LO SCIAMANO IN ELICOTTERO

Mi raccontava mio padre che mio nonno, cittadino dell’impero austroungarico, si muoveva in gioventù – quindi, negli anni Settanta o Ottanta del secolo scorso – per tutta Europa utilizzando l’unico documento che possedeva: il tesserino universitario.

Non c’erano, allora, né passaporti né carte di identità.

Il passaporto è divenuto obbligatorio per muoversi da uno Stato all’altro in Europa solo dopo la prima guerra mondiale.

La carta di identità è a sua volta una trovata recentissima, introdotta dai regimi totalitari: in Italia, dal regime fascista con il testo unico di pubblica sicurezza del 1931 (prima era obbligatoria, da alcuni anni, solo per i soggetti pericolosi o per i pregiudicati).

Solo da qualche anno, ma assai parzialmente, per effetto della globalizzazione, abbiamo raggiunto un obiettivo (muoversi senza passaporto, ma solo dentro la Comunità europea, e purché lo Stato membro sia in regola con il Trattato di Schengen) che era un patrimonio del cittadino europeo in un mondo pre-globalizzato, suddiviso in Stati, in nazioni rigidamente difese da frontiere.

La costruzione dell’identità personale come oggetto di documentazione e di verifica, come fenomeno del presente e come specifico prodotto della globalizzazione è uno dei temi su cui si sofferma ampiamente Marco d’Eramo nel suo recente libro per evidenziare le contraddizioni e gli effetti perversi del processo di globalizzazione (Marco d’Eramo, Lo sciamano in elicottero. Per una storia del presente, Feltrinelli 1999, pagg.243, L.23.000).

Si sofferma d’Eramo sul processo che si verifica in parallelo, e cioè la costruzione di una identità culturale di gruppo (lo Stato, l’etnia, la regione, la religione, le radici ecc.): un processo che esprime il rifiuto della libertà e della globalità.

Per molti, la libertà è una catastrofe, e così si ricercano nuove prigionie: le sette, le religioni, le etnie, la regione, lo Stato-nazione di dimensioni microscopiche che fa sentire ciascuno a casa sua, le appartenenze, le squadre di calcio.

E non è chiaro se questa ricerca è l’effetto della globalizzazione che produce un mondo assai più piccolo, perché lo spazio non conta, è stato distrutto dai nuovi sistemi di comunicazione, o è l’effetto della globalizzazione che produce un mondo assai più grande, con molte dimensioni in più: siamo spettatori in tempo reale di realtà prima sconosciute, di delitti, massacri, rivoluzioni che accadono non più sotto casa, ma in luoghi dei quali fino a qualche decennio fa non avremmo neppure sentito parlare (Timor, per esempio).

Essenziale per questo processo, osserva l’Autore, è anche la costruzione delle tradizioni.

Per sfuggire a un futuro globale, sono necessarie tradizioni che affondano nel passato.

Se non ci sono, si inventano. In proposito, d’Eramo richiama l’opera di Hobsbawn The Invention of Tradition, che proprio dell’invenzione della tradizione si occupa (senza però ricordare al lettore che a partire dal kilt e dai clan scozzesi, fino al meticoloso culto della tradizione della Corte inglese, è tutto un prodotto del secolo scorso).

Tutte queste osservazioni sullo strano fenomeno della globalizzazione che produce integrazione e disintegrazione, aggregazione e separazione, isolamento e comunione sono contenute in tre saggi finali del libro.

La prima parte è una raccolta di diecine (trentanove per la precisione) di tracce di questo fenomeno: episodi, situazioni, anomalie apparenti, conflittualità che costituiscono tanti reperti raccolti in ogni parte del mondo, a seguito di osservazione diretta o di lettura di giornali locali (e tra questi reperti vi è anche la vicenda – incredibile incrocio tra passato, moderno e postmoderno – dei nomadi della Yakuzia che oggi commercializzano la polvere di corna di renna ricercata per le sue doti afrodisiache avvalendosi di elicotteri offerti dall’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite).

E sono questi reperti – in parte già pubblicati su Il Manifesto – che costituiscono il materiale che permette all’Autore di realizzare i suoi tre saggi conclusivi.

Per i cultori e i critici della globalizzazione, un libro da non perdere.