I manuali di diritto dell’ambiente – una rassegna

STEFANO MARGIOTTA, MANUALE DI TUTELA DELL’AMBIENTE, IL SOLE 24 ORE, 2002, pagg. 664, euro 50; ROSARIO FERRARA – FABRIZIO FRACCHIA – NINO OLIVETTI RASON, DIRITTO DELL’AMBIENTE, LATERZA, 2000, pagg.244, euro 18,08; GIAMPIETRO DI PLINIO – PASQUALE FIMIANI (a cura di), PRINCIPI DI DIRITTO AMBIENTALE, GIUFFRE’, 2002, pagg. 187, euro 11,50; GIOVANNI CORDINI, DIRITTO AMBIENTALE COMPARATO, CEDAM, 2002, pagg. 357, euro 25,00; ANNA D’AMICO CERVETTI, ELEMENTI DI DIRITTO AMBIENTALE, GIUFFRE’, 2002, pagg. 301, euro 21,00; NICOLA LUGARESI, DIRITTO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2002, pagg. 258, euro 17,50; ANTONINO ABRAMI, STORIA, SCIENZA E DIRITTO COMUNITARIO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2001, pagg. 1145, euro 82,63; LUCA MEZZETTI (a cura di), MANUALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2001, pagg. 1210, euro 74,89; PAOLO DELL’ANNO, MANUALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2000, pagg. 736, euro 41,32; BENIAMINO CARAVITA, DIRITTO DELL’AMBIENTE, IL MULINO, 2001, pagg. 421, euro 24,79.
Davvero fuori dall’usuale la produzione di volumi di carattere manualistico in materia di diritto dell’ambiente tra il 2000 e il 2002: otto complessivamente, di cui uno nel 2000, due nel 2001 e ben cinque nel 2002.

Si tratta di una testimonianza del successo di questa disciplina giuridica e della sua stabile affermazione tra i corsi universitari di carattere istituzionale.

Tre dei volumi hanno come titolo “Diritto dell’ambiente”: gli autori sono Beniamino Caravita (che riprende in molte parti il fortunato “Diritto pubblico dell’ambiente” del 1990), Ferrara-Fracchia-Olivetti (giunto alla terza edizione) e Lugaresi; due “Manuale di diritto dell’ambiente” (Mezzetti, già brevemente recensito in questa Rivista e Dell’Anno giunto anch’esso alla terza edizione) un’altro Manuale di tutela dell’ambiente (Margiotta), poi un “Principi di diritto ambientale” (Di Plinio-Fimiani), e un “Elementi di diritto ambientale” (D’Amico Cervetti).

Insieme a questo gruppo, possiamo prendere in considerazione anche due opere che toccano due ampi settori del diritto dell’ambiente:”Diritto ambientale Comparato” di Cordini (che è in realtà alla terza edizione) e “Storia,scienza e diritto comunitario dell’ambiente” di Abrami.

Assai diversa è la mole dei volumi in esame.

Il Manuale di Mezzetti (che è un’opera collettiva con le varie parti affidate a esperti del settore, coordinate da Luca Mezzetti), con oltre 1200 pagine, offre la trattazione più ampia e circostanziata; lo segue, con poco meno di 1200 pagine, il testo di Abrami, che è però dedicato, come detto, prevalentemente al diritto ambientale comunitario. Il manuale di Dell’Anno, con poco meno di 750 pagine, oltre alla parte dedicata ai singoli profili settoriali, offre una trattazione della materia prevalentemente dedicata agli strumenti e alle competenze amministrative.

I Principi con circa 180 pagine offrono la trattazione più concisa, anche perché limitata, appunto ad un tema specifico (i principi che governano il diritto ambientale). Un po’ più lunga – circa 250 pagine – è la trattazione offerta dai volumi di Lugaresi e di Ferrara ed altri.

Ma per quest’ultimo va osservato che, nonostante il titolo di carattere generale, il contenuto copre solo alcuni degli argomenti e dei profili tradizionalmente inclusi nel diritto dell’ambiente.

Esso è infatti suddiviso in tre capitoli: il primo dedicato a considerazioni e valutazioni introduttive, cui seguono un capitolo dedicato all’organizzazione e ai soggetti istituzionali e un ultimo capitolo dedicato ai procedimenti amministrativi in materia di ambiente.

Analogo discorso può essere fatto per gli Elementi di D’Amico Cervetti: il volume da un lato tratta argomenti che non sono generalmente ricompresi nel diritto dell’ambiente (legislazione urbanistica e espropriazione), d’altro lato omette di trattare, o tratta molto sinteticamente, alcuni temi che al diritto dell’ambiente certamente appartengono (inquinamento atmosferico, inquinamento acustico, tutela di flora e fauna, attività industriali e incidenti rilevanti, energia).

In conclusione, la trattazione più completa – tra le opere brevi – è quella di Lugaresi che riesce con brevità e capacità sintetiche ad esaminare la maggior parte degli argomenti che compongono il diritto dell’ambiente.

Quest’ultima considerazione introduce una valutazione più generale e cioè che a titoli di carattere generale corrispondono contenuti sensibilmente diversi (ovviamente, nell’ambito di una disciplina comune e quindi di temi forzatamente omogenei), o l’attribuzione di peso e importanza sensibilmente diversi ai medesimi contenuti.

Sono differenze che riflettono la diversa origine e la diversa destinazione dei volumi (il volume di D’Amico è dichiaratamente concepito in funzione di un corso di laurea in scienze ambientali ad indirizzo marino dell’Università di Genova e i contenuti riflettono questa destinazione) oppure le diverse propensioni degli autori. Ma mettono in luce anche il diverso modo di concepire e ricostruire il diritto dell’ambiente, la sua funzione e i suoi obiettivi.

Per esempio, ai temi di carattere costituzionale e quindi al tema dell’ambiente nella Costituzione, seppur esaminato da tutti i volumi, dedicano due ampie specifiche parti solo il Manuale di Mezzetti e il testo di Caravita (quest’ultimo inoltre dedica una particolare attenzione ai profili costituzionali anche trasversalmente, allorché tratta i vari altri settori).

Il tema della storia del diritto ambientale, d’altro canto, che permette di collocare l’assetto attuale in una prospettiva evolutiva e storica, illuminando l’ascesa e l’affermazione di questo settore del diritto – e quindi la presa di coscienza del problema ambientale e l’uso degli strumenti giuridici per individuare delle soluzioni – è assente da tutte le opere generali.

È invece ampiamente trattato – risalendo, con qualche forzatura, sin al diritto romano e limitando l’indagine alla realtà europea o internazionale – dal solo Abrami, il quale è anche l’unico autore che dedica ampio spazio agli aspetti scientifici e strettamente ecologici.

Gli aspetti del Diritto internazionale e comunitario, che costituiscono il vero motore del diritto dell’ambiente anche a livello statale (quasi tutti gli Stati, senza l’impulso della comunità internazionale e dell’Unione europea, ben poco farebbero per conservare o migliorare il loro ambiente; molti sarebbero ben contenti di peggiorarlo) restano poco trattati, quando non completamente pretermessi.

Essi sono oggetto di una esauriente trattazione solo da parte del volume di Mezzetti ove la parte di diritto internazionale è affidata a Massimiliano Montini e quella di diritto comunitario a Giovanna Landi (ciascuna di circa 40 pagine).

La trattazione di questi aspetti è assai più ampia, in realtà, soprattutto nella parte comunitaria, nel volume di Cordini e in quello di Abrami (che offre anche utili appendici di documentazione cartacee, inserite anche nel CDROM).

Ma entrambi i volumi, come si è detto, pur proponendosi di offrire una visione generale, sono specificamente destinati ai profili sopranazionali del diritto dell’ambiente. Essi quindi sono rivolti a lettori che vogliono specificatamente approfondire questi aspetti.

Nessuno dei volumi esaminati, invece, tratta alcuni temi che pure sono attualmente al centro del dibattito del diritto ambientale: mi riferisco in particolar modo ai rapporti tra diritto ambientale e disciplina del commercio, del mercato e della concorrenza, sia a livello internazionale che a livello transnazionale e ai controversi rapporti tra diritto dell’ambiente, globalizzazione e global governance.

È vero che i volumi hanno carattere manualistico; tuttavia è un peccato che temi che sono oggetto di una vasto e multiforme dibattito a livello internazionale non siano sia pur succintamente accennati, anche perché gran parte delle questioni che pure vengono esaminate – dai rifiuti agli inquinamenti, alle varie disposizioni di protezione della natura e delle risorse – non possono essere correttamente comprese e inquadrate se non inserite appunto in una prospettiva che tenga conto dei conflitti con altre esigenze e altre discipline.

Considerazioni analoghe possono farsi per i principi di diritto ambientale.

La formazione di un sistema di principi generalmente riconosciuti è di grande importanza nel diritto dell’ambiente, sia per la mancanza di corrispondenti norme di diritto internazionale ambientale, sia perché essi consentono agli Stati adattamenti e un grado di flessibilità che altrimenti sarebbe impossibile.

Il tema non è però oggetto della dovuta attenzione da parte di buona parte dei volumi in esame.

Fanno eccezione il volume di Mezzetti e, naturalmente, il volume ad essi specificatamente dedicato a cura di Di Plinio e Fimiani.

Quasi tutti i volumi toccano solo superficialmente anche i temi di diritto civile e in particolare le problematiche connesse alla responsabilità per danno all’ambiente.

Tra tutti affrontano con maggiore attenzione il tema Margiotta e Caravita, al quale dedicano un intero capitolo. Anche Dell’Anno riserva una ampia trattazione al tema del danno all’ambiente e dei rimedi civilistici per il risarcimento dello stesso.

Poco spazio è dedicato dai diversi autori anche agli aspetti di diritto penale.

Tra i volumi che affrontano in modo più approfondito il tema, ma limitandosi sempre e comunque agli aspetti sanzionatori senza approfondire altre problematiche di rilievo (quali ad esempio quelle concernenti gli elementi identificativi del reato) è ancora il testo di Margiotta. Più didattico il Dell’Anno, che tratta l’aspetto sanzionatorio a chiusura di ogni capitolo della seconda parte dell’opera, ossia quella relativa all’analisi delle diverse discipline settoriali.

Il solo testo di Caravita dedica un capitolo alla questione, oggetto di ampio dibattito all’estero, della responsabilità penale della persona giuridica per reati ambientali.

Maggiore interesse, infine, suscita il tema delle associazioni ambientaliste.

Tutti i volumi lo affrontano, soprattutto in connessione con le problematiche relative alla tutela degli interessi ambientali nella loro qualificazione come interessi diffusi.

L’attenzione riservata alle associazioni ambientaliste dipende dalla difficoltà di individuare il presupposto della qualificazione e della differenziazione dell’interesse protetto e dunque della legittimazione ad agire in giudizio: problematiche che inevitabilmente riverberano i loro effetti sulla effettività della salvaguardia dell’ambiente.

Vi sono invece argomenti che sono trattati, sia pure dedicando spazio e attenzione diversi, da tutte le opere considerate: sono quelli che possiamo considerare il tradizionale “zoccolo duro” del diritto ambientale.

Tra questi rientrano gli inquinamenti (dei vari tipi), la valutazione di impatto ambientale, l’organizzazione amministrativa e gli strumenti.

In conclusione, non vi è un’opera che da sola offra una trattazione davvero completa delle varie materie che compongono il diritto dell’ambiente, nelle sue varie sfaccettature: tutte offrono trattazioni differenziate, ancorché manualistiche, e adatte a diverse esigenze di lettori e studenti.

Alcune di esse potrebbero essere concepite come opere complementari, da utilizzare congiuntamente, talvolta anche nella trattazione del medesimo argomento. Tutte, comunque, rappresentano un contributo interessate e di rilievo alla sistemazione di una materia complessa e con valenze giuridiche trasversali.

BENJAMIN FRANKLIN

Una biografia sintetica, che mette in luce le contraddizioni, le incertezze, gli errori di uno dei più grandi personaggi della storia americana.

Un libro che volutamente trascura, accennandovi appena quel tanto che è necessario, tre aspetti della vita di Franklin sui quali molte altre biografie si soffermano: i suoi aspetti di incessante indagatore scientifico, di studioso di fenomeni naturali (dalla natura dei fulmini all’aereazione dei camini), la sua vita privata, con i suoi innumerevoli rapporti con i principali personaggi del tempo e con le diecine di mai definitivamente accertate storie d’amore (tanto che vi sono anche quelli che ritengono che sia rimasto sempre fedele alla moglie che sempre lo attendeva a Filadelfia di ritorno dai suoi viaggi); sia infine lo scenario politico globale, nell’ambito del quale si svolge la sua attività di uomo politico (e che in gran parte è dato per conosciuto nei suoi presupposti essenziali).

Eppure, il libro riesce a mettere a fuoco un Franklin diverso da quello abitualmente conosciuto e descritto, fragile e umano; un Frankin che all’interno della rissosa attività politica della Pennsylvania e delle colonie americane, e della tumultuosa politica internazionale, si muove con incertezze, timori, ansie, e tanti errori di valutazione e successive modifiche di atteggiamento; ma si muove anche con capacità, saggezza, misura e estrema risolutezza.

Così, Morgan lo descrive, utilizzando la straordinaria quantità di corrispondenza che rimane (diecine di volumi solo in questi anni definitivamente riordinati e catalogati).

Lo descrive quando insegue l’idea di realizzare un impero formato da Gran Bretagna e Stati Uniti Uniti, nel quale già immagina in un non lontano futuro lo spostarsi del rapporto di forze dall’Europa al Nuovo Mondo; o quando cerca ad ogni costo di modificare l’atteggiamento inglese nei confronti delle proprie colonie, da considerare non più sudditi marginali, ma partners imperiali, fino all’ultimo, quando la guerra sta per scoppiare, quando ormai anche le colonie vogliono liberarsi dal giogo inglese.

Non vuole accettare l’idea delle colonie americane indipendenti, né quello di condurre una guerra contro quella che considera la propria madrepatria.

Quando si rende conto della vanità dei propri sforzi, diventa rivoluzionario nel modo più estremo, e rifiuta qualsiasi compromesso. Un rivoluzionario riluttante.

Così, Franklin diviene l’americano più famoso in Europa nel Settecento, ed uno dei fondatori dell’America moderna.

La sua vita si dipana per tutto il secolo, densa di una attività impressionante di scrittore, di ricercatore, di uomo politico.

A 79 anni va per la prima volta in Francia, come ministro degli esteri di uno stato che ancora non c’è. Ottiene finanziamenti insperabili, promettendo che lo stato che non c’è sarebbe sorto, ricco e potente.

Un libro che non serve per inquadrare Franklin nel suo tempo, ma permette di inquadrare lati ed aspetti che rendono Franklin moderno e umano.

ENVIRONMENTAL CONTRACTS

“Much has been written in the two continents over the last few years about regulatory reform in the environmental realm”, notes Daniel Esty in the preface to this important collection.

It is undoubtedly true.

One of the reasons is the peculiarity of environmental contracts: an impalpable entity that many seek to reach, and very few can claim to have really grasped. In fact, many in Europe say that the United States is the homeland of environmental contracting.

Accordingly, a litany of European industrial and business unions is that the excessive use of command and control regulation produces a lack of competition, unlike the flexible situation in the US.

Yet, in the United States environmental contracting is considered an original European approach to environmental regulation.

The experiments launched in the Clinton administration in this area – Project XL, the Common Sense Initiative, – are viewed mainly as bold attempts to follow the European example.

These contrasting opinions have two things in common.

First, they are both wrong, the effect of a double legal mirage: the persuasion that the neighbour’s garden is more contractual-minded and flexible in environmental matters than his own.

In fact, in the US environmental contracts have been neither popular nor successful.

It is sufficient to consider the data offered by Maxwell and Lyon in their chapter (An Institutional Analysis if Environmental Voluntary Agreements in the United States): since 1996 only one agreement has been entered (in 1997), a dramatic drop from the 1993-1995 period, when 21 agreements were realised.

On the other hand, in Europe, after the creative experimenting in France in the 1970s, terminated after a few years by the Conseil d’Etat, successes have been limited to contracts realised in a single country, Holland (and, but more controversially, the Flemish part of Belgium).

Second, these opinions reflect a malaise common on both sides of the Atlantic: command and control rules are deemed inefficient and too rigid to encourage the potential of market forces.

One of the values of this volume is to try to explain the reasons for and different aspects of this conflicting assessment of environmental contracts, through comparison of the experiences and the approaches to environmental contracting realised or planned in Europe and in the US.

The first part addresses environmental contracts in the US.

The contributions offer a general perspective (Cannon’s “Bargaining, Politics and Law in Environmental Regulation” and Hazard and Orts’ “Environmental Contracts in the United States”) and an overview of practical implementation (starting from the Negotiated Rulemaking of the 1990 examined by Hazard and Orts).

Many articles compare the U.S. and European experiences (e.g. Dennis Hirsch, “Understanding Project XL: A Comparative Legal and Policy Analysis”).

The second part is devoted to Europe.

The European Union’s policy is analysed by Van Calster and Deketelaere (“The Use of Voluntary Agreements in the European Community’s Policy”) and by Vedder (“Competition Law and the Use of Environmental Agreements: The Experience in Europe, an Example for the United States?”).

Faure analyses the only effective experience available, in Holland and in Flemish Belgium (“Environmental Contracts: A Flemish Law and Economics Perspective”) and Seerden reviews the legal aspects of environmental agreements in the Netherlands.

The volume then addresses the economics of environmental contracts and regulation and offers a comparative case study of electricity and energy.

After reading the volume, one is left with the question: why is environmental law still firmly grounded in command and control regulation if so many think that environmental contracting is much more effective?

The answer probably is that on both sides of the Atlantic supporters of command and control are still the majority.

Legal experts on environmental matters, although often convinced that the traditional system needs reform and innovation, maintain much more critical views of the feasibility of substituting for the dominant system environmental contracts.

Command and control may be inefficient and flawed in several ways (e.g. it discourages competition; it impedes innovation).

Yet, as Van Calster and Deketelaere remark, comparing voluntary agreements with command and control must be done with caution.

There is a tendency to oversimplify and idealize both.

If it is true that the advantages of the existing regulatory system are rarely as good as those of its model, the same is certainly true of voluntary environmental agreements.

As Coglianese remarks in his contribution (“Is Consensus an Appropriate Basis for Regulatory Policy?”): “a reliance on consensus introduces new sources of conflicts and creates additional problems in the policy process: it leads to unrealistic expectations, increased time and resources, lowest common denominators, imprecision, and a focus on tractability over importance”.

In Europe, notwithstanding the Communication on Environmental Agreements of the Commission released in 1996 [not implemented], sceptical views still predominate at the Community level as well as at the level of the States.

Many stress a set of theoretical questions not yet satisfactorily solved.

We may call it the democratic question underlying the substitution of command and control with environmental contracting.

Hazard and Orts ask when may the government avoid its own contractual promises by virtue of its sovereign authority, founded on a democratic mandate, to establish the rules, and change them?

The answer requires a difficult choice between government as sovereign regulator and government as contracting party, following the definition offered by Hazard and Orts, or, more precisely in my view, between government as honest contractor and government as democratic legislator, following the recent contribution of Gillian Hadfield.

In conclusion, doubts linger about entrusting to environmental contracting – that is, to powerful private interests selected by the Public Administration – solutions to problems which necessarily involve a plurality of private and public positions.

These can be adequately represented only in the institutions established in the democratic process.

This is the reason why the Final Report of the Committee of Experts appointed by The European Union on “New Instruments for Sustainability – The New Contribution of Voluntary Agreements to Environmental Policy”, published in 1998, concludes that environmental agreements may lead to a higher level of environmental protection than other regulatory instruments, but also that the participation of all social actors is essential for the long term success of the agreements.

CITTÀ GLOBALI

Questa rubrica è dedicata alla globalizzazione. È dedicata cioè a un vocabolo che è ormai abbondantemente liso per l’uso smodato che ne è stato fatto, tanto che riesce sempre più difficile comprendere che cosa esso davvero significhi e quale realtà intenda rappresentare.

Globale è oggi l’economia, la finanza, il commercio e il mercato. Ma globali sono anche il lavoro, la disciplina dell’ambiente e la produzione industriale.

Globali sono il turismo, la moda, la cultura. Globali sono la comunicazione e l’informazione. La fortuna del termine ha segnato anche la sua erosione e la sua crescente inutilizzabilità. È accaduto in passato, e accade tuttora per altri vocaboli: si pensi nella politica a “imperialismo” negli anni Settanta (termine questo, sia detto per inciso, che presenta molte affinità e molte sovrapposizioni con globalizzazione), a “evoluzione” nelle scienze naturali e sociali, e, più recentemente, a “sostenibilità” nel campo dell’ambiente e dell’economia.

Proprio per questo un noto sociologo francese, Alain Touraine, ha proposto di mettere globalizzazione definitivamente al bando.

Eppure, questo vocabolo esprime una realtà importante, sviluppatasi a partire dagli anni Ottanta: una realtà che non solo non può essere ignorata, ma deve essere capita e seguita. Un modo giusto per farlo può essere quello di commentare libri, articoli che su questa realtà “globale” e su questi fenomeni di “globalizzazione” si sono soffermati, ma anche episodi e casi che di questa realtà e questi fenomeni hanno costituito un esempio, e compiere così quella che è stata chiamata da un altro noto sociologo, Guido Martinotti, un’opera di restauro filologico del termine e del concetto. Il luogo ideale per compiere questa attività è certamente una rivista telematica, una E-zine, che – avvalendosi esclusivamente di Internet per la sua diffusione – costituisce di per sé un caso tipico, secondo l’uso corrente del termine, di globalizzazione dell’informazione.

Voglio cominciare con un libro di Saskia Sassen apparso negli Stati Uniti nel 1991, ma solo nel 1997 tradotto in Italia con il titolo Città globali (Torino, Utet, prefazione di Guido Martinotti). Il libro, partendo dalla premessa che in ogni epoca la città è in gran parte il prodotto dei rapporti economici esistenti, si propone di comprendere come essa sia stata trasformata e riplasmata dall’economia mondiale degli anni Ottanta: un’economia basata su attività produttive che per effetto dell’affermarsi di nuove tecnologie soprattutto nelle comunicazioni e nei trasporti si disperdono e si distribuiscono sul territorio a livello mondiale, ma che proprio per questo richiedono e impongono una più rigorosa e più pervasiva centralizzazione del controllo e della gestione.

Ed ecco che, quasi dieci anni fa, appare, nel saggio di Sassen, un primo concetto di globalizzazione, emergente dall’analisi congiunta dell’economia e dell’urbanistica, e degli effetti della prima sulla seconda.

Per secoli le città sono state i centri nevralgici del commercio e delle attività bancarie nazionali e internazionali. Ma, a partire dalla metà degli anni Ottanta, alcune città cominciano ad assumere una diversa fisionomia, assolvendo a quattro nuove funzioni: esse divengono stanze dei bottoni dell’economia internazionale; sedi privilegiate delle società finanziarie e delle aziende del terziario avanzato che operano su scala mondiale; luoghi di produzione e innovazione tecnologica per queste ultime attività; infine, mercati per la compravendita di quei prodotti.

Queste sono le città globali. Naturalmente, in queste città, e proprio per effetto di questi cambiamenti, si è modificato anche il governo locale, è decresciuta ‘importanza della popolazione residente rispetto all’importanza della popolazione non-residente, ma che della città fa un uso produttivo, è cambiato il lavoro (con una crescente presenza di lavoratori autonomi o free-lance, ma anche con crescente lavoro nero e immigrazione, e quindi con una crescente polarizzazione sociale), sono mutati l’edilizia, lo spazio urbano, la cultura, il divertimento.

Quel che è certo, è che le tesi variamente sostenute agli inizi degli anni Ottanta, secondo cui il processo di deindustrializzazione e l’affermarsi delle tecnologie telematiche avrebbero producendo decentramento e dispersione, avrebbero segnato il declino e forse anche la scomparsa delle grandi metropoli, sono state radicalmente smentite dalla realtà, e il saggio di Saskia Sassen ne offre una preziosa dimostrazione.

Si delinea invece un mondo in cui la dispersione e il decentramento delle attività produttive, l’affermarsi del commercio elettronico e di Internet e delle nuove tecnologie di comunicazione richiede e impone luoghi superspecializzati di controllo e gestione della frammentazione.

Secondo Saskia Sassen, tre sono oggi le città globali: New York, Londra e Tokyo. Esse hanno avuto, in poco più di un decennio, una evoluzione parallela (pur essendo assai diverse tra loro).

A queste tre città, alle modalità della loro globalizzazione e alle caratteristiche, assai simili che hanno assunto è specificatamente dedicata l’analisi del libro, al fine di dimostrare empiricamente l’assunto di partenza. Altre città sono probabilmente sulla strada di divenire città globali: per esempio, Parigi o Francoforte.

E Milano? Si incarica Guido Martinotti nella prefazione di togliere ogni illusione sul punto che Milano sia o stia per divenire una città globale. Se si tiene conto dei principali indicatori che qualificano le città globali, Milano si colloca a distanze abissali dalle tre città globali , e circa alla metà della classifica europea.

LA SOVRANITÀ NEL MONDO MODERNO

Siete tra quelli che pensano che l’intervento della NATO in Kosovo abbia violato la sovranità della Serbia, oppure ritenete che in presenza di ragioni umanitarie o della necessità di tutelare diritti umani un intervento anche militare da parte di organizzazioni internazionali all’interno di paesi sovrani sia possibile e legittimo?

Approvate la decisione dei Lawlords inglesi di non concedere l’immunità a Pinochet per i crimini commessi allorché era capo del governo cileno, oppure pensate che questa decisione abbia violato la sovranità del Cile, in quanto un capo di stato non può essere responsabile degli atti commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, se non di fronte alle autorità giudiziarie del proprio paese?

Comunque siano le vostre risposte, applicherete, più o meno consciamente, un vostro concetto di sovranità.

A meno che non siate ferrati in diritto internazionale, non vi renderete però conto che siamo in presenza di un istituto assai controverso ed elastico; soprattutto, di un istituto ideato dai giuristi dei paesi occidentali per giustificare ideologicamente le scelte politiche e di potenza dei loro paesi.

Luigi Ferrajoli spiega in modo assai preciso e sintetico come il concetto di sovranità sorge e come si evolve, parallelamente all’evolversi del concetto di Stato, a partire dal XVI secolo, allorché viene rielaborato.per giustificare la legittimità della conquista delle Americhe e dell’assoggettamento degli abitanti locali da parte dei paesi europei.

È un volume indispensabile per comprendere le trasformazioni che il concetto di sovranità sta attualmente subendo, e i possibili esiti di questo processo.

LO SCIAMANO IN ELICOTTERO

Mi raccontava mio padre che mio nonno, cittadino dell’impero austroungarico, si muoveva in gioventù – quindi, negli anni Settanta o Ottanta del secolo scorso – per tutta Europa utilizzando l’unico documento che possedeva: il tesserino universitario.

Non c’erano, allora, né passaporti né carte di identità.

Il passaporto è divenuto obbligatorio per muoversi da uno Stato all’altro in Europa solo dopo la prima guerra mondiale.

La carta di identità è a sua volta una trovata recentissima, introdotta dai regimi totalitari: in Italia, dal regime fascista con il testo unico di pubblica sicurezza del 1931 (prima era obbligatoria, da alcuni anni, solo per i soggetti pericolosi o per i pregiudicati).

Solo da qualche anno, ma assai parzialmente, per effetto della globalizzazione, abbiamo raggiunto un obiettivo (muoversi senza passaporto, ma solo dentro la Comunità europea, e purché lo Stato membro sia in regola con il Trattato di Schengen) che era un patrimonio del cittadino europeo in un mondo pre-globalizzato, suddiviso in Stati, in nazioni rigidamente difese da frontiere.

La costruzione dell’identità personale come oggetto di documentazione e di verifica, come fenomeno del presente e come specifico prodotto della globalizzazione è uno dei temi su cui si sofferma ampiamente Marco d’Eramo nel suo recente libro per evidenziare le contraddizioni e gli effetti perversi del processo di globalizzazione (Marco d’Eramo, Lo sciamano in elicottero. Per una storia del presente, Feltrinelli 1999, pagg.243, L.23.000).

Si sofferma d’Eramo sul processo che si verifica in parallelo, e cioè la costruzione di una identità culturale di gruppo (lo Stato, l’etnia, la regione, la religione, le radici ecc.): un processo che esprime il rifiuto della libertà e della globalità.

Per molti, la libertà è una catastrofe, e così si ricercano nuove prigionie: le sette, le religioni, le etnie, la regione, lo Stato-nazione di dimensioni microscopiche che fa sentire ciascuno a casa sua, le appartenenze, le squadre di calcio.

E non è chiaro se questa ricerca è l’effetto della globalizzazione che produce un mondo assai più piccolo, perché lo spazio non conta, è stato distrutto dai nuovi sistemi di comunicazione, o è l’effetto della globalizzazione che produce un mondo assai più grande, con molte dimensioni in più: siamo spettatori in tempo reale di realtà prima sconosciute, di delitti, massacri, rivoluzioni che accadono non più sotto casa, ma in luoghi dei quali fino a qualche decennio fa non avremmo neppure sentito parlare (Timor, per esempio).

Essenziale per questo processo, osserva l’Autore, è anche la costruzione delle tradizioni.

Per sfuggire a un futuro globale, sono necessarie tradizioni che affondano nel passato.

Se non ci sono, si inventano. In proposito, d’Eramo richiama l’opera di Hobsbawn The Invention of Tradition, che proprio dell’invenzione della tradizione si occupa (senza però ricordare al lettore che a partire dal kilt e dai clan scozzesi, fino al meticoloso culto della tradizione della Corte inglese, è tutto un prodotto del secolo scorso).

Tutte queste osservazioni sullo strano fenomeno della globalizzazione che produce integrazione e disintegrazione, aggregazione e separazione, isolamento e comunione sono contenute in tre saggi finali del libro.

La prima parte è una raccolta di diecine (trentanove per la precisione) di tracce di questo fenomeno: episodi, situazioni, anomalie apparenti, conflittualità che costituiscono tanti reperti raccolti in ogni parte del mondo, a seguito di osservazione diretta o di lettura di giornali locali (e tra questi reperti vi è anche la vicenda – incredibile incrocio tra passato, moderno e postmoderno – dei nomadi della Yakuzia che oggi commercializzano la polvere di corna di renna ricercata per le sue doti afrodisiache avvalendosi di elicotteri offerti dall’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite).

E sono questi reperti – in parte già pubblicati su Il Manifesto – che costituiscono il materiale che permette all’Autore di realizzare i suoi tre saggi conclusivi.

Per i cultori e i critici della globalizzazione, un libro da non perdere.

JONATHAN SWIFT, A PORTRAIT

Tutti conoscono Gulliver: è ormai divenuto una delle immagini archetipiche del viaggiatore avventuroso.

È anche il personaggio che esprime l’ansia di ricerca e di dominio della società e del capitalismo inglese della prima parte del XVIII secolo, irridendone nel contempo le convinzioni eurocentriche, o meglio ancora anglocentriche: Gulliver nei suoi numerosi viaggi invariabilmente incontra popoli diversissimi dagli europei (è sempre più alto o più basso di quelli che incontra), provvisti di loro civiltà e di loro culture.

Ma, nonostante le avversità e le peripezie, Gulliver, a differenza dell’altro grande viaggiatore inglese dell’epoca, Robinson Crusoe, creato dal contemporaneo e amico di Swift, Daniel Defoe, trova sempre il modo in breve tempo di ritornare in patria, pronto per un altro viaggio.

Se tutti conoscono almeno di nome Gulliver, sono pochi fuori dall’Inghilterra quelli che hanno letto “Gulliver’s Travels” nella sua edizione integrale (e non in una delle diecine di riduzioni e rimaneggiamenti per ragazzi), e sono ancora meno quelli che conoscono l’Autore, Jonathan Swift e la sua enorme produzione letteraria come romanziere, poeta, saggista, polemista, politologo, difensore dei diritti degli Irlandesi.

Eppure Swift, dopo aver goduto di grande fama in vita, ha continuato a costituire l’esempio e il punto di riferimento per la letteratura inglese fino ad oggi, restando anche il fulcro di numerosi irrisolti misteri concernenti la sua vita privata.

Prima di tutto: Swift, prete anglicano, credeva in Dio?

Era matto, o faceva solo finta di esserlo, per poter liberamente insultare e sbeffeggiare tutti i suoi numerosissimi nemici politici e avversari letterari?

Si sposò davvero in segreto con Esther Johnson ed ebbe, come molti sospettavano, rapporti ben più che affettuosi con Vanessa?

Fino ad oggi, i fans di Swift avevano a disposizione per documentarsi la impegnativa ma davvero esauriente biografia in tre volumi di Irvin Ehrenpreis “Swift, the Man, His Works and the Age”.

Oggi c’è – senza dover subire rinunciare per il tempo considerevole che l’opera di Ehrenpreis necessariamente impone ad altre letture o ad altre attività amene – il libro di Victoria Glendinning (già autrice di una accurata biografia di Anthony Trollope).

Il libro è agevolmente leggibile, affronta spavaldamente tutti i misteri della vita privata di Swift e cerca di dipanare, offrendo soluzioni spesso intuitive, gli enigmi di cui egli amava circondarsi.

Come dice il titolo, il libro è un ritratto dell’uomo più che una biografia dettagliata.

Ma è un ritratto che, in breve, in forma discorsiva e gradevole, permette di conoscere questo straordinario ed elusivo personaggio, che, come osserva l’autrice, ricerca spasmodicamente riconoscimenti dal mondo, ma nel contempo si rifiuta di accettarne le regole e le ingiustizie.

LOURDES

“L’unico figlio della Pagnottini Pellicciotti, rappresentante i boeri e caramelle, lasciò le uniformi presso la locale tabaccheria-ricevitoria del lottomatic, dove si effettuavano le iscrizioni al pellegrinaggio. Ed è qui, nel retro di detta tabaccheria, che Maria prova i desueti indumenti ospedalieri della vedova di fronte alla nipote della moglie del gestore che la scruta masticando una cicca gusto fragola”.

Ed è nel retro di detta tabaccheria che inizia il viaggio a Lourdes del lettore, insieme a Maria Angulema, accompagnatrice di malati e invalidi, per lo più finti.

Con un linguaggio a metà tra un verbale di un commissariato di polizia e il descrittivismo di fine ottocento, con un uso spregiudicato delle parole e con inaspettate aggettivazioni, Rosa Matteucci offre, in questo suo primo romanzo, un ritratto raccapricciante di Lourdes e della folla di personaggi che frequenta il Centro del Miracolo Mondiale.

Sono personaggi che sembrano usciti da un romanzo picaresco spagnolo, ma che escono invece dalla sterminata periferia italiana di poveracci creduli e praticati, avidi, imbroglioni e profittatori: la Micchelina e la Nazzarena, cugine diabetiche, ingorde e cattive, Samanta col tiacca, fino a figure appena delineate come, per fare solo un nome, Vito Scorciacavalli da Foggia il Barrelliere, macellaio equino, vessillifero della processione al quale nell’alloggio popolare di una zia erano apparsi, proprio come a Ignazio da Loyola, la Vergine e il Bambin Gesù.

Un romanzo da leggere, soprattutto da chi pensa di fare un viaggio a Lourdes.

DUE RECENSIONI SULLA BIODIVERSITÀ

RICCARDO PAVONI, Biodiversità e biotecnologie nel diritto internazionale e comunitario, Università di Siena – Dipartimento di diritto pubblico, Giuffrè Editore, Milano, 2004, pp. 512, € 32.
NICOLAS DE SADELEER – CHARLES-HUBERT BORN, Droit international et communautarie de la biodiversitè, Dalloz, Paris, 2004, pp. 780, € 60.
Nel 2004, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, sono apparsi due ottimi studi in materia di biodiversità, un argomento da alcuni anni al centro del dibattito ambientalista, sul quale, però mancavano ad oggi studi di portata generale. Entrambi questi libri riempiono in modo del tutto soddisfacente questo vuoto: anzi, come diremo fra breve, unitariamente considerati, costituiscono una trattazione davvero completa sull’argomento.
Il primo dei due studi è apparso in Francia: ne sono autori uno dei maggiori esperti europei di diritto ambientale, Nicolas de Sadeleer (autore di un volume sui principi del diritto ambientale, già recensito su questa rivista), e Charles-Hubert Born, assistente di ricerca presso l’Università di Lovanio (dove de Sadeleer insegna). Il secondo in Italia, ad opera di un giovane studioso dell’Università di Siena, Riccardo Pavoni.
I volumi hanno in comune una scelta di fondo: quella di associare nella trattazione la normativa internazionale e comunitaria in materia di biodiversità, essendo impossibile una comprensione delle origini della seconda senza conoscerfe la prima.
Entrambe le opere (ma in maggior misura quella di Pavoni) si soffermano anche sui profili che attengono alla proprietà intellettuale sulle risorse biogenetiche.
Le strade seguite nella ricerca sono però parzialmente diverse.
Il libro degli autori belgi si propone di ricostruire l’insieme della normativa internazionale e comunitaria che forma il presupposto della normativa specifica in materia di biodiversità o concorre a realizzarne gli obiettivi. Il libro si sofferma quindi in modo analitico sia sulla storia delle normative che si sono proposte di regolare le modalità di conservazione della natura o di particolari aspetti di essa, sia sugli strumenti di attuazione della normativa, evidenziandone i rapporti e le connessioni con le norme che si occupano di protezione dell’habitat naturale e dell’ecosistema terreste e marino. Particolare attenzione è dedicata all’integrazione della normativa sulla biodiversità con altre politiche settoriali a livello sovranazionale e nazionale, quali la politica agricola, quella forestale e quella della pesca. Secondo gli autori, infatti, il diritto della biodiversità è il risultato di tre tipi di regole: quelle che attengono alla conservazione, quelle che regolano lo sfruttamento, quelle infine che controllano i processi naturali e le attività che minacciano la biodiversità.
Il libro di Pavoni esamina invece, insieme alla normativa della biodiversità quella che regola una materia affine, le biotecnologie, oggetto di attenzione non solo da parte degli esperti di diritto ambientale, ma anche da studiosi della proprietà intellettuale e del commercio internazionale. Questo abbinamento porta Pavoni ad estendere la ricerca ad aspetti economici e commerciali. Una parte di rilievo del libro è quindi dedicata al tema della biosicurezza, alle regole applicabili a livello internazionale e comunitario alla circolazione dei prodotti biotecnologici (con tutte le problematiche che si pongono nei rapporti tra questo argomento e il diritto dell’Organizzazione mondiale del commercio).
Secondo Pavoni, dall’insieme della normativa esistente e della vasta mole di norme pattizie e di prassi vigenti possono essere estrapolati quattro principi informatori di un emergente regime generale della biodiversità e delle biotecnologie: l’interesse comune dell’umanità, l’equa condivisione dei benefici, il principio di precauzione e il mutuo sostegno tra regimi ambientali e commerciali.
Ciascuno dei due libri costituisce un ottimo strumento per affrontare e approfondire il tema della biodiversità e della sua regolamentazione a livello internazionale e comunitario. Ma, come detto, dall’insieme dei due libri, e dalle diverse impostazioni seguite dagli autori, si ottiene un panorama davvero completo dell’argomento.
Infine, i due libri hanno un altro aspetto in comune.
Nessuno dei due si occupa, se non brevemente, di una questione certamente preliminare che invece, soprattutto nella letteratura giuridica americana e tra gli scienziati degli ultimi anni, ha concentrato attenzione e dibattito, e cioè che cosa effettivamente deve intendersi per biodiversità nel diritto internazionale (ma la questione vale anche per il diritto comunitario). Si tratta di una questione tutt’altro che secondaria, come osserva Fred Bosselman (A Dozen Biodiversity Puzzles, in New York University School of Law Environmental Law Journal, 2004, pp. 364 ss.) che pone in evidenza che il termine biodiversità, pur coinvolgendo questioni e temi di enorme importanza, è così indeterminato a livello scientifico e biologico da essere quasi privo di senso con tutti gli effetti negativi che ciò può produrre a livello giuridico e normativo. Bosselman prosegue esponendo numerosi interrogativi sulla biodiversità tratti dalla letteratura scientifica, dove sono tuttora oggetto di dibattito, a partire dallo stesso concetto di specie (da anni oggetto di revisione e ripensamento critico).
Naturalmente, non bisogna dimenticare che la definizione del concetto di biodiversità è il prodotto non solo di ragioni scientifiche: lo storico della scienza David Takacs ha dedicato un intero volume (The Idea of Biodiversity: Philosophies of Paradise, 1996) ad analizzare l’evoluzione del significato del termine, osservando che all’obiettivo di tutela hanno concorso argomentazioni non solo scientifiche, ma anche religiose, etiche, economiche, politiche e estetiche.
Resta il fatto che, l’apporto della scienza è stato proprio quello di dimostrare – a partire da Darwin e da Lamarck – che la natura è in continua trasformazione, e che da sempre le specie si estinguono e nuove specie emergono, sicché non è certamente agevole sostenere oggi, da un punto di vista strettamente scientifico, che la natura, o alcune parti di essa, debbano essere conservate così come sono, se non appunto privilegiando aspetti di carattere “creazionistico” (per cui tutte le creature sono state create da Dio e devono essere conservate), o estetico (per cui le cicogne o le balene hanno più diritto di evitare l’estinzione degli insetti) o addirittura antropomorfico (per cui sono oggetto di conservazione solo le specie utili o gradite all’uomo).