N. 35 inverno 2008

IN COPERTINA, UNA PANCHINA DI RIMINI

Sul retro, per ricordare i quarant’anni dell’elezione di Papa Wojtyla, un ritratto con il generale Augusto Pinochet, responsabile di crimini contro l’umanità.
La foto ritrae il Papa e il dittatore sul balcone del palazzo presidenziale, a Santiago del Cile, dal quale Salvador Allende parlò prima di essere assassinato, rifiutando di arrendersi.
Ricordo che il 12 febbraio 2009 sarà il Darwin Day.

IN QUESTO NUMERO

Lentamente, il paese si sta assuefacendo alla normalità del razzismo e delle discriminazioni. Fatti gravissimi ormai non sono considerati più tali anche da persone insospettabili. La capacità di indignazione di questo paese è ormai riservata solo a decisioni arbitrali errate nelle partite di calcio.
Per questo ho pensato di iniziare con due fatti di cronaca, assai diversi ma accomunati dall’ indifferenza e dalla noncuranza dell’opinione pubblica e delle istituzioni. A questi temi rinviano anche le due allusive e misteriose poesie che seguono, di René Char. C’è poi una parte dedicata all’Africa, passando dal Congo degli anni Trenta (il brano è di Emily Hahn, una scrittrice statunitense sconosciuta in Italia) a due cronache dall’Angola che descrivono, in modo molto diverso, gli stessi fatti e gli stessi giorni che precedono l’indipendenza. Attratto dall’omonimia, ho pubblicato alcune poesie di Ulla Hahn (tra cui quella, bellissima, dedicata al padre) e poi delle poesie e un brano di Wolfgang Borchert che, come Ulla Hahn, ha descritto il dramma della secondo guerra mondiale sul fronte russo, visto dai tedeschi. Il consueto appuntamento con eretici e eresie è rispettato con la pubblicazione della poesia di Federico Tavan (la cui figura è stata ricordata quest’anno da una mostra fotografica a Pordenone). Un antico motto buddhista (tratto da una raccolta conservata nel Museo nazionale di Singapore) chiude, non del tutto fuori tema rispetto all’inizio, questo volume. S.N.

ROGHI, PERQUISIZIONI, PERSECUZIONI
I.
La panchina di Rimini riprodotta in copertina era da anni l’unica abitazione stabile di Andrea Severi, 46 anni, di Taranto, senzatetto, un uomo gentile e tranquillo, senza problemi con la giustizia. La panchina è annerita: sono le tracce del fuoco e delle fiamme scaturite dai vestiti e dal corpo di Andrea. Accanto, non visibile sulla foto, c’è una bottiglia vuota. Conteneva la benzina che è stata gettata da quattro ragazzi di buona famiglia, incensurati sul corpo di Andrea mentre dormiva, prima di appiccare il fuoco. Ha detto uno dei quattro al giudice, quando è stato arrestato a seguito delle indagini: “Lo abbiamo visto sulla panchina, gli ho svuotato la tanica di benzina sulle gambe e ho gettato il fiammifero, Ha preso fuoco subito. Si è alzato urlando. Volevamo solo divertirci”.
Ora, Andrea è in ospedale, con il 40 per cento del corpo coperto di ustioni. Quando sono venuti a soccorrerlo, Andrea non voleva abbandonare la sua panchina.

II.
Nel giugno del 2008, alle sei del mattino settanta tra agenti di polizia e vigili si sono presentati con vari mezzi blindati al campo ove vive una comunità sinti, tutta composta da cittadini italiani. Tra questi vi è il signor Goffredo, invalido civile, pensionato, reduce da un delicato intervento chirurgico al cuore. E’ stato deportato nel campo di concentramento di Tussicia (Abruzzo) nel 1942, all’età di quattro anni in base alle leggi razziali del 1938 in quanto appartenente all’etnia sinti. È stato decorato con la medaglia d’oro.
Con lui abitano la moglie e due nipoti: il nipote più grande lavora presso un bar in Milano, il più piccolo frequenta la scuola media.
Dopo averli svegliati di soprassalto (senza tenere conto della presenza di minori e delle cagionevoli condizioni di salute del signor Giorgio), gli agenti di polizia e i vigili li hanno “schedati” (è l’espressione usata nei verbali) mediante rilievo fotografico dei loro documenti di identità e li hanno poi fotografati di fronte alle loro abitazioni; queste ultime sono state poi minuziosamente perquisite.
L’incursione è durata più di due ore durante le quali ai presenti è stato impedito di allontanarsi. Per andare a lavoro o a scuola, hanno dovuto attendere le autorizzazioni da parte dei funzionari di pubblica sicurezza.
Tra i cittadini italiani, vi sono, come è noto, delle minoranze linguistiche e delle minoranze etniche. Tra queste ultime, vi è la minoranza sinti, composta di alcune centinaia di persone. Questa minoranza, al pari delle altre, ha diritto di essere trattata senza discriminazioni in base a quanto stabilisce la Costituzione. Non solo. Le minoranze nazionali, e tale è la minoranza sinti, in base alla Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali degli Stati membri del Consiglio d’Europa del 1 febbraio 1995, ratificata dall’Italia con Legge n. 302/28.8.1997, hanno diritto a una protezione rafforzata rispetto agli appartenenti alla maggioranza etnica o linguistica, in quanto “gli sconvolgimenti della storia europea hanno mostrato che la protezione delle minoranze nazionali è essenziale alla stabilità, alla sicurezza democratica e alla pace del continente”. L’art. 1 della Convenzione stabilisce quindi che “La protezione delle minoranze nazionali e dei diritti e delle libertà delle persone appartenenti a queste minoranze forma parte integrante della protezione internazionale dei diritti dell’uomo”. Inoltre, l’art. 3 della Convenzione quadro precisa che “Ogni persona appartenente a una minoranza nazionale ha il diritto di scegliere liberamente di essere trattata o di non essere trattata come tale e nessun svantaggio deve risultare da questa scelta o dall’esercizio dei diritti che a essa sono legati”. Pertanto, gli appartenenti a una minoranza hanno diritto di scegliere se essere qualificati e riconosciuti come tali, godendo dei relativi vantaggi, oppure se essere trattati esattamente come gli altri cittadiniitaliani. È la questione che si è sollevata all’epoca in cui si era introdotto in Trentino Alto Adige l’obbligo per i residenti di scegliere se appartenere alla popolazione italiana o a quella tedesca, contro il quale si è a lungo battuto Alexander Langer.
Il signor Giorgio, anche a nome dei suoi nipoti, si è rivolto all’Autorità Giudiziaria perché fosse riconosciuto che era stato vittima di una ingiustificata discriminazione, per il solo fatto di essere sottoposto a identificazione e schedatura in quanto appartenente a una minoranza, e inoltre per le modalità ingiuriose e volutamente insolenti dell’operazione.
L’autorità giudiziaria ha però ritenuto che non ci sia nessuna ragione di urgenza nel decidere se il comportamento della forza pubblica statale e comunale è stato discriminatorio: il signor Giorgio può attendere i tempi di un giudizio ordinario (che, come tutti sanno, nel nostro paese non è breve: piuttosto che effettuare investimenti per accelerare la durata dei processi, si preferisce risarcire le vittime della – pressoché normale – irragionevole durata degli stessi). Dal canto loro il Ministero dell’Interno e il Comune di Milano ritengono che non vi sia stato nulla di anormale: una operazione di controllo come tutte le altre.

DUE POESIE DI RENÉ CHAR

I.
Sono venuti,
gli stranieri dell’altro versante del monte.
Non li conosciamo,hanno usi diversi dai nostri.
Sono venuti in tanti.
Sono apparsi là dove c’è il confine tra i cedri
E il campo irrigato e verde dopo la mietitura.
Erano stanchi per il lungo andare.
I loro berretti ricadevano sugli occhi,
il loro piede spossato si appoggiava nel vuoto.

Ci hanno visto e si sono fermati.
Chiaramente, non pensavano di trovarci là,
Su terreni piani con solchi ravvicinati.
Tuttavia, non erano preoccupati per l’incontro
Noi abbiamo alzato lo sguardo e li abbiamo
incoraggiati.
Quello incaricato di parlare si è fatto avanti,
seguito da un altro, anche lui malmesso.

Siamo venuti, ci dissero,
per avvertirvi che sta per giungere l’uragano,
il vostro implacabile avversario.
Come voi, anche noi non sappiamo bene
che cosa sia,
se non per quello che ci hanno raccontato
i nostri antenati.

Ma perché siamo così contenti di essere con voi?
Noi abbiamo ringraziato
e abbiamo detto che potevano andare.
Prima però hanno bevuto,
le loro mani tremavano, e i loro occhi ridevano.

Erano uomini della foresta, avvezzi alle scuri,
capaci di affrontare qualsiasi pericolo,
ma inadatti a fare una conduttura per l’acqua,
o una costruzione dai colori gradevoli.
Avremmo potuto assalirli
e sconfiggerli senza difficoltà
Mentre erano angosciati per l’uragano in arrivo.

Certo l’uragano stava arrivando.
Ma, valeva la pena di parlarne e di crearci
problemi per il futuro?
Dove ci troviamo,
non c’è nessun motivo di avere paura.

II.

Oh solitudine sempre più affilata
Dalle lacrime che salgono verso le vette
Quando si dichiara la sconfitta
che una vecchia aquila senza più forza
Vede ritornare la sua sicurezza d’un tempo
Allora si slancia a sua volta la felicità
Sul fianco del precipizio le riacciuffa.
Cacciatore rivale, non hai imparato nulla,
tu che senza fretta mi sorpassi
verso la morte a cui io cerco di resistere.

René Char (1907 -1988) è nato e vissuto per la maggior parte del tempo in Provenza, e la sua terra gli ha fornito lo spunto per la sua opera letteraria. È stato definito un lupo solitario con molti amici (tra cui Eluard, Picasso, Braque, De Stael, Lam, Da Silva, Giacometti, Bataille, Celan, Blanchot, Camus). Nel 1929 ha aderito al movimento surrealista e nel 1930 ha sottoscritto il secondo manifesto del Surrealismo con André Breton, René Crevel e Louis Aragon. Nel 1934 ha pubblicato la raccolta di poesie Le marteau sans maitre, musicate successivamente da Pierre Boulez. Allo scoppiò della guerra si è unito subito alla Resistenza ed è diventato il famoso “Capitano Alexandre”, comandante dei servizi segreti. Ha raccontato la sua esperienza di guerra in scritti, poesie e in un diario Feuillets d’Hypnos (1946). La raccolta Fureur et mystère comprende tutta la sua produzione poetica tra il 1938 e il 1947. Nel 1955 ha conosciuto Martin Heidegger, con il quale ha stabilito una profonda relazione di amicizia. Heidegger definì la poesia di Char “un faticoso viaggio nell’indicibile” .
Del 1955 è il libro di saggi Recherche de la base et du sommet; del 1962 la raccolta più vasta di poesie, La Parole en archipel .
Le sue opere sono state inserite nel 1983 dall’editore Gallimard nella collezione de La Pléiade (Oeuvres Complètes). Tradotti in italiano, oltre ai Fogli d’Ipnos, si possono trovare I canti della Balandrana, Ritorno sopramonte, Le vicinanze di Van Gogh, Mulino primo, Lontano dalle nostre ceneri, Alleati sostanziali.

 

UN VIAGGIO NEL CONGO
Quando nel 1931 arrivai alla Foresta dell’Ituri, nel Congo, avevo paura di tutto. Mi faceva tremare la vista delle narici di un coccodrillo adagiato nell’acqua in mezzo al fiume. Guardavo per terra per evitare i serpenti e scrutavo gli alberi per individuare i leopardi. Mi vergognavo di me stessa, e non volevo che gli abitanti di Tange, così si chiamava il villaggio dove vivevo, se ne accorgessero. Poi non ero qui, sulle sponde dell’Ituri, solo perché avevo fermamente voluto venire in Congo da sola, dopo aver ottenuto la mia laurea in ingegneria mineraria, investendo tutti i miei risparmi in questo viaggio? Per fortuna, le paure mi passarono dopo qualche settimana. Fui aiutata in questo accorgendomi che gli africani avevano più paure di me: una lucertola di un colore diverso dal solito, uno stormo di uccelli prima di sera potevano farli tremare. Questi pericoli mi furono spiegati da un ragazzo di cinque anni, Matope. Era venuto a Tange per curarsi un piede infetto. Poi, rimase, dormendo sotto il portico della mia casa e mangiando con me.
Dopo molti mesi, decisi di partire e di andare verso est; volevo vedere il Lago Kivu. Avrei dovuto essere accompagnata da alcuni portatori, da Matope e da Angelica, un piccolo babbuino che mi stava sempre vicino.
Non sapevo ancora che fare di Matope alla fine del viaggio. In Congo tutti i ragazzi, quando compiono diciotto anni devono lavorare per due anni nelle miniere belghe, e molti non sopravvivono a quell’esperienza. Mi sarebbe piaciuto portarlo con me negli Stati Uniti, mi immaginavo di allevarlo nella mia futura casa, dovunque essa fosse stata. Tuttavia, proprio per non perdere i propri schiavi, il Belgio imponeva una tassa per ogni giovane che lasciava il paese: 10.000 franchi francesi, circa 250 dollari.
D’altro canto, non ero certa che le autorità americane avrebbero concesso il permesso di immigrazione a Matope, dopo il prescritto soggiorno a Ellis Island.
Quando chiesi al capo del villaggio il permesso di portare con me, per qualche tempo, degli abitanti come portatori, cercò di dissuadermi. Nessuno è mai andato verso est, mi disse. A est di Tange non ci sono strade: con ciò, lui intendeva lo stretto sentiero ove si cammina uno alla volta che collegava un villaggio all’altro nella foresta dell’Ituri. Per di più, aggiunse, avremmo incontrato gente sconosciuta, diversa da quelli che abitano a Tange. Magari era-no violenti, quasi certamente non ci avrebbero dato cibo o aiuto. Avrei corso il rischio che i portatori impauriti tornassero indietro e mi lasciassero sola nella foresta.
Ma in Congo, se si ascoltano i consigli delle popolazioni locali, non si fa nulla. Così, insistetti e il capo villaggio si arrese, imponendomi solo di assumere come guida un pigmeo che affermava di conoscere il percorso.
Così, una mattina, dopo aver passato quasi un anno a Tange, mi misi in marcia. Eravamo lontani circa cento miglia dal confine con l’Uganda, dove avrei potuto probabilmente trovare un passaggio su un camion per il lago Kivu.
Per i primi giorni costeggiammo l’Ituri, camminando dentro le orme lasciate dagli elefanti, in modo da avere terreno solido sotto i piedi e non affondare nella melma. C’erano mosche e zanzare. Mi distraevo ascoltando i canti dei portatori.
Quando finalmente uscimmo dalla zona paludosa, i portatori fecero festa. A un certo punto, anche la foresta cominciò a diradarsi e finalmente vedemmo di fronte a noi una pianura dove risplendeva il sole. I portatori erano spaventati, non avevano mai visto niente di simile. Quella notte per la prima volta dormimmo in un villaggio con le capanne fatte di pietra e non di fango, e spirava un forte vento.
Nella foresta, il vento si vede solo perché muove le foglie sulla cima degli alberi, o increspa l’acqua del fiume, ma non si sente mai sul corpo. Ora lo sentivamo, e per alcuni era la prima esperienza. Avevamo tutti freddo.
Il capo villaggio mi avvertì che non eravamo lontani da un insediamento di europei, e da una strada adatta alla percorrenza di veicoli.
Una fase della mia vita era finita. Anche perché dovevo rinunciare ai miei portatori. La legge prevedeva che non si potessero usare se c’erano mezzi di trasporto che permettevano di non andare a piedi.
Il giorno dopo ci rimettemmo in cammino e, a un certo punto, vidi una sorta di piccolo centro minerario, con molti abitanti utilizzati nel trasporto di materiali. Un uomo bianco uscì da una delle capanne e ci scorse. Sembrava perplesso; poi, ci attese con le braccia incrociate e con fare bellicoso.
Quando gli fui abbastanza vicino, la sua prima domanda non fu diversa da quella che mi rivolgevano i capi dei villaggi africani: “Dov’è vostro marito, madame?”. Diedi la risposta consueta: “Non ho marito, sono sola”. Gli dissi il mio nome, e lui disse di chiamarsi de Blank; poi mi chiese scortesemente “Che cosa fate qui” . Questa domanda non me la avevano mai fatta i capi villaggio. Gli risposi che stavo andando verso il lago Kivu. Si mise allora a scrutare i miei portatori, come per scoprire qualcosa che potesse comprovare un mio misfatto. Mi chiesi che cosa fosse successo, se per caso fosse stata dichiarata una guerra mentre mi trovavo a Tange. “Siete andata a caccia?”. Compresi che sospettava che fossi entrata in quel territorio per cacciare senza licenza. Ma subito notò che non avevamo zanne o trofei di alcun tipo. Allora mi invitò nel suo ufficio.
C’era un altro belga, più giovane. De Blank ordinò un te. Io mi sistemai su una poltrona. Pensai che fino a pochi giorni prima, vivevo tranquillamente insieme a persone cortesi, rispettose, completamente a mio agio. Ora, tornata tra uomini bianchi, ero nervosa, vedevo inimicizia dove probabilmente non c’era: mi ero dimenticata come gli uomini bianchi si comportano.
De Blank sporse una mano e disse “Il suo passaporto, Madame”. Pensai che forse era un poliziotto. Glielo diedi, e lui cominciò a studiarlo pagina dopo pagina. Poi emise una esclamazione, mi mostrò il passaporto e disse “Me lo aspettavo! Non potete negarlo, ora”. Guardate. E mi mostrò trionfante, alla voce “occupazione”, la scritta “Ingegnere minerario”. “Sì”, risposi, “era il mio lavoro quando mi hanno rilasciato il passaporto. Che problema c’è?”. “Il problema è che siete un ingegnere minerario americano giunto qui per spiarci. Volete le nostre miniere d’oro e di uranio. Che cosa avete da dire in proposito?”.
Non dissi niente, perché non sapevo che cosa dire. Mi venne in mente che i Belgi erano tutti convinti che altre potenze volessero privarli della loro colonia africana.
Alla fine, risposi “Dico solo che non è vero”.
La semplicità della mia risposta sembrò averlo impressionato. Forse si è accorto che era assurdo pensare che un paese ricco e potente come gli Stati Uniti inviassero una donna sola per una delicata opera di spionaggio, nel mezzo dell’Africa.
“In ogni caso, per entrare in questo territorio avreste avuto bisogno di un permesso: questa è una concessione dove nessuno può entrare senza uno speciale lasciapassare”, osservò.
Risposi che non capivo di che cosa stesse parlando, né che cosa fosse la concessione. De Blank prese una mappa della regione, mi invitò ad avvicinarmi e mi mostrò il percorso che avevo compiuto.
“Siete partita da qui e siete arrivata qui”, disse.
“Davvero ho fatto tutto questo cammino?” chiesi, sentendomi anche un po’ orgogliosa.
“Sembra di sì. E, a parte i primi due giorni, tutto il percorso è dentro la nostra concessione” dichiarò, e proseguì: “Mi spiace, ma devo trattenervi qui fino a che avrò compiuto le indagini necessarie sul vostro conto. Manderò immediatamente un incaricato alla città per contattare il vostro console. Saranno necessari un paio di giorni. Nel frattempo, vi alloggerò in una tenda. I miei uomini si occuperanno dei vostri portatori”. Vi attendo per il pranzo”.
Sapevo che i Belgi vivevano in Congo in modo elaborato e cerimonioso, ancor più degli inglesi, ma non mi aspettavo che de Blank e il suo amico si presentassero a tavola in giacca bianca e cravatta, e il pranzo fosse servito da uno stuolo di camerieri.
De Blank parlava del più e del meno, la Depressione, il tempo, la famiglia reale belga, e il suo amico assentiva quando era necessario. Io però non ascoltavo: ero concentrata sul cibo. Mi ero dimenticata quanto gli uomini bianchi riuscivano a mangiare.
Alla fine, scorsi un cameriere avvicinarsi con il dessert.
Rimasi incantata a guardarlo, mentre si avvicinava e posava il piatto sul tavolo. Portava una torta coperta con una torre di incredibile altezza fatta di meringhe. Non avevo mai visto nulla di simile nella mia vita.
De Blank tagliò la torta lentamente in porzioni, e le distribuì sui piatti. Il ripieno era fatto di papaia, arancio e canditi.
Cominciai a mangiare, e mi resi conto subito che la fetta che mi era stata servita non sarebbe stata abbastanza. In realtà lo sapevo fin dal primo momento, da quando avevo visto la torta che si avvicinava. Mi misi addirittura a tremare al pensiero che non mi sarebbe stata offerta una seconda porzione.
De Blank se ne accorse, capì la ragione del mio stato, sorrise e mise l’intero piatto di portata davanti a me: “È a sua disposizione, Madame” mi disse.

Emily Hahn (1905 – 1997) si laureò ingegnere minerario all’Università di Madison, nel Wisconsin, nel 1926. Era la prima donna laureata in questa materia negli Stati Uniti. Quando si iscrisse al corso, le associazioni degli studenti fecero un ricorso, sostenendo che la materia era riservata agli uomini. Dopo aver lavorato per breve tempo in una miniera di zinco, andò a fare la guida turistica in Messico. Ma presto partì per il Congo, dove rimase oltre un anno. Da quel momento non smise mai di viaggiare, su tutti i continenti. “Nessuno mi ha detto di non farlo”, era la sua proverbiale risposta se taluno sollevava obiezioni ai suoi progetti. Le sue esperienze sono raccolte in 52 libri e in quasi duecento articoli apparsi sul New Yorker (da cui è tratto anche il brano qui pubblicato, dal titolo “Pawpaw Pie”): la sua opera è un gioiello letterario, secondo molti critici. Passò quasi sei anni a Shangai e a Hong Kong (dal 1936 fino nel 1941), conoscendo e mantenendo relazioni con tutti i personaggi più in vista della cultura dell’epoca, anche cinesi (nonostante che fosse proibito).
Quando i giapponesi occuparono Hong Kong, fu obbligata a dare lezioni d’inglese agli ufficiali occupanti, fino al momento del suo rimpatrio, nel 1943. Nel 1944, scrisse un libro che ebbe un grande successo sulla sua vita in quegli anni, China to me. Nel 1945 sposò un ufficiale inglese rimasto a lungo prigioniero dei Giapponesi e si stabilì in Inghilterra, continuando la sua collaborazione con il New Yorker. Nel 1978 scrisse Looking Who’s Talking, sulla comunicazione tra uomini e animali (un argomento a lungo studiato) seguito nel 1988 dal suo ultimo libro Eve and the Apes.

QUATTRO POESIE E UN PICCOLO BRANO DI WOLFGANG BORCHERT

Anima mia, dove vai?

Il vento disperde
amore e dolore
Il vento disperde
foglie e tempo.

La pioggia scorre
Nella notte
Ed io sono sveglio.

Che sogni, mia anima,
luce solitaria sul molo
che sogni?
Solo la notte e la nebbia
Passano silenziose
e la mia anima le segue.

Dove vai, mia anima,
vela senza pace nel vento
dove vai?
La tua nostalgia
È un lamento di bimbo
Dove vai?

Il vento disperde
amore e dolore
il vento disperde
foglie e tempo.
La pioggia, comincia
A cadere
Io comincio a dormire.

Il bacio

Piove – ma lei lo nota appena
Il suo cuore trema ancora per la felicità
In quel bacio tutto il mondo è affondato nel sogno
Il suo vestito è bagnato e stropicciato

E così scompostamente sollevato
Che tutti possono vederle le gambe.
Solo una goccia di pioggia, subito dissoltasi,
È però riuscita per un attimo a vedergliele

Lei non si è mai sentita così,
Forse gli animali sono così assurdamente felici
I suoi capelli sono avvolti in un’aureola
E la luce dei lampioni filtra come in una ragnatela.

L’altro

Sono quello di ieri
quello di prima
quello di sempre
quello che dice di sì
io sono l’altro che sempre esiste
al mattino
alla sera
a letto
di notte
non riuscirai a liberarti di me
io ho mille volti
io sono la voce che tutti conoscono
io sono l’altro
che è sempre presente
l’altro uomo
quello che risponde
che ride
quando tu piangi
che ti sprona
quando ti stanchi
io sono l’ottimista che vede il bene nei cattivi
e i lampioni nelle tenebre più profonde
sono colui che crede
che ride
che ama
sono colui che continua a marciare
anche quando gli altri zoppicano
e che dice di sì quando tu dici di no
ecco chi sono io.

Notte

Sono come un lampione di strada.
Quando cala la notte e spuntano le stelle
Comincio a esistere.
Cerco di orientarmi nel buio,
innamorato come i gatti
sui tetti notturni, con verde scintillio
negli occhi.

Gli uomini e i passeri dormono.
Solo le navi oscillano nel porto.
Si alza la luna sul limitare
del tetto di una chiesa.
Nei miei occhi
c’è un fiammifero acceso che scoppietta
e io sorrido.
Piove.
Con me c’è solo la mia ombra e il vento.

Requiem per un amico

Marciamo. Marciamo di giorno e marciamo di notte. Dormiamo di giorno, dormiamo di notte.
Loro sparano di giorno, sparano di notte. Loro sparano – ho detto, perché noi non sentiamo più i nostri spari, soltanto gli spari degli altri.
Le ore affondano come barche a vela sull’orizzonte insanguinato del mare del cielo. Il sole muore e con lui muore il giorno. Talvolta il tempo si ferma – e allora grava con tutto il suo spietato peso sui nostri visi.
Spettrali e grigi come corvi gettiamo uno sguardo dall’oscurità nell’oscurità, e aspettiamo che faccia giorno.
Tacciamo molto e parliamo poco. Solo alcuni ridono troppo, troppo forte. Ma anche quelli che tacciono sono pieni di vita.
Non ho mai dimenticato quando tu, dopo una giornata di marcia, nella casa bombardata prendesti dalla cenere una piccola patata raggrinzita, come si prende un frutto prezioso, e con devozione ne aspirasti il profumo. Fuori c’erano 48 gradi sotto zero.
C’era anche una bambina; la osservavo con tristezza – tu invece, penetrando i laghi scuri dei suoi occhi, vedevi una ragazza bionda e leggera. Tu sentivi il tocco loquace delle sue mani sui tuoi capelli e trovavi un senso in tutto ciò che all’apparenza è insensato.
La neve continua a cadere sui cavalli morti sulla strada e noi parliamo di fiori – ma tutto vuole irrigidirsi in freddo e ghiaccio. Forse anche i nostri cuori.
-Poter camminare ancora sotto una calda pioggia d’estate e sentire il profumo dei gigli – dice uno.
Ma tutto è sempre, soltanto neve – questa neve spietata. Poi ci distendiamo, l’uno vicino all’altro, sentiamo il nostro respiro, e siamo contenti di essere vivi. All’improvviso le bombe ci scoppiano intorno – e ci accucciamo nella neve, ci aggrappiamo alla terra tremante.
Non possono essere le stesse che brillavano sulla nostra patria, le stelle che adesso se ne stanno indifferenti in silenzio sul nostro dolore – bianche ed estranee e fredde.
– Forse domani arriva posta da casa – penso.
In questo momento il ghiaccio scoppia di nuovo nel suo canto di morte, e sangue cola nella neve.
-A casa – dici, ed è la tua ultima parola. Poi la tua anima se ne va con il vento che la sera sussurra attorno alla nostra casa e fruscia nei cespugli – e i tuoi occhi cercano il cielo.
– Sole e terra – dicevi quando odoravi un fiore – E adesso tu stesso sarai nuovamente terra e la terra sarà piena di sole. Io penserò che tu mi guardi mentre ti sto in piedi davanti e dialogo con te. E poi ti racconterò del mare, che in patria ancora si frange contro le rive.
E quando all’alba fa giorno, un uccellino grigio si posa sull’elmo posto sulla croce di legno, e canta.
E molto lontano, a oriente, si leva grande il sole del mattino.
Nel novembre del 1947, a Basilea, muore a ventisei anni (era nato a Amburgo nel 1921) Wolfgang Borchert. Da tempo soffriva delle conseguenze di una malattia contratta sul fronte russo, dove Borchert è inviato con la Wehrmacht nell’inverno del 1941 e dove rimane, con il solo intervallo di degenze in ospedali militare e in prigione: è due volte processato e condannato dalla corte marziale (per disfattismo nell’estate del 1942 e per una parodia del nazismo nel settembre del 1944, e subito rinviato al fronte).
Poi, costretto nell’aprile del 1945 a un’ultima difesa sul Meno, si lascia catturare dalle truppe alleate, e giunge infine nel maggio a Amburgo.
Gli rimangono poco più di due anni di vita. In questi due anni scrive la maggior parte dei suoi racconti – il genere per il quale è divenuto famoso – spesso riferiti al periodo della guerra sul fronte russo.
Sono il prodotto più rappresentativo di un gruppo di scritti noto come Ostfront-Literatur, la letteratura del fronte orientale. Le raccolte di racconti più importanti sono: Schneegeschicthen (Storie della neve), tutte ambientate su vicende accadute sul fronte russo, pubblicate postume (“Non c’era mai stato niente di cosi bianco come questa neve. Eppure era quasi azzurra. Verde azzurra. Ma terribilmente bianca”); Die Hundeblume – Erzählungen aus unseren Tagen, 1947, basate su ricordi dei soggiorni nelle carceri militari. L’opera per la quale Borchert diviene famoso è un dramma radiofonico, Draussen vor der Tur. La maggior parte delle opere di Borchert è raccolta in Das Gesamtwerk, Rohwolt Amburgo del 1949, anche se molte poesie e racconti sono stati pubblicati negli anni seguenti. Il brano qui riprodotto è tratto da Allein mit meinem Schatten und dem Mond. Briefe, Gedichte und Dokumente (Solo con la mia ombra e la luna. Lettere, poesie e documenti), Rowolt, Amburgo 1996. In Italia una scelta delle opere è stata pubblicata da Guanda nel 1968, con una ampia e accurata prefazione di Roberto Rizzo.

QUATTRO POESIE DI ULLA HAHN
Rimesso a posto
Leggermente
Ti sei vestito
Leggermente
Hai di nuovo mentito
Leggermente
Sei uscito chiudendo la porta
Leggermente
Hai rimesso a posto il tuo cuore.

In Attesa

Seduta a un tavolo per due
sola con quello sguardo vigile e fisso
scruta attorno
come se avesse perso qualcosa
aggrappandosi a un libro:
è il laccio
che la sottrae agli occhi
che le guizzano intorno
aguzzi e spietati
e si rovesciano su di lei
abbattendola
sulla sedia di plastica
che le s’incolla sotto le cosce.
Lei agita
il bicchiere di ghiaccio
si scioglie
in repentino tintinnio
si fa sempre più piccola
vorrebbe sprofondare

come un personaggio
nel romanzo
che ora chiude.
Prima di riemergere,
pagare e andarsene.

Parlato con immagini

Se io fossi un albero crescerei
Nel cavo della tua mano
Se tu fossi il mare
Costruirei bianchi castelli di sabbia.

Se tu fossi un fiore
Ti raccoglierei con tutte le tue radici
Se io fossi un fuoco produrrei
Cenere leggera per la tua casa.

Se fossi una ninfa
Ti risucchierei con me nel suolo
E se tu fossi una stella
Con un colpo ti tirerei giù dal cielo.

Mio padre

Chi è?
Chiedono i miei amici
E mostrano la foto
Dell’uomo sulla mia scrivania

Collocata tra Salvador Allende e Angela Davis

Rispondo:
Mio padre. È morto.
Nessuno chiede più nulla.

Chi sei
Chiedo a quell’uomo
Che non sorride mai
Neppure per farsi la foto del passaporto
Che mi guarda
Come per salutare
Persone sgradite

Figlio di contadini, undicesimo di dodici,
a undici fuori di scuola:
aveva imparato a guardare
sempre con capo chino
verso l’alto.
È divenuto curvo
Come operaio sulle macchine
E come soldato in guerra
trascinato sul fronte contro i Rossi.

Poi, si credeva che non capisse.
Ma lui continuava
Come operaio alle macchine
Come padre in famiglia
E domenica in chiesa
Per far piacere alla moglie
E ai compaesani.

Questo è l’uomo che ho odiato.

Di notte,
quando dalla fabbrica
tornava a casa
gli gridavo in faccia
parole in latino e in inglese.

Al tavolo dei professori
Quando mi versavo
Con mano tremante
Qualche goccia di te
sulle ginocchia
ho inventato battute
sulle tazze che puzzano di olio di macchina.

È stato difficile cambiare idea
È stato difficile capire.

Questo è l’uomo
Che amerò fino alla morte
Di tutti quelli
Che sono colpevoli
Della sua vita
E del mio odio.

Qualche volta,
aveva già una coperta
per coprire le gambe
sulla sedia a rotelle,
mi prendeva la mano
e misurandola
con le dita e con lo sguardo
mi ha chiesto
come lo avrei fatto,
il nuovo mondo.

Con te,
gli ho risposto
con il mio pugno raccolto nel suo.

Chi è?
Chiedono i miei amici.
Ed io rispondo:
Uno di noi.
Solo il fotografo si è dimenticato
Che lui mi guarda e ride.

Ulla Hahn è nata nel 1946 in Brachthausen, nella Sauerland. Ha pubblicato molte collezioni di poesie. Del 1981 è Il cuore sulla testa (Herz über Kopf), del 2004 Così aperto il mondo (So offen die Welt) (2004); del 1993 è Poesie d’amore (Liebesgedichte) da cui ho tratto la poesia Mio padre. Ha scritto anche vari romanzi, tra cui nel 2003 Ritratti abbozzati (Unscharfe Bilder) dedicato al ruolo della Wehrmacht nella campagna di Russia visto nel rapporto tra genitori e figli e nel 2001 La parola nascosta (Das verborgene Wort), ove è descritta la vita di una giovane donna in un villaggio del Reno nell’immediato dopoguerra e l’incomprensione che desta il suo interesse per la letteratura: quando comincia a leggere le opere di Schiller, i genitori cercano di impedirle di continuare gli studi. La sua ultima opera, Forme d’amore (Liebesarten) del 2006 raccoglie tredici diverse storie d’amore. Ha vinto vari premi letterari: il Leonce und Lena, il premio Hölderlin, e il German Book Prize.

NOVEMBRE 1975: CRONACHE DA LUANDA

I.

Accaddero molte cose prima che Luanda fosse definitivamente abbandonata dai portoghesi.
Come un malato in agonia che, in un ultimo sussulto, torni in sé recuperando le forze, così alla fine di settembre la vita di Luanda riprese ritmo e vigore.
I marciapiede erano affollati, le strade ingombre di traffico. Gli abitanti correvano di qua e di là, affrettandosi a sbrigare le loro incombenze pur di scappare il più in fretta possibile.
Dicevano addio alle loro case africane con rabbia e disperazione, con dolore e impotenza: sapevano che partivano per sempre.
Ma volevano partire portandosi dietro tutti i loro averi. Così, tutti ordinavano casse da imballaggio. Furono fatte venire montagne di assi di legno. I prezzi dei martelli e dei chiodi salirono alle stelle. Le tecniche di costruzione delle casse e il miglior modo di rinforzarle erano il principale argomento di conversazione. Saltarono fuori sedicenti esperti della materia, autodidatti specializzati in strutture, stili e correnti dell’imballaggio.
All’interno della Luanda di mattoni e cemento cominciò così a sorgere una seconda città fatta di legno.
Si era immediatamente creata una gerarchia: più uno era ricco, più doveva essere grande la sua cassa da imballaggio.
Così, certe casse erano grandi come villette. Le più imponenti erano rinforzate erano rinforzate con assi trasversali e rivestite all’interno di tela da vela, le pareti erano realizzate con i migliori legni tropicali, tagliate ad arte e levigate così che sembravano mobili antichi.
Dentro erano impacchettati salotti, camere da letto, divani, armadi, cucine, quadri, tappeti, procellane, lenzuola, arazzi, puff, vasi, fiori finti. E poi statuine, conchiglie, lucertole impagliate, fotografie. Bisogna farci entrare tutto, prima di chiudere la porta e, andando all’aeroporto, fermarsi sul lungomare e gettare la chiave nell’oceano.
Le casse dei poveri sono invece piccole e dimes-se, molti se le sono fabbricate da soli usando scarti di segheria, avanzi di assi, compensati rigonfi : sembrano le catapecchie in rovina del quartiere africano.
Le casse dei ricchi stazionano nelle principali vie del centro, possono essere viste e ammirate. Le casse dei poveri si nascondono in cortili e capannoni.
Giorno dopo giorno, Luanda diveniva una scenografia teatrale: la città in muratura perdeva valore mentre la città in legno la acquistava. La gente non parlava più di case, solo di casse. Continuò a vivere così per un mese, poi improvvisamente cominciò a sparire.
Quartiere per quartiere, la città di legno si trasferì con i camion fino al porto. Si distendeva sulle banchine, la gente si aggirava nel labirinto delle sue strade apponendo targhette con nomi e indirizzi: sembrava quasi una normale città di legno. Di notte, era illuminata dai fanali e emetteva profumi di resine e di legni pregiati.
Un giorno, improvvisamente, la città di legno salpò a bordo di una grande fiotta e, in poche ore, sparì all’orizzonte.
La vidi salpare. All’alba era ancora lì che dondolava all’ancora, accatastata alla rinfusa. Faceva freddo e c’era la nebbia. Stavo sulla spiaggia insieme a dei soldati angolani e a un gruppetto di bambini neri, laceri e intirizziti. “Ci hanno portato via tutto“ disse, senza rabbia, uno dei soldati. Poi prese un ananas, lo aprì e affondò il viso nella polpa dorata. Poi osservò: “Però adesso i padroni siamo noi“.
Felice all’idea che l’Angola fosse diventata sua, imbracciò il mitragliatore e sparò una raffica in aria.
La città di legno, navigando sull’oceano, andò a ricongiungersi ai propri abitanti, quei portoghesi di cui una parte si era sparpagliata tra Europa e America, un’altra parte andò a stabilirsi in Sudafrica.
Tempo dopo, partito da Luanda, mi fermai per qualche tempo a Lisbona. Camminando lungo la foce del Tago, vidi delle casse di legno impilate fino ad altezze vertiginose, intatte e abbandonate: era il principale quartiere della Luanda di legno, approdato sulle coste europee.

II.

Luanda si prepara alla dichiarazione di indipendenza. Nel frattempo, il ponte aereo che parte dal-lo Zaire di Mobutu rifornisce di materiale bellico francese l’esercito mercenario invasore.
Ci sono duri combattimenti intorno alla città di Benguela: l’esercito invasore tenta in questi giorni che ancora mancano alla proclamazione dell’indipendenza dell’Angola di occupare il massimo territorio possibile.
Oltre trecentomila portoghesi sono partiti portando con sé in Sudafrica, in Brasile e in Portogallo l’ultimo bottino della dominazione coloniale.
Tutto ciò che si poteva trasportare ha lasciato il paese. Dalle piccole fabbriche ai mezzi di trasporto, tutto è stato smontato e inscatolato.
Con i coloni, è partito tutto: dagli oggetti d’arte alle cose più insignificanti come tessuti, generi alimentari, bicchieri, piatti, forchette.
La rapina non ha avuto limiti. C’è chi ha visto mettere nelle caixotes bottiglie vuote accuratamente incartate. Il Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (MPLA) ha assistito passivamente, non ha accettato la provocazione che i portoghesi cercavano.
“Ciò che conta è che insieme alle casse se ne vada per sempre il colonialismo“, si diceva per calmare gli animi. A un certo punto i lavoratori del porto hanno preteso di controllare il contenuto delle casse e, a fronte del rifiuto dei portoghesi, sono scesi in sciopero, occupando le banchine. I paracadutisti portoghesi allora hanno aperto il fuoco; si è diffusa la notizia che vi erano centinaia di morti. Si sono vissuti momenti drammatici poi, nel pomeriggio la situazione è tornata alla normalità.

*

Questa notte Agostinho Neto, che domani sarà presidente della Repubblica popolare dell’Angola, è ritornato a Luanda. Alla mezzanotte il popolo angolano ha festeggiato la nascita della Repubblica popolare dell’Angola.
La nascita del nuovo stato non è dovuta alla generosità del governo portoghese, né tanto meno vi è stata una concessione dell’indipendenza da parte della potenza coloniale, come è accaduto in altri casi in passato.
La bandiera portoghese non è stata ammainata per volontà politica del Governo di Lisbona; è il frutto di una lunga lotta di liberazione iniziata nel lontano febbraio del 1961.
Il risultato di 14 anni di lotta non è stato solo quello dell’indipendenza, ma anche il fattore determinante della caduta del fascismo a Lisbona.
I popoli africani delle ex colonie portoghesi non hanno liberato solo sé stessi, hanno liberato anche i portoghesi dall’oppressione del regime fascista.

Il primo brano è tratto dal libro di Ryszard Kapuscinski, Ancora un giorno, Feltrinelli 2008. La traduzione è di Vera Verdiani. Ryszard Kapuscinski è nato a Pinsk, in Polonia nel 1932 ed è morto nel 2007 a Varsavia. È stato uno dei più famosi corrispondenti esteri dell’ultima parte del secolo scorso, lavorando per l’agenzia PAP. Il secondo brano è di Antonio Civitelli inviato di Lotta Continua in Angola e, dopo, in Cambogia e Vietnam. Il brano è tratto da Lotta Continua del 9 e del 11 novembre 1975.

UNA POESIA DI FEDERICO TAVAN
Ringrazio la mia strega
e quelle successive
che m‘ hanno dato occhi
color della terra e del grano
simili a quelli di nessuno.
Ringrazio la solitudine
che m‘ hanno dato per diventar poeta.
Ringrazio la pazzia
che mi ha permesso
di restare me stesso.

Federico Tavan è nato ad Andreis (Pordenone) nel 1949. Ha imparato a leggere e a scrivere a 13 anni. Nello stesso tempo ha avuto le prime crisi che lo hanno portato in istituti psichiatrici. Nel 1967, a 18 anni, ha ricominciato le medie. Ha scritto sia in italiano che in friulano, pubblicando su giornali underground e sul bollettino parrochiale fino a quando ha incontrato quelli del Menocchio. Tra le sue opere: Nei quaderni del Menocchio: “Màcheri” 1984, “Lètera” 1984, “Cjant dai dalz” 1985, “La nâf spâzial” 1985, “J’ sielc perávalis” 1991. “Da màrches a madònes”, 1994 Biblioteca dell’immagine, “Amalârs” 2001 KV, “Cràceles cròceles”, Circolo culturale Menocchio 1997-2003, “L’assoluzione”.
Nell’autunno del 2008 a Pordenone è stata allestita una mostra fotografica di Danilo De Marco interamente dedicata a
“Federico Tavan, eretico” il poeta friulano delle pantegane, dei rospi e degli intrugli, di streghe senza processo. La mostra ha avuto per scenario le stanze al piano terra dell’ex scuola media “Giovanni Antonio” ed è stata accompagnata dall’uscita di un volume di studi su Tavan, curato da Pierluigi Cappello, Paolo Medeossi e Danilo De Marco (”Federico Tavan, nostra preziosa eresia”), che fa il punto sul significato della poesia dell’autore di Andreis, e che è stato originato dalla proposta di concessione a Tavan dei benefici della “legge Bacchelli”.

MOTTO BUDDHISTA
Questa è la mia casa.
Questa è la mia terra.
Questi sono i miei figli.
Sono affermazioni di chi non capisce
Di non essere proprietario
Neppure di sé stesso.

CREDITI
Questo trentacinquesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2008 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano.
Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.stefano.nespor.it, curato e aggiornato da Stefano Rossi.
Ringrazio Jeannette Sagues per l’aiuto nella traduzione dei testi di René Char; Salvatore Giannella, Maria Inglisa, Marina Nespor, Pasquale Pasquino per la tradizionale revisione.

QUARTA DI COPERTINA