LA COPERTINA
riproduzione fotografica su carta opaca, rielaborata a matita, carboncino e acquerello Winson & Newton del disegnato su un tratto residuo del muro di Berlino. Il pezzo di muro e il graffito sono stati rimossi nell’aprile del 2007 per avviare la costruzione del nuovo Ministero dell’Ambiente. Il Governo tedesco ha promesso che il muro e il graffito saranno conservati e ricollocati in altra posizione.
IN QUESTO NUMERO
In questo trentaduesimo fascicolo dei Testi Infedeli troverete, dopo una breve commemorazione della Trabant, una riflessione, a partire da due testi di Cervantes e di Proust, del tema dell’identità individuale e collettiva, quest’ultimo recentemente affrontato da Amartya Sen. Poi, alcuni brani su fanatismo e compromesso di Amos Oz e delle considerazioni sulle ragioni delle scelte dietetiche, da Pitagora ai giorni nostri, tra religione, etica e ambiente. Infine, ancora sull’ immancabile tema dell’eresia, un pezzo tratto da un discorso di Nadine Gordimer. Ci sono poesie di Jodorowsky, di Czechowski e di Vaghenas.
P50
Come si fa a raddoppiare il valore della Trabant?
-Facendo il pieno.
-E poi, come si fa a raddoppiarne ancora il valore?
-Comprando una banana e appoggiandola sul sedile.
Sono alcune delle innumerevoli barzellette – i Trabant-Witze -diffuse nella DDR (chiamata anche Germania Est) riguardanti la automobile prodotta a Zwickau, in Sassonia.
Sono passati cinquant’anni da quando, nel 1957, la produzione della “Trabi” – in italiano, satellite – è iniziata. Presto, la P50 (celebrata in vari film: Go, Trabby, go, Good Bye Lenin e il cecoslovacco Kolja) sarebbe stata esportata in tutti i paesi del blocco socialista.
Le prestazioni erano scadenti (velocità massima 112 km.\ora), il motore a due tempi era inquinante, la carrozzeria era addirittura in materiale plastico (Duroplast) rinforzato con lana; però aveva quattro posti e spazio per i bagagli, era indistruttibile (la sua vita media era stimata in 28 anni), ed era estremamente stabile: negli anni Novanta, quando già era fuori produzione, superò il test dell’alce (che consiste nell’effettuare una brusca frenata come per evitare un grosso animale che improvvisamente attraversa la strada), mentre la Mercedes Classe A fallì.
Alla caduta del Muro, la Trabant divenne il mezzo più utilizzato per fuggire nella Germania Occidentale.
Fu quindi prima il simbolo delle capacità imprenditoriali della Germania comunista, poi del suo fallimento.
Sulla storia dell’auto che fu oggetto del desiderio nella Germania dell’Est: “La Trabant inquina, va fermata. In pensione il simbolo della Ddr”, di Antonio Castaldo, sul Corriere della Sera, 10.4.2007.
QUESTIONI DI IDENTITÀ
Caro Sancho, disse Don Chisciotte, io proprio vedo solo tre contadine su tre asinelli.
Dio mi liberi!, rispose Sancho. Come è possibile che tre stupende puledre, bianche come la neve, sembrino asini a vossignoria? E come è possibile che tre signore d’alto lignaggio, sicuramente principesse, paiano contadine?
Eppure, mio buon Sancho, disse Don Chisciotte, è tanto vero che sono asini e contadine quanto è vero che io sono Don Chisciotte. Quantomeno, a me sembrano tali.
Stia zitto, mio signore, e venga a riverire la signora dei suoi pensieri, la duchessa Dulcinea del Toboso.
Così dicendo, Sancho si avviò verso le tre contadine, scese dal suo somaro, prese per la cavezza l’asino di una delle tre e, inginocchiandosi, disse: Principessa e duchessa del Toboso, si compiaccia di ricevere il cavaliere che è lì, tutto intontito al vedersi all’improvviso dinanzi la vostra magnifica persona. Io sono Sancho Panza suo scudiero ed egli è Don Chisciotte della Mancia.
Mentre Sancho parlava, Don Chisciotte già si era messo in ginocchio e guardava con occhi stralunati colei che Sancho chiamava regina e duchessa. Non vedeva però che una ragazza del contado e neppure bella, con la faccia tonda e ingrugnita, e restava smarrito, senza osare muoversi o parlare.
Anche le contadine erano sorprese nel vedere davanti a loro quei due uomini, così diversi tra loro, in ginocchio.
A questo punto, mentre la contadina il cui asino era stato fermato, stizzita e scortese, chiedeva ai due di spostarsi e di lasciarla andare, Sancho disse: “O principessa del Toboso! Come il cuor vostro non si commuove al vedere inginocchiato davanti a voi il sostegno della cavalleria errante, Don Chisciotte della Mancia?
A queste parole Don Chisciotte, improvvisamente illuminandosi in volto, rivolgendosi alla contadina, disse: Duchessa, ultima perfezione che possa desiderarsi da un uomo valoroso, unico rimedio di questo cuore, il maligno incantatore ha posto una nube e un velame davanti ai miei occhi ed ha mutato il tuo viso in quello di una povera contadina, e magari ha mutato anche il mio, al vostro sguardo carezzevole e amoroso in quello di un mostro orrendo. Ti prego, dammi un segno osservando in questa mia sottomissione l’umiltà con cui ti adora l’anima mia.
*
Qualcuno degli innumerevoli e nascosti “io” che fanno parte di noi non era ancora al corrente della partenza di Albertine e si doveva comunicargli la notizia; si doveva – ed era molto più doloroso che se fossero stati degli estranei e avessero preso in prestito la mia sensibilità nella sofferenza -annunciare la sciagura piombata all’improvviso su tutti questi diversi esseri, questi “io” che – a differenza di me, pur facendo parte di me – non sapevano ancora nulla.
Bisognava che ciascuno di questi “io”, a turno, sentisse per la prima volta queste parole: “Albertine ha chiesto le sue valige” (quelle valige a forma di bara che avevo visto preparare a Balbec vicino a quelle di mia madre) e poi: “Albertine è partita”. A ciascuno di questi “io” dovevo comunicare il mio tormento, che non era una conclusione pessimistica conseguente a un insieme di circostanze funeste, ma una intermittente sensazione di rivivere una specifica e non voluta impressione esterna.
C’era qualcuno di questi “io” che non avevo visto da tanto tempo, per esempio, l’”io” che io ero quando mi facevo tagliare i capelli. Avevo dimenticato questo “io”, questa parte di me, e io suo sopraggiungere mi ha fatto sussultare.
*
Si è sempre identici a sé stessi? Sembra una domanda stupida e inutile, e, secondo Wittgenstein, lo è. Tuttavia, la questione è meno ovvia di quanto sembri.
In quest’ultimo passo, tratto dalla Recherche, il protagonista, messo di fronte a un improvviso dolore, si accorge di essere composto da molteplici identità, con le quali si deve confrontare.
Nel brano che precede, tratto da uno dei passi più geniali contenuti nel secondo volume del Don Chisciotte, Cervantes scambia le identità dei suoi
personaggi e rovescia le parti. Sancho, che rappresenta la solidità della realtà e della concretezza, decide di far contento il suo padrone che si è messo alla ricerca della sua immaginaria signora, Dulcinea del Toboso, e, volendolo imitare, trasforma tre contadine che viaggiano su degli asinelli in tre signore a cavallo, ed una di esse nella ricercata Dulcinea.
Don Chisciotte però, uscendo dal suo ruolo e da sé stesso, questa volta vede la realtà così com’è, vede identità reali e non quelle immaginarie propostegli dal suo scudiero. A un certo punto però, la fiducia in Sancho, e la consapevolezza degli errori fino a quel punto commessi vedendo cose che non c’erano, lo induce a convincersi che ciò che vede appartiene al suo mondo di illusioni: reinserisce la realtà nel suo mondo illusorio e immagina che la trasformazione dell’identità di Dulcinea in contadina sia frutto di una magia di cui lui solo è vittima.
*
Anche l’affermazione “Dopo quell’incidente, il mio amico non è più lo stesso” esprime la convinzione che una persona può essere o divenire diversa da sé stessa, eppure restare la stessa persona.
Analogamente, l’affermazione che chi ha commesso un delitto non può essere punito a vent’anni di distanza manifesta la convinzione che l’identità è mutevole, che non si resta sempre uguali a sé stessi, e che la punizione colpisca un uomo ormai diverso dall’originario delinquente. Ovviamente, questa convinzione demolisce l’intera costruzione del diritto penale moderno, il cui presupposto è quella finzione che Foucault chiamava l’Homo poenalis.
Così, appena si accantonano i rassicuranti luoghi comuni, si apre un mondo di incertezze, di interrogativi, di problemi, che può portare anche ad affermare, proprio al contrario di ciò che sembrava ovvio a Wittgenstein, che nessuno è mai identico a sé stesso.
È un problema che varie religioni hanno risolto inventando un’anima. Per la chiesa cattolica, in particolare, l’anima ha due fondamentali caratteristiche.
La prima è quella di sopravvivere alla morte del soggetto di pertinenza; la seconda, essendo immutabile e sempre uguale a sé stessa in un corpo che muta, di permettere il giudizio di Dio: non potrebbero essere assegnate pene o ricompense in mancanza di una entità cui possono imputarsi tutte le azioni. È, più o meno, l’anima descritta da Platone nel Fedone che “assomiglia assai a ciò che è divino, immortale, semplice, indissolubile, sempre la stessa e sempre uguale a sé stessa; il corpo è ciò che è umano, mortale, multiforme, dissolubile e sempre diverso da sé”.
Se non si utilizza lo stratagemma dell’anima per risolvere il problema dell’identità della persona attraverso il tempo, il problema si complica. Per esempio, John Locke, uno dei primi ad occuparsi seriamente di questo tema, riteneva che l’identità consista nell’accumulo di un comune bagaglio di esperienze e memorie che salda insieme i tanti sé stessi del passato e del futuro.
L’identità individuale, l’affermazione che qualcuno è sempre identico a sé stesso, è non solo una fragile finzione per la costruzione di sistemi sociali basati sulla responsabilità personale; costituisce anche il fondamento delle varie teorie dell’identità collettiva, dell’identità con altri membri di un determinato gruppo.
L’attribuzione di una identità con riferimento esclusivo ad una specifica caratteristica, considerata fondamentale, di una persona che proprio così resta sempre uguale a sé stessa (la religione, o la provenienza etnica, o le propensioni culturali o politiche) è uno dei meccanismi più frequenti di classificazione collettiva.
Si tratta, ovviamente, di una finzione ancor più grave di quella che sorregge l’identità individuale. La stessa persona può essere “identificata” come di cittadinanza italiana, di origine polacca, cristiana, progressista, femminista, sostenitrice dei diritti degli omosessuali, ambientalista, tennista, amante del jazz, Ciascuno di questi aspetti compone la sua identità. Nessuna di queste diverse identità è però sufficiente a definirla. Ognuna delle collettività cui appartiene le conferisce e le sviluppa una determinata identità. Nessuna di esse è l’unica, o la prevalente. Proprio come accade a Don Chisciotte, ciascuno vede nelle persone le identità che vuole vedere,anche se la realtà dovrebbe indurre a conclusioni diverse.
L’identità collettiva è anche uno degli strumenti più utili e più utilizzati per provocare conflitti sanguinosi e irragionevoli. In questo modo, assumendo la diversa religione – meglio se monoteista – o la diversa provenienza etnica come caratteristiche identitarie fondamentali, sono state inventate le guerre di religione e le purghe etniche, i massacri e i genocidi degli ultimi secoli. Naturalmente, l’operazione funziona se si convince anche un discreto numero di persone della importanza decisiva ed esclusiva della sua identità con un determinato gruppo e del carattere dominante o superiore di questa identità rispetto ad altre.
Il passo successivo è che le altre identità sono inferiori, e possono, o devono, essere eliminate. Dalla quantità di volte in cui questa operazione ha avuto successo nella civile Europa, è agevole concludere che l’operazione non sia troppo difficile da realizzare.
Naturalmente, ci sono identità che permettono di provocare conflitti più agevolmente di altre. È il caso dell’appartenenza ad una religione o a una etnia. Ma quasi tutte le identità, se divengono dominanti per classificare un individuo, hanno una potenzialità letale: si possono costruire conflitti basati sull’identità data dall’appartenza ai sostenitori di una squadra di calcio, dalla nascita in una città, o addirittura in un rione della città.
L’identità può uccidere.
Ho utilizzato: DEREK PARFIT, Reasons and Persons, Clarendon Press 1984; AMARTYA SEN, Identità e violenza, Laterza 2006; JOHN LOCKE, Saggio sull’intelletto umano, Bompiani 2004 (con il testo inglese a fronte); CARL VON LICHTENBERG, Schriften und Briefe, Carl Hanser Verlag 1971; PASQUALE PASQUINO, How to cope with time: a propos de rationality, time et personal identity chez D.Parfit, ou de ce qui est vrai en theorie et peut etre faux en pratique, non pubblicato. Il passo dal Don Chisciotte è nel capitolo 10 del secondo volume. Il passo della Recherche è tratto dal volume XIII, Albertine disparue, dell’edizione Gallimard del 1925.
DUE POESIE DI ALEJANDRO JODOROWSKY
Assenza
Mi rivolto nella cenere
Cercando di trovare un po’ di brace.
Mi siedo a chiacchierare con l’ombra
Che un giorno d’estate hai dimenticato sul sofà.
Sogno le orme di passi
Che una notte persero la memoria.
Nessuno passò mai da queste parti.
Si affitta vuoto l’appartamento
Di una casa che non c’è più
Piccoli gesti di bontà
Non mi resta che
Offrire un bicchier di vino al mendicante
Accompagnare silenzioso la vecchia signora,
offrire lenzuola pulite al poveraccio
applaudire attori scalcagnati
prestare un po’ di denaro a un imbroglione
mandare un mazzo di rose a una ragazza antipatica
regalare il mio bastone al cieco.
Piccoli gesti di bontà
Fatti nell’indifferenza
Di un dio che non distingue
Il bene dal male.
ALEJANDRO JODOROWSKY figlio di immigrati ucraini, è nato a Iquique, nel Cile del Nord, nel 1929, studia a Santiago. Nel 1953 si trasferisce a Parigi. Lavora come clown in un circo e riceve lezioni di mimo da Marcel Marceau.
Appassionato di magia e occultismo, fonda con Fernando Arrabal e Roland Topor il movimento di “teatro panico” (secondo la filosofia di questo movimento, nulla nel mondo avviene per caso).
Jodorowsky è direttore di teatro, autore di pantomime e pièce teatrali, di romanzi e libri di fumetti (tra cui L’Incal e La casta dei metabaroni). La sua notorietà è dovuta soprattutto all’attività come regista cinematografico: tra i film più importanti Il paese incantato, dall’omonima opera di Arrabal, El Topo, La montagna sacra e Santa sangre (Sangue santo).
La sua vita è raccontata nell’autobiografia La danza della realtà (Feltrinelli, 2004).
La due poesie sono tratte dalla raccolta No basta decir, pubblicata nel 2003. Alcune delle poesie di questa raccolta sono pubblicate in Italia nel volume antologico Solo de amor (Giunti 2006).
FANATISMO E COMPROMESSO
Sono un sostenitore del compromesso. So che questa parola gode di una pessima fama: il compromesso è considerato come una mancanza di integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà.
Il compromesso puzza, è disonesto.
Non per me. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. Dove c’è vita, ci sono compromessi. Il contrario di compromesso è fanatismo.
Quando dico compromesso non intendo dire capitolazione, non intendo porgere l’altra guancia a un avversario. Intendo incontrarlo più o meno a metà strada. Non esistono compromessi felici.
II
Sono un esperto di fanatismo comparato.
E posso dire che l’11 settembre non ha nulla a che vedere con la questione se l’America sia buona o cattiva, se la globalizzazione deve fermarsi o meno, se il capitalismo sia un male o un bene. È invece espressione della consueta pretesa del fanatismo: visto che questo è male, lo elimino insieme a ciò che gli sta intorno. Il fanatismo è spesso legato a un contesto di disperazione. Dove le persone non avvertono che disfatta, umiliazione e indegnità, ricorrono a svariate forme di violenza disperata.
Ma non solo. Il fanatismo è presente nelle sue forme più civili intorno a noi e forse anche dentro di noi.
Ci sono non fumatori capaci di bruciarti vivo se accendi una sigaretta vicino a loro. Ci sono vegetariani capaci di mangiarti vivo se ordini una bistecca. Non voglio dire che ogni opinione convinta sia una forma di fanatismo. Però penso che il seme del fanatismo si annidi dentro la rettitudine inflessibile. L’essenza del fanatismo sta nel desiderio di costringere gli altri a cambiare.
Quell’inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, a educare il tuo coniuge, a raddrizzare tuo fratello minore, invece che lasciarli vivere.
Il fanatico è la creatura più disinteressata che ci sia. È un grande altruista. Vuole salvarti l’anima, vuole redimerti, vuole affrancarti dal peccato, dall’eroe, dal fumo, dalla tua incredulità, vuole impedirti di bere o di votare nel modo sbagliato.
Il fanatico si preoccupa di te. Magari ti uccide, ma ti ama: lo fa per redimerti.
Il fanatismo non si combatte con l’indifferenza.
L’indifferenza non è il contrario del fanatismo: può essere una reazione al fanatismo, quindi in un certo senso ne è un sottoprodotto, una fuga dalle responsabilità.
Chi si mura nell’indifferenza finisce per essere interessato soltanto a se stesso, diventa un fanatico di sé.
III
Una delle cose che rendono il conflitto israelopalestinese particolarmente grave è il fatto che esso sia un conflitto tra due vittime.
Due vittime dello stesso oppressore: l’Europa.
L’Europa ha colonizzato il mondo arabo, lo ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura; la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato e sterminato in massa gli ebrei.
A rigore, due vittime dovrebbero manifestare d’istinto un senso di solidarietà tra di loro, e unirsi contro l’oppressore. Per esempio, nelle opere di Brecht vittime diverse sviluppano d’istinto una solidarietà reciproca, diventano fratelli e marciano insieme. Ma nella vita reale, come qualcuno sa per esperienza, alcuni dei più aspri conflitti vedono in campo due vittime dello stesso oppressore.
Guardando l’altro, entrambi vedono l’immagine dell’oppressore di un tempo.
IV
I pacifisti hanno fatto un’insalata di parole: mettono insieme pace, amore, perdono. Ma per fare la pace non c’è bisogno di dimenticare né di perdonare, tantomeno dell’amore: basta deporre le armi e smettere di fare la guerra» .
AMOS OZ (Amos Klausner) è nato nel 1939, i genitori erano di origine lituana e ucraina. Insegna letteratura all’Università del Negev. Nel 1998 ha ricevuto l’Israel Prize, nel 2005 il Premio Goethe Nel suo romanzo autobiografico, Una storia di amore e di tenebra (2002), Oz ha raccontato, attraverso la storia della sua famiglia, le vicende storiche del nascente Stato di Israele dalla fine del protettorato britannico.
I suoi libri sono pubblicati in Italia da Feltrinelli e Bompiani. Tra questi: Michael mio (1968), Una pantera in cantina, (1995), Non dire notte (2007).
I primi tre brani sono tratti da AMOS OZ, Contro il fanatismo, Feltrinelli 2004. Il quarto da una intervista di Oz al Corriere della sera del 5 marzo 2007.
CINQUE POESIE DI HEINZ CZECHOWSKI
Picasso: L’etreinte
A volte trovava tutto in lei
Speranza, paura, sud e mare.
E allora dimenticava il mondo gelato.
Nei suoi occhi sognava,
Finché il rosso del mattino
Bussava sui vetri ciechi.
Quando la baciava, pensava:
Blu era il colore della parete sopra il letto,
E il rosso come sangue del pavimento
Non lo dimenticherò mai.
Venezia
Incantato, la vidi nel ghetto.
Era francese.
In disparte bevemmo del vino
e mangiammo pesce arrosto.
Mentre appoggiata a un cancello mi guardava, io
le toccai il collo con la mano; lei disse “scusi”.
Provvisto solo della fretta dei vecchi
me ne tornai a Chioggia
per dimenticare
tra caldo e rumore.
Niobe
La casa è tra alberi e cespugli: una anziana signora
dà un po’ di cibo a tre gatti, e dice:
avevo tre figlie, la guerra
me le ha prese, se ne andarono
per strade ormai coperte dall’erba; non
sono più tornate. Mio marito
stava vicino alla ferrovia, proprio quando sulla
città
giunsero i bombardieri. Me lo portarono: il suo
petto
era un catino insanguinato. Nel giardino
gli scavai la fossa, la vicina
mi aiutò a seppellirlo. Ora
ricevo una pensione,
il resto me lo danno le galline,
almeno questo
nessuno me lo porterà via.
La morsa
La morsa che mi serrava
ha ceduto.
Non mi sono mai sentito
così libero. Ora
dovrei subito
imitare gli uccelli:
cuore che vaga, fluttuante al vento
in fuga dalle tenebre, rosso,
grumo di sangue
che maschera a se stesso: libertà
sento cantare
ma il cuore
non sa dove andare.
Ex-DDR
Seduto in auto, stavo di fronte alla casa
in cui avevo abitato sette anni. Era notte:
solo in due alloggi
era accesa la luce.
HEINZ CZECHOWSKI è nato nel 1935 a Dresda. Si trovava in città durante il bombardamento e la distruzione della città. Dopo gli studi letterari lavora come drammaturgo per il teatro comunale di Magdeburgo e come lettore all’università. Nel periodo della DDR fu tollerato, ma non amato. Nel 1977 ottiene il premio Heine e nel 1989 il premio Heinrich Mann. Nel 1995 si trasferisce in Westfalia. Ha curato una edizione delle opere di Holdernin e varie antologie di poesia contemporanea tedesca. Tra le sue opere: Das offene Geheimnis – Liebesgedichte, Einmischungen, Die Zeit steht still, tutte edite dalla casa editrice Grupello di Düsseldorf.
BLACK PUDDING
Tra la metà del diciassettesimo secolo e i primi decenni del secolo seguente, l’Inghilterra fu dilaniata da un violento dibattito religioso e gastronomico, noto come le “great black-pudding controversies”.
Il cibo eponimo di questo dibattito, il black pudding, è una salsiccia tradizionale inglese (ma presente in tutta Europa: in Germania è il Blutwurst, in Italia il sanguinaccio): è preparato con sangue caldo di un animale appena ucciso (generalmente un manzo o un maiale).
Il black pudding, per molti secoli consumato senza problemi dagli inglesi durante il breakfast, diviene un cibo controverso allorché si affermarono sette religiose nei Paesi Bassi e in Inghilterra – ben presto qualificate eretiche – che ritenevano che il mondo terreno era un’espressione di Dio, il quale era anche presente in ogni creatura vivente.
Uomini e animali condividevano quindi la stessa divina creatura. Mangiare il sangue a colazione era quindi un peccato e peccatori erano esponenti religiosi e politici che consentivano la manifattura e il commercio di black pudding.
A quei tempi, a differenza di oggi, la gastronomia era strettamente collegata alla teologia. E, per converso, la teologia si occupava di regole dietetiche: Dio non è mai stato molto chiaro nell’indicare che cosa si può mangiare e che cosa si deve evitare (facendo la fortuna di schiere di teologi e la disperazione di schiere di bongustai).
Alcuni studiosi recenti hanno cercato di affrontare l’argomento alla radice: Don Colbert ha così indagato le preferenze gastronomiche di Gesù giungendo a conclusioni parzialmente diverse da quelle di Benedetto XVI, secondo cui Gesù non avrebbe mangiato l’agnello a Pasqua (il successo ha indotto Colbert a pubblicare anche un libro di ricette di Gesù). Un gruppo di scienziati sta indagando direttamente su quale sia la dieta preferita da Dio.
Torniamo al black pudding. A sostegno delle nuove tesi teologico-gastronomiche interviene anche il bibliotecario di Oxford, poi vescovo di Lincoln, Thomas Barlow (noto tuttavia soprattutto per il suo opportunismo e la sua capacità di adeguare le sue idee alle diverse necessità): in una dotta opera concluse che non solo il Vecchio ma anche il Nuovo testamento proibivano di cibarsi di sangue, “pratica barbara e innaturale”.
Anche Isaac Newton si astenne sempre dal mangiare il black pudding. Molti ritenevano che ciò dipendesse da convinzioni religiose. Solo dopo la sua morte, nel 1727, però, la nipote rivelò che il nonno non mangiava il black pudding per ragioni etiche, in quanto preparato procurando all’animale una lenta e dolorosa morte per dissanguamento.
L’argomento è stato oggetto di molte discussioni: alcuni biografi sostengono che Newton aderisse ai principi dietetici posti da Pitagora, il quale vietava il consumo di carne perché riteneva che le anime trasmigrassero tra tutti gli esseri viventi, uomini e animali (è la dottrina della metempsicosi).
Per i cristiani però, da molti secoli (non da sempre, però), l’anima non trasmigra tra esseri viventi: quando l’uomo muore, l’anima si muove solo verticalmente, tra terra, paradiso e inferno. Il movimento orizzontale delle anime, su cui si basa la metempsicosi, è così divenuta una grave eresia e poteva condurre a conseguenze pericolose e spesso funeste per i suoi seguaci: è nota la triste fine dei catari, la cui fede imponeva di non uccidere alcun animale (e non mangiarne quindi la carne), onde evitare di danneggiare anime umane nel loro percorso terreno.
Molti ritengono che anche Giordano Bruno aderisse a questa credenza: ricorda Giovanni Mocenigo (che l’ospitò a Venezia e tentò in tutti i modi di carpirgli i segreti della magia; poi, irritato per l’insuccesso, lo consegnò poi all’Inquisizione) che Bruno “affermava che egli era stato altre volte in questo mondo, e che molte altre volte saria tornato doppo che fosse morto, o in corpo humano, o di bestia, et io ridevo, e lui mi riprendeva, che io mi burlassi di queste cose”.
Newton aveva quindi ottime ragioni per celare le proprie convinzioni.
Sangue e carne erano strettamente connessi. Infatti, insieme al sangue, la carne è stata tra i cibi teologicamente più discussi.
Così, per alcune religioni ogni carne è proibita; per altre, solo la carne di alcuni animali; per altre ancora, la carne in alcuni giorni della settimana o in alcuni periodi dell’anno.
Tuttavia, anche l’astinenza da carne non garantisce la salvezza eterna: basta vedere quel che è successo ad Adamo e Eva mangiando frutta.
Anzi, secondo alcuni la punizione inflitta ai due progenitori per aver mangiato il frutto proibito (che, per inciso, non è assolutamente detto che fosse una mela) è stata proprio quella di costringerli a uccidere altri animali e a mangiarne carne (pratica assolutamente non prevista nell’Eden).
Secondo questa interpretazione, mangiare carne per gli esseri umani è un obbligo: chi si ciba di carne rispetta la volontà e la punizione di Dio.
Così, per Descartes, gli animali non sono altro che macchine, senza sentimenti o sensazioni, creati da Dio per nutrire gli uomini. Analogamente, Locke sosteneva che non mangiare fagiani è peccato.
Certo questa organizzazione gerarchica degli esseri, strettamente antropocentrica, è tipicamente occidentale: i cinesi sostenevano, secondo Gernet, che non vi è nessuna gerarchia tra gli esseri e che un cane buono è superiore ad un uomo malvagio.
A partire dal Settecento il vegetarianesimo trova nuovi sostenitori su basi etiche (anche per l’influsso delle dottrine hindu che affascinano l’Europa). Per Mandeville, per esempio, ben pochi mangerebbero carne se fossero costretti ad uccidere personalmente gli animali, o se vedessero quello che succede in un macello. Secondo Jeremy Bentham mangiare carne era espressione di crudeltà. Per Shelley, Robespierre non avrebbe mai scatenato il Terrore se fosse stato vegetariano.
Anche Rousseau e Franklin ritenevano eticamente riprovevole il consumo di carne. Al contrario, per Kant, è mostruoso provare affetto o tenerezza per gli animali, trattandosi di sentimenti da riservare solo agli esseri umani.
Certamente, il collegamento tra astensione dalla carne e comportamento virtuoso o pacifico è smentito dalla storia recente: Hitler era infatti rigorosamente vegetariano e Himmler ha cercato in varie occasioni di imporre l’astensione dalla carne alle S.S.
Attualmente, la scelta vegetariana è spesso basata anche su ragioni di tipo ambientale. In verità, non sono ragioni nuove.
Già nel Settecento il reverendo William Paley e l’economista Adam Smith sostenevano che lo Stato doveva limitare i terreni destinati a produrre cibo per animali, così aumentando la disponibilità di prodotti agricoli per i propri abitanti. Tuttavia, il loro obiettivo era quello di consentire l’aumento della popolazione. Attualmente, l’obiettivo è quello di garantire cibo per la popolazione esistente. Un recente rapporto della FAO calcola che il 40% del prodotto agricolo mondiale è utilizzato per nutrire animali e non esseri umani (e la percentuale è in aumento esponenziale, per l’estendersi del benessere in paesi come la Cina e il Vietnam, in precedenza quasi esclusivamente vegetariane per scarsità di carne). Se questa produzione fosse convertita come nutrimento umano, vi sarebbe cibo per sfamare tutti (anche se il problema della fame, come ha segnalato Amartya Sen, non è tanto la mancanza di cibo, quanto la disuguaglianza sociale).
Sempre secondo la FAO, il 18% dell’effetto serra dipende dall’agricoltura finalizzata all’allevamento: di più di quanto provocato dal trasporto mondiale.
Si vedano: TRISTRAM STUART, The Bloodless Revolution: A Cultural History of Vegetarianism from 1600 to Modern Times, Norton New York 2007; STEVEN SHAPIN, Vegetable Love. The history of vegetarianism, in New Yorker 22 gennaio
2007; MARVIN HARRIS, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Einaudi 2005; JACQUES GERNET, Chine et christianisme, Tra gli autori citati: THOMAS BARLOW, Trial of a Black Pudding, 1652; tra gli altri libri di questo autore è di un certo interesse Cases of Conscience (1692); DON COLBERT, What Would Jesus Eat, 2002 e The What Would Jesus Eat Cookbook 2004. Su Giordano Bruno; BERNARD DE MANDEVILLE, La favola delle api. Vizi privati, pubbliche virtù, Le Lettere 1995. JEREMY BENTHAM, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789.
TRE POESIE DI NASOS VAGHENÀS
Genesi
In principio era il principio:
con qualche titubanza uscì dal niente,
da una coltre di buio senza tempo
macchiata in rosso, come per esempio
i paesaggi di Edipo.
E poi la Sfinge, le ali ricoperte
di diamanti – ancor prima che all’aperto
le acque zampillassero veementi –
preparava solerte
tutto il rimanente.
Ode Barbara XIII
Miei vecchi amori. Ore visibili
di un secolo che non vuole spirare.
Lune intorno a me si spezzano
di continuo.
La luce che mi illumina sarà certo
di stelle spente.
Per tutta la notte sradico sentimenti
dal mio petto che rimane sempre verde.
Erba secca con radici di eternità.
Mi confonde il rumore del tempo.
Scendo.
Ballata Oscura, II
Molti da vecchi imparano moltissimo.
Altri di meno, o almeno qualche cosa.
A me la mente invece è stata erosa
da quanto ho visto, oscuro o commovente,
negli ultimi vent’anni, totalmente.
Restano della vergine foresta
qualche erbaccia, due piante poco aulenti;
e tutto è scolorito, sbiaditissimo.
È torbido anche quello che non resta:
i recinti, gli uccelli e le sorgenti.
O Zeus Padre, che i fulmini governi
del cielo, tu purifica i miei occhi:
torna a riempirmi con le fonti eterne
della tua scienza, e la mia mente culla
in mezzo ai cedri, ai pini e alle betulle
NASOS VAGHENÀS è nato a Drama, nella Grecia settentrionale, nel 1945. La prima raccolta di poesie, Campo di Marte, è del 1974. Sono seguite: Biografia (1978); Le ginocchia di Roxane (1981); Vagabondaggi di un non viaggiatore (1986); La caduta dell’uomo in volo (1989); Odi barbare (1992). È autore di saggi di teoria letteraria e di teoria della traduzione (La veste della dea, 1988; Poesia e traduzione, 1989), e di studi sui maggiori autori della letteratura greca contemporanea (tra i quali Il poeta e il ballerino, 1979, su Seferis). In Italiano è stato pubblicato Vagabondaggi di un non viaggiatore, a cura di Caterina Carpinato (Crocetti,1997) e Ballate oscure a cura di Filippo Maria Pontani (Crocetti,2006).
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Ho partecipato alla battaglia contro l’apartheid sostenendo attivamente il clandestino ANC, ma vorrei ora considerare un altro tipo di guerra, la guerra contro chi scrive. La guerra contro la parola, che ho personalmente vissuto come scrittrice, e la guerra ulteriore, assai più seria, letale, che minaccia la stessa vita di giornalisti e scrittori nei conflitti attuali. Recentemente dei giornalisti sono stati presi in ostaggio nelle guerre in atto in molti Paesi, soprattutto in quella irachena. Ancor prima, in uno di questi Paesi un giornalista era stato ucciso dopo aver subito, come ostaggio, un inenarrabile calvario.
Fin dall’ antichità vi è stata una lunga serie di azioni contro scritti giudicati eretici sotto il profilo religioso. L’ elenco dei libri proscritti dai cattolici esiste ancora. Ma nei tempi moderni l’interdizione dei libri si è di solito basata su un linguaggio troppo esplicito in fatto di sesso, mentre l’ eresia ha assunto la veste della trasgressione all’ ortodossia politica. Nel primo caso, il sesso, vengono subito in mente Madame Bovary e L’ amante di Lady Chatterley e, per il secondo, l’eresia politica, mi si perdonerà se in margine ai tanti episodi di libri messi al bando ne cito uno personale. È su questa base che il regime dell’ apartheid in Sud Africa ha proibito tre miei romanzi uno dopo l’ altro. Vietare un’opera per ragioni politiche, impedendone la distribuzione e la vendita o, più drasticamente rigettarla bruciandola in pubblico – atti che sembrano avere presupposti razionali – sono in realtà azioni dettate da una fede non religiosa ma ideologica.
Un’ideologia abbracciata con veemenza diventa una fede in nome della quale i seguaci vivono e agiscono. La purezza della razza per Hitler, il proposito di eliminare una classe sociale per Stalin, sono solo due esempi delle vie per sopprimere la libertà di espressione in nome di ideologie politiche elevate a fedi, ciascuna delle quali si attribuisce il compito salvifico di combattere l’altro presente nell’umanità. Fede e ragione: ci siamo abituati ad accettare che questi aspetti, all’apparenza opposti, siano di fatto uniti in simbiosi nella messa al bando di opere letterarie da parte di regimi politici oppressivi. Basta leggere i rapporti, Paese per Paese, della commissione PEN sugli scrittori in prigione. Contro uno scrittore c’è stata poi un’azione inconcepibile nei tempi moderni, i nostri tempi: una condanna a morte sentenziata nei confronti di Salman Rushdie. L’ accusa è di aver pubblicato un romanzo eretico dal punto di vista religioso. La condanna a morte contro Rushdie è stata firmata dal fondamentalismo, che nel mondo attuale lancia le sue minacce e i suoi assalti non solo sul terreno della libertà di espressione, ma in molte altre aree della vita contemporanea.
Come si devono affrontare, non tanto i singoli conflitti e offensive, quanto le cause più profonde che determinano le azioni dell’idra fondamentalista? Amartya Sen offre un’analisi che possiamo anche pensare di prendere come guida, quando osserva che “il mondo è spesso ritenuto una federazione precostituita di “civiltà” o “culture”, ignorando l’importanza degli altri aspetti in base ai quali la gente si considera, che hanno a che fare con la classe, il genere, la professione, la lingua, la scienza, la morale, la politica.
Questo riduzionismo può dare un notevole contributo alla violenza della piccola politica quotidiana: le persone sono collocate in scatole anguste, ignorando tanti altri modi – economici, politici, culturali, civili e sociali – in cui interagiscono tra di loro all’interno e al di là dei confini regionali. Invece, la maggior speranza di armonia nel nostro mondo tormentato sta nella pluralità delle nostre identità, che si intersecano e si oppongono alle divisioni nette segnate da un sola, profonda e fossilizzata linea di confine che si pretende inevitabile. Gli aspetti umani che ci accomunano passano bruscamente in subordine quando le nostre differenze vengono costrette in un sistema prestabilito e fortemente categorizzato”. Non è una risposta possibile ai fondamentalisti della fede e della ragione?
È un brano tratto dal discorso di Nadine Gordimer, vincitrice del premio Nobel nel 1991, in occasione dell’assegnazione del Grinzane Cavour, pubblicato sul Corriere della Sera il 14.1.2007., con il titolo “Così politica, popoli e religioni fanno la guerra agli scrittori”. La traduzione è di Maria Sepa.
Questo trentaduesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno 2007 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano.
Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.stefano.nespor.it, e non più sul sito www.nespor.com.
Il sito è curato e aggiornato con perizia e scrupolo ineguagliabili da Stefano Rossi.
Ringrazio Maria Inglisa per le pazienti verifiche cui ha sottoposto il testo; Pasquale Pasquino, Marina Nespor e Salvatore Giannella per la ormai tradizionale revisione. Devo inoltre a Salvatore Giannella la segnalazionevento di Nadine Gordimer su uno dei temi abituali dei TI, ad Alice Winkler il regalo del libro di Oz, a pasquale Pasquino alcune utili indicazioni sul tema dell’identità individuale.