nel 1946 in Brachthausen, nella Sauerland. Ha pubblicato molte collezioni di poesie. Del 1981 è Il cuore sulla testa (Herz über Kopf), del 2004 Così aperto il mondo (So offen die Welt) (2004); del 1993 è Poesie d’amore (Liebesgedichte) da cui ho tratto la poesia Mio padre. Ha scritto anche vari romanzi, tra cui nel 2003 Ritratti abbozzati (Unscharfe Bilder) dedicato al ruolo della Wehrmacht nella campagna di Russia visto nel rapporto tra genitori e figli e nel 2001 La parola nascosta (Das verborgene Wort), ove è descritta la vita di una giovane donna in un villaggio del Reno nell’immediato dopoguerra e l’incomprensione che desta il suo interesse per la letteratura: quando comincia a leggere le opere di Schiller, i genitori cercano di impedirle di continuare gli studi. La sua ultima opera, Forme d’amore (Liebesarten) del 2006 raccoglie tredici diverse storie d’amore. Ha vinto vari premi letterari: il Leonce und Lena, il premio Hölderlin, e il German Book Prize.

NOVEMBRE 1975: CRONACHE DA LUANDA

I.

Accaddero molte cose prima che Luanda fosse definitivamente abbandonata dai portoghesi.
Come un malato in agonia che, in un ultimo sussulto, torni in sé recuperando le forze, così alla fine di settembre la vita di Luanda riprese ritmo e vigore.
I marciapiede erano affollati, le strade ingombre di traffico. Gli abitanti correvano di qua e di là, affrettandosi a sbrigare le loro incombenze pur di scappare il più in fretta possibile.
Dicevano addio alle loro case africane con rabbia e disperazione, con dolore e impotenza: sapevano che partivano per sempre.
Ma volevano partire portandosi dietro tutti i loro averi. Così, tutti ordinavano casse da imballaggio. Furono fatte venire montagne di assi di legno. I prezzi dei martelli e dei chiodi salirono alle stelle. Le tecniche di costruzione delle casse e il miglior modo di rinforzarle erano il principale argomento di conversazione. Saltarono fuori sedicenti esperti della materia, autodidatti specializzati in strutture, stili e correnti dell’imballaggio.
All’interno della Luanda di mattoni e cemento cominciò così a sorgere una seconda città fatta di legno.
Si era immediatamente creata una gerarchia: più uno era ricco, più doveva essere grande la sua cassa da imballaggio.
Così, certe casse erano grandi come villette. Le più imponenti erano rinforzate erano rinforzate con assi trasversali e rivestite all’interno di tela da vela, le pareti erano realizzate con i migliori legni tropicali, tagliate ad arte e levigate così che sembravano mobili antichi.
Dentro erano impacchettati salotti, camere da letto, divani, armadi, cucine, quadri, tappeti, procellane, lenzuola, arazzi, puff, vasi, fiori finti. E poi statuine, conchiglie, lucertole impagliate, fotografie. Bisogna farci entrare tutto, prima di chiudere la porta e, andando all’aeroporto, fermarsi sul lungomare e gettare la chiave nell’oceano.
Le casse dei poveri sono invece piccole e dimes-se, molti se le sono fabbricate da soli usando scarti di segheria, avanzi di assi, compensati rigonfi : sembrano le catapecchie in rovina del quartiere africano.
Le casse dei ricchi stazionano nelle principali vie del centro, possono essere viste e ammirate. Le casse dei poveri si nascondono in cortili e capannoni.
Giorno dopo giorno, Luanda diveniva una scenografia teatrale: la città in muratura perdeva valore mentre la città in legno la acquistava. La gente non parlava più di case, solo di casse. Continuò a vivere così per un mese, poi improvvisamente cominciò a sparire.
Quartiere per quartiere, la città di legno si trasferì con i camion fino al porto. Si distendeva sulle banchine, la gente si aggirava nel labirinto delle sue strade apponendo targhette con nomi e indirizzi: sembrava quasi una normale città di legno. Di notte, era illuminata dai fanali e emetteva profumi di resine e di legni pregiati.
Un giorno, improvvisamente, la città di legno salpò a bordo di una grande fiotta e, in poche ore, sparì all’orizzonte.
La vidi salpare. All’alba era ancora lì che dondolava all’ancora, accatastata alla rinfusa. Faceva freddo e c’era la nebbia. Stavo sulla spiaggia insieme a dei soldati angolani e a un gruppetto di bambini neri, laceri e intirizziti. “Ci hanno portato via tutto“ disse, senza rabbia, uno dei soldati. Poi prese un ananas, lo aprì e affondò il viso nella polpa dorata. Poi osservò: “Però adesso i padroni siamo noi“.
Felice all’idea che l’Angola fosse diventata sua, imbracciò il mitragliatore e sparò una raffica in aria.
La città di legno, navigando sull’oceano, andò a ricongiungersi ai propri abitanti, quei portoghesi di cui una parte si era sparpagliata tra Europa e America, un’altra parte andò a stabilirsi in Sudafrica.
Tempo dopo, partito da Luanda, mi fermai per qualche tempo a Lisbona. Camminando lungo la foce del Tago, vidi delle casse di legno impilate fino ad altezze vertiginose, intatte e abbandonate: era il principale quartiere della Luanda di legno, approdato sulle coste europee.

II.

Luanda si prepara alla dichiarazione di indipendenza. Nel frattempo, il ponte aereo che parte dal-lo Zaire di Mobutu rifornisce di materiale bellico francese l’esercito mercenario invasore.
Ci sono duri combattimenti intorno alla città di Benguela: l’esercito invasore tenta in questi giorni che ancora mancano alla proclamazione dell’indipendenza dell’Angola di occupare il massimo territorio possibile.
Oltre trecentomila portoghesi sono partiti portando con sé in Sudafrica, in Brasile e in Portogallo l’ultimo bottino della dominazione coloniale.
Tutto ciò che si poteva trasportare ha lasciato il paese. Dalle piccole fabbriche ai mezzi di trasporto, tutto è stato smontato e inscatolato.
Con i coloni, è partito tutto: dagli oggetti d’arte alle cose più insignificanti come tessuti, generi alimentari, bicchieri, piatti, forchette.
La rapina non ha avuto limiti. C’è chi ha visto mettere nelle caixotes bottiglie vuote accuratamente incartate. Il Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (MPLA) ha assistito passivamente, non ha accettato la provocazione che i portoghesi cercavano.
“Ciò che conta è che insieme alle casse se ne vada per sempre il colonialismo“, si diceva per calmare gli animi. A un certo punto i lavoratori del porto hanno preteso di controllare il contenuto delle casse e, a fronte del rifiuto dei portoghesi, sono scesi in sciopero, occupando le banchine. I paracadutisti portoghesi allora hanno aperto il fuoco; si è diffusa la notizia che vi erano centinaia di morti. Si sono vissuti momenti drammatici poi, nel pomeriggio la situazione è tornata alla normalità.

*

Questa notte Agostinho Neto, che domani sarà presidente della Repubblica popolare dell’Angola, è ritornato a Luanda. Alla mezzanotte il popolo angolano ha festeggiato la nascita della Repubblica popolare dell’Angola.
La nascita del nuovo stato non è dovuta alla generosità del governo portoghese, né tanto meno vi è stata una concessione dell’indipendenza da parte della potenza coloniale, come è accaduto in altri casi in passato.
La bandiera portoghese non è stata ammainata per volontà politica del Governo di Lisbona; è il frutto di una lunga lotta di liberazione iniziata nel lontano febbraio del 1961.
Il risultato di 14 anni di lotta non è stato solo quello dell’indipendenza, ma anche il fattore determinante della caduta del fascismo a Lisbona.
I popoli africani delle ex colonie portoghesi non hanno liberato solo sé stessi, hanno liberato anche i portoghesi dall’oppressione del regime fascista.

Il primo brano è tratto dal libro di Ryszard Kapuscinski, Ancora un giorno, Feltrinelli 2008. La traduzione è di Vera Verdiani. Ryszard Kapuscinski è nato a Pinsk, in Polonia nel 1932 ed è morto nel 2007 a Varsavia. È stato uno dei più famosi corrispondenti esteri dell’ultima parte del secolo scorso, lavorando per l’agenzia PAP. Il secondo brano è di Antonio Civitelli inviato di Lotta Continua in Angola e, dopo, in Cambogia e Vietnam. Il brano è tratto da Lotta Continua del 9 e del 11 novembre 1975.

UNA POESIA DI FEDERICO TAVAN
Ringrazio la mia strega
e quelle successive
che m‘ hanno dato occhi
color della terra e del grano
simili a quelli di nessuno.
Ringrazio la solitudine
che m‘ hanno dato per diventar poeta.
Ringrazio la pazzia
che mi ha permesso
di restare me stesso.

Federico Tavan è nato ad Andreis (Pordenone) nel 1949. Ha imparato a leggere e a scrivere a 13 anni. Nello stesso tempo ha avuto le prime crisi che lo hanno portato in istituti psichiatrici. Nel 1967, a 18 anni, ha ricominciato le medie. Ha scritto sia in italiano che in friulano, pubblicando su giornali underground e sul bollettino parrochiale fino a quando ha incontrato quelli del Menocchio. Tra le sue opere: Nei quaderni del Menocchio: “Màcheri” 1984, “Lètera” 1984, “Cjant dai dalz” 1985, “La nâf spâzial” 1985, “J’ sielc perávalis” 1991. “Da màrches a madònes”, 1994 Biblioteca dell’immagine, “Amalârs” 2001 KV, “Cràceles cròceles”, Circolo culturale Menocchio 1997-2003, “L’assoluzione”.
Nell’autunno del 2008 a Pordenone è stata allestita una mostra fotografica di Danilo De Marco interamente dedicata a
“Federico Tavan, eretico” il poeta friulano delle pantegane, dei rospi e degli intrugli, di streghe senza processo. La mostra ha avuto per scenario le stanze al piano terra dell’ex scuola media “Giovanni Antonio” ed è stata accompagnata dall’uscita di un volume di studi su Tavan, curato da Pierluigi Cappello, Paolo Medeossi e Danilo De Marco (”Federico Tavan, nostra preziosa eresia”), che fa il punto sul significato della poesia dell’autore di Andreis, e che è stato originato dalla proposta di concessione a Tavan dei benefici della “legge Bacchelli”.

MOTTO BUDDHISTA
Questa è la mia casa.
Questa è la mia terra.
Questi sono i miei figli.
Sono affermazioni di chi non capisce
Di non essere proprietario
Neppure di sé stesso.

CREDITI
Questo trentacinquesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2008 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano.
Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.stefano.nespor.it, curato e aggiornato da Stefano Rossi.
Ringrazio Jeannette Sagues per l’aiuto nella traduzione dei testi di René Char; Salvatore Giannella, Maria Inglisa, Marina Nespor, Pasquale Pasquino per la tradizionale revisione.

QUARTA DI COPERTINA