N. 28 estate 2005

Cari lettori,
in questo fascicolo troverete:
Un breve scritto in tema di immigrazione
Una piccolo pezzo dal Don Chisciotte, con una appendice per rammentarne attualità.
Un ricordo del genocidio in Ruanda (con un pezzo tratto da un libro da leggere), dimenticato da tutti, e un ricordo del genocidio di piccioni in Italia, che l’indignazione dell’opinione pubblica ha invece definitivamente impedito.
Subito Santo! Alcune osservazioni su papolatria e genocidi.
La storia poco nota di un incontro di un Papa, di un Cardinale e di un Matematico, per discutere di infinito.
E tre piccoli brani sempre in tema di infinito.
Poi, molte poesie: cinque di una poetessa russa, a cavallo tra Russia e Cina; una di un grande poeta cinese (ricordato dalla poetessa russa); tre di grande poetessa austriaca contemporanea; e poi tre poesie di una autrice milanese. Infine, quattro haiku giapponesi.

LA COPERTINA

Sono quattrocento anni che Don Chiosciotte è tra tutti noi (il primo volume fu infatti pubblicato nel 1605).
Il disegno è liberamente tratto da un bozzetto di Daumier.

IMMIGRAZIONE

Dapprima erano in pochi. Avevano la pelle più scura, come doveva essere la nostra quando, molto, molto tempo fa, secondo la tradizione, siamo arrivati qui. Probabilmente abbiamo fatto la loro stessa strada e abbiamo anche noi attraversato quella sottile lingua di mare che separa la nostra terra da quella che poi sarebbe stata chiamata Africa.
Pochi riuscivano a sfuggire alla nostra vigilanza e a toccare terra: generalmente le zattere si rovesciavano o si frantumavano nel percorso; gli altri era facile ricacciarli indietro, verso il mare. Pochissimi sfuggivano e riuscivano a insediarsi qui da noi. A questo punto, li lasciavamo stare. In fondo, c’era posto per tutti.
Venivano in cerca di cibo, di migliori condizioni di vita. Qui si stava bene: certo, il clima non era gradevole come in Africa, ma la vita era molto più facile: c’erano acqua e selvaggina in abbondanza, pochi erano gli animali feroci e i pericoli.
A un certo punto, però cominciarono a arrivare per via terra, dalla parte dove il sole sorge. Erano gruppi molto più numerosi e organizzati, non era possibile respingerli; spesso, poi, riuscivano a eludere la nostra sorveglianza.
Erano anche intraprendenti e battaglieri, e si spostavano ovunque, non come noi che ci eravamo abituati ad una vita piena di comodità.

A un certo punto, con il passare del tempo, diventarono molti di più di noi.
Fummo lentamente costretti a rifugiarci in luoghi sempre più isolati e disagevoli, abbandonando le fertili pianure e le coste. E poi, venne anche il freddo, che loro riuscivano a sopportare molto meglio di noi. Cominciò così per la nostra gente una lunga agonia.
Alla fine, di noi non rimase traccia. Rimasero solo loro.

SN
Circa 40.000 anni fa l’Homo sapiens, il nostro diretto progenitore, comincio a emigrare dall’Africa verso l’Europa. Trovò dei suoi simili, anch’essi emigrati dall’Africa molto tempo prima, circa 200.000 anni fa: gli uomini di Neanderthal.
Questi ultimi lentamente scomparvero. Secondo recenti ipotesi, ci vollero poco più di mille anni perchè l’Homo sapiens restasse padrone di Spagna e Francia, e di ventimila anni perchè gli uomini di Neanderthal fossero estinti.

RIFLESSIONE PER L’ESTATE

Il curato chiese le chiavi della stanza dove stavano i libri cui si dovevano tutte le sciagure. La governante le consegnò volentieri.
Entrarono tutti insieme, compresa la governante, e trovarono più di cento volumi rilegati e altri piccoli. La governante corse a prendere una scodella d’acqua benedetta e disse: “Signor curato, spruzzi l’acqua benedetta in questa stanza, perché questi libri non esercitino su di noi qualche stregoneria per impedirci di cacciarli da questo mondo”. Il curato ordinò al barbiere di passargli i libri uno per uno per esaminarli: poteva darsi che ve ne fossero alcuni che non meritassero la pena del rogo. Disse la nipote di Don Chisciotte: “Non c’è ragione di risparmiarne alcuno, tutti sono perniciosi. Sarà meglio gettarli dalla finestra, farne una catasta e bruciarli tutti, oppure portarli più lontano, in cortile, in modo che il fumo non dia noia”.
La governante si dichiarò d’accordo. Il curato però decise che bisognava prima leggere qualche titolo. Ma si stancò ben presto, e ordinò alla governante di prendere tutti i volumi e portarli in cortile.

Da MIGUEL DE CERVANTES, Don Chisciotte della Mancia,I, VI. Cervantes scrisse questo brano probabilmente nel 1595. Era certamente nota in Spagna l’iniziativa assunta dal vescovo Diego de Landia. Il vescovo, durante la sua lunga permanenza nello Yucatàn, aveva pazientemente cercato e raccolto tutti i manoscritti in lingua Maya di cui aveva avuto notizia e, prima di tornare in Spagna, li aveva bruciati tutti (probabilmente anch’egli avendo cura che il fumo non desse noia). È stato una dei più disastrosi roghi culturali della storia. Migliaia di testi, praticamente tutto il patrimonio scritto della storia Maya, sono scomparsi: si sono salvati solo quattro manoscritti, sfuggiti casualmente alle metodiche ricerche di de Landia.
Non bisogna mai dimenticare che chi brucia i libri, prima o poi brucia anche chi li scrive o chi li legge.

POESIE DI OLGA SEDAKOVA

da Viaggio in Cina

I

Lo stagno dice:
avessi avuto mani e voce,
come ti avrei amato, come ti avrei cullato.
Sono tutti avidi, sai, e sono malati;
strappano le vesti dei passanti
per farne bende.
Io, invece, non ho bisogno di niente:
solo tenerezza – ecco la guarigione.
Poserei le mie mani sul tuo grembo,
come una docile leonessa,
e come cielo scenderei
dall’alto in forma di voce.

II

Alla vista
della bianca veste del viaggiatore
che possiamo fare, dove nasconderci?
Alla vista,
della veste bianca, delle vecchie spalle –
avrei voluto che i miei occhi diventassero di pietra,
il cuore – di acqua.
Solo alla vista
di cosa succede all’uomo –
io gli andrei dietro, piangendo:
per tutto il suo cammino, gli andrei dietro, marciando
con il suo stesso passo misurato.

III

Con tenerezza e profondità –
solo la tenerezza è profonda,
solo la profondità è tenera –
fra mille volti io saprò
chi l’ha vista, su chi ha gettato lo sguardo
dagli oggetti di pietra, come dai vetri,
tenera profondità e profonda tenerezza.
Allora accenditi,
lanterna calda dell’Occidente,
lampada, trappola per falene.
Parla ancora
con la luce di casa nostra,
sole di tenerezza e profondità,
sole che stai lasciando la terra,
primo e ultimo sole.

IV

Possibile, che anche noi, come tutti,
come tutti gli altri
ci dovremo dire addio?

Noi che sappiamo qualcosa
della passione più veloce della fine,
noi che sappiamo qualcosa del mondo

noi che sappiamo che questa conchiglia è senza perla,
che non c’è né fiammifero, candela, lanterna,
a parte il fuoco dell’estasi,

noi che sappiamo da dove provengono
suono e luminescenza
possibile che anche noi ci diremo addio?

Noi che desideriamo stare insieme,
non meno dei salici che amano crescere nell’acqua,
non meno delle acque
che amano seguire la luce della stella,
non meno di quell’ubriaco di Li-Po che guarda
dentro il vino giallo, come la luna
e non meno del sasso che si posa sul fondo –
possibile che anche noi ci diremo addio?

Lo Specchio

Mio caro, io stessa non so:
dove porta tutto ciò?

Accanto, luccica un piccolo specchio
Grande non più di una lenticchia
o di un chicco di miglio.

Ciò che in esso arde e appare,
ciò che guarda, balena e brucia
è meglio non vederlo.

Ma la vita è una piccola cosa,
a volte sta tutta su di un mignolo,
o sull‘orlo d’un ciglio,

e tutt’attorno, come un mare, non c’è niente.

OL’GA ALEKSANDROVNA SEDAKOVA è nata a Mosca nel 1949 e all’Università di Mosca attualmente insegna. Ha trascorso una parte della sua infanzia in Cina. Dalla metà degli anni ’80 le sue opere sono apparse in riviste letterarie russe e occidentali. Ha tradotto in russo autori italiani, francesi tedeschi e inglesi. Nel 2001 è stata pubblicata la raccolta delle sue opere in due volumi (Mosca, En Ef K’ju/Tu Print). Le sue poesie sono state tradotte in italiano da Francesca Chessa. Tutte le poesie salvo l’ultima sono tratte dall’opera del 1986 Viaggio in Cina, composta di diciotto poesie (quelle pubblicate sono nell’ordine 2,6,11,13). Per sapere come la pensa: “La poesia fuori dal samizdat”, intervista al quotidiano L’Avvenire, 16 gennaio 2004.

UNA POESIA DI LI-PO

Prendo la mia coppa di vino seduto tra i fiori
Per bere da solo, senza amici.
Alzo la coppa per invitare la luna.
Con lei e con la mia ombra siamo in tre.
La luna però non beve,
e la mia ombra se ne sta silenziosa.
Tuttavia, viaggerò con luna ed ombra
Felice dove la primavera finisce.

Quando canto, la luna danza,
e quando io danzo, la mia ombra è con me.
Quando non bevo, dividiamo le gioie della vita.
Quando sono ubriaco, ciascuno sta per conto suo.

Siamo amici fedeli, anche se ci muoviamo,
ci incontreremo comunque nella via lattea.

LI PO (701-762) è uno dei più grandi poeti cinesi. Passò la sua giovinezza nella sua regione natale, Sechuan, poi viaggiò per tutta la Cina. Nel 742 l’imperatore gli assegnò un posto all’Accademia Hanlin, ma pochi anni dopo cadde in disgrazia, fu esiliato e riprese a viaggiare.
La traduzione utilizzata è quella di Hamill.

RUANDA, APRILE 1994

Sono passati undici anni dal più grande massacro dei tempi moderni, dopo l’Olocausto (ed anzi, il primo quanto a rapidità, semplicità ed efficienza: 800.000 esseri umani eliminati per lo più a colpi di machete in poco più di tre mesi). Non se ne era accorto nessuno, allora.
Sarebbe bastato poco per impedirlo: non più di mille soldati, secondo il comandante del contingente delle Nazioni Unite.
Nessun governo occidentale si mosse, nonostante tutti fossero pienamente a conoscenza di quanto stava accadendo (ed anzi, tutti sapessero che sarebbe accaduto). È facile dare la colpa alle Nazioni Unite. Le Nazioni Unite non possono essere molto meglio degli Stati che le costituiscono. E gli Stati non possono esser meglio dei loro cittadini: negli Stati Uniti l’attenzione era polarizzata dal processo a O.J.Simpson, in Italia dalla preparazione della nazionale di Sacchi per i Mondiali di calcio di Los Angeles.
II

Una volta si chiamava Ruanda-Urundi. Vi erano arrivati i tedeschi, poi una lontana guerra aveva sostituito i tedeschi con i belgi. Avevano spiegato che soldati, funzionari, preti venivano per fare un protettorato. Erano venuti portandosi dietro il Grande Protettore, un dio misterioso e invisibile.

Kawa era un hutu, e voleva che il suo figlio primogenito diventasse un intelletuale e andasse a lavorare alla corte del re tutsi.
Lo iscrisse allora nella scuola costruita dai preti belgi in mattoni rossi, ma rifiutò di battezzarlo perché re Musinga non era battezzato e continuava a rifiutare quella strana religione con un dio che si divideva in tre persone, una delle quali era il figlio: restava fedele al suo monoteismo e credeva in Imana, il creatore. I belgi però posero come condizione che Mutara, il figlio di Musinga accettasse di farsi battezzare, se voleva salire al trono. Così Mutara nel 1931 si fece battezzare e divenne Mutara III. Allora anche Kawa fece battezzare il proprio figlio e lo chiamo Célestin.
Un giorno Célestin portò a casa un libro scritto da un medico belga, esperto del Ruanda-Urundi. Così imparò che gli hutu abitavano in quella regione da tempi immemorabili, mentre i tutsi venivano dal Nord, dall’Egitto o dall’Etiopia e non erano veramente neri, ma bianchi scuriti dal sole. “L’hutu” diceva il libro “è basso e tozzo, è mite, ingenuo, rozzo e poco intelligente. È dissimulatore e pigro. Ha il naso schiacciato. È un nero tipico. Il tutsi, allevatore nomade, è alto e slanciato. È intelligente, raffinato, abile nel commercio, è brillante e simpatico”. Dopo aver letto queste parole, Kawa lanciò un urlo. Tutto crollava: il suo orgoglio di patriarca hutu, i suoi progetti per il figlio Célestin.

Per la prima volta gli sembrava di essere guardato con sospetto: perché era alto, e il suo naso non era schiacciato come quello dei suoi fratelli e dei suoi quarantanove cugini. La sua pelle era più scura di quella dei tutsi, ma più chiara di quella degli hutu. Poi, allevava vacche come i tutsi, e non gli sembrava di essere né pigro né stupido.
Era tenuto in considerazione per la sua giovalità e per il suo senso degli affari. Forse, era a sua insaputa un tutsi. O era un hutu deforme. Dopo averci pensato a lungo, decise che avrebbe trasformato ufficialmente, con ogni mezzo, i suoi figli e la sua discendenza in tutsi (nel frattempo, i belgi avevano introdotto documenti di identità dove era iscritta la provenienza, tutsi o hutu, del titolare).
A questa impresa dedicò tutto sé stesso e il suo piccolo patrimonio. Non gli importava: i suoi figli avrebbero dovuto essere tutsi e felici.
Pochi decenni più tardi, tutti i suoi discendenti furono uccisi a colpi di machete dagli hutu.

Il secondo pezzo è tratto da GIL COURTEMANCHE, Una domenica mattina a Kigali, Feltrinelli 2005. Il libro letto da Kawa è di J.Sasserath, Le Ruanda-Urundi, étrange royaume féodal, Bruxelles 1930.
Sull’eccidio ruandese c’è un film: Hotel Ruanda, del regista irlandese Terry Gorge, con colonna sonora di Andrea Guerra. Il protagonista è Paul Rusesabagina (Don Cheadle nel film), direttore di un hotel a Kigali, un hutu benestante sposato con una tutsi, che salva la vita a 1200 cittadini tutsi ospitandoli nel suo albergo.

I PICCIONI PERO’ SONO SALVI

Non è più lecito uccidere piccioni in nobile gara di mira esatta e di polso fermo.
Prima, per molti, uccidere il piccione al volo era uno spasso. C’è da dire che i piccioni facevano di tutto per eccitare smanie omicide: volavano, anzi, svolazzavano con quel loro remigare d’ali erratico e instabile, cui dava estro la paura, l’inseguimento della morte, l’odore e il fragore degli spari. Insomma, i piccioni avevano una vocazione al bersaglio. E chi bersaglio si fa, sportivo gli spara.
C’era poi una certa molle grazia nella languida caduta del piccione colpito: era una morte delicata, che attirava coloro che avevano il gusto dell’eleganza. Tutto è finito. L’incerto volo, la mira astuta, il rimbombo contro la magra grazia del volatile, la morte bella e gratificante, tutto ciò è ormai vietato per sempre.

Da GIORGIO MANGANELLI, Improvvisi per macchina da scrivere, Adelphi 2003.
TRE POESIE DI INGEBORG BACHMANN

Salvacondotto
(Aria II)

Con uccelli assonnati
e alberi sfiorati dal vento
sorge il giorno, e il mare
gli vuota addosso una coppa di schiuma.

I fiumi peregrinano verso la grande acqua,
e la terra emette promesse d’amore
con fiori freschi
sulla bocca dell’aria pura.

La Terra non vuole sostenere un fungo di fumo,
né vomitare creature verso il cielo
o cancellare con pioggia e tuoni irosi
le voci della perdizione.

Insieme a noi vuol vedere il risveglio
dei fratelli variopinti e delle grigie sorelle,
il Re Pesce, Sua Maestà l’Usignolo,
e la Salamandra, Principessa del Fuoco.

Per noi pianta coralli nel mare,
ordina ai boschi di restare in silenzio,
al marmo di gonfiare la sua bella vena
e alla rugiada di camminare ancora sulla cenere.

La Terra vuole dalla notte
Ogni giorno un salvacondotto verso l’eternità
perché, per mille e un mattino ancora,
la antica bellezza diventi giovane pietà.

Alienamento

Negli alberi non riesco più a riconoscere alberi.
I rami non hanno le foglie che si oppongono al vento.
I frutti sono dolci, ma senza amore.
E non saziano neppure.
Che può accadere?
Davanti ai miei occhi Il bosco fugge,
vicino al mio orecchio tacciono gli uccelli,
non c’è prato che mi faccia da letto.
Sono sazia di tempo
ma ho fame di tempo.
Ora che accadrà?
Sui monti arderanno di notte i fuochi.
Devo aprirmi e di nuovo avvicinarmi a tutto?
In nessuna via riesco più a trovare una via.

Tutti i giorni

La guerra non viene più dichiarata,
ma solo proseguita. Le assurdità
sono un fatto quotidiano. L’eroe
se ne sta lontano dalla lotta. Il debole
è sospinto in prima linea.
L’uniforme di oggi è la pazienza,
e la medaglia è la misera stella
Di speranza sul cuore.

La conferiscono
quando non succede più niente,
quando il fuoco delle armi si spegne,
quando il nemico non si vede più
e il cielo si copre
dell’ombra dell’eterno riarmo.

La conferiscono
per la diserzione dalle bandiere,
per il mostrarsi coraggiosi con l’amico,
per il tradimento di indegni segreti
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.

INGEBORG BACHMANN è nata a Klagenfurt in Carinzia nel giugno del 1926, studia a Innsbruck, Graz e Vienna. Dal 1953 vive in Italia, a Roma e Napoli. Scrive racconti, pubblicati in due volumi: Das dreißigste Jahr (1961 e Simultan (1972) e il romanzo Malina (1971). Le traduzioni italiane sono edite da Adelphi e Laterza. È stata compagna prima di Werner Henze per il quale ha scritto libretti d’opera (Der Idiot e Der Prinz von Homburg) poi di Max Frisch; è stata amica di Nelly Sachs, di Hans Magnus Enzensberger e di Witold Gombrowicz. Ha tradotto Anna Achmatova e Giuseppe Ungaretti. Si è impegnata in battaglie femministe e contro la guerra del Vietnam. È morta nell’ottobre del 1973 per un incendio nella sua abitazione a Roma. I suoi 34 reportage da Roma sono raccolti da L’Espresso del 12 marzo 1998 nel volume L’Italietta secondo Inge.

PAPOLATRIA

Cinque milioni di fedeli hanno assistito di persona ai funerali di Giovanni Paolo II il Grande. Varie altre diecine di milioni li hanno seguiti alla televisione. Avrebbero potuto essere molti di più.
Purtroppo, non hanno avuto la possibilità di partecipare, dal vivo o davanti ad uno schermo, alcune diecine di milioni di fedeli, in maggioranza africani: erano già morti, di AIDS o di denutrizione, a causa della ripetuta proibizione di Giovanni Paolo II all’uso della pillola o di preservativi.
Non hanno neppure potuto partecipare alcune centinaia di migliaia di tutsi che popolavano il Ruanda, paese interamente cattolico: sono rimasti vittime, nel 1994, dell’eccidio realizzato dalla maggioranza hutu, nella assoluta indifferenza del Vaticano e delle gerarchie cattoliche africane.
Neppure il generale Augusto Pinochet è potuto intervenire al funerale, in ricordo del caloroso incontro avvenuto in Cile nel 1987, pochi anni dopo aver diretto e organizzato – con l’aiuto degli Stati Uniti – l’eliminazione di migliaia di cileni sostenitori di Salvador Allende: in quell’occasione il generale rendeva felice il Papa, confessandogli che il successo nel golpe del 1973 era stato ottenuto perché aveva posto le sue truppe sotto la protezione della Vergine del Carmelo.
Giovanni Paolo II il Grande annuiva, sorrideva e stringeva affettuosamente la mano del feroce assassino, proprio sul balcone della Moneda che portava ancora i segni del bombardamento golpista (per una completa documentazione fotografica dell’incontro si veda http://anticomunismo.8m.com/tata4). Non ha potuto intervenire, il Generale Pinochet, sol perché è stato posto agli arresti domiciliari dall’Autorità giudiziaria cilena, che, sia pure con qualche ritardo, lo ha accusato di molte diecine di omicidi (oltreché di essersi intascato tangenti per centinaia di migliaia di dollari a spese del popolo cileno liberato dal pericolo comunista).
Sono tutte assenze che nessuno ha notato.

SN

TRE POESIE DI ANTONIA POZZI

Altura

E l’ultimo battello
attraversava il lago in fondo ai monti
Petali viola
mi raccoglievi in grembo
a sera:
quando batté il cancello
e fu oscura
la via del ritorno.

La vita

Alle soglie d’autunno
in un tramonto
muto
scopri l’onda del tempo
e la tua resa
segreta
come di ramo in ramo
leggero
un cadere d’uccelli
cui le ali non reggono più.

Notturno

Curva tu suoni
ed il tuo canto è un albero d’argento
nel silenzio oscuro
Limpido nasce dal tuo labbro – il profilo
delle vette – nel buio –
Muoiono le tue note
come gocce assorbite dalla terra
Le nebbie sopra gli abissi
percorse dal vento
sollevano il suono spento
nel cielo

ANTONIA POZZI (Milano 1912 – Chiaravalle 1938). Nessuna delle sue opere venne pubblicata prima della sua morte. Studiò filologia moderna. Viaggiò molto in tutta Europa. Nel dicembre del 1938, sconvolta dall’evolversi degli eventi, si trasferì nella sua casa di Chiaravalle, dove pochi giorni dopo fu trovata morta. La famiglia bruciò il suo testamento (Il Giorno, 17.4.89, “Resta ancora un mistero l’ultimo, tragico perché”). Tra le sue opere: Parole, Mondadori, Milano, 1964; La vita sognata ed altre poesie inedite, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino, Scheiwiller, Milano, 1986; Diari, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino, Scheiwiller, Milano, 1988.

TRE INFINITI

I
Se si indebolisse la sua sagacia,
se lo si liberasse dal caos,
se non si limitasse il suo essere brillante,
e lo si rendesse simile ad un granello di polvere,
allora sembrerebbe davvero infinito.

II

Se scorgi un mondo in un granello di polvere,
e il cielo in un fiore di campo,
saprai tenere l’infinito nel palmo della mano
e racchiudere l’eternità in un’ora.

III

Il mio carico è illimitato come il mare
Il mio amore come il mare è profondo:
quanto più te ne offro,
tanto più ne ho da offrire
perché entrambi sono infiniti.

Il primo pezzo è tratto dall’opera attribuita a LAO TZE, fondatore del taoismo e autore del Tao-te Ching, nato, secondo la tradizione, nel 604 a.c. Il secondo è l’inizio di Auguries of Innocence, 1, di WILLIAM BLAKE. Si può reperire in tutte le raccolte delle opere di Blake e in The Oxford Book of English Mystical Verse, Oxford University Press 1917. Il terzo è tratto da Romeo e Giulietta di WILLIAM SHAKESPEARE, II, 2, 133.

INFEDELE INFINITO

Nel gennaio del 1874 Pio IX, ancora scosso per essere stato qualche anno addietro privato del suo regno, e autorinchiusosi per protesta nei Palazzi Vaticani da cui non uscirà sino alla morte, incaricò il Prefetto della Congregazione delle indulgenze e delle reliquie di convocare un giovane matematico, pietroburghese di nascita ma docente in una oscura università tedesca, al fine di chiedergli spiegazioni in merito ad alcune sue sconcertanti affermazioni che, seppur pubblicate solo su riviste scientifiche, erano in breve tempo trapelate anche nell’opinione pubblica.
Il Prefetto incaricato di questo delicato compito era l’austriaco Johann Baptist Franzelin (1816-1886), professore di teologia dogmatica e, inoltre, di arabo, siriano, caldeo, aramaico ed ebraico presso il Collegio Romano dei Gesuiti nel 1857. Franzelin si era distinto per la sua vasta cultura teologica: aveva scritto opere fondamentali tra cui nel 1868 De eucharistia e De sacramentis in genere; l’anno seguente De Deo trino; e nel 1870, addirittura tre importanti saggi: De divina Traditione et Scriptura, De Deo uno e De Verbo incarnato. Nelle sue opere aveva sostenuto la tesi che Dio era l’effettivo e unico autore delle Sacre Scritture, in quanto autore di un libro è chi offre i pensieri e i contenuti del libro, anche se lascia il compito della formulazione scritta ad uno o più collaboratori.

Il giovane matematico che aveva destato l’attenzione e la preoccupazione del vecchio Papa – ideatore dei dogmi dell’infallibilità del Papa e dell’Immacolata concezione, divenuto da tempo il campione della lotta contro ogni idea liberale e contro ogni innovazione in campo sociale e scientifico, e distintosi per l’acceso antisemitismo e il disinvolto uso della ghigliottina nei confronti degli oppositori – era Georg Ferdinand Philipp Cantor (1845-1918). Cantor si era dedicato allo studio della teoria degli insiemi e avrebbe pubblicato nel 1884, dopo molti anni di lavoro, un trattato sull’argomento in sei volumi che costituisce tuttora uno degli eventi più importanti della storia della matematica e della logica.
La ragione della convocazione era la pubblicazione su un periodico per matematici tedeschi, nel dicembre del 1873, della dimostrazione di una scoperta così sconcertante che Cantor, allorché la concepì per la prima volta, qualche mese prima, scrisse, stupito, all’amico Dedekind, anch’egli illustre matematico: “Vedo ma non credo”.
Cantor aveva scoperto l’infinito.
Ma la Chiesa, Pio IX e anche Monsignor Franzelin consideravano, secondo la tradizione, l’infinito uno specifico attribuito di Dio e quindi uno di quei concetti con i quali – specie in quei frangenti drammatici in cui il rappresentante di Dio in terra era spodestato dai suoi possedimenti – non si deve scherzare: proprio come l’origine dell’uomo, sulla quale da qualche anno uno scienziato inglese sosteneva teorie assurde che addirittura negavano la creazione dell’uomo da parte di Dio.

Così, una sera dell’autunno del 1873 Cantor, intimorito da quella perentoria convocazione, e avendo ben presente nella mente l’infelice sorte toccata al proprio maestro elettivo, Bernhard Placidus Johann Nepomuk Bolzano, per aver parlato ai frequentatori del corso di filosofia tenuto presso l’Università di Praga dei problemi posti dalla tradizionale idea di infinito, si presentò in Vaticano.
Il Prefetto Franzelin, dopo averlo fatto accomodare su una scomoda sedia di legno e avergli rivolto qualche breve frase di cortesia, gli chiese seccamente di chiarire perché si fosse messo a studiare proprio l’infinito, in un momento così drammatico per le sorti della Chiesa. Che intenzioni aveva?
L’obiezione formulata da Cantor di essersi occupato solo di alcuni aspetti matematici dell’infinito, senza alcun secondo fine, fu scartata con impazienza: a questa spiegazione lui, Franzelin, certamente non avrebbe abboccato.
Cantor riuscì allora ad ottenere dal Prefetto il permesso di esporre brevemente il contenuto delle sue scoperte.
Il suo esordio – “Lei sa, signor Prefetto, che i numeri interi sono infiniti” – fu accolta con un gesto di condiscendenza da parte di Franzelin: “Questo lo sanno tutti, professore”.
“Si”, continuò Cantor, “ma anche i numeri pari sono infiniti. E i numeri dispari. E, nonostante che numeri pari e dispari siano la metà dei numeri interi, formano un infinito uguale a quello dei numeri interi: si può infatti mettere in corrispondenza ciascun numero intero dispari con ciascun numero intero pari (1:2, 2:4, 3:6;4:8; 5:10 e così via) o dispari (1:1, 2:3, 3:5, 4:7, 5:9 e così via) ”.
Qui, Franzelin cominciò a dare segni di irritazione: questa faccenda di molti infiniti, uno più grande dell’altro, ma tutti uguali tra di loro, non gli piaceva molto. “Herr Professor, c’è qualcosa che non va: i numeri pari sono una parte dei numeri interi, e sappiamo tutti che una parte è sempre inferiore al tutto”.
“È vero, signor Prefetto. Ma questa regola vale nel mondo finito. Non quando ci si sposta nel mondo infinito. Qui, la regola che il tutto è sempre maggiore del sua parte non vale: la parte è uguale al tutto”.
Cantor decise di non interrompersi facendo finta di non accorgersi dell’espressione sempre più irritata del Prefetto, a cui proprio non garbava che questo giovane parlasse di infinito come se si trattasse di una località dove lui si recava spesso.
“L’aspetto veramente curioso di quel che ho scoperto è però un altro: se prendiamo tutti i numeri, razionali e irrazionali, che stanno tra 0 e 1, scopriamo che sono anch’essi un infinito. Ma sono di più dell’infinito di tutti i numeri interi. Questo significa, signor Prefetto, che, dato un infinito, ce ne è sempre uno maggiore: ci sono infiniti infiniti e ci sono infiniti più grandi e infiniti più piccoli”.
Franzelin sobbalzò, bianco in volto, e lanciò un urlo. Cantor, atterrito, saltò in piedi, incerto sul da farsi. “Lei, giovanotto, è un eretico. Si rende conto che, con la sua supponenza scientifica, vuole distruggere uno dei principi fondamentali della Chiesa? Lei vuole ricreare il politeismo”.

Che sarebbe successo, si chiedeva angosciato Franzelin, se la gente veniva a sapere che non c’erano un mondo finito e un solo Dio infinito, ma tanti infiniti, senza che uno fosse più grande, più potente, più infinito dell’altro? Sia Giordano Bruno che aveva provocatoriamente immaginato l’esistenza di più infiniti (ipotizzando che l’universo e Dio fossero infiniti di tipo diverso), sia Galileo, che sull’infinito aveva enunciato strane proprietà, avevano avuto il fatto loro.
Tuttavia, il Prefetto si rese conto che con questo giovane e compunto scienziato bisognava agire con pazienza e diplomazia: purtroppo i mezzi tradizionali per ridurre al silenzio gli imprudenti che vogliono occuparsi di concetti riservati ai teologi oggi – Dio voglia non per molto – non si potevano più utilizzare.
“Caro Herr Cantor, mi perdoni, ma le sue teorie affascinanti, pericolosamente affascinanti, mi hanno scombussolato. Dobbiamo parlarne in modo più approfondito. Voglio invitarla a cena, questa sera e voglio che rimanga qui in Vaticano per qualche giorno, ospite mio e del Santo Padre”.
Per una settimana, Cantor fu ospite di Franzelin e fu intrattenuto con tutti gli onori.
Al termine, si convinse che, per il bene della Chiesa e dell’umanità, la sua teoria doveva essere modificata. La gente non doveva sapere. L’idea di Franzelin era semplice. Sarebbe bastato chiarire che tutti gli infiniti oggetto delle sue indagini erano infiniti relativi.

Ed erano, come aveva brillantemente dimostrato, infiniti. Poi, sopra tutti, c’era l’Infinito. Vero, Uno e Assoluto. Dio. Un Infinito al di fuori della matematica. Cantor non si azzardò ad osservare che, secondo la sua teoria, anche quell’Infinito Assoluto doveva per forza avere un Infinito Assoluto superiore, se era davvero un Infinito.
Anzi, con un gesto di simpatia per Franzelin, propose di chiamare gli infiniti matematici “transfiniti”, per distinguerli dall’Infinito Assoluto.
Franzelin sorrise.
La Chiesa era salva.
Monsignor Franzelin fu nominato cardinale da Pio IX nel 1876, come premio per il successo ottenuto nel proteggere l’Infinito Assoluto.
Cantor dopo anni di angosciosi interrogativi sulla natura dei suoi infiniti, e sulla compatibilità delle sue teorie con la dottrina cattolica, finì la sua vita in manicomio.

Sull’infinito si vedano BRIAN CLEGG, A Brief History of Infinity, Londra, Constable & Robinson 2003 ; all’incontro tra Cantor e Franzelin accenna PIERGIORGIO ODIFREDDI, Le menzogne di Ulisse, Longanesi 2005. Sul Cardinale Franzelin si vedano la Catholic Enciclopedia on CD-ROM e il Biographisch-Bibliopraphisches Kirchenlexizon, www.bautz.de.bbkl; su Cantor, si veda JOSEPH WARREN DAUBEN, Georg Cantor, Princeton University Press 1979.

HAIKU – IL TEMPO DI UN RESPIRO

I

Sulla punta di un filo d’erba
Davanti all’infinito del cielo
Una formica

II

Passo dopo passo
Avanzo
Prigioniero della luna.

III

L’acqua diviene ghiaccio
Le lucciole si spengono
Nulla esiste.

IV

Tra i giochi delle fate
Discese sulla città
Il vuoto.

V

Nella brina del mattino
I gatti
Avanzano lentamente.

Un haiku non deve essere più lungo di un respiro.
Deve essere composto di tre frasi di 5, 7 e 5 sillabe.
Diceva Leang-Kiai: “una frase è morta quando le parole rimangono parole; nelle frasi che vivono, le parole non sono più parole”.
Gli autori, nell’ordine, sono Ozaki Hosai (1885-1926); Hirahata Seito 1905-1997; Chiyo-ni 1703-1775; Kimura Toshio 1956. L’ultimo haiku è di Jack Kerouac.
Da Haiku – Anthologie du poéme court japonais, a cura di Corinne Atlan e Zeno Bianu, Gallimard 2002.

Questo ventottesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 2005 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano.
Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.nespor.com (ove sono raccolti anche altri miei scritti e una scelta dei miei disegni).
Il sito è curato e aggiornato da Stefano Rossi. L’inserimento dei Testi infedeli nel sito è stato curato in passato anche da Beniamino Nespor.
Per l’elaborazione di questo volume ringrazio per l’aiuto e i suggerimenti Maria Inglisa, Salvatore Giannella, Marina Nespor, Pasquale Pasquino.