N. 36 estate 2009

IN COPERTINA

Ritratto di Aung San Suu Kyi, colori a olio winsor&newton, acrilici, matite su cartoncino di Stefano Nespor (2009).

IN QUESTO NUMERO

Ci sono due brani di Milan Kundera (il primo è tratto dall’esordio di uno dei suoi libri più famosi, cui ho aggiunto alcune notizie sul protagonista, Vlado Clementis) e un estratto da una lezione di March Bloch sul compito dello storico e sull’infedeltà dei testi. Riflessioni sulla storia e su come essa possa essere truccata sono offerte dalla vicenda di un padre e di un figlio nel Brasile del XVIII secolo, seguito da alcune considerazioni originate da un articolo di Adriano Sofri. C’è anche la curiosa storia della scoperta di Plutone. Molti mi hanno chiesto di astenermi, almeno per un po’, dal pubblicare testi riguardanti le apparizioni miracolose. Ma non ho potuto fare a meno di raccontarvi gli ultimi sviluppi nel settore. Per la prima volta, c’è un settore sui libri da leggere: d’ora in poi, attendo indicazioni e suggerimenti dai lettori. Come sempre, ci sono molte poesie: di Rainer Maria Rilke (la prima poesia, Il Vento, appartiene ai miei ricordi d’infanzia), di Jaime Sabines, di Nazim Hikmet e poi una sola, indimenticabile poesia scritta da una ragazzina di quindici anni, Anastasia Baburova.

DUE BRANI DI MILAN KUNDERA E UN RICORDO DI VLADO CLEMENTIS

Nel febbraio del 1948 il dirigente comunista Klement Gottwald si affacciò al balcone di un palazzo barocco di Praga per parlare a centinaia di migliaia di cittadini che gremivano la piazza nella città vecchia. Fu un momento storico per la Cecoslovacchia. Gottwald era circondato dai suoi compagni e, proprio accanto a lui, sulla destra, c’era Clementis. Faceva freddo, cadevano grossi fiocchi di neve e Gottwald era a capo scoperto. Clementis, allora, si tolse il berretto di pelliccia grigio che portava e lo posò sulla testa di Gottwald. Nei giorni seguenti, fu diffusa in migliaia di esemplari la fotografia di Gottwald che, in piedi sul balcone, parlava al popolo cecoslovacco, con in testa il berretto di pelo di Clementis che stava al suo fianco e sorrideva. La foto era presente nelle scuole, nei musei, nei circoli sportivi. Ognuno la conosceva. Su quel balcone, in quel momento, cominciò la storia della Cecoslovacchia comunista. Quattro anni dopo Clementis fu accusato di tradimento e di collusione con le potenze occidentali e impiccato. Fu immediatamente cancellato dalla storia della Cecoslovacchia, del partito comunista e da tutte le fotografie. Scomparve anche dalla foto che lo ritraeva insieme a Gottwald in quel febbraio del 1948. Dopo l’impiccagione di Clementis, Gottwald sarà per sempre da solo sulla foto. Dove c’era Clementis, c’è solo la nuda parete del palazzo e qualche titubante fiocco di neve. Di Clementis è rimasto solo il berretto di pelliccia grigio che copre la testa di Gottwald.

*
Gli uomini gridano di voler creare un futuro migliore, ma non è vero. Il futuro è solo un vuoto indifferente che non interessa a nessuno, mentre il passato è pieno di vita e il suo volto ci irrita, ci provoca, ci offende, e così lo vogliamo distruggereo ridipingere. Gli uomini vogliono essere padroni del futuro solo per poter cambiare il passato. Si battono per potere entrare nel laboratorio dove si ritoccano le fotografie e dove si riscrivono le biografie e la storia.

*
Vladimír “Vlado“ Clementis, detto Vlado, è nato a Tisovec, nell’attuale Slovacchia nel 1902. Si iscrive al Partito comunista cecoslovacco nel 1935. Nel 1938 si trasferisce a Parigi; allo scoppio della guerra è dapprima imprigionato, poi, a Londra, gli fu affidata una trasmissione via radio in ceco rivolta ai suoi concittadini per sostenere la lotta partigiana contro i Nazisti. Nel 1945, tornato in Cecoslovacchia, divenne vice-ministro degli esteri del governo di Klement Gottwald e partecipò all’elaborazione della Carta delle Nazioni Unite a San Francisco (astenendosi però, insieme ai rappresentanti del blocco comunista, al Sud Africa e all’Arabia Saudita, al momento della votazione finale). Nel 1948 partecipò al colpo di stato che rovesciò il Governo di Masaryk e costrinse il Presidente Benes alle dimissioni instaurando il primo governo comunista, divenendone il Ministro degli esteri. Nel 1948 diresse la partecipazione della Cecoslovacchia all’organizzazione dell’operazione Balak volta a costruire una flotta aerea per lo Stato d’Israele. Nel 1950 fu accusato di deviazionismo, poi di nazionalismo borghese e infine di attivismo in una cospirazione sionista. Dopo un breve processo, fu impiccato a Praga con Rudolf Slansky. Alla moglie furono consegnate solo le sue due pipe.

I brani iniziali sono tratti da Il libro del riso e dell’oblio, Adelphi 1973. Milan Kundera è nato a Brno nel 1929. Si iscrisse al partito comunista prima nel 1948 allorché i comunisti presero il potere ma fu espulso nel 1950, poi di nuovo nel 1956. Del 1967 è il suo primo romanzo, Lo scherzo, che vinse il premio dell’Unione degli scrittori cechi. Nel ’68, con l’invasione russa, fu emarginato e poi nel 1970 fu espulso definitivamente dal partito comunista. Nel 1974 scrisse La vita è altrove (premio Medicis per il miglior libro straniero pubblicato in Francia) e Il valzer degli addii. Nel 1975 si trasferì in Francia. Nel 1978, a seguito della pubblicazione de Il libro del riso e dell’oblio, gli venne tolta la cittadinanza cecoslovacca. Tra le sue opere: L’immortalità (Nesmrtelnost) 1990, La lentezza, 1995, L’identità, 1997, L’ignoranza 2001, tutte tradotte in Italia da Adelphi, e nel 2008, Une rencontre, un saggio su alcuni importanti personaggi della letteratura e della cultura.

TRE POESIE DI RAINER MARIA RILKE

Il Vento

Nel mezzo della notte, a volte accade
che si risvegli, come un bimbo, il vento.

Solo, piano piano, viene per il sentiero,
ed entra nel villaggio addormentato.

Striscia guardingo sino alla fontana,
poi si sofferma, tacito in ascolto.
Pallide stanno tutte le case intorno;
tutte le querce mute.

La Sera

Da lontano giunge la sera, camminando
sulla neve, silenziosa tra i pini.
Poi, contro le finestre preme
le sue gelide guance e ascolta.
Si fa silenzio, allora, in ogni casa.
Siedono i vecchi, pensierosi. I bimbi
si fermano nei giochi.
Alle donne cade di mano il fuso.
La sera ascolta, trepida, pei vetri;
tutti – all’interno – ascoltano la Sera.

Spegni i miei occhi

Spegni i miei occhi: io ti vedrò lo stesso,
chiudi le mie orecchie: io ti sentirò,
senza piedi verrò verso di te
senza bocca continuerò a chiamarti.
Puoi spezzare le mie braccia e io ti stringerò
con il mio cuore che si è fatto mano,
puoi fermare il mio cuore, sarà il cervello
a pulsare e se lo getti nel fuoco
ti porterò nel flusso del mio sangue.

Rainer Maria Rilke nasce a Praga nel 1875. Abbandona presto la carriera militare cui la famiglia lo aveva destinato e compie studi di letteratura e storia dell’arte a Praga, Berlino e Monaco. La svolta della sua vita è costituita dall’incontro con Lou Andreas-Salomé (reduce dal turbolento rapporto con Friedrich Nietzsche e Paul Rée). Nel 1899 e nel 1900 si reca con lei in Russia e incontra Tolstoj. Nel 1900 sposa la scultrice Clara Westhoff, ma presto si trasferisce a Parigi dove diviene segretario di Auguste Rodin. Nel 1911 è ospite nel castello della principessa von Thurn-und-Taxis, a Duino, presso Trieste: di quest’epoca sono le Elegie duinesi. Muore a Montreux in Svizzera nel 1926.

LA VITA È SACRA

Questa è la storia di Diogo Correa do Valle e di suo figlio Luis Miguel. Diogo Correa nasce a Coimbra in Portogallo nel 1671. Lì studia medicina e esercita con successo la professione. Nel 1727, allorché era divenuto uno dei medici più rinomati della sua città natale, viene a sapere che molti suoi parenti, a Lisbona e a Porto, sono incarcerati su richiesta dell’Inquisizione portoghese, con l’accusa di eresia e di “giudaismo clandestino”. Quando apprende che alcuni di essi, sottoposti a tortura, lo avrebbero indicato come complice, abbandona precipitosamente il Portogallo, portando con sé solo l’unico figlio, Luis Miguel, di 26 anni. Purtroppo, invece di trasferirsi in paesi già lambiti dai primi bagliori dell’Illuminismo, sceglie come propria destinazione il Brasile e si stabilisce con il figlio a Ouro preto, nello Stato del Minais Gerais (allora un’area di frontiera). Lì padre e figlio si dedicano all’allevamento del bestiame; Diogo Correa cura anche i nativi che si rivolgono a lui per assistenza. Ma non si sfugge all’Inquisizione e alla Chiesa cattolica che mantiene intatto il suo potere nelle colonie portoghesi e spagnole (e lo manterrà fino all’ascesa di Pombal, nel 1750). Il 1 settembre 1729 padre e figlio sono arrestati nella loro azienda agricola e incarcerati a Rio de Janeiro. A loro carico stanno le testimonianze, raccolte in Portogallo, di zii e zie, cugini, nipoti e, soprattutto, della figlia di Diogo e sorella di Luis Miguel, Brites Castana. Tutti costoro, sottoposti a tortura o per evitarla, avevano confessato le loro eresie e denunciato comportamenti eretici dei due fuggitivi (forse contando sul fatto che non sarebbero mai stati ritrovati). Diogo e il figlio negano recisamente ogni accusa. Diogo si difende dicendo di non avere mai avuto rapporti con la famiglia. Luis Miguel sostiene che sua sorella gli è sempre stata ostile per ragioni ereditarie. Queste difese, sottoposte a verifica in Portogallo, non sono credute a fronte delle numerose testimonianze raccolte. Il tribunale dell’Inquisizione, pur in mancanza di comportamenti o altri elementi che confermino le propensioni eretiche dei due accusati, ritiene che le prove a loro carico siano schiaccianti, anche perché provenienti tutte da parenti prossimi, Non solo: l’ostinato rifiuto di confessare dei due prigionieri è considerato come una conferma della loro protervia nell’eresia. In questa situazione, e nonostante che le lettere e le testimonianze di coloro che erano stati curati e assistiti con generosità da Diogo e Luis Manuel a Ouro Preto, il Tribunale decide che gli accusati sono colpevoli.
La tortura, necessaria quando vi sono dubbi sulla fondatezza delle accuse, è ritenuta superflua. Nel giugno del 1932, dopo quasi tre anni di isolamento in carcere, Diogo e Luis Miguel sono condannati al rogo. La sentenza è notificata ad entrambi il 4 luglio 1932 e, secondo la procedura inquisitoriale portoghese, le loro mani vengono legate: non dovranno più essere slegate fino al giorno dell’esecuzione, fissato per il 6 luglio seguente. A questo punto, Diogo chiede udienza al Tribunale e il 5 luglio ammette che i suoi parenti sono eretici e giudaizzanti. Il Tribunale ritiene però insufficiente la confessione, anche perché non c’è ammissione della propria colpa. Il 6 luglio, poche ore prima dell’autodafé pubblica, Diogo Correa chiede ancora udienza, e il Tribunale lo ascolta mentre accusa i suoi cugini rimasti in Portogallo di essere eretici: sono però tutti già stati bruciati sul rogo alcuni anni prima. Diogo riconosce anche che prima di partire per il Brasile aveva compartecipato delle loro pratiche eretiche. È un’ammissione che forse avrebbe potuto salvarlo dal rogo o consentirgli una esecuzione meno dolo-rosa (strangolamento prima di essere bruciato). Ma Diogo aggiunge che la sua partecipazione era stata dovuta al fatto che aveva paura di essere avvelenato se si fosse rifiutato. Si tratta di una precisazione che, per il Tribunale, getta ombre di insincerità sull’intera confessione. La condanna viene quindi con-fermata. Lo stesso 5 luglio, anche Luis Miguel chiede di essere ascoltato, confessa le proprie colpe e chiede di essere mantenuto in vita per potersi pentire dei suoi peccati. Anche questa confessione non è però ritenuta sufficiente a commutare la pena, perché mancano accuse precise nei confronti dei parenti ancora in vita. Padre e figlio sono bruciati insieme la sera del 6 luglio sulla piazza di Rio de Janeiro.

*

Adriano Sofri ha recentemente osservato che con la legge sul testamento biologico, che ha posto limiti alla libertà di ciascuno degli italiani di decidere di non essere mantenuti in vita e di non essere costretti ad essere nutriti a forza, il Parlamento italiano ha sequestrato la vita di 60 milioni di italiani. È una legge che si pone al di fuori di quel percorso iniziato nel XVIII secolo che segna il graduale passaggio dall’idea di soggetto di diritto a quella di persona umana: ne sono segni distintivi, nella nostra Costituzione e in quella di molti stati europei, la focalizzazione sulla dignità dell’uomo, sui suoi bisogni, sulla sua condizione contingente, sull’”uomo di carne” che sostituisce il soggetto di diritto astratto.
In realtà, del sequestro i parlamentari italiani sono stati solo gli esecutori materiali. Il mandante è la Chiesa cattolica nella sua battaglia per la difesa ad oltranza della vita umana: una battaglia di cui Diogo Correa do Valle e Luis Miguel do Valle, e con loro centinaia di migliaia di poveretti incarcerati, torturati e bruciati, non hanno potuto usufruire, allorché la Chiesa aveva il potere di difendere la vita per davvero. Fino a poco più di duecento anni fa, la Chiesa, dovunque mantenuto il proprio potere, non solo non ha difeso la vita, ma l’ha distrutta a proprio piacimento, perseguitando tutti coloro che manifestavano idee diverse, o erano solo sospettati di volerle manifestare. Diogo do Valle e suo figlio sono stati bruciati oltre sessanta anni dopo la pubblicazione del Trattato teologico politico in cui Spinoza levava la sua voce a difesa della libertà di pensiero: “Supponiamo” affermava Spinoza a conclusione della sua opera “che questa libertà si possa reprimere e che gli uomini si possano dominare al punto che non osino profferir parola che non sia conforme alle prescrizioni della suprema potestà. Ma questo non potrà mai far sì che essi pensino solo ciò che essa vuole”. Eppure, questo è proprio ciò che per secoli ha mosso la Chiesa cattolica, eliminando con caparbio sadismo tutti coloro che, pur in silenzio, erano sospettati di pensare, o di aver pensato, ciò che essa non gradiva.
Per realizzare questo obiettivo, ha costretto gli imputati a coinvolgere parenti, sorelle, genitori: gli studi di genealogia dell’eresia condotti sull’Inquisizione spagnola e portoghese dimostrano che in questo modo sono state distrutte famiglie che contavano diecine e diecine di componenti (perfino Stalin, secondo quanto ha ricordato la moglie di Bukharin in un suo commovente scritto, garantiva l’immunità per i parenti prossimi a chi accettava di confessare inesistenti crimini). Finché ha potuto, la Chiesa non ha mai difeso l’intoccabilità della vita. C’era della logica in questo disegno: ciò che contava non era la vita terrena, semplice e insignificante parentesi, ma la vita eterna. Ha cominciato a difendere la vita solo quando non ha più potuto distruggerla: solo quando è stata costretta a spegnere i roghi con i quali ha immolato migliaia di vite umane innocenti, ha scoperto che la vita terrena non è un breve rinvio della vita eterna, ma è importante e sacra di per sé. Ogni volta che un esponente della Chiesa cattolica parla di difesa della vita, ricordatevi che sta falsificando la sua storia: ricordatevi di Diogo e Luis Manuel da Silva che bruciarono sul rogo, il 6 luglio 1732.

Sul processo di Diogo e Luis Miguel do Valle, si vedano: Nathan Wachtel, La logique des buchers, La librairie du XXI siécle, Seuil, Parigi 2009; Francisco Bethencourt, L’Inquisition à l’époque moderne : Espagne, Portugal, Italie, Parigi 1995. L’articolo di Adriano Sofri è stato pubblicato su Repubblica del 26 marzo 2009. La citazione dal Trattato teologico-politico di Baruch Spinoza è dal capitolo XX della traduzione in italiano di Antonio Droetto e Emilia Giancotti Boscherini, Einaudi 1972. Sullo sviluppo dell’idea di persona ci sono molti scritti di Stefano Rodotà, tra cui Dal soggetto alla persona, Napoli 2007; restano fondamentali gli scritti di Riccardo Orestano, e, in particolare, Persone e persone giuridiche nell’età moderna, originariamente in Il problema delle persone giuridiche in diritto romano e ora in Azione, diritti soggettivi, persone giuridiche, Il Mulino, 1978.

UNA POESIA DI ANASTASIA BABUROVA

Svegliarsi la mattina
Stendere le braccia verso il sole
Ripassare la lezione di cinese
E prendere l’aereo per Parigi.
Ogni minuto, da qualche parte nel mondo
C’è un mattino Da qualche parte, c’è qualcuno
Che stende le sue braccia verso il sole
Che impara una nuova lingua, e poi vola
Magari da Varsavia al Cairo
Da qualche parte, c’è sempre qualcuno che sorride
E beve un caffè con un amico.

Anastasia Baburova ha scritto questa poesia quando aveva quindici anni. Non so se sia l’unica poesia che ha scritto, ma è l’unica che sono riuscito a rintracciare. È nata nel 1983 a Sebastopoli, poco prima che Gorbaciov avviasse la perestroika che avrebbe portato alla dissoluzione del sistema sovietico. È riuscita a farsi ammettere all’Istituto per le relazioni internazionali di Mosca, riservato ai figli dell’elite del potere che intendevano prepararsi per la carriera diplomatica. Il suo corso di studi è stato così brillante che le hanno offerto una borsa di studio a Yale. L’ha rifiutata e ha preferito lavorare come giornalista a Mosca, dieci anni prima di essere assassinata in una strada del centro di Mosca, mentre usciva da una conferenza con Stanislav Markelov, un avvocato che si batteva per i diritti umani, ucciso insieme a lei il 29 gennaio 2009. Anastasia parlava fluentemente l’inglese e stava studiando il cinese. Scriveva sulla Novaia Gazeta, il quotidiano russo di opposizione al regime di Putin, che vanta il tragico primato di quattro giornalisti già assassinati tra cui Anna Politkovskaia.

CHE COSA FA LO STORICO: DA UNA LEZIONE DI MARC BLOCH

Insegno la storia. Il passato è l’oggetto delle mie lezioni. Racconto battaglie alle quali non ho mai assistito, descrivo monumenti scomparsi molto tempo prima della mia nascita, parlo di uomini che non ho mai visto. E, come me, tutti quelli che si occupano di storia. Degli avvenimenti del passato non abbiamo una conoscenza diretta e personale paragonabile a quella dei professori di fisica. Sappiamo solo quello che ci raccontano gli uomini che li hanno visti. Quando questi racconti mancano, e quando mancano altre fonti, la nostra ignoranza è senza rimedio. Noi storici siamo come giudici istruttori incaricati di svolgere inchieste sul passato. Come loro, raccogliamo testimonianza per scoprire la verità. Ma non è certo sufficiente raccogliere le testimonianze per scoprire la verità sul passato. Non tutti i testimoni sono sinceri, non tutti i ricordi sono sempre corretti. Così, le testimonianze non possono essere accettate senza controlli. Ci sono molte regole che gli storici utilizzano per estrarre dalle testimonianze un po’ di verità. Prima di tutto, gli storici indicano le loro fonti. Un fisico descrive un’esperienza che ha fatto personal-mente. Non ha bisogno di testimoni: lui stesso è il testimone.
Lo storico, invece deve indicare i testimoni su cui basa il proprio racconto: solo così può dimostrare che ci sono dei garanti della verità di ciò che dice e permettere di verificare la correttezza delle sue affermazioni. È questo un dovere che non è solo degli storici. Facciamo il caso di un conoscente che vi racconta che un vostro amico comune ha parlato male di voi in pubblico. Prima di credergli, gli chiederete come lo sa: gli chiederete di indicare le sue fonti. Vi potrà così capitare di scoprire che quel comportamento è frutto di sue deduzioni, o della sua immaginazione, o che le fonti che indica sono inattendibili, o sono state male interpretate. Talvolta sono gli stessi documenti che impongono delle verifiche. Questo accade quando si contraddicono. Ecco un esempio. Il 25 febbraio 1848 ci fu una manifestazione a Parigi sotto l’abitazione di Guizot, il primo ministro che si era appena dimesso. Dei soldati sbarravano la strada. Mentre i rappresentanti dei manifestanti discutevano con gli ufficiali, ci fu un colpo di fucile. I soldati aprirono il fuoco sulla folla e scatenarono così l’insurrezione che fece cadere la monarchia di luglio. Chi ha sparato il colpo di fucile? Secondo alcuni testimoni, un soldato impaurito. Secondo altri, un manifestante. Secondo altri ancora, un provocatore. È compito dello storico indagare e capire, se possibile, quale sia la testimonianza a cui bisogna prestare fede. In molti casi, due testimoni diversi offrono la stessa versione di un fatto. Ma questo non è sufficiente per ritenere che il fatto si sia effettivamente verificato in quel modo. Bisogna chiedersi se, per caso, una delle due testimonianze non ripete semplicemente l’altra. Ecco un altro esempio. Il generale Marbot in una pagina delle sue memorie racconta che, nella notte tra il 7 e l’8 maggio 1809, ha attraversato con una barca le acque in piena del Danubio, è approdato sulla riva occupata dalle truppe nemiche, ha catturato alcuni soldati addormentati ed è poi tornato sull’altra sponda sano e salvo. È facile sospettare che questo racconto sia frutto dell’immaginazione del vecchio generale che vuole addurre elementi a sostegno del suo eroismo. Tuttavia, ci sono due altri autori di prestigio, i generali Pelet e de Segur che confermano questo racconto. Dobbiamo quindi pensare che il racconto sia vero? Se facciamo qualche indagine, ci accorgiamo che la testimonianza di de Segur non è credibile: non fa che copiare la versione del generale Pelet. Il generale Pelet ha invece scritto le sue memorie prima del generale Marbot. Sembra quindi un testimone più che attendibile, fino a che non si scopre che era un intimo amico di Marbot. È quindi più che probabile che abbia sentito ripetere molte volte il racconto dallo stesso Marbot e abbia finito per credergli o, più probabilmente, abbia deciso di fare un regalo all’amico, riportando una testimonianza del suo eroismo. In definitiva, dietro de Segur c’è Pelet, e dietro Pelet si nasconde proprio il generale Marbot. Questo esempio insegna che anche la presenza di molti testimoni di un fatto non esonera lo storico dall’obbligo di indagare e verificare. La verità non si scopre senza sforzo e senza applicazione. La maggior parte degli uomini preferisce non ricer-care la verità, ma seguire opinioni già preconfezionate. Sono più di duemila anni che Tucidide ha scritto questa considerazione, che mantiene tutta la sua forza anche oggi. Ci vuole fatica per controllare, non si fa nessuna fatica a credere. Lo spirito critico non piace a chi cerca soddisfazioni senza impegno.

Da Marc Bloch, Critique historique et critique du temoignage. Lo scritto, ora raccolto in Marc Bloch, L’Histoire, La Guerre, La resistence, Gallimard 2006, è la rielaborazione di un discorso tenuto il 13 luglio 1914 al liceo di Amiens, in occasione della consegna dei premi agli studenti più meritevoli alla fine dell’anno scolastico

DA DUE POESIE DI NAZIM HIKMET

Triste Libertà

Come molti, ami la tua patria,
È una delle cose più preziose che hai.
Poi, un giorno, scopri che i tuoi governanti
L’hanno venduta, agli Stati Uniti, alla Russia o alla Cina.
E anche tu, con tutta la tua libertà,
sei stato venduto: sotto la tua casa, ci sarà
una base aerea militare.
Sei libero di gridare che bisogna vivere
Non come strumenti o come numeri
Ma come liberi esseri umani.
Poi, d’un tratto, ecco che ti ritrovi ammanettato,
e sei libero di essere arrestato, messo in prigione,
torturato, e magari anche impiccato.
Sei libero.
Ma la tua libertà
È triste sotto le stelle.

L’addio

La donna ha taciuto
Si sono baciati
Un libro è caduto sul pavimento
Una finestra si è chiusa.
È così che si sono lasciati.

Da Nazim Hikmet (altre poesie di Nazim Hikmet sono state pubblicate nei Testi Infedeli dell’estate del 1995).

PASTASCIUTTA, POLIPI E DISPENSE

Negli ultimi mesi, il volto di Gesù è apparso a più riprese in Italia, scegliendo forme particolarmente inusuali. È stato visto distintamente da un gruppo di pensionati di Varese in un piatto di pastasciutta al pomodoro (il piatto con il suo contenuto è stato conservato, ma il volto sta scomparendo per il naturale processo di prosciugamento e deterioramento della pietanza). Pochi giorni dopo, è apparso sulla pelle di un polipo avvinghiato ad una roccia nel mare davanti a Portofino. L’apparizione è stata fotografata da alcuni pescatori subacquei, attirati da una strana fosforescenza che il polipo sembrava emettere. L’ “apparizione dissimulata” non è, secondo gli esperti, un fenomeno casuale: fa parte di una nuova strategia globale del miracolo, che si dissolve nelle piccole cose quotidiane: il miracolo liquido, ha detto il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Poco dopo aver segnalato la sua presenza nel polipo, il volto di Gesù è apparso in California nel retro di un armadio adibito a dispensa collocato nella sala da pranzo di Judith Ellen Lanier e della figlia Judith Lynn. La scoperta è stata fatta dalla madre perché si era accorta che da qualche giorno c’era qualcosa di santo nell’abitazione. “Tutti hanno un destino nella vita” ha detto ai giornalisti “per me e per mia figlia, il destino è stato quello di scoprire il volto di Gesù dietro la dispensa”. In realtà, l’apparizione era stata preceduta fin dal gennaio del 2006 da segnali miracolosi costituiti dalla comparsa di impronte di calzari sul tappeto posto di fronte all’armadio. Poiché le impronte hanno cominciato a comparire proprio dopo la morte di Trinity, il cocker spaniel amatissimo dalle signore Lanier, queste ultime hanno ragionevolmente supposto che potessero appartenere a Gesù. Ed allora, le due donne, dopo aver rilevato il calco di una impronta, si sono recate al Shroud Center, un museo californiano dedicato alla sacra sin-done di Torino che, come è noto, è il sudario dove era stato avvolto il corpo di Gesù e dove è miracolosamente rimasta impressa l’immagine del suo corpo. Li ricevevano conferma delle loro supposizioni: l’impronta coincideva perfettamente con l’immagine del piede sulla copia della sindone. Poi, esattamente un anno dopo la comparsa delle impronte, la signora Lanier percepisce nettamente una sensazione di santità e, seguendo il percorso lasciato dalle impronte, scopre il volto di Gesù nel retro dell’armadio. Ovviamente, e a ulteriore conferma del miracolo, il volto sull’armadio è esattamente uguale a quello che appare sulla sindone.

Indicazioni sulle fonti che riferiscono delle prime due apparizioni sono superflue, in quanto le notizie sono apparse su tutti i quotidiani italiani.
Le informazioni sull’apparizione californiana sono tratte da un articolo di Cameron Byrd, Image of Christ seen in lrvine living room. Do you see it?, pubblicato sul settimanale di Orange County, OC-Register, del 29 aprile 2009. Marc Bloch diceva “In ogni società i miracoli compaiono quando qualcuno ci crede e scompaiono quando non ci si crede più”. La sua opera più nota, I re taumaturghi (cui avrebbe voluto apporre, come sottotitolo Storia di un miracolo), è un libro affascinante che descrive le origini, l’affermarsi e il declino della credenza, protrattasi per centinaia di anni (dall’XI secolo, se si vuole prestare fede a Pietro di Blois, altrimenti certamente dal XIII secolo) nel miracoloso potere dei re di Francia e dei re d’Inghilterra di guarire con il tocco della mano i propri sudditi. La cerimonia del tocco miracoloso del Re di Francia fu compiuta per l’ultima volta nel XIX secolo, poi il bisogno di miracolo nazionale dei francesi fu sostituito, dopo pochi decenni, da Lourdes.

VENEZIA E PLUTONE

Alle otto del 14 marzo del 1930 l’undicenne Venetia Burney faceva colazione a Oxford con la madre e il nonno, Falconer Madan, bibliotecario capo in pensione della Bodleian Library (il padre, il reverendo Charles Burney, professore di interpretazione delle Sacre Scritture, era morto qualche anno prima, quando Venetia aveva sei anni). Durante la colazione, il nonno disse a Venetia, conoscendo la sua passione per l’astronomia, che proprio quel giorno Clyde Tombaugh, un giovane astronomo dell’Osservatorio di Flagstaff, in Arizona, era riuscito a fotografare per la prima volta un pianeta collocato oltre Nettuno: il nono pianeta del nostro sistema solare. Gli astronomi ne sospettavano l’esistenza sin dall’ultimo decennio dell’Ottocento e il safari astronomico per fotografarlo era cominciato nel 1906. Venetia saltò sulla sedia e disse subito: “dovrebbero chiamarlo Plutone”. Molto tempo dopo, intervistata dalla BBC nel 2006, confessò di non ricordarsi perché le venne in mente quel nome. “Forse perché era una delle poche divinità romane il cui nome era ancora disponibile”. Al nonno l’idea piacque, e telefonò immediatamente all’amico Herbert Hall Turner, professore di astronomia a Oxford. Turner a sua volta inviò un telegramma all’Osservatorio di Flagstaff: “Propongo per questo oscuro pianeta il nome Plutone, proposto da una ragazzina appassionata di astronomia”. Molti erano i nomi sul tappeto: tra i favoriti c’erano Minerva, Zeus, Atlante e Persefone. Giunti alla votazione finale, però, tutti votarono per Plutone, e il nono pianeta fu così ufficialmente chiamato il 24 maggio del 1930. Il nome ebbe un immediato successo. Walt Disney lo attribuì, pochi mesi dopo, al ben noto cane di Topolino e, nel 1941, fu chiamato Plutonio il 94esimo elemento della tavola periodica, appena scoperto. Venetia divenne nota in tutto il mondo ed ebbe in regalo cinque sterline dal nonno; quest’ultimo fu particolarmente contento perché già suo fratello, nel 1877, aveva dato il nome ai due satelliti gemelli di Marte, Fobos e Deimos. Purtroppo, nel 2006 l’Unione astronomica internazionale ha espulso Plutone dal club dei pianeti veri e propri, tra le proteste dei suoi sostenitori e con rammarico di Venetia: si è deciso che è un semplice ammasso di ghiaccio, un pianeta nano, che, insieme a molti altri, è collocato ai bordi del sistema solare“.

La storia di Plutone, dalla sua scoperta al suo declassamento, è descritta da NEIL DEGRASSE TYSON, The Pluto Files: The Rise and Fall of America’s Favorite Planet, W.W.Norton, New York, 2009. L’autore è il direttore del Hayden Planetarium e del Rose Center for Earth and Space presso il Museo di storia naturale di New York.

DUE POESIE DI JAIME SABINES

La luna

La luna si può prendere a cucchiaiate
O sotto forma di pastiglia ogni due ore.
È utile come sedativo e come rilassante.
Serve anche a quelli
Che si sono intossicati con la filosofia.
Un pezzetto di luna in tasca
è un amuleto più efficace che la zampa di coniglio:
serve per innamorarsi e per tenere lontani i medici.
Si può anche dare come dolce ai bambini
Prima di mandarli a dormire.
Se poi metti una fogliolina di materia lunare
Sotto il cuscino, potrai sognare
Tutto ciò che desideri.
Per i condannati a morte
E per i condannati a vivere
Non c’è miglior medicina che un po’ di luna
In dosi precise e controllate.

Mi piace Dio

Mi piace Dio,
è un vecchio magnifico
che non si prende troppo sul serio
è un burlone cui piace divertirsi
anche se a volte perde il controllo
e allora magari ci rompe una gamba
o ci rende invalidi per sempre
ma questo succede non perché sia di animo cattivo,
ma solo perché è un po’ maldestro.
In compenso però ci ha mandato dei tipi eccezionali,
come Budda, Cristo o Maometto
e anche mia zia Chofi,
per dirci di comportarci sempre bene.
Lui poi non si preoccupa più che tanto,
sa bene che il pesce grande mangia il pesce piccolo
e che gli uomini si ammazzano tra di loro
per le ragioni più futili,
anche per razzismo.
Adesso poi gli scienziati se ne escono
con le teorie dell’evoluzione e del big-bang.
Ma che c’entra con Dio
come si comporta l’Universo o la vita sulla terra?
Queste questioni riguardano se mai le agenzie di viaggio.
Poi, a me piace Dio
perché ha messo in ordine le galassie,
fa camminare le formiche tutte in fila,
ed è così giocherellone che, pensate,
ha inventato anche batteri mutanti
per resistere agli antibiotici.
Poi, appena smette di divertirsi
con i batteri, i soldati, le guerre
e i campi di concentramento
crea campi di fiori multicolori
o disegna nel cielo col suo alito nuvole con
incredibili forme.
Muove una mano e fa un mare,
muove l’altra e butta giù un bosco.
Dicono alcuni che a volte scatena terremoti,
alluvioni e altri disastri,
ma non è vero niente:
è la terra che si agita di nascosto,
appena Dio non la tiene sotto controllo.

Jaime Sabines è nato nel 1926 in Messico, nello stato di Chiapas, da emigranti libanesi. Ha studiato medicina, ma si è subito dedicato a scrivere poesie e racconti. Ha svolto anche attività politica come rappresentante del Chiapas nel Parlamento federale. È morto nel 1999. È considerato uno dei maggiori poeti messicani del XX secolo.

LIBRI DA LEGGERE

Gherardo Colombo, Sulle regole, Feltrinelli 2008
Un libro scritto da un magistrato che dopo oltre trenta anni di attività ha scelto di dimettersi per andare a parlare della giustizia e del significato delle regole fuori dal tribunale, nelle scuole, nelle università nei circoli e ovunque ci siano persone interessate a riflettere. Nella convinzione che l’amministrazione della giustizia non può funzionare se i cittadini non comprendono il perché delle regole.

Corrado Stajano, La città degli untori, Garzanti 2008
Una storia di Milano, da città delle acque a città della peste, a città delle bombe, del terrorismo e della corruzione.

Geraldine Brooks, I custodi del libro, Neri Pozza. 2008
Un romanzo storico: la storia di un manoscritto sopravvissuto all’Inquisizione e alle persecuzioni e conservato sino ad oggi dai custodi dell’Haggadah di Sarajevo.

Adriano Sofri, La notte che Pinelli, Sellerio 2008 Guido Viale, Il Sessantotto, NdA Press 2008 (nuova edizione).
Due libri per ricordare quel che è successo a chi c’era ma era distratto, ma anche a chi c’era davvero, e soprattutto per coloro che non c’erano perché troppo giovani. Per capire che non c’erano solo giovani sfaccendati di buona famiglia. Per capire le responsabilità di coloro che non lo hanno capito, primo fra tutti il partito comunista.

Elie Wiesel, La notte, Giuntina 1980.
Scritto nel 1954 in yiddish (Un di Velt hot geshvign, E il mondo ha taciuto) e pubblicato in Argentina, poi trasfuso nella edizione francese La nuit del 1958 con la prefazione di Fracois Mauriac. Un libro sulla semplicità sulla solitudine e sulla rivolta interiore. L’esperienza di Wiesel è l’Olocausto. Ma la profondità psicologica lo rende universale. Potrebbe essere l’esperienza di Aung San Suu Kyi oggi.

Salvatore Giannella, Voglia di cambiare, Chiarelettere 2008.
Le morti sul lavoro, il precariato, le case sempre più costose, i trasporti che non funzionano, l’energia da fonti rinnovabili, la sicurezza stradale, la parità tra i sessi: in Italia sembrano problemi insormontabili, in Europa li hanno risolti.

Simon Winchester, The Man who Loved China, HarperCollins 2008.
È la biografia dello scienziato e sinologo inglese Joseph Needham dagli anni dell’insegnamento della biochimica a Oxford negli anni Trenta del secolo scorso (dove, come racconta Needham, qualsiasi comportamento era ammesso purché non facesse imbizzarrire i cavalli) alla scoperta della lingua e della cultura cinese e poi al progetto e alla realizzazione della più grande enciclopedia sul passato scientifico della Cina: Science and Civilisation in China, i cui volumi sono tuttora in corso di pubblicazione dalla Cambridge University Press.

Ippolito Nievo, Gli amori garibaldini, De Ferrari, 2008.
Un’edizione affidabile (il manoscritto di Nievo è andato perduto nel 1943) dell’opera pubblicata nel 1860, commentata da un esperto di poesia ialiana dell’Ottocento. È un diario in versi, patriotticorisorgimentale ma anche sentimentale, scritto durante la guerra di indipendenza del 1859, cui Nievo partecipa tra i Cacciatori delle Alpi.

Magda Szabó, Via Katalin, Einaudi 2008 e Il momento Anfora, Milano, 2008
Il primo libro è una testimonianza poetica del secolo breve: la storia, in cui i morti non muoiono, di un gruppo di famiglie ungheresi nel corso del secolo scorso. Nel secondo libro si raccontano le imprese di Creusa in Italia, sfuggita al triste destino che la vuole sacrificata alle sorti di Enea che, per risposarsi con Lavinia, ha bisogno di far scomparire una moglie ingombrante sul suo cammino di eroe e fondatore di un impero: nella controstoria di Szabó, Creusa nella notte dell’incendio di Troia manda all’Ade il marito e salpa verso i lidi della futura Roma.

Atiq Rahimi, Syngué Sabour, Editions P.O.L., 2008.
Il libro, dedicato a una poetessa afghana uccisa dal marito, narra, dal punto di vista della moglie, la vita di una famiglia durante la Guerra in Afghanistan.James Canon, Tales from the town of Widows, Harper Perennial, 2008.La vita di un villaggio in Colombia durante la guerriglia: le donne, abbandonate dagli uomini che aderiscono ad una delle fazioni in lotta, si inventano un nuovo modo di vivere.Amore e speranza, Archinto 2009: è il carteggio tra Giangio e Julia Banfi nel 1944, quando Giangio era in un carcere tedesco

I libri sono stati consigliati da Augusto Bianchi, Maria Inglisa, Lucia Lucaccini, Jacques Mehler, Marina Nespor, Antonella Tarpino, Lorenza Zanuso, e anche da me.

CREDITI
Questo trentaseiesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 2009 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore. Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive. I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.stefano.nespor.it, curato e aggiornato da Stefano Rossi. Ringrazio Joe DiMento, Salvatore Giannella, Maria Inglisa, Marina Nespor, Pasquale Pasquino per i suggerimenti e per la revisione.

N. 37 inverno 2009

 

 

 

 

 

IN COPERTINA
Ritratto di Gustav Mahler, di cui ricorre nel 2010 il centocinquantenario della nascita (a Kaliste, un piccolo villaggio della Boemia). A Mahler si deve la trasformazione della sinfonia da una composizione con un progetto dichiarato e sviluppato in una faticosa ricerca di un obiettivo e di un significato. Diceva il compositore statunitense Aaron Copland: “quando sul lavoro di quest’uomo si è detto tutto, resta ancora da dire qualcosa di straordinariamente commovente”.

Il ritratto è di Stefano Nespor, in matita e carboncino su carta da pacchi.

 

IN QUESTO NUMERO
Oltre a un breve brano introduttivo, ci sono due storie per ricordare la fine di una invasione: entrambe si occupano di eresia, anche se gli eretici questa volta sono diversi da quelli di cui solitamente scrivo.
La seconda storia, inoltre, è dedicata a un mio caro amico. C’è poi una storia che ricorda l’inizio di un’altra, precedente invasione: tutte riguardano un paese ora scomparso, la Cecoslovacchia. Ci sono tre brani di autori americani che trattano, con tono assai diverso, di Venezia: tra questi, una non molto nota poesia di Melville che offre un suggestivo e improbabile paragone tra gli architetti che nel tempo hanno realizzato Venezia e i piccoli autori delle costruzioni corallifere. Ci sono come al solito le poesie. Di due autrici polacche, Wislawa Szimborska (presenza ormai abituale nei TI) e Julia Hartwig e, ancora una volta, una stupenda poesia su un padre, ritrovata casualmente e tempestivamente segnalata da uno dei principali sostenitori dei TI.
Infine, c’è anche questa volta la parte dedicata ai libri da leggere.

 S.N.

 

IL CAPO DEL GOVERNO

Il capo del governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo. Ma un popolo onesto non lo avrebbe mai posto a capo del governo. Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini? Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie sempre il tornaconto. Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt’al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po’ ridicolo per le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della gente a causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio di italiano. Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile, e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole rappresentare.

Da Elsa Morante. Lo scritto, del 1° maggio 1945, è in Pagine autobiografiche postume, pubblicate in Paragone Letteratura n.456, febbraio 1988. Il capo del governo descritto da Elsa Morante è, ovviamente, Mussolini. Ma non dimentichiamo l’esordio di Marx nel saggio Il Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte (scritto nel 1852 originariamente per la pubblicazione a puntate): “Hegel osserva che tutti i grandi fatti della storia del mondo e i loro personaggi compaiono in due riprese. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”.

 

TRE AMERICANI A VENEZIA

I

Ne ho abbastanza di Venezia. È un posto bizzarro, adatto ai castori, non agli esseri umani. Ci si sente sempre soli e in prigione. Due persone possono vivere per mesi in strade vicine e non incontrarsi mai: si va in giro in gondole, tutte uguali e tutte idonee a nascondere il passeggero. Poi, a parte piazza San Marco, non c’è un luogo pubblico, dove sia possibile informarsi e scambiare notizie. Si vive isolati, come marinai nel mezzo dell’oceano. D’altra parte, riconosco che per un breve periodo è molto gradevole restare immersi nei cuscini delle gondole e leggere, parlare o disegnare ciò che si intravede, senza essere visti. Tuttavia, dovunque ci sono odori sgradevoli e le case sono fatiscenti, desolate e prive di comodità. Dopo pochi giorni sono ripartito.

II

La città non era mai apparsa così irreale come in questa luce dell’addio – quella fioca triste luce che il nostro affetto e il nostro dispiacere gettavano su di essa. Come in un sogno, noi andavamo in cerca ancora e per l’ultima volta delle scene che avevamo conosciuto così a lungo.

Trascorremmo la nostra ultima sera a piazza S. Marco. Lanciammo, sotto i raggi della luna, il nostro muto addio alle isole e alla laguna, alle chiese e ai palazzi, e poi facemmo ritorno al nostro palazzo, e restammo a lungo sul balcone che si affaccia sul Canal Grande. Lì il futuro pareva improbabile e incredibile come il passato. Se spesso ci era sembrato assurdo essere venuti a vivere in un posto così strano, ora sentivamo, con ben maggiore intensità, la crudele assurdità dell’idea di vivere in qualsiasi altro posto. Eravamo divenuti parte di Venezia: come avrebbero potuto gli atomi della sua fantastica personalità combinarsi con il mondo esterno?

III

Con panteistica forza della volontà

Il piccolo artigiano del mar dei coralli

Erige infaticabile negli abissi marini

Meravigliose gallerie, arcate di marmo,

apricciose colonne adorne di orli con marmorei merletti.

Laborioso sul mare increspato dalle onde

Esperto in arti analoghe

Un più orgoglioso artefice manifesta la forza di Pan

Quando Venezia emerge dalle acque in marmoree barriere di palazzi.

 

Il primo brano è tratto dal diario di Ralph Waldo Emerson che visita l’Europa tra il 1832 e il 1833. Di quest’ultimo anno è il breve soggiorno a Venezia (descritto nel quarto volume della raccolta The Journals and Miscellaneous Notebooks, Harvard University Press 1964). Dopo alcune pagine di descrizioni entusiastiche di monumenti e dipinti, le pagine dedicate alla città si concludono in data 3 giugno con questo brano. Di Emerson è reperibile in traduzione italiana il volume Il trascendentalista e altri saggi, Mondadori 1990.

Il secondo brano è di William Dean Howells, nominato da Lincoln console a Venezia durante il periodo della guerra di secessione. Sono gli ultimi anni della dominazione austriaca sulla città. Howells lascia di questi anni appunti, immagini e osservazioni, raccolti in due volumi (Venetian Life, Londra 1891; l’opera è consultabile nella biblioteca di Google). Il brano è tratto dalle pagine che precedono la partenza per il ritorno in patria.

La poesia conclusiva è di Herman Melville. È inserita nella raccolta Timoleon, pubblicata da Melville nel 1891, l’anno della sua morte, in sole 25 copie. Nella raccolta ci sono un’altra poesia su Venezia, In a Bye-Canal e varie composizioni dedicate a città italiane, tra cui Milan Cathedral e Pisa’s Leaning Tower. Tutte queste poesie risalgono probabilmente alla fine degli anni Cinquanta e sono state composte nel corso di un lungo giro europeo (di cui resta il diario Journal of a visit to Europe and the Levante). Melville trascorre alcuni giorni a Venezia, tra il 1° e il 6 aprile del 1857. Rimane impressionato soprattutto dalle architetture e scrive sul suo diario: “E’ incredibile quello che si può fare con il marmo”. La poesia contrappone le costruzioni corallifere ai monumenti veneziani. Venezia è la risposta della cultura alla natura o è la risposta della natura alla stupefacente capacità artigianale dei piccoli animali che erigono la barriera corallina? Prevale il panteismo che costruisce palazzi di corallo, o l’estetismo di Pan che presiede alla ”emersione” dal mare di barriere di palazzi? Questa riflessione riprende una delle tesi più note proprio di Emerson secondo cui la natura produce il muratore e ciò che il muratore realizza.

 

I WINTON TRANSPORTS

Settembre 2009. Un treno lascia la stazione di Praga diretto a Londra dove arriva il 4 settembre. A bordo c’è un gruppo di attempati passeggeri mescolato a molti altri, giovani e giovanissimi. I primi sono alcuni dei 669 bambini che settanta anni prima furono imbarcati nei treni che fecero lo stesso tragitto fuggendo dall’ormai imminente occupazione nazista. I giovani sono una piccola rappresentanza degli oltre 5.000 discendenti (figli, nipoti e pronipoti) dei fuggitivi. I passeggeri trovano ad attenderli un signore che ha appena compiuto cento anni: è sir Nicholas “Nicky” Winton, l’organizzatore di quelli che sono rimasti famosi come i Winton Transports. Facciamo un salto indietro nel tempo. Siamo al 29 settembre del 1938. Gli europei si illudono che Neville Chamberlain ed Edouard Daladier, a Monaco, abbiano raggiunto un accordo con Adolf Hitler, sacrificando alla pace una parte della Cecoslovacchia che la Germania si sarebbe annessa nell’ottobre. Winton, allora un ventinovenne agente di borsa con numerose relazioni d’affari in Germania, sapeva che non era così: sapeva che in poco tempo tutta la Cecoslovacchia sarebbe stata occupata e che la guerra era inevitabile. In dicembre avrebbe dovuto andare a sciare in Svizzera con un amico. Invece, andò a Praga. Poté così vedere le terribili condizioni in cui vivevano, in accampamenti alla periferia della città, i profughi provenienti dai territori annessi dalla Germania, quasi tutti ebrei. I bambini erano più di 15 mila. Tornato a Londra, scrisse ovunque per ottenere ospitalità per i profughi cecoslovacchi. Si rese tuttavia subito conto che solo per i bambini vi sarebbero state possibilità di risposte positive. Tutti i governi (compresi Stati Uniti e Svizzera) rifiutarono. Salvo due: Gran Bretagna e Svezia. Costituì allora un gruppo di volontari per organizzare il piano di salvataggio: i trasporti, le pratiche burocratiche, i visti, la ricerca delle famiglie disponibili all’ospitalità (pubblicando inserzioni sui principali quotidiani), la ricerca di fondi e di finanziamenti. A Praga un altro inglese, Trevor Chadwick, contattò tutte le famiglie che desideravano far espatriare i loro figli; in breve, formò una lista d’attesa di 5.000 bambini. Il primo dei Winton Tansports partì da Praga il 14 marzo 1939 con venti bambini. Nei mesi successivi Winton organizzò altri sette trasporti, ponendo in salvo 669 bambini, tutti tra i 6 e i 12 anni. I bambini erano condotti al treno dai loro genitori o dai parenti: li lasciavano sapendo che, con tutta probabilità, non si sarebbero più rivisti. Il nono trasporto, programmato per i primi giorni di settembre, era quello più numeroso: c’erano 250 passeggeri in lista. Il treno fu però bloccato dallo scoppiò della guerra il 1° settembre. Nessuno di quei bambini e pochissimi degli altri iscritti nella lista sono sopravvissuti.
Winton non ha mai parlato con nessuno della sua attività che è stata scoperta dalla moglie nel 1988, rovistando in un baule dimenticato in soffitta. A seguito di questa scoperta, la vicenda è stata raccontata dalla televisione inglese e Nicholas si è incontrato con molti dei bambini che è riuscito a porre in salvo. Tra i bambini salvati, ci sono dottori, maestri, musicisti, artisti, scrittori, piloti, scienziati, ingegneri, imprenditori e persino un deputato del Parlamento inglese.

Uno dei bambini salvati, Vera Gissing, ha scritto insieme a Muriel Emanuel, un libro: Nicholas Winton and the Rescued Generation: Save One Life, Save the World, Vallentine Mitchell. Londra 2001

 

TRE POESIE DI WISLAWA SZYMBORSKA

Assenza

C’è mancato poco
che mia madre sposasse
il signor Zbigniew.
Se mai fosse nata una figlia – non sarei stata io.
Forse avrebbe avuto più memoria per i nomi
e per volti e melodie udite una volta soltanto
Avrebbe avuto eccellenti voti in chimica e fisica
E più scarsi in polacco
Ma di nascosto avrebbe scritto poesie
Più interessanti delle mie.

C’è mancato poco
che mio padre sposasse
la signorina Jadwiga di Zakopane.
Se mai fosse nata una figlia – non sarei stata io.
Sarebbe stata forse più ostinata,
sarebbe saltata senza paura nell’acqua profonda,
di rado sarebbe stata vista su un libro,
molto più spesso in cortile
a giocare a pallone con i ragazzini.
Forse le due ragazze si sarebbero incontrate
Avrebbero frequentato la mia stessa scuola
O magari anche la mia stessa classe.
Ma senza divenire amiche
E ben distanti nella foto di gruppo annuale.
Ragazzine, mettetevi qui
Avrebbe detto il fotografo,
quelle più basse davanti, le più alte dietro,
e al mio segnale fate un bel sorriso.
Ci siete tutte?

Si, tutte!

Esempio

Una bufera
Di notte
ha strappato tutte le foglie dell’albero
Tranne una fogliolina
Lasciata
A dondolarsi su un ramo spoglio.
Così
La violenza
dimostra
Che a volte
Le piace scherzare un po’.

Gente

Gente in fuga davanti a altra gente.
In un qualche paese sotto il sole.
Si lasciano alle spalle tutto, campi seminati, galline, cani
hanno sulle spalle brocche e fagotti
quanto più vuoti, tanto più pesanti
con il passare dei giorni.
Davanti a loro una via che non è mai quella giusta
Un ponte che non è quello che servirebbe,
intorno spari,
in alto un aereo che fa qualche giro.

Qualcosa ancora accadrà.
Qualcuno verrà incontro,
se potrà scegliere
forse non vorrà essere nemico.

Wislawa Szimborska è ospite abituale dei Testi infedeli. Altre sue poesie sono nel volume dell’ inverno 1999 e in quello dell’inverno 2005. Queste poesie sono tratte da varie raccolte: Assenza è nella raccolta Due punti; Gente è nella raccolta Attimo; Esempio dalla raccolta Qui (pubblicata in Polonia nel 2009). Una raccolta delle sue poesie dal 1945 al 2009 è stata pubblicata nel 2009 da Adelphi con il testo a fronte: La gioia di scrivere (a cura di Pietro Marchesani).

DUE STORIE DA PRAGA E DINTORNI

Il contadino e il cardinale

Augustin Navràtil vive a Lutopecny, un piccolo villaggio della Moravia nei pressi di Kromeriz. Quando sono arrivato, la moglie stava spazzando il vialetto d’accesso alla modesta casa in mattoni rossi. “E’ nell’orto”, mi ha detto, “vado a chiamarlo”. Mentre aspettavo ho visto mucche, galline e arrugginiti attrezzi agricoli nel cortile; nel soggiorno c’erano alcuni quadri di soggetto religioso e vari libri: oltre a quelli di soggetto religioso, un manuale di francese, una traduzione dei romanzi di Mark Twain.

Poi, Navràtil è comparso. Una figura tarchiata con uno sguardo intenso e una possente stretta di mano. La sua famiglia abita in quella zona da oltre trecento anni, mi ha raccontato. Erano contadini, piccoli proprietari terrieri. Il governo comunista ha requisito tutte le terre della sua famiglia e, come indennizzo, gli ha assegnato un posto di lavoro come guardiano della locale stazione ferroviaria. Mentre la moglie mi somministrava salsicce fatte in casa, Navràtil ha cominciato il suo racconto. Mi ha parlato delle sue petizioni al Governo in difesa della libertà religiosa e del diritto di diffondere pubblicazioni religiose. La sua prima petizione risale al 1976. Ha raccolto 700 firme, prima di essere internato per sei mesi in un ospedale psichiatrico. Navràtil ha inviato la petizione successiva, nel 1987, al ministro dell’Interno e ad altri esponenti del Governo, chiedendo se, sulla base delle norme vigenti, gli era consentito di diffonderla. Non ha ricevuto risposta.

Dopo qualche giorno, però, la polizia lo ha arrestato e lo ha nuovamente rinchiuso in un ospedale psichiatrico, in attesa di un processo. Dopo vari mesi, il Tribunale ha statuito che era affetto da paranoia querulans, lo ha giudicato socialmente pericoloso e lo ha condannato al carcere per un tempo indeterminato.

È stato scarcerato dopo un anno, anche per merito della pressione dell’opinione pubblica internazionale: durante la prigionia, ha ricevuto centinaia di lettere di solidarietà e sostegno, soprattutto dall’Olanda, dalla Germania e dalla Scozia. La sua ultima petizione per la libertà della Chiesa, in trentuno articoli, giunge puntuale dopo la scarcerazione, nella primavera del 1988. Navràtil me la mostra in una copia ciclostilata su ruvida carta giallastra, insieme a una lettera del cardinale Frantisek Tomàsek, arcivescovo di Praga. La lettera conclude invitando tutti i fedeli a firmarla e farla circolare concludendo “La viltà e la paura non sono degne di un vero cristiano”. Il sostegno del cardinale è stato determinante per il successo dell’iniziativa: la petizione in poco tempo ha raccolto 440 mila firme, ed è stata uno degli episodi più importanti che hanno portato al crollo del regime comunista in Cecoslovacchia.

Il guardiano notturno e la musica rock

Sono stato varie volte a Praga nel periodo tra il 1968 e il 1989. Di solito alloggiavo in un piccolo albergo, oggi scomparso, collocato all’estremità di una piazza dislocata poco al di fuori della zona centrale della città.

Tra i miei amici c’era Milan, giovane e promettente laureato in legge all’epoca della primavera del 1968 (iniziata, in realtà, nel gennaio). Il suo sostegno al governo di Dubcek gli aveva precluso, con i governi succeduti all’invasione sovietica di Husak prima e di Bilak dopo, la possibilità di svolgere attività professionale nel settore pubblico o privato connessa con la sua preparazione universitaria. Aveva così accantonato i libri di diritto e, con difficoltà, era riuscito a ottenere un posto di guardiano notturno della Loreta, la chiesa eretta dagli Absburgo proprio alle spalle del castello di Hradcany sul modello del santuario di Loreto, trasformata in un museo ove erano custoditi i gioielli imperiali.

Lì Milan organizzava nottetempo sontuosi ricevimenti a base di birra, salsicce e intrattenimenti musicali: si cantava con l’accompagnamento di chitarre e, negli intervalli, un amico di cui non ricordo il nome offriva improvvisate composizioni al magnifico organo della chiesa (su cui anche Mozart aveva suonato).

Di giorno, Milan scriveva bollettini di informazione delle novità musicali nel mondo occidentale e diffondeva registrazioni clandestine di canzoni e brani musicali degli autori di successo. Milan era un esperto di musica rock e di jazz, generi sommamente invisi al regime in quanto considerati espressione di decadimento e corruzione capitalista. In uno dei paesi più oscurantisti e repressivi dell’intero blocco sovietico, erano comportamenti pericolosamente rivoluzionari.

A seguito dell’attività di Milan e pochi altri, negli anni Ottanta si era creato un movimento musicale alternativo che contava a Praga forse un centinaio di aderenti. Milan aveva così cominciato a organizzare i primi concerti. Poiché la musica occidentale era vietata nei luoghi pubblici, le comunicazioni erano basate su un rigido passaparola. Per sfuggire ai divieti, i concerti venivano dislocati di volta in volta in piccoli villaggi nei dintorni della città, raggiungibili in treno. Al giorno e all’ora stabiliti, gruppi di giovani si presentavano all’appuntamento (un parco pubblico o un’area alla periferia della località prescelta). Poi, i suonatori sfoderavano i loro strumenti e il concerto aveva inizio. Non durava molto. In entrambe le occasioni alle quali ho partecipato la polizia è sopraggiunta in poco più di mezz’ora e, dopo alcune trattative (durante le quali i suonatori fuggivano mettendo in salvo i loro strumenti), l’assembramento era sciolto, rudemente ma senza far uso della forza. I partecipanti facevano ritorno alle loro case.

Poi, il 3 dicembre 1989, una fredda domenica invernale, mentre Vaclav Havel e Valter Komarek organizzavano il primo governo postcomunista, Milan era sul palco degli organizzatori di una grande manifestazione. Nel corso della serata cantò anche la più amata cantante praghese, Marta Kubisova, dopo oltre venti anni di silenzio impostole quale punizione per il suo sostegno a Dubcek (su Youtube si possono trovare brani di un suo concerto a New York). Negli anni successivi, Milan ha compiuto una brillante carriera nell’amministrazione pubblica della Repubblica Ceca. È attualmente ambasciatore in un importante stato americano.

Il primo brano è tratto da Timothy Garton Ash, We, the People, Granta Books 1992. Il secondo è un mio ricordo di un amico di Praga.

 

LO STRANIERO, MIO PADRE

(COURCELLES (BELGIO ), 6 MAGGIO 2009)

Signori, dopo tant’anni di dolori e di sofferenza per malattia di minatori,
è morto mio povero marito. Non è potuto tornare a vedere Sogliano, suo paese. Vi mando suo ricordo, scritto da sua figlia. Cordiali saluti
Signora Castellani Vandermeulen

E’ venuto, più di sessant’anni fa
nel nostro paese per lavorarvi
non lo sapeva,
era deportato
dove andare a sudare il suo sangue.

Scendendo dal treno, lo trascinano
lui come gli altri, tutti gli altri
sale su di un camion, nelle mani
non ha che una valigia
e il suo destino.

Lo straniero, mio padre
lo stesso giorno, lo hanno
trascinato nella miniera,
per scavare Lui non sapeva cosa fosse

Nel buio
lui scendeva
scoprì l’inferno, scoprì l’inverno
picchia comunque la pietra e
risale con il cuore a pezzi.

Lo straniero, mio padre
ha scavato così vent’anni
vi ha lasciato i suoi polmoni
ma per lui non era importante.

Quel che conta,
siamo noi i suoi figli
la morte più volte l’ha sfiorato
mai si è scoraggiato
sempre stringeva i denti.

Lo straniero, mio padre
ora è pensionato,
ma continua a lavorare
ha avuto il suo pieno d’ingiustizia
ha avuto il suo pieno di derisioni.

Se l’è comunque cavata
vent’anni tutte le sere e ora continua
non perde la speranza.

Lo straniero, mio padre,
mi racconta spesso
il suo arrivo nel nostro bel paese
la gente lo additava.

La gente gli urlava.
Torna a casa tua
nei bar si poteva leggere
niente cani, niente stranieri.

Lo straniero, mio padre,
adesso vuole una cosa sola
gioca con i suoi nipoti
i suoi figli sono grandi ora
Lui li guarda, un sorriso tra i denti.

Salvatore Giannella, visitando a Sogliano sul Rubicone (Forlì Cesena) il Museo dedicato a Leonardo da Vinci in Romagna, ha trovato il notiziario comunale, “Soglianoinforma”, ove sono pubblicate questa lettera e questa poesia.

TRE POESIE DI JULIA HARTWIG

Contemporaneamente

Essere ovunque nello stesso momento
Senza muoversi da dove ci si trova
Chi nella mia testa sta sfogliando le pagine
Dei libri letti tanto tempo fa?
Chi mi sta portando verso avvenimenti
lontani nel tempo?

Dell’infanzia un’immagine sola che sempre ritorna
Mi vedo prendere sonno nelle braccia dei miei
fratelli più grandi
Che passeggiano in solaio, e guardo il mare
Da cui soffia un vento freddo.

Poi, senza preavviso,
la fattoria sui Pirenei
la cena sotto la pergola alla luce di una lampada
impiastricciata di falene
sulla tavola il cibo,
in lontananza la frontiera spagnola.
Poi una ragazza sparecchia
Un ragazzo corre sulla riva del mare.
Gioca con la sabbia
Il padre, seduto lì vicino lo chiama.
Ora schiere di gabbiani si scagliano in ordine sparso nel cielo
Compiono un grande arco
come una squadra di aerei
Che scompare lontano.
Si sta bene in una città straniera
Tra gente sconosciuta
Nessuno ti chiede
Di ciò che ti è più caro.

Attesa

Tutti i poeti del mondo scrivono la stessa poesia
Descrivono la stessa roccia su cui si frange il mare
La stessa perdita che nessuno di loro ha risparmiato
Nello stesso attimo comprendono il segreto dell’esistenza

Tutti eseguono insieme la stessa sinfonia
Ma, al termine, solo i primi violini sono ringraziati
dal direttore
Gli altri attendono, ma sono trascurati
Delusi, tutti vorrebbero la loro parte

Compagne di classe

La voce dell’insegnante di latino era sempre
Un po’ più severa quando si rivolgeva a loro
Mai chiamandole con il loro nome
Miriam era la più brava di tutte
Regina un po’ meno, ma sempre diligente
Stavano insieme
E insieme uscivano dall’aula prima dell’ora di religione.
L’ultima vola che le vidi era all’incrocio di via Lubarska
Al confine del ghetto creato poche settimane prima
Erano lì intimidite come se si vergognassero
Per quel che era loro capitato.

Julia Hartwig è nata a Lublino nel 1921. È stata soprannominata da Czeslaw Milosz la gran dama della poesia polacca. Durante la guerra ha vissuto a Varsavia e nel 1944 ha pubblicato il suo primo libro di poesie. Dal 1947 al 1950 ha studiato in Francia. Dal 1970 al 1974 è vissuta negli Stati Uniti con il marito Artur Miedzyrzecki, noto saggista e scrittore. Negli anni Ottanta, dopo la dichiarazione della legge marziale, ha aderito a Solidarnosc e ha fatto parte del comitato cittadino di Varsavia. Nel 1987 ha ricevuto il Premio Solidarnosc per la poesia. Ha tradotto, da sola o con il marito, molti poeti francesi (tra cui Rimbaud, Apollinaire, Blaise Cendrars, René Char, Henry Michaux) e americani (tra cui Marianne Moore, Carl Sandburg, Gertude Stein, Sylvia Plath, Allen Ginsburg). Con il marito ha scritto anche tre libri di racconti per bambini. Queste tre poesie sono state scritte tra il 2000 e il 2004 e sono state pubblicate con il testo a fronte e tradotte in italiano da Silvano De Fanti e vari collaboratori in Sotto quest’isola, Donzelli 2007.

 

DIMENTICARE TIAN-AN-MEN

Dormivo di primavera senza
Sapere dell’aurora
I canti degli uccelli
Si potevano udire
Da ogni parte

Nella notte piovve
e soffiò il vento

Quanti fiori caddero
Nessuno poté sapere

È una poesia cinese della dinastia Tang (VI – IX secolo d.c.). È tratta da Davide Reviati, Dimenticare Tiananmen, Becco Giallo 2009.

 

LIBRI DA LEGGERE

Jonathan Littell, Les Bienveillantes, Gallimard 2006 (è tradotto in italiano da Einaudi).

Aue (che vuol dire striscia di sabbia lungo il fiume), l’ufficiale nazista che racconta la storia, non è volgare ma è insopportabile. Quello di lui che non si regge ha a che fare con i rapporti nevrotici col padre scomparso e idolatrato, con la madre odiata perché si risposa, con la sorella gemella da cui non riesce a staccarsi. Finisce a Stalingrado per punizione, perché accetta che si facciano fuori gli ebrei, ma non … che li si maltrattino! Si oppone sommessamente allo sterminio perché gli sembra irrazionale; meglio far lavorare i prigionieri nelle fabbriche di guerra tedesche e nutrirli bene. A che serve decimarli di stenti? Diciamo che è un nazista ragionevole; contradictio in adjecto di cui paga le conseguenze con il vomito e la diarrea continui e con la pazzia omicida che lo rende odioso. Ci sono poi altri personaggi inventati che meritano menzione, i restanti sono parte della storia, come il linguista Voss che cerca di spiegare invano che non ci sono razze ma solo lingue. E pezzi di grande letteratura come il capitolo su Stalingrado o l’inferno di Berlino invasa dai russi e dall’acqua nei tunnel dell’U-Bahn. Il libro è importante e terrificante per quello che di vero racconta. Il capitolo su Stalingrado, il pezzo migliore.

William Golding, The Inheritors, Harvest Books 1963.

È il secondo romanzo di Golding, più noto per Lord of the Flies. Questo, scritto nel 1955, era però il suo romanzo favorito. Riguarda un gruppo di uomini di Neanderthal e la loro lotta contro i nostri più evoluti, ma assai più sanguinari antenati (che poi avranno il sopravvento). Sul tema dello scontro tra Neanderthaliani e Homo sapiens c’è un romanzo di Jack London del 1907, Before Adam e, di Björn Kurtén’s, Dance of the Tiger: A Novel of the Ice Age del 1995.

Han Suyin, L’amore è una cosa meravigliosa, Martello 1955.
Un best-seller degli anni Cinquanta. La contrastata storia d’amore tra una giovane medico anglo-cinese e un giornalista inglese a Hong Kong tra il 1949 e il 1950. È un libro d’altri tempi. Lo si avverte dal modo di scrivere e da molte espressioni (la protagonista dice alla figlia “Non si va al cinema tutti i sabati perché fa male agli occhi”). Ma merita leggerlo per tutto ciò che alla storia d’amore fa da sfondo. I comunisti di Mao sono alle porte della colonia inglese, le truppe di Ciang-kai-scek sono in rotta, i profughi arrivano portando costumi, malattie, colori e abitudini di una Cina che sta scomparendo, gli inglesi osservano con disprezzo, razzismo e paura, gli abitanti di Hong Kong si dividono tra il sostegno alla nuova Cina e il terrore del comunismo: una realtà che l’autrice ci rappresenta con vigore e con partecipazione. Il titolo originale è Love Is a Many-Splendored Thing. Dal libro è stato tratto un film (regista Henry King. Con William Holden e Jennifer Jones).

Don Wislow, L’inverno di Frankie Machine, Einaudi 2008

“La Nike paga 29 centesimi a un bambino tailandese per la fabbricazione di una canottiera e la vende a 140 dollari. E sarei io il criminale? La verità è che anche il governo, come la mafia, è criminalità organizzata. Siamo in competizione. L’unica differenza tra loro e noi è che loro sono più organizzati”. Queste sono le considerazioni di Frankie Machine, il killer buono della mafia americana, al termine di una vicenda che lo trascina da tranquillo pensionato nel mezzo di un complesso scontro, dove diventa un obiettivo da eliminare per ragioni che solo alla fine saranno chiarite. Non è solo un thriller. Se si sopportano morti, violenze e brutalità, è qualcosa di diverso: non si potrà non ricordare Frankie Machine.

Melvin I. Urofsky, Louis D. Brandeis. A Life, Pantheon Books 2009.
La vita di un grande avvocato e di un grandissimo giudice della Corte suprema degli Stati Uniti in 1000 pagine. Un’impresa ciclopica, per chi l’ha scritto e per chi lo legge. Nessun altro giudice ha avuto un impatto così fondamentale sulla giurisprudenza americana, afferma l’autore. A Brandeis, nominato dal Presidente Wilson, si devono, tra l’altro, le basi della teoria della tutela della privacy e, indirettamente, del diritto delle donne all’aborto nel 1973.

Richard David Precht, Ma io chi sono? (ed eventualmente quanti sono), Garzanti 2009.
Un filosofo tedesco poco più che quarantenne che, in modo leggero e molto comprensibile, compie un viaggio nella filosofia in cerca di risposta a tre domande fondamentali: che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa posso sperare?, facendo puntuali riferimenti anche a quanto messo in luce sugli interrogativi dalla neurofisiologia.

Michael Egan, Barry Commoner and the science of survival. The remaking of American environmentalism, Mit press, 2007.
La nascita dell’ambientalismo negli Stati Uniti, a partire dagli anni Sessanta, raccontata non dal punto di vista delle organizzazioni ambientaliste o dello studioso di fenomeni sociali o politici, ma dal punto di vista della carriera di una delle più importanti figure del movimento ambientalista non solo americano, Barry Commoner. Egan illustra così l’impatto dell’attività di Commoner, focalizzata sulla critica radicale dei modi di produzione che diffondevano distruzione dell’ambiente e povertà.
Dalle prime battaglie contro gli esperimenti nucleari e l’uso dell’energia nucleare, a quelle degli anni seguenti sui disastri provocati dalle industrie chimiche non sottoposte ad adeguati controlli, il libro segue così lo sviluppo delle idee di Commoner in merito alla politicità della scienza e alla necessità di democratizzarne la conoscenza, le sue critiche al libero mercato e alle scelte di politica economica come principali responsabili della distruzione dell’ambiente.

Mario Calabresi, La fortuna non esiste, Mondadori 2009.

Tante storie di coraggio. Una crisi cupa e dolorosa raccontata attraverso le reazioni di coloro che non hanno mai smesso di credere in loro stessi.
Armando Brignolo – Salvatore Giannella, I Nicola, Allemandi, 2009.

Storie di restauri nella storia di una famiglia che da mezzo secolo restituisce colori e vita ai capolavori dell’arte e che è riuscita a spezzare il pregiudizio legato al nome del borgo in cui opera: Aramengo, tra Torino e Asti, ieri destinazione dei falliti da parte dei severi giudici sabaudi (da qui la dizione popolare “andare a ramengo”, cioè fallire), oggi méta dell’arte, con 48 dipendenti a tempo indeterminato su un centinaio di abitanti che lavorano sulla bellezza e sulla creatività.

Namita Devidayal La stanza della musica, Neri Pozza 2009.

E’ un libro sulla musica indiana e la sua storia. Racconta di una grande cantante di Jaipur e dei grandi cantanti che l’hanno preceduta attraverso gli occhi di una giovane allieva. Consigliato a chi è attratto dalla musica non occidentale e a chi ama l’India e la sua cultura.

Sabino Cassese, I Tribunali di Babele, Donzelli 2009.

Un breve e illuminante saggio sulla erosione della sovranità statale e sulla progressiva sovrapposizione di ordinamenti giuridici globali e, in particolare, di molteplici organismi giudiziari e quasi giudiziari internazionali, con molti esempi e molti recenti casi concreti.
Le recensioni sono di Augusto Bianchi, Gherardo Colombo, Ada Lucia De Cesaris, Joseph DiMento, Salvatore Giannella, Marina Nespor, Pasquale Pasquino, Lorenza Zanuso e Stefano Nespor.

Questo trentasettesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel novembre del 2009 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore. Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive. I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.stefano. nespor.it, curato e aggiornato da Stefano Rossi. Ringrazio tutti coloro che hanno collaborato alla sezione dedicata ai libri da leggere e inoltre Salvatore Giannella, Margherita Giannico, Maria Inglisa, Marina Nespor e Pasquale Pasquino per le segnalazioni, i suggerimenti e la revisione del testo.

Is Suicide Terrorism a Costly War Strategy?

Genesis and Future of Suicide Terrorism
by Scott Atran

Is suicide terrorism a costly war strategy?
Stefano Nespor

Is suicide bombing a costly war strategy, as Scott Altran implies when he affirms that this strategy is chosen when fighting methods of lesser cost seem unlikely to succeed?
Let’s consider Napoleon’s wars, the First World War and even the America’s Secession War. All these wars were planned and implemented by the leaders as if the men’s supply would be unlimited and – in any case – not be a costraint. The problems that the leaders had to manage were others: the supply of foods, the control of the territory, the backing of the people. These were very costly wars indeed, in terms of lives.

Today, the civilized countries could never afford such a strategy, simply because the people would not agree to be used as a tool for pursuing even legitimate goals. Today’s wars are “clean”: in this respect, the U.S. wars in Iraq are not different from suicide bombings. Both strategy represent a clean war: of course because they spare their men, not because they spare their enemies.

Today, the governments and the leaders that decide to start a war are compelled a) to practise strategies that use a minimum of human lifes of their men, and b) to show to everybody that they are trying to implement this strategy, even if the total cost of lifes – comprehensive of the enemies’ lives – is high. Doesn’t matter if you kill hundreds of civilians and if you destroy houses and monuments: the war is clean if your men get back home alive.

Only clean wars in the mentioned terms receive the support of the civilized nations. Traditional, dirty wars are left to underdeveloped nations.

But if in terms of men’s supply U.S. wars are very similar to suicide bombings, both being the less costly possible war, they are consistently different in terms of financial and political investments.

For U.S. to maintain the war clean, means a huge financial investment. On the contrary, for the leaders of suicide bombings, the clean war requests a very low financial investmens. In this respect, suicide bombing is the most effective modern way of making a war.

You must invest in ideology that persuades somebody to sacrifice his life for a superior goal.

For President Bush and Mr Blair would have been very difficult to persuade a single man in their respective countries to become a suicide bomber against Saddam, in defense of the Western democracy or freedom.

For the organiser of suicide bombers, this type of ideology is free, is part of the culture where God, religion, tradition, authority still have a strong impact on the education of the people.
Stefano Nespor

A chi servono i prodotti geneticamente modificati?

“Non è un loro problema”
Jacques Diouf,
Assemblea Fao, giugno 2002

1. I prodotti agricoli geneticamente ricombinati: trent’anni di scontri.

Attentato all’integrità della natura, pretesa di sostituirsi a Dio o espressione della capacità dell’ingegno umano di adattare la realtà e la natura ai propri bisogni? Cibo avvelenato o cibo esattamente uguale a quello che si è usato in migliaia di anni di trasformazioni naturali? Strumento di distruzione o di incremento della biodiversità? Mezzo per sottoporre l’agricoltura mondiale al controllo di poche multinazionali avide di profitti, o panacea per eliminare il problema della fame nei paesi più poveri?

Queste sono le alternative che si contrappongono nelle discussioni in merito alle ricombinazioni genetiche applicate all’agricoltura, e quindi dei prodotti agricoli geneticamente modificati, che chiameremo d’ora innanzi PAGM.

Fin dall’inizio degli anni Settanta, quindi ben prima della loro concreta immissio-ne e diffusione sul mercato, i PAGM sono stati al centro di uno scontro che ha ri-guardato non tanto le regole più appropriate da applicare per utilizzare questi prodotti garantendo la sicurezza dell’ambiente e la salute dei consumatori, ma l’ammissibilità da un punto di vista etico e ambientale della loro produzione e del loro uso: un vero e proprio scontro ideale tra opposte visioni del mondo.

Attualmente, i PAGM sono divenuti, con una crescita costante, una componente importante della produzione agricola mondiale (anche se le aree agricole interes-sate sono concentrate per il 99% in soli tre paesi: Stati Uniti, Argentina e Canada, mentre il residuo 1% è suddiviso tra Cina, Australia e Sudafrica): complessiva-mente erano coltivati con PAGM nel 1996 1,7 milioni di ettari, divenuti 11 milioni nel 1997, 27,8 milioni nel 1998, e 39,9 mil nel 1999.[1]

Analoga è stata la crescita in termini economici: si è passati da un volume d’affari di 75 mil $ nel 1995, a 2.2 miliardi $ nel 1999, a 3 miliardi $ nel 2000; il volume d’affari è previsto di 25 miliardi $ nel 2010 .

Lo scontro tra sostenitori e oppositori dei PAGM non è però diminuito di intensità: osserva in proposito Richard Lewontin che l’applicazione dell’ingegneria genetica all’agricoltura ha provocato reazioni ed emozioni come mai si erano viste nella storia della innovazione tecnologica: neppure i disastri di Three Miles Island e di Cernobyl hanno determinato nell’opinione pubblica una ostilità nei confronti dell’energia nucleare analoga a quella esistente nei confronti dei GM.[2]

Il confronto si è però spostato dalla ammissibilità teorica dell’uso dei PAGM ai problemi connessi con il loro uso concreto.

Due sono le caratteristiche che il confronto ha assunto in questa seconda fase.

In primo luogo una molteplicità di temi di carattere scientifico, giuridico o pratico: sanitari, agricoli, ambientali, economici e proprietari ha sostituito al centro della scena gli aspetti etici e politici, che avevano polarizzato la fase iniziale del dibatti-to.

Ma questi ultimi non sono affatto scomparsi. Anzi, nella maggior parte dei ca-si le prese di posizione sono ancora determinate non dall’acquisizione di dati scientifici e da valutazioni razionali, ma da scelte di campo operate pregiudizial-mente e fidesticamente in base a quei postulati etici o politici formalmente scomparsi.

In secondo luogo, si è verificata una radicalizzazione geografica, ed è penetrata nelle relazioni internazionali, materializzandosi nella contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Europea in merito alla coltivazione e alla commercializzazione di PAGM. L’UE mantiene infatti – soprattutto per le sollecitazioni di taluni Stati membri – una posizione di sostanziale blocco dell’utilizzazione di PAGM.[3]

Anche in questo caso ci sono, non dichiarati, aspetti che dipendono dai diversi in-teressi economici, agricoli e soprattutto di concorrenza e di struttura socio-agricola dei due blocchi.

Non va dimenticato infatti che l’agricoltura tradizionale è praticamente scomparsa negli Stati Uniti (anche se sopravvive nell’immaginario dell’opinione pubblica), mentre è assai forte, come componente sociale e politica, in molti paesi dell’Unione Europea attuale, e soprattutto nei paesi che sono pros-simi a farne parte (i paesi dell’Est Europa, in precedenza inseriti nel blocco dell’Unione Sovietica).

Ma vi è un terzo aspetto dell’attuale confronto, ed è costituito dal quasi parados-sale scambio delle parti tra sostenitori e oppositori dei PAGM, sul quale vale la pena di soffermarsi.

2. Il balletto malthusiano.

“La battaglia per raggiungere l’obiettivo di nutrire l’umanità è fallita. Negli anni Settanta centinaia di milioni di persone saranno condannate a morire di fame”.

Così esordiva il libro che ha rappresentato l’opinione ambientalista neomalthusiana [4] degli anni Sessanta del secolo scorso, The Population Bomb di Ehrlich [5].

Si è trattato di una previsione certamente errata, ma coerente con la tradizionale impostazione ambientalista di preannunciare catastrofi ecologiche tendenzial-mente irrimediabili per mobilitare l’opinione pubblica e creare consenso: tra que-ste una delle colonne portanti era proprio quella dei limiti della crescita e dell’imminente tracollo delle risorse disponibili – e in particolare dell’insufficienza del cibo – a fronte dell’aumento della popolazione .
Viceversa, i sostenitori del progresso hanno sempre irriso gli annunci catastrofici degli ambientalisti, ritenendo che, come in passato, le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche avrebbero permesso di affrontare e superare le difficoltà.
La comparsa sulla scena dei PAGM, che – secondo una opinione diffusa – potreb-bero eliminare o attenuare il problema della fame mondiale, ha comportato un imprevedibile scambio delle parti.
Infatti gli ambientalisti, posti di fronte alla scelta tra la catastrofe per fame e la catastrofe da innovazione tecnologica, hanno optato per quest’ultima soluzione e hanno quindi scelto l’opposizione ai PAGM, abbandonando il pericolo neomalthu-siano e tutte le argomentazioni connesse con i limiti della crescita.
Ed infatti, la tesi più diffusa attualmente tra gli ambientalisti è quella prospettata da Amartya Sen, secondo la quale il problema della fame non dipende dalla man-canza di cibo o da limiti della natura, ma dalle relazioni socioeconomiche: l’obiettivo è quindi quello di agire su quelle cause, mentre l’innovazione tecnologi-ca costituita dai PAGM permette un inutile aumento della produzione, provoca incontrollabili rischi per l’ambiente e per la salute e non risolve il problema della povertà[6] .
Un percorso diametralmente opposto hanno ovviamente dovuto seguire i fautori del progresso.
Questi, per sostenere la necessità o quantomeno l’utilità dei PAGM hanno accen-tuato il pericolo di catastrofi alimentari nel prossimo futuro: l’accrescersi del pro-blema della fame nel mondo e, più specificatamente, dei problemi agricoli e sani-tari che si proporranno, in particolar modo nei paesi in via di sviluppo, per effetto dell’incremento della popolazione mondiale . Secondo costoro, i PAGM permetto-no di evitare questi pericoli, in quanto consentono di aumentare quantitativamen-te e migliorare qualitativamente la produzione di cibo, di incrementare le compo-nenti nutrizionali di singoli prodotti, di ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura (consistente nella deforestazione e nell’uso di fertilizzanti e pesti-cidi chimici). Viceversa, senza l’uso di tecniche biotecnologiche, e ricorrendo e-sclusivamente alle tecniche tradizionali, sarà assai difficile, e per molti impossibi-le nutrire i 9.4 miliardi di persone che, secondo le stime, popoleranno la terra nell’anno 2050 .
Recisamente in questo senso sono, per esempio, le conclusioni del Rapporto “Transgenic plants and world agriculture” predisposto dalla Royal Society del Re-gno Unito : “La nostra conclusione è che bisogna agire per venire incontro agli ur-genti bisogni di pratiche agricole sostenibili a livello mondiale, e se si vuole soddi-sfare la domanda di cibo di una popolazione mondiale in continua espansione sen-za distruggere ulteriormente l’ambiente e le risorse naturali. A tal fine, la tecnologia genetica, insieme alle altre tecnologie, deve essere usata per incrementare la pro-duzione dele principali fonti di cibo, per migliorare l’efficienza della produzione, per ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura e per agevolare la vita dei piccoli pro-duttori” .
Tutto ciò porta inevitabilmente l’opinione pubblica a privilegiare scelte determina-te dalla fiducia o dall’affinità con uno dei due schieramenti in campo, piuttosto che da un interesse verso la conoscenza dei dati scientifici e verso una analisi senza pregiudizi dei dati scientifici e da scelte pacate e razionali.
*
Il tema degli effetti dell’espandersi dell’utilizzazione dei PAGM sul problema della sottonutrizione e della fame nei paesi in via di sviluppo e più in generale sull’aumento della popolazione mondiale ha acquisito quindi una decisiva impor-tanza nel dibattito concernente la ragionevolezza della utilizzazione futura di pro-dotti geneticamente ricombinati. Ed infatti, a fronte dell’ opposizione ambientali-sta all’uso delle tecniche genetiche applicate all’agricoltura, la insistenza sull’esistenza di un interesse generale e collettivo – e non solo dei produttori, le multinazionali della filiera agroalimentare – per l’utilizzazione e la diffusione dei PAGM può essere giustificata solo se viene dimostrata la necessità, o quanto me-no l’utilità dei PAGM per adeguare la futura produzione agricola ai bisogni della popolazione.
È però necessario offrire al lettore alcuni dati che permettono la comprensione delle argomentazioni che saranno svolte.

3. Incroci tradizionali e PAGM.
Tutte le attuali coltivazioni agricole sono il risultato di lente e continue selezioni operate attraverso i secoli, finalizzate a migliorare la produttività, i valori nutri-zionali, la resistenza alle malattie, il gusto, ed anche l’odore e il colore.
Questo significa che tutti gli attuali prodotti dell’agricoltura sono diversi dalle specie originarie, dal loro “prototipo” naturale. La maggior parte di essi – in Euro-pa oltre il 90% – deriva da specie che hanno avuto origine in luoghi diversi da quelli in cui esse sono attualmente coltivate, e sono quindi state importate nei luoghi ove sono attualmente coltivate modificando in modo sostanziale e irrever-sibile le condizioni naturali originarie.
Inoltre, molte delle specie da cui hanno tratto origine le specie oggi coltivate sono ormai estinte: sopravvivono ormai solo gli incroci.
In Europa, più del 90% dei prodotti alimentari appartiene a questa categoria.
Gli incroci e le clonazioni effettuati con tecniche tradizionali hanno lo stesso o-biettivo degli organismi prodotti con l’ingegneria genetica, cioè con tecniche con-sistenti nell’estrarre (con varie modalità ) il DNA corrispondente a uno o più geni specifici da un organismo “donatore” e nell’inserirlo nella cellula di un organismo ricevente. L’obiettivo è quello di ottenere varietà che offrono una resa quantitati-vamente o qualitativamente migliore, incrementando la resistenza alle condizioni ambientali in cui viene coltivata (per esempio aridità del terreno, temperature più basse o più elevate di quelle necessarie per la coltivazione della varietà non modi-ficata), oppure incrementando la resistenza a parassiti o malattie proprie della specie su cui si interviene, o infine incrementando la resistenza a prodotti pesti-cidi o antiparassitari che debbono essere utilizzati. L’obiettivo può anche essere quello di ottenere varietà vegetali più pregiate perché gustose, più gradevoli, più attraenti per il consumatore (per esempio, è per questo che la carota, da viola che era, è stata resa arancione).
Sia gli incroci tradizionali che i PAGM sono basati sulla modificazione del patri-monio genetico della specie oggetto dell’intervento. Per i primi la modificazione è realizzata con il trasferimento casuale, incontrollato e potenzialmente rischioso, di migliaia o diecine di migliaia di geni; per i secondi con l’inserimento mirato di uno o più geni predeterminati. Proprio per la casualità del risultato, l’incrocio di specie effettuato secondo metodi tradizionali ha in vari casi prodotto nuove specie tossiche per l’uomo, o specie più resistenti a determinati parassiti e in taluni casi le specie incrociate hanno determinato l’estinzione delle specie originarie .
A questo proposito va tenuto presente che – come hanno ricordato alcune migliaia di scienziati sottoscrivendo un documento di sostegno per l’incremento delle ri-cerche biotecnologiche e dell’utilizzazione dei PAGM – non vi è prodotto alimen-tare, comunque ottenuto, che sia esente da rischi: ogni varietà vegetale, comunque ottenuta, può produrre effetti indesiderati e talvolta dannosi. Sotto questo profilo non c’è differenza tra pratiche tradizionali e nuove tecnologie.
Questo significa che non solo gli incroci ottenuti con tecniche di ricombinazione genetica, ma tutti le varietà vegetali possono produrre effetti negativi e dannosi sull’ambiente o sulla salute umana; è quindi privo di senso imputare questo peri-colo solo ai primi, dopo che per centinaia e centinaia di anni si sono sopportati i rischi degli effetti dannosi degli incroci tradizionali, in considerazione dei benefici ottenibili.
Vi è però una differenza tra varietà vegetali ottenute con incroci tradizionali e PAGM. Le pratiche tradizionali sono vincolate al rispetto dei limiti naturali sulla compatibilità delle specie: solo specie che si assomigliano possono essere incro-ciate al fine di ottenere varietà nuove e diverse, mentre specie non compatibili, come pure specie appartenenti a generi (vegetale ed animale) diversi, non posso essere incrociate. Al contrario, le tecnologie che utilizzano il DNA ricombinante possono essere utilizzate per ottenere modificazioni genetiche che non sarebbe possibile ottenere avvalendosi di pratiche tradizionali, inserendo in specie o varietà vegetali geni estratti da batteri o altri organismi animali, e realizzare così i c.d. or-ganismi transgenici.
Naturalmente, il fatto che con le tecniche di ingegneria genetica si riescano ad ot-tenere incroci che non si riescono ad ottenere con le tecniche tradizionali non si-gnifica che solo i primi siano “innaturali”.
Se con il termine natura si intende una realtà non toccata o non trasformata dall’uomo, non c’è alcuna differenza tra tecniche tradizionali e tecniche di inge-gneria genetica: entrambe creano prodotti innaturali. In entrambi i casi l’uomo si è sostituito alla natura o a Dio (utilizzando le tecniche di volta in volta messe a disposizione dal progresso scientifico e tecnologico). E – per quanto già detto – so-no innaturali la quasi totalità dei prodotti alimentari oggi utilizzati.
La differenza – e quindi l’eventuale diverso trattamento giuridico – è quindi tra prodotti alimentari parimenti innaturali, ma gli uni ottenuti artificialmente con tecnologie utilizzate da migliaia d’anni, gli altri ottenuti artificialmente, ma con tecnologie che solo da pochi decenni sono a disposizione.
È solo in questa differenza e nei loro specifici effetti – se esistono – che dovrebbero essere individuate le ragioni che determinano l’accettabilità degli incroci tradizio-nali e l’inaccettabilità dei PAGM, e quindi divieti o limitazioni alla coltivazione o alla commercializzazione di questi ultimi, sotto il profilo del pericolo per l’ambiente, o per la salute.

4. La popolazione mondiale.
Siamo attualmente più di 6 miliardi di esseri umani.
Eravamo 3.5 miliardi nel 1968.
L’aumento della popolazione è dovuto al generalizzato aumento dell’aspettativa di vita per effetto delle migliori condizioni di igiene, di assistenza sanitaria, alla maggiore disponibilità di acqua, al ridursi dell’inquinamento.
Il tasso di aumento della popolazione mondiale è oggi 1,3\1,4% (era 2,1% nel 1968). Al tasso di crescita attuale, la popolazione mondiale è destinata a raddop-piare in cinquanta anni: questo significa 12 miliardi di persone nel 2050. Ma è probabile che il tasso decresca nel prossimo futuro (con il migliorare delle condi-zioni di vita, soprattutto delle donne) e quindi l’aumento della popolazione sia più contenuto.
Secondo previsioni delle Nazioni Unite del 1996, recentemente aggiornata e rivi-sta, si dovrebbe giungere a una popolazione di circa 8 miliardi nel 2025 e di 9 o 10 miliardi di persone nel 2050 (con una stabilizzazione finale della crescita a 11 miliardi verso il 2200) . Inoltre, nel 2050 circa 9 persone su 10 vivranno nei pae-si in via di sviluppo.

5. L’agricoltura mondiale nel ventesimo e ventunesimo secolo.
Prima del ventesimo secolo, l’aumento della produzione agricola era determinato quasi esclusivamente dall’aumento delle aree coltivate .
A partire dagli anni Trenta del secolo scorso, con l’avviarsi dell’utilizzazione prati-ca di nuove tecniche di ibridazione e con la creazione di nuove varietà delle specie più coltivate più resistenti o più prolifiche, comincia ad aumentare la produttivi-tà, prima negli Stati Uniti, poi, più tardi, in Europa e in Giappone.
Utilizzando queste tecniche, tra il 1935 e il 1975 la produzione di granturco au-menta negli Stati Uniti del 60%.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, proprio la progettazione e l’utilizzazione di nuove varietà più produttive o più resistenti (che rendono possibile il passaggio da uno a due raccolti all’anno), insieme all’uso dell’azoto come fertilizzante e in-sieme a consistenti investimenti in opere di irrigazione sono le componenti della c.d. Rivoluzione verde che dapprima coinvolge l’Asia e l’America latina e comincia a far sentire i suoi effetti in Africa negli anni Novanta.
Tre colture – frumento, granturco e riso – sono state l’oggetto principale della Rivoluzione verde; essenzialmente per l’aumento della loro produzione nel corso dei trent’anni è stata evitata quella crisi da mancanza di cibo nei paesi in via di sviluppo che Ehrlich aveva previsto come inevitabile .
Queste tre colture oggi coprono circa la metà di tutte le terre coltivate (che am-montano a circa il 35% della superficie terrestre, escluse le ragioni polari); esse inoltre costituiscono le principali fonti di nutrimento della popolazione mondiale e compongono la maggior parte delle calorie presenti nella dieta umana . A partire dal 1967, la produzione di queste colture è aumentata tra il 79% e il 97% solo per effetto della maggior resa ottenuta utilizzando le nuove varietà, i fertilizzanti chimici azotati e moderne tecniche di irrigazione, e solo per una minima parte per l’aumento delle aree coltivate (in mancanza di aumento della produttività, per raggiungere lo stesso risultato si sarebbe dovuta destinare ad uso agricolo un’area della dimensione dell’intera Amazzonia , e questo dimostra gli incalcola-bili benefici di carattere ambientali provocati dalle tecnologie impiegate nella Rivo-luzione Verde).
La situazione attuale è quindi ben diversa da quella prevista da Ehrlich e da molti neo-malthusiani degli anni Sessanta: nel periodo di circa quarant’anni la popola-zione mondiale è effettivamente raddoppiata, ma è più che raddoppiata la disponi-bilità di cibo, sia pure in modo diseguale tra paesi sviluppati e paesi in via di svi-luppo. Il risultato è che nei paesi sviluppati il problema è non la carenza, ma l’eccesso di cibo, e quindi la necessità di sostenere i prezzi e proteggere la produ-zione agricola (i prezzi dei prodotti alimentari, proprio per l’abbondanza dell’offerta rispetto alla domanda, sono diminuiti in media di circa due terzi ri-spetto al prezzo del 1957) . A questo proposito, deve osservarsi che la rallentata crescita della produzione di cibo nella seconda metà degli anni Novanta non di-pende – come molti ritengono – dall’esaurirsi degli effetti della Rivoluzione Verde, ma da deliberate scelte di politica agricola dei paesi ricchi, che hanno così cercato di limitare il surplus .
Inoltre, proprio per effetto dell’aumento della quantità di cibo disponibile e della diminuzione dei prezzi si è ridotto, come abbiamo visto, il numero di persone cro-nicamente sottonutrite nel mondo: erano – secondo stime delle Nazioni Unite che però molti esperti hanno giudicato non attendibili – oltre 900 milioni all’inizio de-gli anni Settanta, sono nel 1997 circa 800 milioni di persone .
Naturalmente, la Rivoluzione verde non è stata priva di effetti di carattere am-bientale, economico e politico. Essendo determinata da tecnologie ad alto uso di energia e di know-how, ha rimpiazzato le tecniche agricole semplici e spesso a conduzione famigliare; favorendo monoculture intensive, ha ridotto l’autonomia agricola locale e regionale, creando nuove forme di dipendenza e immettendo gli agricoltori in un sistema di banche di sementi, fertilizzanti, macchine agricole, finanziamenti, organizzazioni politiche; ha creato vincitori e vinti su scala mondiale, privilegiando coloro che sono riusciti a tenere il passo con i paesi ricchi e danneggiando chi non ci è riuscito: nel 1950 l’agricoltura dei paesi ricchi era sette volte più efficiente di quella dei paesi poveri; nel 1985, trentasei volte .

6. La produzione di cibo: previsioni per il futuro.
Torniamo ora al tema centrale di questo articolo.
Le previsioni concernenti la quantità di cibo disponibile nel futuro sono di estre-ma importanza per valutare se i PAGM siano utili o indispensabili per affrontare il problema del nutrimento dell’accrescersi della popolazione mondiale o quantome-no per evitare un incremento delle persone sottonutrite e affamate nel mondo. E la necessità di capire se i PAGM siano necessari, o magari soltanto utili, dipende anche dal fatto che negli anni Novanta del secolo passato, salvo che in Africa, gli effetti delle tecnologie utiizzate per realizzare la Rivoluzione Verde sembrano es-sersi approssimati al limite fisiologico; anche in molti paesi asiatici la produzione, dopo essere incessantemente salita fino ai primi anni Novanta si è poi mantenuta stabile .
Naturalmente le previsioni in questo campo sono assai ardue, per la molteplicità di fattori da considerare (oltre a quello strettamente agroalimentare, si deve tener conto degli aspetti climatici, economici, politici e di relazioni internazionali), sia per i diversi e spesso non dichiarati interessi degli esperti e degli scienziati pro-prio con riferimento all’impiego di tecniche genetiche (in quanto i sostenitori di queste ultime tendono ad accentuare la probabilità di un futuro peggiore dell’attuale, mentre gli oppositori favoriscono ipotesi ottimistiche).
Così, è prima di tutto assai incerto uno dei dati di partenza di qualsiasi previsione e cioè la quantità delle persone sottonutrite nel futuro.
Secondo il rapporto della Royal Society (che è nettamente favorevole all’utilizzazione dei PAGM) l’attuale cifra di 800 milioni di persone sottonutrite è destinata a raddoppiarsi nel 2050, se non interverranno consistenti modificazioni sulle cause che generano il sottonutrimento .
Invece, secondo altre stime (per esempio, la stima della FAO del 1996) il numero complessivo delle persone sottonutrite dovrebbe continuare a calare, riducendosi nel 2050 sulla quantità di 600 milioni .
Pur essendo questa contrapposizione di tali dimensioni da rendere di per sé solo arduo qualsiasi esercizio previsionale, su un dato però vi è un sostanziale accordo tra tutti gli specialisti: futuri aumenti della produzione agricola dovranno basarsi su un aumento della produttività, e non su una estensione dei territori destinati all’agricoltura. Ciò per due ragioni. Prima di tutto, perché le aree disponibili e in concreto utilizzabili per l’agricoltura sono già scarse, e continuano a diminuire, sia per cause naturali (erosione, mancanza di acqua, desertificazione, ecc.) , sia per l’assoggettamento ad altre destinazioni; poi perché una estensione delle aree destinate all’agricoltura oltre i limiti attuali produrrebbe costi economici e orga-nizzativi difficilmente sopportabili per molti paesi e, inoltre, un aumento non so-stenibile dell’inquinamento ambientale (per effetto della distruzione delle foreste, dell’habitat naturale e della biodiversità).
La questione centrale è quindi se sia possibile un aumento della resa delle colti-vazioni adottando le stesse tecniche introdotte dalla Rivoluzione Verde (e quindi senza utilizzare le nuove tecnologie genetiche), senza provocare danni non soste-nibili all’ambiente, in modo da soddisfare il prevedibile aumento della domanda dovuto all’aumento della popolazione mondiale.
A questa domanda hanno cercato di dare risposta negli ultimi anni molti esperti di statistica, di economia agricola, e di politiche di intervento pubblico nell’economia..
Partiamo con dei dati.
La crescita della domanda di cibo, relativamente alle quattro specie esaminate, è stata stimata fino al 2020 in misura di 1,2% all’anno per cereali e riso, 1,5% per granturco .
Questo significa che sarà necessario un aumento di produzione del 44% per i ce-reali, del 43% per il riso e del 56% per il granturco, rispetto alle quantità attuali, da ottenersi senza un sostanziale aumento di terre coltivate.
Molti studi sono stati compiuti per verificare quale sia la produttività massima raggiungibile con le tecniche agricole attualmente utilizzate; tenendo conto della produttività massima raggiunta dalle varie specie nelle migliori condizioni am-bientali e tecnologiche possibili, la conclusione più diffusa è che non potranno essere superati di molto i livelli raggiunti attualmente dalle colture più produttive nei paesi più avanzati, se non introducendo nuove sofisticate tecnologie che per-mettano di intervenire sull’efficienza della fotosintesi e sul metabolismo delle piante .
Posto questo limite, le previsioni non sono per nulla pessimistiche.
Secondo la maggior parte degli esperti l’obiettivo di raggiungere una produzione di circa 3 miliardi di tonnellate di cereali per soddisfare la domanda mondiale di cir-ca 8 miliardi di persone nel 2025 può essere raggiunto senza aumentare il terreno coltivato e utilizzando le tecniche attualmente in uso, solo aumentando la produtti-vità dei paesi meno avanzati in modo da portare la produzione ai livelli già rag-giunti dai paesi ricchi, anche se saranno necessari imponenti processi di razionalizzazione nel raccolto, nella conservazione e nella distribuzione dei prodotti alimentari, eliminando gli sprechi che ora caratterizzano il sistema agroalimentare mondiale .
In definitiva la situazione mondiale per ciò che riguarda la produzione globale di cibo dovrebbe continuare nella tendenza al miglioramento .

7. Molto cibo, ma maldistribuito.
La quantità globale di cibo sarà quindi sufficiente, secondo la maggior parte delle previsioni, a far fronte alla domanda globale della popolazione nei prossimi tre\quattro decenni; ma questo dato non è di per sé sufficiente a concludere che sarà risolto il problema della fame nel mondo.
Infatti, la produzione di cibo non è distribuita uniformemente in rapporto alla po-polazione e alle previsioni di crescita. Anzi: si è visto che la produzione di cibo è già oggi sovrabbondante nei paesi ricchi, dove l’aumento della popolazione sarà esiguo, mentre è oggi deficitaria nei paesi poveri – soprattutto in Africa e in Asia – dove è previsto il più alto tasso di crescita della popolazione.
Per queste ultime aree, destinate a ricevere il maggior incremento di popolazione, non sarà prevedibilmente possibile ottenere un aumento della produzione di cibo che soddisfi le necessità della aumentata popolazione.
Pertanto per soddisfare la domanda di cibo sarà necessario – se non si ipotizzano altre soluzioni – realizzare efficienti processi di trasferimento di cibo dai paesi ric-chi (ove la produzione è in eccedenza) ai paesi in via di sviluppo.
“Non si getta via la minestra, perché la gente muore di fame”. Questo ammonimen-to impartito dai genitori ai figli della mia generazione (mi riferisco agli anni Cin-quanta del secolo scorso), dovrebbe quindi essere destinato a divenire di pressan-te attualità nel futuro.
Ma è difficile trasferire la minestra avanzata nelle case dei paesi ricchi verso le capanne dei paesi poveri. Pertanto è proprio sulla realizzabilità del trasferimento che si concentrano le maggiori preoccupazioni.
Non è infatti assolutamente chiaro come questo trasferimento potrà essere realiz-zato e garantito, sotto vari punti di vista: dal punto di vista commerciale e della global governance, posto che attualmente il commercio mondiale dei prodotti ali-mentari è stato solo sfiorato dal vento di libertà e di libera concorrenza portato dalla globalizzazione (non casualmente, potendo essere la libera concorrenza in questo settore devastante per le economie dei paesi ricchi); dal punto di vista or-ganizzativo-logistico; infine, dal punto di vista meramente economico, posto che certamente gli affamati dei paesi in via di sviluppo non sono in grado di acquista-re sul mercato mondiale le derrate alimentari prodotte nei paesi ricchi.
In definitiva, le previsioni, seppur rassicuranti e addirittura ottimistiche per ciò che riguarda la produzione di cibo, non risolvono il problema essenziale, e cioè quello di far incontrare l’abbondante offerta con l’abbondante domanda; ma nes-suno indica la strada per risolvere questo problema. Molti però ritengono che non sia questo il problema.

8. La fame dipende davvero dalla mancanza di cibo?
L’idea che i problemi alimentari futuri debbano o possano risolversi trasferendo cibo dai paesi ove è sovrabbondante ai paesi ove manca è ritenuta da molti irrea-lizzabile e errata.
Costoro osservano che la vera causa della fame non è la mancanza di cibo: è la di-seguaglianza.
È questo per esempio il pensiero di Amartya Sen secondo il quale non vi è colle-gamento tra mancanza di cibo e fame: la storia insegna che la gente muore di fa-me in presenza di sovrapproduzione di cibo al quale però non ha accesso per mancanza di mezzi . La causa della fame non è quindi la mancanza di cibo, è la povertà. Il problema non sta dalla parte dell’offerta, sta dalla parte della doman-da .
Aumentare la produzione di cibo con le stesse modalità con le quali viene prodot-to oggi sarà inutile in futuro, come è inutile oggi: il cibo non viene trasferito da chi lo ha a chi non lo ha, perché il trasferimento costa troppo e perché chi non produce cibo non ha neppure i mezzi per comprarlo sul mercato mondiale.
La fame è determinata quindi, come sostengono gli ambientalisti di oggi, a diffe-renza degli ambientalisti di alcuni decenni orsono, non da condizioni naturali e dalla mancanza di cibo, ma dalla mancanza di mezzi per procurarsi il cibo . In questa prospettiva, ciò che risulta necessario per realizzare l’obiettivo di garantire cibo sufficiente per tutti è realizzare concretamente la possibilità di aumentare la produzione di cibo lì dove c’è il bisogno, senza ipotizzare inattuabili trasferimenti.
Questo significa che la fame nei paesi in via di sviluppo può e deve essere affron-tata nei prossimi decenni non solo aumentando la produzione agricola e non tan-to organizzando complessi meccanismi redistributivi, ma anche – e soprattutto – creando tutte le condizioni economiche, materiali, politiche, di educazione, di e-guaglianza e non discriminazione, di buon governo che permettono di incremen-tare il benessere della collettività e quindi di incrementare i mezzi economici ne-cessari per acquisire il cibo necessario sul mercato o per coltivarlo. La fame si combatte con la giustizia sociale.
In proposito, osserva Norman Borlaug, premio Nobel e uno dei padri della Rivolu-zione Verde, che i raccolti possono essere aumentati del 50% o addirittura del 100% in India, America latina e nelle aree della ex Unione Sovietica, e fino al 200% nell’Africa Subsahariana, a condizione che sia mantenuta la stabilità politi-ca e sia favorita l’iniziativa privata nel settore agricolo .

9. Politiche agricole per i paesi in via di sviluppo: l’utilità dei PAGM.
Eppure, anche questa conclusione non lascia soddisfatti.
L’aspetto che lascia perplessi è proprio quello sul quale, in definitiva, dovrebbe ruotare l’intero meccanismo cui è rimesso il nutrimento futuro della popolazione sottonutrita a livello mondiale.
Se le previsioni sull’aumento della produzione di cibo tramite aumento della pro-duttività utilizzando le tecnologie proprie della Rivoluzione verde non offrono una rassicurante soluzione al problema del necessario trasferimento di cibo dai paesi ricchi ai paesi poveri, la soluzione basata sull’aumento di giustizia sociale in que-sti ultimi nei prossimi tre\quattro decenni sembra altrettanto irrealizzabile, quan-tomeno per la maggior parte dei paesi interessati, tenuto conto della situazione attuale caratterizzata da pesanti disuguaglianze, guerre civili, corruzione, ineffi-cienza amministrativa e sprechi.
In proposito, è stato osservato che è certamente vero che centinaia di milioni di persone sono affamate non perché non ci sia il cibo, ma perché sono povere e non hanno i mezzi per acquistarlo o per coltivarlo; ma il problema per la grande mas-sa degli affamati non è ottenere mezzi economici per l’acquisto di cibo, ma avere la possibilità di coltivare i prodotti agricoli necessari per la loro sussistenza .
Pertanto, se è vero che chi ha fame non ha cibo perché è povero, è altrettanto vero che è povero perché non ha cibo, perché i raccolti sono insufficienti, la resa delle varie specie agricole disponibili è assai bassa, il terreno è arido, l’acqua per irriga-re manca, e così via. È questo lo scenario che caratterizza una grande numero di paesi in via di sviluppo, dall’Africa all’Asia, ove oggi quasi un miliardo di persone muore di fame perché vive al di fuori del mercato: non solo del mercato globale, ma anche dei mercati locali. E non è assolutamente credibile ipotizzare una radi-cale trasformazione di questo scenario con l’improbabile rapida adozione di politi-che di giustizia sociale.
Ecco che allora si profila l’utilità dei PAGM per uno specifico settore di mercato, quello dell’agricoltura dei paesi in via di sviluppo.
Non come alternativa all’incremento di produttività da realizzarsi con le tecnologie offerte dalla Rivoluzione verde, né come alternativa all’adozione nei paesi in via di sviuppo di politiche sociali e agricole che a loro volta incrementino le possibilità di accesso al cibo per coloro che oggi sono esclusi, ma come strumento specifico di intervento finalizzato a soddisfare la domanda di sopravvivenza – che vuol dire essenzialmente domanda di modeste quantità di cibo e di basilare assistenza sa-nitaria – di chi sta nei paesi in via di sviluppo, e non ha accesso né al mercato, né alla giustizia sociale; il che significa alcune centinaia di milioni di persone per le quali la sopravvivenza è legata soltanto alla possibilità di coltivare i prodotti di cui hanno bisogno.
In queste economie quindi la tecnologia genetica può esplicare tutte le sue poten-zialità, creando PAGM resistenti ai parassiti, alla mancanza di acqua, e in genera-le alle difficili condizioni ambientali.
Per esempio, tutti i prodotti agricoli nei quail si è riuscito ad inserire il Bacillus Thuringiensis, che produce una tossina fortemente insetticida hanno rivelato, proprio per questa accentuata resistenza ai parassiti, un consistente aumento della produttività .
Inoltre, sono state realizzate specie di riso e di granturco transgenico che sono in grado di tollerare suoli con alta concentrazione di alluminio, un problema comu-ne dei suoi con elevato tasso di acidità, assai diffusi nei paesi tropicali, e sinora poco produttivi (ma anloghi prodotti sono in corso di elaborazione per ridurre, mediante la coltivazione, la concentrazione di mercurio nel terreno. Altri scienziati all’università di Delhi hanno allo studio un riso che, a seguito dell’aggiunta di due geni, è in grado di sopravvivere in situazioni – frequenti in molti paesi asiatici – di prolungata immersione nell’acqua. Un altro gruppo di ricercatori ha ottenuto un riso transgenico in grado di produrre betacarotene, che nel processo digestivo può essere convertito in Vitamina A (di cui sono carenti in Asia 180 milioni di bambi-ni, con due milioni di morti per cause connesse alla deficienza di questa vitami-na). È anche in corso di progettazione un riso con un contenuto di ferro triplo ri-spetto a quello naturale, utile per evitare anemie che dipendono dall’assenza di questo minerale. In Kenya è stata realizzata una patata dolce transgenica che è resistente ad un distruttivo virus . Si sta rivelando di enorme importanza inoltre la possibilità di utilizzare i PAGM a fini di assistenza sanitara: sono assai avanzati gli studi per l’inserimento di vaccini all’interno di prodotti commestibili, come le banana, ottenendo con ciò il risultato di immunizzare con il cibo i bambini dei paesi in via di sviluppo ai quali la somministrazione di vaccini è preclusa da diffi-coltà organizzative, logistiche o finanziarie .
L’elenco potrebbe continuare.
Ma già questi esempi impongono di rifletter sul fatto che, se il reale problema è quello di creare fonti di nutrimento lì dove ci sono le persone che ne hanno biso-gno, l’uso dei PAGM può costituire la soluzione più ragionevolmente realizzabile nel periodo di tre\quattro decenni in considerazione, senza affidarsi a irrealizzabi-li trasferimenti di cibo su scala globale, e neppure all’adozione di improbabili ri-forme istituzionali nei paesi in via di sviluppo, ma soltanto nella disponibilità del-le sementi necessarie: cioè di beni il cui costo è irrisorio ed alla portata di tutti.

10. Lo scontro sui PAGM: gli attori.
Se si tiene conto di questi dati, la moltitudine di attori che popola il confuso sce-nario dello scontro sui prodotti geneticamente ricombinati comincia a sgranarsi nelle sue componenti, e le singole posizioni cominciano ad assumere una forma e un significato.
Partiamo dagli oppositori dei PAGM.
Ci sono prima di tutto i gruppi ambientalisti e l’opinione pubblica che a loro fa ri-ferimento.
I gruppi ambientalisti tengono essenzialmente conto della situazione di benessere economico e ambientale dei paesi ricchi, cioè dei paesi in cui si trovano i loro ade-renti, i loro finanziatori, e l’opinione pubblica che li sostiene, dove si trovano i consumatori e le loro associazioni.
Per tutti costoro, il rifiuto dei PAGM non comporta alcuna conseguenza negativa sul tenore di vita e sul benessere alimentare: essi offrono infatti la possibilità di una superflua aggiunta di cibo in una situazione in cui i problemi sono l’obesità e l’eccesso di cibo e non la fame . L’introduzione dell’uso dei PAGM, per converso, non porta alcun beneficio: non aggiunge nulla a ciò che già c’è, sicché ogni rischio per quanto minimo e trascurabile, risulta ingiustificato.
Come ha detto Jacques Diouf, Direttore generale della FAO nel suo discorso i-naugurale dell’Assemblea generale svoltosi a Roma nel giugno del 2002, “Non è un loro problema”.
I gruppi ambientalisti soprattutto in Europa sono tutt’altro che soli.
Hanno il sostegno – assai importante da un punto di vista ideologico-culturale – di movimenti fondamentalisti (di derivazione religiosa o puramente conservazioni-sta), per i quali la lotta ai PAGM costituisce un ottimo strumento per impostare battaglie a difesa della vita, della creazione o della natura (con tutti i limiti e le contraddizioni che abbiamo indicato nei precedenti capitoli); hanno inoltre il so-stegno del frastagliato movimento antiglobalizzazione, per il quali la lotta ai PAGM assume il significato di lotta contro l’estendersi a livello mondiale del potere eco-nomico e tecnologico delle multinazionali americane.
Ma soprattutto c’è, come potente alleato nell’arena dei rapporti di forza economi-co-politici dei paesi ricchi europei, la filiera agroalimentare tradizionale: i conta-dini, gli agricoltori, gli allevatori e le organizzazioni politico-sindacali che li rap-presentano, i vari settori produttivi della coltivazione dei prodotti agricoli (e quindi i produttori di erbicidi, pesticidi e sostanze chimiche necessarie per l’attuale mo-do di produzione) e delle trasformazione dei prodotti agricoli in prodotti di merca-to, e poi, via via, i settori dell’Amministrazione pubblica e del potere legislativo che rappresenta i diversificati, consistenti interessi che su tale filiera convergono.
Per tutti costoro, l’utilizzazione e la diffusione dei PAGM presentano il rischio di seri danni: rischiano infatti di compromettere il virtuosistico gioco di prestigio i-stituzionale-giuridico-economico su cui si regge il sistema agroalimentare dei pa-esi ricchi, rivolto a mantenere, nell’ampia marea della globalizzazione, un precario equilibrio protezionistico tra eccesso di produzione e garanzia di profitti.
Se passiamo dall’altra parte dello schieramento, tra i sostenitori dei PAGM e tra coloro possono trarre benefici, emergono dalla indistinta moltitudine attori che ri-vestono questo ruolo solo da poco tempo e cioè da quando il dibattito si è focaliz-zato sul tema agricolo e alimentare, e che paiono essere i veri destinatari dei PAGM: tutte le diecine e diecine di milioni di persone che popolano i paesi in via di sviluppo, che non hanno mezzi per accedere al mercato dei prodotti alimentari finiti, che non partecipano a formare la pubblica opinione e non partecipano quindi al dibattito mondiale, che devono fare i conti non solo con un ambiente o un terreno ostili per trarre l’essenziale per la sussistenza, ma, assai spesso, an-che con l’indifferenza dei governi dei loro paesi.
Per costoro, l’utilizzabilità di PAGM adatti alle loro necessità e ai loro bisogni si-gnifica la chance di oltrepassare la linea rossa della sottonutrizione: significa un aumento di possibilità di sopravvivenza, a partire dalla disponibilità di poche se-menti .
Ci sono poi le potenti – e famigerate – multinazionali dell’agroalimentare, cioè le organizzazioni che sui PAGM hanno investito ingentissime risorse e hanno pro-gettato enormi profitti.
Ma proprio queste – accusate di voler sottoporre al proprio controllo e alle proprie finalità commerciali la futura produzione agricola mondiale – si trovano ora di fronte a una inaspettata e paradossale situazione.
Ed infatti i PAGM, prodotto di anni di ricerca scientifica e di sofisticata tecnologia dei paesi ricchi, oggetto di enormi investimenti finanziari e di altrettanto enormi aspirazioni di guadagni, rischiano di rivelarsi, salvo che per alcune produzioni di nicchia, dei beni inutili e forse anche dannosi proprio per i paesi ricchi ove pos-sono soltanto aggravare il problema della sovrapproduzione agricola e quindi al-terare il precario equilibrio di sovvenzioni, protezionismo e contenimento della produzione che lì tutela gli agricoltori e, indirettamente, l’intero mercato agroali-mentare. Nello stesso tempo, i PAGM si profilano dei beni preziosi e indispensabili per i paesi in via di sviluppo, e per i più poveri tra questi: quindi per un mercato che certamente non è in grado di soddisfare con i propri mezzi le aspirazioni di profitto e di ripagare gli investimenti dei produttori dei PAGM.
Così, i principali sostenitori dell’uso dei PAGM, le multinazionali della biotecnolo-gia, vedono profilarsi defatiganti e costose opposizioni da parte dei consumatori ai quali i loro prodotti sono diretti, perché possono pagarli, e nel contempo la do-manda e il bisogno di quegli stessi prodotti da parte di una massa di possibili consumatori non in grado di far fronte ai costi.
Gli attori però non finiscono qui.
Tra gli schieramenti si collocano, esitanti, i governi dei paesi ricchi – soprattutto in Europa -, stretti da un lato dalla pressione della domanda dell’opinione pub-blica e dalla struttura agroalimentare tradizionale, contraria all’uso dei PAGM, d’altro lato da necessità – non tanto e non solo do carattere altruistico, ma di ga-rantire margini di complessiva stabilità economica e politica nei prossimi decenni in un mondo la cui popolazione sarà sempre più squilibrata – di soddisfare le ne-cessità alimentari del prossimo futuro dei paesi in via di sviluppo. Tutti questi go-verni si trovano nella peggiore delle posizioni, si trovano cioè di fronte alla scelta tra assumere decisioni gradite alla generazione presente, da cui dipende la loro elezione e il loro sostegno, ma tali da compromettere l’equilibrio alimentare e quindi politico fra pochi decenni, oppure decisioni sgradite agli elettori presenti ma necessarie per le generazioni future non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche dei paesi ricchi.
Ci sono anche i governi dei paesi in via di sviluppo, che si trovano assai spesso in una situazione non migliore: dovrebbero decisamente optare per l’adozione di nuove tecnologie agricole, ma questo significherebbe indirizzare investimenti per avviare la costruzione di situazioni di maggior benessere per gli strati più poveri della popolazione e così alterare alle radici la struttura sociale, il tessuto di tradi-zioni e di consuetudini dei paesi che governano, i meccanismi internazionali di aiuti e sovvenzioni, e in generale minare alle basi i presupposti sui quali si basa il loro potere.

11. Conclusioni.
Così la realtà dell’economia agricola mondiale e l’analisi dei bisogni e dell’offerta nel futuro focalizzano in posizioni più precise la moltitudine degli attori sulla sce-na dello scontro sui PAGM e delineano uno scenario per molti versi inaspettato; si scompaginano così certezze acquisite e vengono allo scoperto pregiudizi e ideolo-gie sulla base delle quali esse sono state costruite.
Molti sostenitori dei PAGM, bollati come ingenui amanti del progresso, oggettiva-mente (se non volontariamente) al servizio degli interessi economici e dell’ansia di profitto delle multinazionali della genetica, risultano schierati a difesa della ne-cessità di garantire la sopravvivenza alimentare nei paesi in via di sviluppo.
Viceversa, ambientalisti e altri oppositori dei PAGM, sostenuti dai movimenti di sinistra e genericamente antiglobalizzazione, si trovano ad essere schierati con i settori più conservatori delle società ricche, difensori degli interessi della filiera agro-chimica-alimentare tradizionale, egoisti difensori del benessere acquisito e indifferenti alle esigenze di chi, nei paesi in via di sviluppo, muore di fame.
Restano, ancora, difficili problemi da risolvere: non quelli della produzione di ci-bo, né quelli del suo trasferimento, né quelli di una trasformazione in senso de-mocratico dei paesi in via di sviluppo, ma quelli connessi con la soluzione di un problema che sempre più si porrà sul tappeto delle relazioni internazionali, e cioè come sarà possibile l’incontro dell’offerta di PAGM da parte delle multinazionali che sui PAGM detengono la proprietà intellettuale, alla ovvia ricerca di profitti e di compensi per gli investimenti realizzati, con la domanda dei paesi in via di svi-luppo che, come si è detto, sicuramente non saranno in grado di soddisfarne le richieste economiche.
Ed ecco così che, alla fine di questo scritto, scopriamo che il problema davvero centrale dell’utilizzazione dei PAGM diventa non quello etico dal quale lo scontro sui PAGM ha preso le mosse, né quello di economia distributiva, né quello della politica agricola, e neppure quello di politica internazionale, ma la questione della global governance e degli equilibri di diritti e di accesso alle risorse nel mondo globalizzato.

[1] United States Department of Agriculture Economic Research Service (ERS), Biotech corn and soybeans: Changing markets and the government’s role, 2000, Washington, DC. [torna su]

[2] Richard Lewontin, Genes in the Food!, in NYRB June 21, 2001 [torna su]

[3] Nel dicembre del 1996 la Commissione dell’UE, dopo aver ottenuto il parere favorevole di tre or-ganismi consultivi, ha autorizzato la commercializzazione del granturco geneticamente modificato (con un brevetto Novartis) con un gene che rendeva il prodotto resistente non solo contro un erbi-cida e un parassita, ma anche contro un antibiotico (l’ampicillina). Da allora, il granturno modifi-cato è coltivato in Spagna, in Francia e in Portogallo. Subito dopo, Austria e Lussemburgo hanno vietato l’uso del granturco modificato sul loro territorio. La Commissione ha ritenuto illegittima la decisione dei due paesi membri, ma nessuna iniziativa è stata adottata da parte dell’UE per otte-nere l’eliminazione dei divieti, che sono quindi tuttora in vigore. Nel frattempo, a seguito di un giudizio promosso in Francia da Greenpeace e da Friends of the Earth, il Conseil d’Etat nel settem-bre del 1998 ha sospeso la commercializzazione del granturco modificato, rimettendo la questione della corretta applicazione dell’art.16 della Direttiva 90\220\EC sui prodotti geneticamente modi-ficati alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Nel febbraio 2000 anche la Germania ha sospeso la commercializzazione del granturco modificato, a seguito della diffusione di dati – duramente contestati nella comunità scientifica – che indicavano che il granturco modificato da Novartis ri-sultava tossico anche per una farfalla (Monarca) ed inoltre che le componenti tossiche del gran-turco permanevano per varie settimane nel suolo, danneggiando la riproduzione di vari tipi di in-setti (sul punto, si veda MELDOLESI, …). Nel febbraio 2001 l’UE ha adottato una nuova direttiva (sostitutiva della direttiva 90\220\EC) qualificata come la normative più restrittiva del mondo in materia di GMO. L’annunciata intenzione della Commissione di revocare la moratoria è duramen-te contestata da vari Stati membri, tra cui l’Italia e la Francia. Sull’atteggiamento europeo si veda G. Gaskell, Agricultural biotechnology and public attitudes in the European Union in AgBioForum, 2000 3(2&3), 87-96, consultabile in www.agbioforum.org/vol3no23/ vol3no23ar4gaskell.htm [torna su]

[4] Il Saggio sulla popolazione di Thomas Malthus, la cui prima edizione è del 1798, divenuta imme-diatamente un best-seller, è centrato, come è noto, sull’idea della limitatezza delle risorse naturali e del necessario sopravanzare della popolazione sulla disponibilità di mezzi di sussistenza, con ca-tastrofiche conseguenze (morti, carestie, guerre). Queste previsioni sono state poi attenuate nella seconda edizione del 1803 (e ridotte a vincoli legali e istituzionali). A questa prima fase segue per Malthus un periodo più ottimista, rappresentato dai “Principles of Political Economy” del 1820 (qualificato assai sbrigativamente da Marx nella Storia delle teoria economiche “un vero modello di imbecillità mentale”). Su Malthus è illuminante il saggio di Piero Barucci che funge da introduzio-ne ai Principi, pubblicati in edizione italiana da ISEDI nel 1972. [torna su]

[5] Ballantine Book, 1968. [torna su]

[6] E’ sufficiente ricordare l’opera forse più celebre dopo quella di Malthus, e più nota di quella di Ehrlich, su questo tema: Donella H. Meadows e altri, The Limits to Growth: A Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind, 1972. [torna su]

[7] Si veda per esempio l’articolo di Gregory Conko – Fred Smith, Jr., Biotechnology and the Value of Ideas in Escaping the Malthusian Trap, in 2 AgBioForum n.2, 1999, pag.150,consultabile al sito www.agbioforum.org/ vol2no34/conko.pdf. [torna su]

UN DIBATTITO SUI PAGM

L’articolo originale “A chi servono i prodotti agricoli geneticamente modificati?” è consultabile nella sezione Diritto dell’Ambiente.

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Stefano Nespor nel suo articolo sostiene una tesi non nuova: che i “prodotti agricoli geneticamente modificati” (Pagm) sarebbero utili non tanto per i Paesi ricchi, quanto per i Paesi e per le popolazioni più povere, e che dunque i loro oppositori, in primis gli ambientalisti, sarebbero su questa materia schierati con gli interessi più forti e garantiti (quelli dei consumatori e degli agricoltori del Nord) e contro gli interessi di chi soffre la fame. Tesi, ripeto, tutt’altro che nuova, visto che da sempre i sostenitori dei Pagm vanno ripetendo che essi contribuirebbero a vincere la fame e la malnutrizione.
Le argomentazioni di Nespor, però, non mi convincono, perché danno per scontata una verità tutta da dimostrare, quella appunto sull’utilità dei Pgam. Pure mettendo da parte una questione niente affatto secondaria – se la fame si combatta aumentando la produttività delle sementi o invece migliorando le condizioni economico-sociali dei consumatori e degli agricoltori “poveri” -, resta una domanda ineludibile: cos’hanno portato finora i Pagm?
Il 90 per cento di tutti i Pagm attualmente impiegati in agricoltura è fatto di piante modificate per due soli caratteri: soia round-up ready, più resistente ai diserbanti (72 per cento), e mais Bt, più resistente agli insetti (28 per cento). Dunque, la gran parte dei Pagm ha come effetto di consentire un maggiore impiego di erbicidi, non a caso prodotti in larghissima misura da quelle stesse multinazionali che commerciano soia mais geneticamente modificati. Come dire: la coltivazione di Pagm non fa diminuire automaticamente l’utilizzo di pesticidi.
Un’altra “verità” ben lontana dall’essere provata è che l’utilizzo di Pagm faccia crescere la produttività; su questo aspetto, i dati disponibili che mettono a confronto costi e produttività di sementi modificate e tradizionali presentano una realtà contraddittoria: per la soia resistente agli erbicidi il costo dei semi è più alto di oltre il 10 per cento, il costo dei trattamenti è più basso del 30 per cento, la produttività va da -12 per cento a +4 per cento; per il mais resistente agli insetti il costo dei semi va da +3 per cento a + 35 per cento, il costo dei trattamenti è più alto del 6 per cento, la produttività oscilla tra +3 e +6 per cento. Quanto poi a prodotti più recenti come il “gloden rice” con vitamina A, è bene sottolineare che secondo molti autorevoli medici e nutrizionisti, perché l’organismo umano assimili la vitamina A “siontetica” ha bisogno di vitamina A naturale. Il che significa, brutalmente, che il “gloden rice” fa bene ai bambini che già hanno vitamina A, cioè ai bambini già ben nutriti.
Allora: dove sta questa indiscutibile utilità dei Pagm per gli agricoltori e per i consumatori dei paesi poveri?
Un altro punto importante, che Nespor sembra non vedere, riguarda la differenza tra le ibridazioni tradizionali e i Pagm. E’ verissimo che da secoli, non solo dal Novecento, quasi tutti i prodotti agricoli sono il risultato di ibridazioni, però con una diversità piuttosto cruciale rispetto ai Pagm: in laboratorio si ottengono varietà a cui con nessuna ibridazione naturale si potrebbe mai giungere, nel senso che si possono “incrociare” tra loro specie non interfeconde (caso limite: la fragola modificata con un gene di un pesce artico). Questa non piccola differenza rende necessario applicare con grande rigore ai Pagm il “principio di precauzione”, affidando la ricerca su eventuali danni sanitari o ambientali non prevalentemente alle aziende del biotech ma a istituzioni pubbliche o comunque indipendenti.
C’è poi un argomento che Nespor trascura, e che invece ha un’importanza centrale discutendo di Pagm: l’attuale legislazione brevettuale fa sì che le poche grandi aziende che controllano il mercato del biotech dispongano, verso gli agricoltori che fanno uso di Pagm, di un potere enorme. L’agricoltura biotech limita di moltissimo l’autonomia degli agricoltori, quasi li trasforma in “dipendenti” delle varie Monsanto, senza contare che è in aperto contrasto con molti trattati internazionali – a cominciare dalla Convenzione di Rio de Janeiro sulla biodiversità – che sanciscono il diritto di ogni paese alla proprietà dei rispettivi giacimenti di biodiversità.
Infine. Non capisco da dove deduca Nespor la convinzione che i popoli poveri vogliono i Pagm, e che vi sia un sostanziale conflitto d’interessi tra i consumatori e gli agricoltori delle due sponde socio-economiche del mondo. L’agricoltura biotech, almeno per come è oggi, favorisce le colture intensive e penalizza la diversità agroalimentare. E proprio la diversità è uno straordinario fattore competitivo tanto per le economie agricole dei Paesi poveri quanto per quelle, per esempio europeo.
Il mondo agricolo europeo non è un monolite, comprende interessi non sempre omologhi: fino ad ora, le politiche agricole del vecchio continente hanno scoraggiato, è vero, l’uso di Pagm, ma hanno assecondato un sistema di sovvenzioni e protezioni commerciali che alimenta pratiche sistematiche di dumping; grazie alle sovvenzioni, che assorbono circa il 90 per cento del bilancio agricolo dell’Unione europea, molti prodotti vengono esportati nel Sud del mondo a prezzi addirittura inferiori ai costi di produzione, danneggiando tanto i paesi poveri che quel segmento crescente di agricoltura europea che punta sulla qualità. Forse, caro Nespor, Vandana Shiva esprime talvolta posizioni estreme, ma la sua idea che l’agricoltura dei paesi poveri possa svilupparsi solo valorizzando le proprie differenze non è così peregrina.
Queste brevi considerazioni convergono in un ragionamento più generale: io come molti ambientalisti crediamo che la ricerca transgenica debba andare avanti, che da essa possano venire in futuro applicazione davvero utili per la collettività. Ma pensiamo anche che ad oggi i Pagm servano solo agli interessi di chi li formula e commercializza. Bisogna cambiare le regole, bisogna rendere effettivo il diritto di ogni consumatore a riconoscere i Pagm dai prodotti tradizionali e di ogni agricoltore a non vedere i propri campi contaminati dalle colture transgeniche. E questo è un obiettivo assolutamente trasversale al Nord e al Sud del mondo.
26 giugno 2003
Roberto Della Seta
Coordinatore Segreteria Nazionale Legambiente
[apparso su Scienza – Esperienza]

***

Le affermazioni contenute nella risposta di Della Seta al mio scritto non trovano – per quanto io abbia coscienziosamente indagato prima per scrivere l’articolo ed ora per rispondere – riscontro nella letteratura scientifica ed economica esistente in materia di PAGM.
Vediamole separatamente.

1. DS: “il 90 per cento di tutti i Pagm attualmente impiegati in agricoltura è fatto di piante modificate per due soli caratteri: soia round-up ready e mais BT”.
Non è chiaro se il dato riguardi l’estensione di aree utilizzata, o la quantità di prodotto. II dato è comunque di per sé poco significativo. Per esempio, l’area destinata alla coltivazione del riso negli Stati Uniti è assai ridotta rispetto a quella destinata a soia e mais, ma nello spazio di poco più di tre anni – tra il 1997 e il 2001 – ben il 77% di essa era stata convertita alla coltivazione di riso geneticamente modificato (si veda Mamane Annou, Michael Thomsen, Eric Wailes, Impacts Of Herbicide Resistant Rice Technology On Rice-Soybeans Rotation, in Agbioforum 4,2,2001).
In ogni caso, negli Stati Uniti nel 1998 – anno di maggiore estensione combinata delle coltivazione di soia RR e mais BT – le due colture indicate da DS arrivavano al 82% dei complessivi PAGM in uso (C.James, Global status of transgenic crops in 1998, ISAAA Briefs No. 8 Ithaca, NY). Oggi il dato è sensibilmente diverso perché l’impatto di PAGM nelle diverse colture sta rapidamente modificandosi, man mano che nuovi PAGM ottengono l’autorizzazione alla commercializzazione e all’immissione nell’ambiente.
In particolare, due colture di PAGM stanno espandendosi con grande rapidità: il riso e il cotone.
Per ciò che riguarda il riso, negli stati meridionali degli Stati Uniti (ove questa coltura è tradizionalmente praticata), sono stati piantati nel solo anno 2000 2,5 milioni di acri (circa 1.3 milioni di ettari) e sono stati prodotti 148 milioni di tonnellate di riso geneticamente modificato: già si è detto che si tratta del 77% dell’intera produzione di riso degli Stati Uniti (si veda lo scritto citato).
Il cotone geneticamente modificato (cotone RR) è passato in pochi anni a coprire dal 4% al 70% delle aree destinate a questa coltivazione (si vedano dati e statistiche comparative in Michele C. Marra, Philip G. Pardey, and Julian M. Alston, The Payoffs to Transgenic Field Crops: An Assessment of the Evidence, consultabile in www.agbioforum.org/v5n2/v5n2a02-marra.htm). Questa scelta è stata provocata dalla constatazione dei vantaggi competitivi offerti dal cotone RR rispetto non al cotone naturale – che non esiste più da centinaia di anni – ma alle varietà di cotone tradizionalmente utilizzate (si veda lo studio condotto nello stato della California di Marianne McGarry Wolf, John Gelke, Michelle Lindo, Philip Doub, and Brian Lohse, Production and Marketing Characteristics of Adopters and Nonadopters of Transgenic Cotton Varieties in California entrambi in Agbioforum 5,2,2002). Analogo successo ha ottenuto il cotone Bt in pochissimi anni in Sudafrica (si veda l’articolo di Yousouf Ismael – Richard Bennett – Stephen Morse, Benefits from Bt Cotton Use by Smallholder Farmers in South Africa, in Agbioforum 5,1,2002) e in Cina (si veda in proposito l’eccellente studio di C.E.Pray – J.Huang – F.Qiao, Impact of Bt cotton in China, in World Development, 2000, 29(5), 1-34). Ulteriori dati e statistiche sul cotone geneticamente modificato, sul suo uso a livello globale sono periodicamente pubblicati dall’associazione nazionale americana dei produttori di cotone, il National Cotton Council di Memphis (Tennessee).

2. DS: ”Dunque, la gran parte dei Pagm ha come effetto di consentire un maggiore impiego di erbicidi, non a caso prodotti in larghissima misura da quelle stesse multinazionali che commerciano soia mais geneticamente modificati. Come dire: la coltivazione di Pagm non fa diminuire automaticamente l’utilizzo di pesticidi”.
A sostegno della tesi che i PAGM hanno determinato un maggior impiego di pesticidi ho rinvenuto nella letteratura specializzata successiva al 1998 solo un articolo, che per di più adotta una formulazione dubitativa (si tratta di M.A.Altieri – P.Rosset, Ten Reasons Why Biotechnology Will Not Ensure Food Security, Protect The Environment, And Reduce Poverty In The Developing World in AGbioforum 2, 3\4,1999. I due autori affermano “ The integration of the seed and chemical industries appears destined <sottolineatura mia> to accelerate increases in per acre expenditures for seeds plus chemicals, delivering significantly lower returns to growers”; gli autori citano a sostegno di questa conclusione solo l’autore di un articolo non pubblicato, che non ho quindi potuto verificare).
Al contrario, tutte le ricerche sul campo compiute negli ultimi anni, e tutti i dati raccolti, offrono dati univoci e concordanti in senso opposto, e cioè che quasi tutti i PAGM permettono una consistente riduzione nell’uso di pesticidi.
Rinvio ancora al documentatissimo scritto di Marra e a tutti i dati e la letteratura ivi citata, gran parte della quale può essere consultata su Internet.
Assai documentato risulta anche uno studio – condotto con riferimento a soia RR e cotone Bt riportando dati separati per gli Stati Uniti e per il resto del mondo (J.Falck-Zepeda, – G.Traxler – R. Nelson, Surplus distribution from the introduction of a biotechnology innovation in American Journal of Agricultural Economics,n. 82, 2000, pagg., 360-369); esso evidenzia i consistenti benefici ottenuti dagli agricoltori americani nel 1996 e nel 1997 rispetto ai loro concorrenti nel resto del mondo proprio per effetto della riduzione dell’uso di pesticidi, e quindi della riduzione dei costi per l’acquisto degli stessi.
Altrettanto importante è uno studio del 1999, che partendo dai dati relativi alla diminuzione dell’impiego di pesticidi indotta dall’uso della soya RR, costruisce un modello agroeconomico mondiale per individuare gli effetti sulle varie economie e sulle varie agricolture di questo trend, con conclusioni non propriamente tranquillizzanti (G.Moschini – H.Lapan – A.Sobolevsky, Trading technology as well as final products: Roundup Ready soybeans and welfare effects in the soybean complex, in The Shape of the Coming Agricultural Biotechnology Transformation: Strategic Investment and Policy Approaches from an Economic Perspective. Proceedings of the Third Conference of the International Consortium on Agricultural Biotechnology Research, Rome, Italy, 1999).

3. DS: “Un’altra “verità” ben lontana dall’essere provata è che l’utilizzo di Pagm faccia crescere la produttività; su questo aspetto, i dati disponibili che mettono a confronto costi e produttività di sementi modificate e tradizionali presentano una realtà contraddittoria”.
Anche questa affermazione, forse giustificata fino al 1997 e quindi nei primi anni di introduzione a regime dei PAGM, per la insufficienza dei dati a disposizione e per l’incompleta elaborazione di modelli di riferimento e di analisi (che tengano conto, per esempio degli effetti meteorologici, delle ondate imprevedibili di parassiti, e così via), è ora priva di qualsiasi fondamento.
La ricerca più imponente e significativa al riguardo – condotta su 10 diversi PAGM – è stata curata dal National Center for Food and Agricultural Policy americano, ed è stata oggetto di un Rapporto pubblicato nel giugno 2002 (Leonard P. Gianessi – Cressida S. Silvers – Sujatha Sankula – Janet E. Carpenter, Plant Biotechnology: Current and Potential Impact For Improving Pest Management In U.S. Agriculture: An Analysis of 40 Case Studies. Tutto lo studio, e il sommario – denominato executive summary sono consultabili in www.ncfap.org/40CaseStudies/NCFAB%20Exec%20Sum.pdf).
Le conclusioni del Rapporto non lasciano dubbi: l’adozione dei PAGM negli Stati Uniti ha portato aumento di produttività, maggiori profitti per gli agricoltori, oltre che, come detto, una consistente riduzione dell’uso di pesticidi.
In particolare, nel 2001 le coltivazioni di otto PAGM (mais, cotone, canola, grano, soyabean, riso papaia e squash) hanno determinato una maggior produzione di 4 miliardi di pounds (mantengo questa unità di misura non mi è chiaro a quale tipo di pound lo scritto si riferisca), ridotto i costi di produzione di 1,2 miliardi di dollari e ridotto l’uso di pesticidi per un valore di 46 miliardi di pounds.
Il maggior guadagno in termini di produttività si è ottenuto proprio con il mais geneticamente ricombinato: ben 3,5 miliardi di pounds, seguito dal cotone Bt (185 milioni di pounds).
Il maggior risparmio in termini monetari è stato realizzato proprio con la soya RR (circa 1 miliardo di dollari); seguono il cotone (133 milioni di dollari) e il mais (58 milioni di dollari)
Sempre l’uso della soia modificata ha permesso la più consistente riduzione nell’uso di pesticidi: 6,2 milioni di pounds (per ulteriori dati concernenti la soia si veda in particolare lo scritto di L.Gianessi – J.Carpenter, Agricultural biotechnology: Benefits of transgenic soybeans, Washington, DC: National Center for Food and Agricultural Policy, 2000 consultabile in www.ncfap.org.
In conclusione, le affermazioni di DS sono infondate e senza riscontro. Ma soprattutto sono tesi che vanno contro il senso comune.
Infatti, perchè mai si sarebbero verificate crescite così imponenti e impetuose nell’uso dei PAGM se l’effetto è quello di spendere di più, inquinare di più e guadagnare di meno? Perché mai gli agricoltori americani e quelli degli altri paesi del mondo sono così irrestibilmente trascinati all’uso di PAGM? È credibile che siano tutti “dipendenti delle varie Monsanto” e marionette nelle loro mani?

4. “Un altro punto importante, che Nespor sembra non vedere, riguarda la differenza tra le ibridazioni tradizionali e i Pagm. E’ verissimo che da secoli, non solo dal Novecento, quasi tutti i prodotti agricoli sono il risultato di ibridazioni, però con una diversità piuttosto cruciale rispetto ai Pagm: in laboratorio si ottengono varietà a cui con nessuna ibridazione naturale si potrebbe mai giungere, nel senso che si possono “incrociare” tra loro specie non interfeconde”.
Su questo punto mi limito, per brevità, a riportare quello che ho scritto: “Vi è però una differenza tra varietà vegetali ottenute con incroci tradizionali e PAGM. Le pratiche tradizionali sono vincolate al rispetto dei limiti naturali sulla compatibilità delle specie…. Al contrario, le tecnologie che utilizzano il DNA ricombinante possono essere utilizzate per ottenere modificazioni genetiche che non sarebbe possibile ottenere avvalendosi di pratiche tradizionali, inserendo in specie o varietà vegetali geni estratti da batteri o altri organismi animali, e realizzare così organismi transgenici”.
Proprio per questo, la normativa internazionale, europea e statale prevede severi controlli e rigorosi test prima di permettere l’immissione dell’ambiente dei PAGM.
*
Passiamo ora dalle questioni di fatto alle critiche sul contenuto valutativo del mio articolo. DS dichiara di non capire da dove io deduca “la convinzione che i popoli poveri vogliono i Pagm”.
Ma io non ho parlato delle convinzioni dei popoli poveri.
Ho semplicemente detto che l’attuale situazione di disequilibrio alimentare tra paesi ricchi – dove il problema è la sovrapproduzione di cibo e l’obesità – e paesi poveri – dove milioni di persone vivono in condizione di sottonutrizione – è destinata ad aggravarsi nei prossimi decenni con enormi e imprevedibili ripercussioni sull’assetto politico e socioeconomico mondiale e sull’ambiente globale.
Questo disequilibrio alimentare è difficilmente eliminabile spostando il cibo da dove c’è a dove non c’è, sia perché i costi sono enormi, sia perché, quando ciò si fa, la maggior parte del cibo inviato non arriva a chi ne ha bisogno, ma ai vari livelli di accaparratori internazionali e locali.
Sarebbe eliminabile creando le premesse per lo sviluppo di quei paesi, e cioè avviandoli verso la democrazia, la pace, sistemi di governo non corrotti, prevedibilità e sicurezza per gli investimenti.
Ma non credo che DS ritenga che ciò avverrà nel giro dei prossimi dieci o venti anni: anzi, l’Africa, dopo una fase promettente, sembra ripiombata nel consueto disastro provocato da governi dittatoriali e corrotti, sostenuti dalle multinazionali delle materie prime, dal petrolio ai diamanti (si vedano i casi di Costa d’Avorio e Zimbabwe, che si aggiungono a quelli consueti di Congo, Liberia, e così via).
Il trasferimento non di cibo o di istituzioni, ma di semi adatti per i terreni e il clima dei paesi poveri può essere una soluzione che consente a migliaia e migliaia di contadini che oggi vivono – e spesso muoiono – tra gli stenti imposti da una agricoltura tradizionale.
Per quanto riguarda Vandana Shiva e l’agricoltura tradizionale: vai, caro DS, a fare un giro in Niger o in Burkina Faso, o in Ciad o nel Benin, in zone desertiche dove la gente fa da sempre sforzi sovrumani per far crescere quattro verdure, o magari nel Bangla Desh dove la gente fa sforzi altrettanto sovrumani per produrre cibo tra paludi e alluvioni, e vedi se e quanto è peregrina l’idea che “l’agricoltura dei paesi poveri possa svilupparsi solo valorizzando le proprie differenze”.
La verità è che in tutti questi paesi già si pratica l’agricoltura strettamente tradizionale e ben poche sono le speranze di incrementare la produttività perché fertilizzanti, pesticidi e nitrogeni costano molto di più di semi organicamente modificati, e nessuno se li può permettere.
Così i suoli non fertilizzati vengono abbandonati all’erosione, alla ricerca di nuove aree da consumare velocemente e da buttare: questo è il prototipo non del rispetto dell’ambiente, ma dell’agricoltura ambientalmente insostenibile (si vedano in questo senso le osservazioni e le previsioni di uno dei più grandi studiosi dell’agricoltura moderna, T.Dyson, World food trends and prospects to 2025. Proceedings Naional Academy of Sciences, 96, 1999, pagg. 5929-5936).
Certo, l’obiettivo non è facile.
In parte, ma solo in parte, perché c’è un sistema di proprietà intellettuale esteso ai PAGM che impedisce la libera diffusione di queste colture. Ed è questo uno dei punti sui quali a livello internazionale andrebbe aperto il confronto.
Ma – volendo tralasciare ora il discorso sulle possibile modifiche di questo sistema – scopriamo che la produzione di PAGM non è affatto una tecnologia complessa che solo pochi paesi ricchi sono in grado di realizzare: è invece una tecnologia relativamente semplice che è nell’ambito delle capacità tecnologiche di molti paesi poveri, tra cui Cina, India, Brasile, Corea del Sud, Indonesia, Filippine (dove da anni opera con successo l’International Rice Research Institute – IRRI) e, in Africa, Egitto e Nigeria (dove con aiuti internazionali è da qualche anno in attività l’International Institute For Tropical Agriculture – IITA) (su tutte queste esperienze si veda Maarten J. Chrispeels Biotechnology and the Poor, in Plant Physiology, 2000, 124, pp. 3-6 consultabile in www.plantphysiol.org/cgi/content/full/124/1/3?view= full&pmid=10982415).
Un’ultima, più generale considerazione.
I paesi europei, ricchi, grassi e egoisti, avendo molto più cibo di quanto possono usare, non hanno alcun bisogno di innovazioni nell’agricoltura, né di PAGM che rischiano solo di compromettere una stabilità agricola raggiunta a forza di misure protezionistiche (in barba alla tanto conclamata globalizzazione, attuata solo dove serve ai paesi ricchi) e di sovvenzioni di ogni tipo (che consumano ogni anno la metà delle disponibilità finanziarie dell’Unione europea).
Dall’altra parte, c’è un mondo che cerca i mezzi e gli strumenti tecnologici e finanziari per affrontare i problemi posti da oltre 600 milioni di affamati (stime ONU), e sono problemi che provocano, e provocheranno ancor più, deterioramento e disastri ambientali di vasta portata: non dimentichiamo che fin dagli anni Ottanta il Rapporto Brundtland ha segnalato che “se l’ambiente distrutto provoca povertà, la povertà provoca distruzione dell’ambiente”.
I movimenti ambientalisti diffondono la preoccupazione per futuri, improbabilissimi pericoli che i PAGM potrebbero provocare alla salute e all’ambiente (dimenticando che da anni i PAGM sono coltivati in miloni di ettari di terreno “contaminato” e distribuiti ai consumatori senza che alcuna conseguenza certa si sia verificata alla salute o all’ambiente) e non dicono una sola parola in merito ad un governo dell’agricoltura che protegge i grassi paesi europei e produce fame e distruzione dell’ambiente nei paesi poveri.
Come ha detto il segretario generale della Fao Diouf aprendo l’ultima assemblea generale svoltasi a Roma, parlando dei movimenti antiglobalizzazione e antibiotecnologie: “Non è un loro problema”.

Stefano Nespor

E TORINO INFINE INIZIÒ A RESPIRARE

“Che cosa poi sia questo benedetto ‘modello Fiat’ – a parte l’attitudine all’obbedienza, l’inquadramento disciplinare, il conformismo, il fantozzismo congenito, lo spirito sabaudo-militaresco, l’inchino ai superiori, l’odio per i superiori sublimato in eroica rassegnazione, l’inclinazione vagamente servile, lo spirito monoculturale (come quello dei cubani vessati dalla canna da zucchero), l’allineamento esistenziale, il grigiore dimesso, il lamento sommesso, l’imprecazione soffocata, l’umorismo da utilitaria, il sesso in utilitaria, la mistica da utilitaria – a parte questo sia pur provvisorio elenco di irrilevanti quisquilie che certo non intaccano l’amore che tutti noi (isole comprese) portiamo alla gloriosa città di Torino, che cosa sia in positivo, questo ‘modello Fiat’, pochi riescono a capirlo”. (immigrato pugliese a Torino ormai residente in collina)

In tutto questo c’è da dire che la città, Torino appunto, prepara il suo “piazzale Loreto”.

Il suo principe è nel silenzio, i fedelissimi si squagliano, calano sipari dappertutto, ci si guarda intorno e gli esperti “dell’avevamo detto” proliferano.

Capitiamo “in una giornata pesante”, così ci fanno notare gli uomini Fiat di via Nizza se perfino sul Corriere della Sera Alessandro Penati elenca in un lungo articolo i motivi di “una crisi annunciata” recuperando per metà pezzo tutte le volte in cui era stato detto: “Tutto si può dire della crisi Fiat, ma non che fosse imprevedibile”.

Evidentemente l’aveva scritto che c’erano dei rumori strani nella Stilo, sfiati nella Panda, tosse al trattore, tutto è stato scritto, ma in tutto questo c’è da dire che i passanti senza capacità d’analisi approfondite esultano all’idea di vedere finalmente scavare la metropolitana (quella metropolitana mai voluta dal Principe).

Tutti stanno col naso all’insù e non è neppure vero che la “Pinacoteca Marella e Gianni Agnelli” sia stata una donazione fatta alla folla, certamente è stato un gesto di mecenatismo rinascimentale certificato naturalmente dall’arrivo del presidente della Repubblica (dalla mobilitazione di tutti gli organi di stampa e diffusione), ma fatti salvi i dovuti accorgimenti notarili, i quadri spettacolari, le meravigliose tele, le sublimi croste, sono e restano gioielli di famiglia.

In ambienti pratici della materia ci hanno spiegato che sono stati dati in “comodato”, non dunque regalati, e possono tornare utili perfino nell’eventualità di un’accensione di mutuo per dire.

E nessuno qui scherza con la mobilia, naso all’insù e mani in tasca, è difficile trovare qualcuno disposto ad abbandonarsi a elaborazioni sociologiche, ma ad ogni modo non è vero neanche che lo “scrigno” collocato sul Lingotto da Renzo Piano per contenerci i Picasso e i Balla sia uno scrigno, è solo uno scatolone in superfetazione.

L’ingegnere G. M. che ci accompagna dà di spalla e dice: “Le sembra questo gran capolavoro?”.

Chissà se è un capolavoro il tanicone con i quadri dentro, e chissà se per il fatidico “Comune” è stato un affare prendersi in carico il mammozzone del Lingotto con tutti i suoi incredibili costi di ristrutturazione, ma questa poi, è solo una città dove capita ancora di vedere una Marea ferma al semaforo, non certo una Toyota, e in tutto questo c’è da dire che tira aria di smobilitazione.

Le commesse destinate ai negozi che sfilano nel quartierone obbligato del primo piano del Lingotto se ne stanno braccia conserte aspettando e aspettando.

Ma magari ci fossero dei viaggiatori di commercio alloggiati al Méridiene con cui fare filarini, ci sono solo umani in attesa di eventi mediatici.

Adesso è la volta del gusto e in tutto questo c’è da dire che viene bene quell’immagine che spiega Torino con la fenomenologia dell’avanspettacolo: finita la stagione del Salone dell’auto è cominciata quella del Salone del gusto.

Dalla classe dirigente dell’industria pesante, si è arrivati perciò alla classe digerente dell’industria ruminante.

Più o meno, oltre a tutti i guai noti e ampiamente commentati, è successo anche che si è passati da Vittorio Valletta a Gianfranco Vissani.

Fiore all’occhiello del capitalismo italiano, Torino è la città dove però il capitalismo s’è sottratto alle sue responsabilità.

Quelle dell’emancipazione innanzitutto, ovvero la riscossa del suo arbeiter, la libertà del suo popolo per dirla in quei termini carnali che inevitabilmente sono termini spirituali: “Hanno succhiato la fede dal cuore del popolo”.

Così ci spiega un sacerdote che in Fiat ha avuto il padre, un operaio (era il tempo in cui la Fiat organizzava i pellegrinaggi a Lourdes, mai più fatti dopo), e oggi ha un fratello che ci fa affari con quell’azienda di città da piccolo imprenditore dell’indotto.

Parroco in una chiesa che raccoglie tanta gente non propriamente catalogabile nelle categorie cosiddette elevate, il prete che pure ha all’attivo studi marxiani ma che è tutt’altro che un prete-operaio, ci conduce al nocciolo di un forte guaio: “Libertà, c’è bisogno di respirare più libertà.

Si vive come in una gabbia a Torino, ogni piccolo e impercettibile movimento è un vuoto girare su se stessi, pilotato dall’alto poi, perché questa è pur sempre la città di Luciano Violante e di Giancarlo Caselli.

Ecco, ci vogliono persone nuove (sapesse quante ce ne vorrebbero anche in Curia), persone che non abbiano complessi d’inferiorità verso i soliti bodratiani, verso gli amici di Oscar Luigi Scalfaro, verso i sindacati, anzi, verso il potentissimo sindacato, e avversare finalmente quel che è rimasto del patto di ferro tra Partito comunista e Fiat.

Avversare quindi quel che è diventato il patto, dato che Pci e Fiat hanno un volto nuovo ma se la risolvono al solito modo”.

A questo punto chiediamo ulteriori lumi: “Faccio un esempio.

E’ capitata una disavventura giudiziaria al sindaco, il diessino Sergio Chiamparino quegli altri della Casa delle libertà si sono precipitati nella difesa.

Tutto bene, però, secondo me, hanno peccato di signorilità in eccesso.

Se la stessa cosa fosse accaduta al presidente della Regione, Enzo Ghigo, se a Ghigo fosse arrivata una tegola della magistratura, mi creda, l’avrebbero impiccato in piazza Castello dopo due minuti”.

Una cappa di tempo orribile ottunde gli umori dei metereopatici, e siccome in tutto questo c’è da dire che la città non è solo quella di Caselli & Violante, ma soprattutto è la città severa e accigliata dell’Azionismo, del Politecnico, dei santi laici Antonio Gramsci e Piero Gobetti, si capisce che pochi possono filarsela via da questa cappa di conformismo dove il fantozzismo è lo stile, ma moltissimi sono gli esclusi.

Sono tanti quelli tenuti fuori dal banchetto del potere.

I cattolici innanzitutto, coscienziosamente esclusi da una città che all’indomani del disastro Fiat sembra assomigliare a una città sovietica all’indomani della caduta del Muro di Berlino.

“L’immagine calza a pennello, a patto che nel ruolo del vopos smarrito ci mettiamo il cardinale Severino Poletto”.

E così che interviene un giovane sacerdote.

Viene incontro al suo parroco e il discorso allora sconfina sul piano delle sudditanze.

Ancora ridono all’idea che l’arcivescovo abbia rilasciato un’intervista ad Avvenire parlando della crisi della Fiat con toni da manager. C’è da ridere infatti: “Cosa vuole, è la Chiesa della collaborazione quella.

Non hanno consistenza nella fede e si fanno avanti per collaborare.

Invece che portare Cristo, pur di farsi accogliere nei piani alti, si lasciano trascinare dall’ansia di farsi ricevere, di farsi riconoscere un ruolo sociale, ma la Chiesa non deve avere complessi, quando il Papa venne a Torino, il 13 aprile 1980, alla città dei ‘santi sociali’ dell’Ottocento, a questa città senza più santi, disse chiaramente ‘Ma Cristo c’è.

Ed Egli basta per ogni tempo: Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!'”.

In tutto questo c’è da dire che la città ne ha macinati tanti di destini.

Buttiamola pure sull’antropologia, ma possiamo non raccogliere questo sfogo di un immigrato pugliese arrivato ad abitare in collina? “Nella Torino che conta, quando intendono esprimere riprovazione per un comportamento, un modo di essere, uno stile di vita, dicono: ‘non è un modello Fiat’.

Che cosa poi sia questo benedetto ‘modello Fiat’ – a parte l’attitudine all’obbedienza, l’inquadramento disciplinare, il conformismo, il fantozzismo congenito, lo spirito sabaudo- militaresco, l’inchino ai superiori, l’odio per i superiori sublimato in eroica rassegnazione, l’inclinazione vagamente servile, lo spirito monoculturale (come quello dei cubani vessati dalla canna da zucchero), l’allineamento esistenziale, il grigiore dimesso, il lamento sommesso, l’imprecazione soffocata, l’umorismo da utilitaria, il sesso in utilitaria, la mistica da utilitaria – a parte questo sia pur provvisorio elenco di irrilevanti quisquilie che certo non intaccano l’amore che tutti noi (isole comprese) portiamo alla gloriosa città di Torino, che cosa sia in positivo, questo ‘modello Fiat’, pochi riescono a capirlo”.

Buttiamo un occhio nell’archivio, c’è un ritaglio del gennaio 1996 firmato dalla chansonnier Gipo Farassino che vale l’intera opera omnia di Valerio Castronuovo: “La Fiat? Se non ci fosse mai stata la nostra regione sarebbe più ricca e prosperosa.

Per il Piemonte è stata una tragedia.

Gli Agnelli hanno commesso veri e propri crimini industriali.

Loro sono i padroni per antonomasia.

Si sono insediati qui in Piemonte e attraverso un discorso di accerchiamento dei mercati hanno creato una situazione sociale di spaventoso disagio.

Certo, hanno portato lavoro e ricchezza ma determinando la distruzione dell’identità collettiva della nostra gente che si è dovuta chiudere a riccio di fronte a una massiccia immigrazione continua negli anni.

Il gruppo Fiat prima ha spopolato le campagne piemontesi offrendo il presunto posto sicuro; poi ha portato nella nostra terra milioni di sradicati.

Oltre a questa colpa originaria, la Fiat ha la responsabilità di aver creato con l’indotto una pletora di falsi industriali.

Bastava avere trecento milioni e un amico all’ufficio acquisti e si diventava imprenditori.

Si costruiva un capannone e via. Però quando la casa madre chiudeva i rubinetti, mentre il falso imprenditore aveva fatto i soldi, i lavoratori venivano, come vengono, sbattuti per strada. E la situazione è destinata a peggiorare.

La Fiat andrà a costruire dove costa meno”.

In tutto questo c’è da dire che la situazione è già peggio di come l’aveva immaginata Farassino, Termini Imerese è pronta per essere data in comodato alla Regione Siciliana (con l’usufrutto a carico di Silvio Berlusconi), nessuno se la sente di parlare mettendoci nome, cognome e paternità, ma qui hanno imparato a godersela anche in piena eutanasia.

Nei locali arabi di via Sant’Agostino, all’Hafa Cafè per esempio, si fanno le tre di notte e finalmente sotto lo sguardo del Re.

Non più un Savoia, ma propriamente il sovrano del Marocco.

Qui c’è il cuore del centro storico, un tempo abbandonato dai torinesi, diventato ostello degli extracomunitari, oggi smagliante salotto grazie al genio dell’imprenditore edile De Giuli, consuocero di Valentino Castellani, l’ex sindaco, che seppe trasformare un intero tratto stradale grazie a una felice speculazione meritoriamente attrezzata di calce, regolo e cazzuola.

Se la godono a Torino e devono darsi tanti di quei baci (devono proprio toccarsi tanto) se nei taxi, tra gli avvisi sulle tariffe, devono scriverci a chiare lettere che è proibito il proibito: “Proibito compiere atti contrari alla decenza e al buon costume”.

In tutto questo salta all’occhio un dettaglio niente male, Torino è l’unica metropoli dove la grande criminalità organizzata non ha mai messo piede, tanto è pesante l’aria, e sempre per riprendere le parole del sacerdote con cui discutiamo, ovvero la necessità “di più libertà”, non è affatto un parados so quello di immaginare Corleone sotto Totò Riina più disinvolta di quanto non possa essere Torino sotto il peso della sua lagnosa superiorità morale.

Qui dove tutti si chiamano per cognome e mai per nome, nessuno parla, vede o sente.

Moraleggiano piuttosto, dall’alto di importanti case editrici, dall’alto di una tradizione fatta di memorialistica, quella da lapide funeraria dove è d’obbligo vantare e inventare solo titoli di merito.

Nel febbraio del 1967 la Stampa celebra se stessa dimenticando tutto il periodo che corre dal 1925 al 1945 per dimenticare così i quattro direttori del “Ventennio” e cioè Andrea Torre, Concetto Pettinato, Curzio Malaparte e Alfredo Signoretti, ed è una fortuna che poi, in questi insopportabili imbarazzi ci siano i prìncipi a risolvere le fetecchie dei servi.

Durante una cerimonia nell’anniversario dell’Unità d’Italia, Gianni Agnelli incontra Signoretti e alla presenza di Valletta, davanti a tanti giornalisti, lo saluta platealmente (e cordialmente) dicendogli: “La Stampa va bene; ma le tirature dei suoi tempi non sono state più raggiunte”.

Il prìncipe faceva riferimento alla cifra record di un milione e trecentomila copie.

“Fu la massima tiratura raggiunta – così ricordava Signoretti nel libro ‘La Stampa in camicia nera’ – e fu glorificata in un calco di piombo e bronzo che fu offerto all’allora vivente senatore Giovanni Agnelli”.

Era il 9 maggio 1936, il giorno della proclamazione dell’Impero e il giornale di Norberto Bobbio e Galante Garrone strillava in prima pagina questo titolo: “Ritorna l’Impero sui colli fatali di Roma”.

“Speriamo che non se ne vadano anche le Alpi”, questo è il distico che Aldo Cazzullo mette in un capitolo del suo libro “I Torinesi” (Laterza).

E siccome in tutto questo tutto torna, Cazzullo per questa guida alla città sembra quasi segnalare quella che in assoluto è la bibbia del pregiudizio etico piemontese, ovvero “L’uomo delinquente”, il capolavoro di Cesare Lombroso.

Tutto torna appunto, è il tic di questa città affacciata al suo prossimo trauma è ancora una volta il “sogno di catalogare il male”, di armare i suoi soldati per cingere d’assedio tutte le cittadelle della “cattiveria morale”.

Fosse pure il Sud del Sud dei Santi (manifesto teatrale di Carmelo Bene a cui Torino dedica in questi giorni una mostra), fosse pure ieri, contro “gli intellettuali della Magna Grecia (e ancora l’altrieri, contro i briganti lucani, partenopei e calabresi).

E in tutto questo c’è un caravanserraglio che avanza oltre Porta Palazzo fin dentro i reticoli della casbah di piazza della Repubblica (il nome istituzionale di Porta Palazzo).

“Il caravanserraglio avanza, i cammelli sono possenti, i cavalieri stanno in alto, ci sono i cani che abbaiano, ma non possono farci del male.

Al cammello basta dare una zampata per allontanarli, per noi è sufficiente non dare loro retta”.

E’ così che ci parla Bouchta Bouriqi, l’imam di Torino che certamente non segue il cardinale Poletto nella gara della collaborazione con il potere.

E’ impressionante quanto invece sia simile nella fatica della sua testimonianza di fede ai sacerdoti cattolici che “si cuccano i poveri, quelli poveri poveri”.

I cani che si sente abbaiare addosso, metaforicamente parlando, per carità, sono i soliti esponenti di Alleanza nazionale.

In questa città dove tutto è regolato dalla danza di monadi incomunicabili tra di loro, una città dove ognuno resta ciò che è, l’imam Bouchta si occupa solo dei suoi ragazzi, sono quelli che deve strappare alla strada, al furto e allo spaccio (“Io dico loro: con questi soldi sporchi non potete andare a Mecca, non potete fare il pellegrinaggio, non potete crescere i vostri figli. Sono soldi impuri. Loro capiscono”).

L’imam si muove tra la sua gente con il tratto e il tatto del Capo.

E’ incredibile come si ripetano sempre i codici di riconoscimento nel territorio.

“I poveri poveri, ce li cucchiamo noi” dice il sacerdote con il collare.

“I poveri poveri entrano fin dentro la mia macelleria per rubare” dice l’imam alto e magro senza cravatta: “Io dico loro.

Se avete fame ditelo a me, non rubate. Vi do dieci euro, venti euro. Ma non rubate.

Io vado alle Vallette, in carcere, a trovare i detenuti e dico sempre a loro, non rubate, non fate il male perché qui siamo ambasciatori dell’Islam”.

All’imam Bouchta che per sua fortuna non ha mai avuto a che fare con la cultura della schiatta azionista, con il mecenatismo della Fondazione Agnelli e con gli articoli di Maurizio Viroli, chiediamo come possa sentirsi a vivere in questa città detta altrimenti “città dell’Anticristo”.

Ci risponde spiegandoci come attraverso le falangi delle dita, con l’insieme di tutte le dita, si possano calcolare i tempi e i numeri delle preghiere. “Non una di più, non una di meno”.

Questa risposta, a voler seminare zizzania, meriterebbe una riflessione del cardinale, a meno che non voglia riprendere quella riflessione di Gustavo Zagrebelsky, intimo di Oscar Luigi Scalfaro, collocato nella Corte costituzionale, quando a proposito di Cristo e Barabba disse che la scelta di allora era la stessa scelta di oggi: andare contro Berlusconi o a favore di Berlusconi? Ovvero a favore di Barabba, notorio ladrone.

C’è da rifarsi le orecchie ad ascoltare l’imam Bouchta, ci racconta la storia di un’emigrazione che comincia e ricomincia sempre. E sempre alla ricerca di quello che lui chiama “benessere e giustizia”.

Torino per lui è il futuro, intorno a lui crescono tre figli, i suoi fratelli di fede, la comunità di destino che anche sotto questa pioggia sa farsi popolo.

Ci vuole un occhio addestrato ai codici del digiuno che si fa ragione del sazio per cogliere i reticoli del carisma di quest’uomo. Lui è il sindaco del rione Porta Palazzo.

Non vorremmo turbare troppo Ferdinando Ventriglia e Agostino Ghiglia, i due esponenti di Alleanza nazionale che lo tallonano per un equivoco di ruoli più che per convinzione, ma la storia appartiene al popolo e, infatti, si dice sempre “Terra per quanto ne puoi avere dentro agli occhi, Casa per quanto ti basta”.

All’imam che fa il macellaio ma ha lavorato alla pressa e al tornio, all’imam che parla un italiano immacolato, chiediamo un parere sulla crisi della Fiat. La domanda è fessa.

Disarmante è la risposta: “Io bevo nella tazzina il caffè, ma non c’era la tazzina al tempo del Profeta. Io uso il telefonino, ma non c’era il telefonino al tempo del Profeta.

Io ieri sono andato in banca per fare un versamento, ma non c’era la banca al tempo del Profeta”.

Capita l’antifona.

Fino ad oggi c’è stata la Fiat e, in tutto questo, c’è da dire che appunto, non c’era proprio al tempo del Profeta.

C’era il lavoro.

L’ANIMALE PARLANTE

The human faculty of language appears to be organized like the genetic code – hierarchical, generative, recursive, and virtually limitless with respect to its scope of expression.

La facoltà umana del linguaggio appare essere organizzata come il codice genetico: gerarchica, generativa, ricorsiva e virtualmente illimitata quanto alle sue possibiltà espressive.

Hauser, Chomsky e Fitch (Science 2002)

Prefazione

Questo libro contiene una breve introduzione alle scienze del linguaggio destinata sia a chi è curioso di conoscere i molti risvolti di questa facoltà prettamente umana, che la maggioranza di noi dà per scontata, sia agli studenti universitari di uno dei tanti corsi di laurea che includono un insegnamento di linguistica in varie Facoltà umanistiche e scientifiche, sia, e forse soprattutto, ai giovani che non abbiano ancora deciso il proprio indirizzo di studio e siano interessati a scoprire i molteplici risvolti del linguaggio. È una introduzione nel senso letterale della parola: senza nessuna pretesa di esaustività o di approfondimento ha l’intenzione di iniziare il lettore a un mondo complesso e di stimolare lo studente ad approfondire uno o più dei campi che vi sono trattati.
Mentre tradizionalmente gli studi linguistici in Italia sono considerati letterari, si scoprirà in questo libretto che essi non necessariamente sono tali. Anzi, molte delle discipline linguistiche più all’avanguardia oggi sono idonee e potranno dare grande soddisfazione a chi sente di avere il ‘pallino della matematica’. Queste vanno dalla psicologia cognitiva alla neuropsicologia, dalla linguistica formale all’informatica, dalle scienze dello sviluppo allo studio della comunicazione animale.
L’esigenza di scrivere questo libro è nata appunto dal voler indicare diverse strade adatte a persone con interessi di base diversi, per una comprensione più profonda di quella che è probabilmente la caratteristica che più di ogni altra distingue la nostra specie dalle altre specie del mondo animale.
Ogni capitolo è leggibile indipendentemente dagli altri, anche se la prima parte sulla competenza linguistica forma una base per una maggiore comprensione del resto del libro.

Indice

Premessa
Ringraziamenti
Indice
1. Introduzione alle scienze del linguaggio
2. Parliamo perché pensiamo o pensiamo perché parliamo? Linguaggio e pensiero

Parte Prima
La competenza linguistica
3. La forma dei suoni linguistici: Fonetica
4. La struttura del messaggio sonoro: Fonologia
5. Dentro la parola: Morfologia
6. Le parole nella frase: Sintassi
7. Il significato delle espressioni linguistiche: Semantica
8. Tra lingua e musica: Metro poetico

Parte Seconda
Linguaggio e Scienze Cognitive
9. Lo sviluppo del sistema linguistico nell’infanzia: L’acquisizione della madrelingua
10. Disturbi del linguaggio: afasia e deficit congeniti
11. Vedere il linguaggio: La lingua dei segni
12. Codici circoscritti: La comunicazione animale

Parte Terza
Variazione linguistica
13. Di generazione in generazione: Il cambiamento linguistico
14. La creazione del linguaggio: Dai pidgin alle lingue creole
15. Rappresentazioni visuali: Sistemi di scrittura

16. Ulteriori prospettive nelle Scienze del Linguaggio

Riferimenti bibliografici
Indice Analitico

Capitolo 1. Introduzione
Questo libro è destinato a chi si è mai chiesto, o desidera cercare di capire, perché noi parliamo, mentre non parlano gli animali intorno a noi, che pure sembrano essere capaci di comunicare alcune informazioni e con i quali siamo in grado di comunicare alcune intenzioni. Il presente testo è una prima esplorazione nel mondo del linguaggio, una delle principali facoltà che distinguono gli esseri umani dagli altri esseri del mondo animale. Tratta dell’abilità, che accomuna gli esseri umani, a comunicare i loro messaggi in un modo sorprendentemente preciso e naturale. Abbiamo definito ‘naturale’ tale comunicazione perché essa si sviluppa negli esseri umani a contatto tra di loro senza alcuna istruzione esplicita fin dal primo giorno della loro vita. Il fatto che solo gli esseri umani esposti al linguaggio lo acquisiscano, rende il linguaggio una caratteristica biologica della nostra specie. E il fatto che una lingua si impari perfettamente e senza sforzi nei primi anni di vita, e mai in maniera perfetta, nonostante i grandi sforzi, da adulti, fa del linguaggio una disposizione genetica che sparisce ad un certo punto dello sviluppo, come spariscono i denti da latte.
Questo viaggio esplorativo nel mondo del linguaggio non si soffermerà perciò solo sui diversi aspetti della grammatica delle lingue naturali, ma anche su come questi aspetti si acquisiscano da bambini. Tratta cioè dell’inevitabilità dell’acquisizione del linguaggio in bambini senza deficit specifici esposti ad una lingua naturale e delle tracce che tale lingua lascia nel nostro cervello e che si manifestano chiaramente nel cosiddetto ‘accento straniero’ quando impariamo una nuova lingua da adulti.
Dato che sul nostro pianeta vengono parlate circa seimila lingue diverse, è chiaro che non ci può essere nulla di necessario nella relazione tra suoni e significati: essi sono infatti arbitrari. Il linguaggio specifico cui si è esposti va perciò imparato. Ma questo apprendimento avviene senza che ce ne rendiamo conto nei primi anni di vita. Le lingue non differiscono tra di loro solo per il lessico, ma anche per avere strutture grammaticali diverse: chi imparasse tutte le parole dell’inglese ma tentasse di disporle secondo la sintassi e la fonologia dell’italiano, otterrebbe un sistema che potremmo chiamare ‘inglese maccheronico’. Una lingua infatti è costituita sia dal lessico sia da strutture precise che ne formano la grammatica, ed un essere umano venendo al mondo deve imparare queste due componenti del linguaggio cui è esposto.
Sotto le grandi differenze superficiali che si possono notare tra lingue diverse, le strutture grammaticali sono simili se analizzate in modo sufficientemente astratto: dei principi universali governano la loro struttura, sia che si tratti di struttura interna alle parole o alle frasi, sia che si tratti di struttura che governa i suoni o i significati. La grammatica è infatti un sistema formale in cui alcune strutture sono ammesse e altre no. Una lingua può cioè ‘scegliere’ determinate strutture grammaticali solo tra quelle che sono universalmente possibili. Data la numerosità delle lingue del mondo si può assumere che una grammatica non attestata in nessuna lingua sia una grammatica impossibile da apprendere per il cervello umano dotato della anatomia e della fisiologia attuali. Si fa cioè l’assunzione che i principi validi per tutte le lingue siano universali e che non possano esistere lingue che li violano. Va notato che questa teoria della grammatica non nasce da una necessità logica, ma presuppone un metodo scientifico che ci permette di fare ipotesi falsificabili. L’approccio della linguistica moderna, dovuto alla rivoluzione nel modo di pensare al linguaggio iniziata da Noam Chomsky, consiste nel fare le massime generalizzazioni possibili che siano coerenti con i dati a disposizione. Se si trovano lingue che rappresentano controesempi all’ipotesi, si farà un’ipotesi di portata inferiore. Se invece non si trovano controesempi, si sarà fatto un grande passo avanti nella comprensione del meccanismo del linguaggio. Lo studio approfondito dei sistemi grammaticali ci offre perciò uno strumento prezioso per capire molteplici aspetti della mente umana.
Una caratteristica della competenza grammaticale della madrelingua, su cui ci soffermeremo, consiste nel fatto che non possediamo tale competenza in modo cosciente. Tutti sappiamo, per esempio, come usare la parola ne in italiano. Ma se, senza essere linguisti, proviamo a spiegare a una persona che non sa l’italiano come usarla, ci accorgiamo che non ne siamo in grado. La conoscenza che abbiamo della parola ne, e di gran parte della grammatica, è pertanto una conoscenza particolare, in quanto non siamo consapevoli di come la usiamo: impariamo a parlare come impariamo a vedere o a camminare: senza avvederci dei meccanismi che governano le varie competenze che acquisiamo.
Nel percorso che seguiremo in questo libro considereremo quasi esclusivamente la lingua orale, e il suo corrispondente nella modalità manuale usata nelle lingue dei segni. La lingua scritta, invece, non è una espressione naturale nel senso in cui lo sono la lingua orale e la lingua dei segni. È infatti determinata da una convenzione sociale che va appresa con un’apposita istruzione esplicita di durata variabile: da un anno nel caso della scrittura alfabetica, che viene usata per esempio in italiano, a cinque anni, nel caso della scrittura che usa caratteri, che viene usata per esempio in cinese.
Inoltre la forma scritta non accomuna tutti gli esseri umani, ma piuttosto la sottoclasse di questi, che consiste di persone adulte e partecipi di una cultura scritta: quindi un sottoinsieme naturale – gli adulti – che appartengono ad un sottoinsieme culturale – coloro che hanno appreso la grafia. La lingua orale accomuna invece tutte le persone udenti e senza deficit specifici, indipendentemente dalla loro cultura.
Abbiamo detto ‘persone udenti’ perché per potere acquisire la capacità di parlare, senza istruzioni esplicite, bisogna sentire la parlata di altri. Non esistono i sordo-muti, o meglio, i sordi non sono in genere anche muti: chi non impara a parlare, generalmente non impara esclusivamente perché non sente. Essi acquisiscono però un altro linguaggio se esposti ad esso: il linguaggio dei segni, un linguaggio che condivide molte caratteristiche strutturali col linguaggio orale, ma non, ovviamente, la modalità. È, però, un linguaggio naturale, nel senso che viene appreso, in modo del tutto simile al linguaggio orale, e con tappe del tutto simili, da bimbi esposti ad un ambiente in cui i segni siano il mezzo espressivo usato. Che si possa pronunciare quello che si sente, possiamo dedurlo anche dall’accento straniero: se, essendo parlanti nativi dell’italiano, omettiamo il suono aspirato all’inizio di parole inglesi come hear o harbour è perché non lo sentiamo. Anche le persone udenti hanno infatti un tipo di ‘sordità’, limitata alle lingue straniere.
Non solo gli esseri umani hanno un modo di comunicare tra di loro (con suoni o con segni): anche altri animali hanno il modo di scambiarsi informazioni di vario tipo. La loro comunicazione, che prende forme assai diverse nelle diverse specie, è però sempre limitata ad un numero fisso di messaggi. Non ha cioè la caratteristica principale che definisce il linguaggio umano, che consiste nella capacità di formare frasi nuove e forse mai sentite. Infatti il linguaggio umano è creativo e la creatività si basa su un meccanismo computazionale che è assente dalla comunicazione animale e che ha invece molti aspetti in comune con la nostra abilità matematica. Il linguaggio umano è perciò un sistema formale che ha una base biologica.
La base biologica del linguaggio è chiaramente osservabile in persone con deficit specifici del linguaggio, sia genetici sia acquisiti. È infatti noto che bambini con un livello di intelligenza nella norma possano avere problemi nello sviluppo linguistico tendenti a manifestarsi in modo simile, come la difficoltà ad imparare la struttura morfosintattica. La recente scoperta di una famiglia in cui diversi membri avevano questo tipo di deficit ha portato alla scoperta di un gene del linguaggio. Inoltre casi di afasia, cioè di deficit linguistici acquisiti, hanno portato alla localizzazione di alcune aree del cervello specificamente preposte al controllo linguistico, localizzazione che arriva a livelli di specializzazione sorprendenti come nel caso di un paziente che dopo un ictus ha avuto disturbi fonologici che riguardavano quasi unicamente le vocali, e in quello di un altro paziente che in seguito a un ictus, in una zona lievemente diversa, ha avuto disturbi quasi unicamente riguardo alle consonanti. La localizzazione di aspetti specifici del linguaggio diventa sempre più precisa anche grazie alle moderne tecniche non invasive di neuroimmagine che ci permettono di vedere quali aree si attivano durante compiti linguistici specifici.
Le lingue umane sono sistemi in costante modificazione e i cambiamenti che subiscono sono messi in moto dall’uso. Una lingua parlata in una comunità linguistica, la cui grammatica e il cui lessico rimangano immutati non esiste: anche se molti resistono alle innovazioni nella loro madrelingua, questa continuerà il suo processo. Se il processo non ci fosse, non avremmo spiegazione del fatto che tutte le lingue romanze hanno caratteristiche grammaticali e lessicali diverse da quelle del progenitore comune: il latino. I cambiamenti che portano a delle variazioni linguistiche sono sempre dello stesso tipo: sia che avvengano nel corso della storia, sia che distinguano due varietà regionali della stessa lingua, sia che facciano parte della competenza di un singolo parlante in un dato momento.
Questo libro avrà raggiunto il suo scopo se avrà suggerito che il linguaggio è un fenomeno meraviglioso e per molti versi misterioso la cui investigazione può – e deve – partire da campi scientifici diversi: solo la convergenza di dati ottenuti con metodologie diverse ci può portare a veri progressi nella sua comprensione.

Quarta di copertina
Siamo abituati a considerare il parlare un’attività che non richiede sforzi specifici: ci viene in mente di dire qualcosa e il nostro apparato vocale esegue il compito di tradurre i pensieri in suoni linguistici. Sotto la sua apparente semplicità, il compito di tradurre in suoni il nostro pensiero è in realtà molto complesso.
L’animale parlante è una introduzione ai diversi campi scientifici che si occupano dell’analisi del linguaggio umano, compresi i sistemi linguistici che usano la modalità visivo-manuale, come le lingue dei segni. Il libro comprende, oltre ad una prima parte sulla competenza grammaticale, capitoli sullo sviluppo dei linguaggio nell’infanzia e su diverse patologie linguistiche. Tratta inoltre delle caratteristiche distintive del linguaggio umano confrontato con diversi sistemi di comunicazione animale.
Questo volume si rivolge a chiunque voglia scoprire la complessità del linguaggio umano e conoscere gli obiettivi delle diverse scienze del linguaggio e in particolare agli studenti di uno dei tanti corsi di laurea che includono la linguistica.

Marina Nespor è professore ordinario di Linguistica Generale all’Università di Ferrara. I suoi principali interessi scientifici riguardano la struttura del messaggio sonoro e il modo in cui questa è utilizzata durante l’acquisizione della madrelingua come chiave alla scoperta del sistema linguistico. E’ stata affiliata per molti anni all’Università di Amsterdam e a HIL (Holland Institute of Linguistcs) e collabora ora con il Centro di Neuroscienze Cognitive della SISSA di Trieste. Tra i suoi lavori figurano i libri Prosodic Phonology, coautore, (1986, Foris) e Fonologia (1993, il Mulino) oltre a numerosi articoli in riviste internazionali.

Donna Jo Napoli è professore ordinario di Linguistica Generale a Swarthmore College, negli Stati Uniti. La sua ricerca si concentra sulla sintassi dell’italiano e sulla morfologia della lingua dei segni americana. Fra i suoi libri figurano testi pedogogici come Syntax: Theory and Problems (1993, Oxford University Press) , testi scientifici come Predication Theory: a Case Study for Indexing Theory (1989) Cambridge University Press e testi divulgativi come Language Matters (2003, Oxford University Press).

I manuali di diritto dell’ambiente – una rassegna

STEFANO MARGIOTTA, MANUALE DI TUTELA DELL’AMBIENTE, IL SOLE 24 ORE, 2002, pagg. 664, euro 50; ROSARIO FERRARA – FABRIZIO FRACCHIA – NINO OLIVETTI RASON, DIRITTO DELL’AMBIENTE, LATERZA, 2000, pagg.244, euro 18,08; GIAMPIETRO DI PLINIO – PASQUALE FIMIANI (a cura di), PRINCIPI DI DIRITTO AMBIENTALE, GIUFFRE’, 2002, pagg. 187, euro 11,50; GIOVANNI CORDINI, DIRITTO AMBIENTALE COMPARATO, CEDAM, 2002, pagg. 357, euro 25,00; ANNA D’AMICO CERVETTI, ELEMENTI DI DIRITTO AMBIENTALE, GIUFFRE’, 2002, pagg. 301, euro 21,00; NICOLA LUGARESI, DIRITTO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2002, pagg. 258, euro 17,50; ANTONINO ABRAMI, STORIA, SCIENZA E DIRITTO COMUNITARIO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2001, pagg. 1145, euro 82,63; LUCA MEZZETTI (a cura di), MANUALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2001, pagg. 1210, euro 74,89; PAOLO DELL’ANNO, MANUALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE, CEDAM, 2000, pagg. 736, euro 41,32; BENIAMINO CARAVITA, DIRITTO DELL’AMBIENTE, IL MULINO, 2001, pagg. 421, euro 24,79.
Davvero fuori dall’usuale la produzione di volumi di carattere manualistico in materia di diritto dell’ambiente tra il 2000 e il 2002: otto complessivamente, di cui uno nel 2000, due nel 2001 e ben cinque nel 2002.

Si tratta di una testimonianza del successo di questa disciplina giuridica e della sua stabile affermazione tra i corsi universitari di carattere istituzionale.

Tre dei volumi hanno come titolo “Diritto dell’ambiente”: gli autori sono Beniamino Caravita (che riprende in molte parti il fortunato “Diritto pubblico dell’ambiente” del 1990), Ferrara-Fracchia-Olivetti (giunto alla terza edizione) e Lugaresi; due “Manuale di diritto dell’ambiente” (Mezzetti, già brevemente recensito in questa Rivista e Dell’Anno giunto anch’esso alla terza edizione) un’altro Manuale di tutela dell’ambiente (Margiotta), poi un “Principi di diritto ambientale” (Di Plinio-Fimiani), e un “Elementi di diritto ambientale” (D’Amico Cervetti).

Insieme a questo gruppo, possiamo prendere in considerazione anche due opere che toccano due ampi settori del diritto dell’ambiente:”Diritto ambientale Comparato” di Cordini (che è in realtà alla terza edizione) e “Storia,scienza e diritto comunitario dell’ambiente” di Abrami.

Assai diversa è la mole dei volumi in esame.

Il Manuale di Mezzetti (che è un’opera collettiva con le varie parti affidate a esperti del settore, coordinate da Luca Mezzetti), con oltre 1200 pagine, offre la trattazione più ampia e circostanziata; lo segue, con poco meno di 1200 pagine, il testo di Abrami, che è però dedicato, come detto, prevalentemente al diritto ambientale comunitario. Il manuale di Dell’Anno, con poco meno di 750 pagine, oltre alla parte dedicata ai singoli profili settoriali, offre una trattazione della materia prevalentemente dedicata agli strumenti e alle competenze amministrative.

I Principi con circa 180 pagine offrono la trattazione più concisa, anche perché limitata, appunto ad un tema specifico (i principi che governano il diritto ambientale). Un po’ più lunga – circa 250 pagine – è la trattazione offerta dai volumi di Lugaresi e di Ferrara ed altri.

Ma per quest’ultimo va osservato che, nonostante il titolo di carattere generale, il contenuto copre solo alcuni degli argomenti e dei profili tradizionalmente inclusi nel diritto dell’ambiente.

Esso è infatti suddiviso in tre capitoli: il primo dedicato a considerazioni e valutazioni introduttive, cui seguono un capitolo dedicato all’organizzazione e ai soggetti istituzionali e un ultimo capitolo dedicato ai procedimenti amministrativi in materia di ambiente.

Analogo discorso può essere fatto per gli Elementi di D’Amico Cervetti: il volume da un lato tratta argomenti che non sono generalmente ricompresi nel diritto dell’ambiente (legislazione urbanistica e espropriazione), d’altro lato omette di trattare, o tratta molto sinteticamente, alcuni temi che al diritto dell’ambiente certamente appartengono (inquinamento atmosferico, inquinamento acustico, tutela di flora e fauna, attività industriali e incidenti rilevanti, energia).

In conclusione, la trattazione più completa – tra le opere brevi – è quella di Lugaresi che riesce con brevità e capacità sintetiche ad esaminare la maggior parte degli argomenti che compongono il diritto dell’ambiente.

Quest’ultima considerazione introduce una valutazione più generale e cioè che a titoli di carattere generale corrispondono contenuti sensibilmente diversi (ovviamente, nell’ambito di una disciplina comune e quindi di temi forzatamente omogenei), o l’attribuzione di peso e importanza sensibilmente diversi ai medesimi contenuti.

Sono differenze che riflettono la diversa origine e la diversa destinazione dei volumi (il volume di D’Amico è dichiaratamente concepito in funzione di un corso di laurea in scienze ambientali ad indirizzo marino dell’Università di Genova e i contenuti riflettono questa destinazione) oppure le diverse propensioni degli autori. Ma mettono in luce anche il diverso modo di concepire e ricostruire il diritto dell’ambiente, la sua funzione e i suoi obiettivi.

Per esempio, ai temi di carattere costituzionale e quindi al tema dell’ambiente nella Costituzione, seppur esaminato da tutti i volumi, dedicano due ampie specifiche parti solo il Manuale di Mezzetti e il testo di Caravita (quest’ultimo inoltre dedica una particolare attenzione ai profili costituzionali anche trasversalmente, allorché tratta i vari altri settori).

Il tema della storia del diritto ambientale, d’altro canto, che permette di collocare l’assetto attuale in una prospettiva evolutiva e storica, illuminando l’ascesa e l’affermazione di questo settore del diritto – e quindi la presa di coscienza del problema ambientale e l’uso degli strumenti giuridici per individuare delle soluzioni – è assente da tutte le opere generali.

È invece ampiamente trattato – risalendo, con qualche forzatura, sin al diritto romano e limitando l’indagine alla realtà europea o internazionale – dal solo Abrami, il quale è anche l’unico autore che dedica ampio spazio agli aspetti scientifici e strettamente ecologici.

Gli aspetti del Diritto internazionale e comunitario, che costituiscono il vero motore del diritto dell’ambiente anche a livello statale (quasi tutti gli Stati, senza l’impulso della comunità internazionale e dell’Unione europea, ben poco farebbero per conservare o migliorare il loro ambiente; molti sarebbero ben contenti di peggiorarlo) restano poco trattati, quando non completamente pretermessi.

Essi sono oggetto di una esauriente trattazione solo da parte del volume di Mezzetti ove la parte di diritto internazionale è affidata a Massimiliano Montini e quella di diritto comunitario a Giovanna Landi (ciascuna di circa 40 pagine).

La trattazione di questi aspetti è assai più ampia, in realtà, soprattutto nella parte comunitaria, nel volume di Cordini e in quello di Abrami (che offre anche utili appendici di documentazione cartacee, inserite anche nel CDROM).

Ma entrambi i volumi, come si è detto, pur proponendosi di offrire una visione generale, sono specificamente destinati ai profili sopranazionali del diritto dell’ambiente. Essi quindi sono rivolti a lettori che vogliono specificatamente approfondire questi aspetti.

Nessuno dei volumi esaminati, invece, tratta alcuni temi che pure sono attualmente al centro del dibattito del diritto ambientale: mi riferisco in particolar modo ai rapporti tra diritto ambientale e disciplina del commercio, del mercato e della concorrenza, sia a livello internazionale che a livello transnazionale e ai controversi rapporti tra diritto dell’ambiente, globalizzazione e global governance.

È vero che i volumi hanno carattere manualistico; tuttavia è un peccato che temi che sono oggetto di una vasto e multiforme dibattito a livello internazionale non siano sia pur succintamente accennati, anche perché gran parte delle questioni che pure vengono esaminate – dai rifiuti agli inquinamenti, alle varie disposizioni di protezione della natura e delle risorse – non possono essere correttamente comprese e inquadrate se non inserite appunto in una prospettiva che tenga conto dei conflitti con altre esigenze e altre discipline.

Considerazioni analoghe possono farsi per i principi di diritto ambientale.

La formazione di un sistema di principi generalmente riconosciuti è di grande importanza nel diritto dell’ambiente, sia per la mancanza di corrispondenti norme di diritto internazionale ambientale, sia perché essi consentono agli Stati adattamenti e un grado di flessibilità che altrimenti sarebbe impossibile.

Il tema non è però oggetto della dovuta attenzione da parte di buona parte dei volumi in esame.

Fanno eccezione il volume di Mezzetti e, naturalmente, il volume ad essi specificatamente dedicato a cura di Di Plinio e Fimiani.

Quasi tutti i volumi toccano solo superficialmente anche i temi di diritto civile e in particolare le problematiche connesse alla responsabilità per danno all’ambiente.

Tra tutti affrontano con maggiore attenzione il tema Margiotta e Caravita, al quale dedicano un intero capitolo. Anche Dell’Anno riserva una ampia trattazione al tema del danno all’ambiente e dei rimedi civilistici per il risarcimento dello stesso.

Poco spazio è dedicato dai diversi autori anche agli aspetti di diritto penale.

Tra i volumi che affrontano in modo più approfondito il tema, ma limitandosi sempre e comunque agli aspetti sanzionatori senza approfondire altre problematiche di rilievo (quali ad esempio quelle concernenti gli elementi identificativi del reato) è ancora il testo di Margiotta. Più didattico il Dell’Anno, che tratta l’aspetto sanzionatorio a chiusura di ogni capitolo della seconda parte dell’opera, ossia quella relativa all’analisi delle diverse discipline settoriali.

Il solo testo di Caravita dedica un capitolo alla questione, oggetto di ampio dibattito all’estero, della responsabilità penale della persona giuridica per reati ambientali.

Maggiore interesse, infine, suscita il tema delle associazioni ambientaliste.

Tutti i volumi lo affrontano, soprattutto in connessione con le problematiche relative alla tutela degli interessi ambientali nella loro qualificazione come interessi diffusi.

L’attenzione riservata alle associazioni ambientaliste dipende dalla difficoltà di individuare il presupposto della qualificazione e della differenziazione dell’interesse protetto e dunque della legittimazione ad agire in giudizio: problematiche che inevitabilmente riverberano i loro effetti sulla effettività della salvaguardia dell’ambiente.

Vi sono invece argomenti che sono trattati, sia pure dedicando spazio e attenzione diversi, da tutte le opere considerate: sono quelli che possiamo considerare il tradizionale “zoccolo duro” del diritto ambientale.

Tra questi rientrano gli inquinamenti (dei vari tipi), la valutazione di impatto ambientale, l’organizzazione amministrativa e gli strumenti.

In conclusione, non vi è un’opera che da sola offra una trattazione davvero completa delle varie materie che compongono il diritto dell’ambiente, nelle sue varie sfaccettature: tutte offrono trattazioni differenziate, ancorché manualistiche, e adatte a diverse esigenze di lettori e studenti.

Alcune di esse potrebbero essere concepite come opere complementari, da utilizzare congiuntamente, talvolta anche nella trattazione del medesimo argomento. Tutte, comunque, rappresentano un contributo interessate e di rilievo alla sistemazione di una materia complessa e con valenze giuridiche trasversali.

BENJAMIN FRANKLIN

Una biografia sintetica, che mette in luce le contraddizioni, le incertezze, gli errori di uno dei più grandi personaggi della storia americana.

Un libro che volutamente trascura, accennandovi appena quel tanto che è necessario, tre aspetti della vita di Franklin sui quali molte altre biografie si soffermano: i suoi aspetti di incessante indagatore scientifico, di studioso di fenomeni naturali (dalla natura dei fulmini all’aereazione dei camini), la sua vita privata, con i suoi innumerevoli rapporti con i principali personaggi del tempo e con le diecine di mai definitivamente accertate storie d’amore (tanto che vi sono anche quelli che ritengono che sia rimasto sempre fedele alla moglie che sempre lo attendeva a Filadelfia di ritorno dai suoi viaggi); sia infine lo scenario politico globale, nell’ambito del quale si svolge la sua attività di uomo politico (e che in gran parte è dato per conosciuto nei suoi presupposti essenziali).

Eppure, il libro riesce a mettere a fuoco un Franklin diverso da quello abitualmente conosciuto e descritto, fragile e umano; un Frankin che all’interno della rissosa attività politica della Pennsylvania e delle colonie americane, e della tumultuosa politica internazionale, si muove con incertezze, timori, ansie, e tanti errori di valutazione e successive modifiche di atteggiamento; ma si muove anche con capacità, saggezza, misura e estrema risolutezza.

Così, Morgan lo descrive, utilizzando la straordinaria quantità di corrispondenza che rimane (diecine di volumi solo in questi anni definitivamente riordinati e catalogati).

Lo descrive quando insegue l’idea di realizzare un impero formato da Gran Bretagna e Stati Uniti Uniti, nel quale già immagina in un non lontano futuro lo spostarsi del rapporto di forze dall’Europa al Nuovo Mondo; o quando cerca ad ogni costo di modificare l’atteggiamento inglese nei confronti delle proprie colonie, da considerare non più sudditi marginali, ma partners imperiali, fino all’ultimo, quando la guerra sta per scoppiare, quando ormai anche le colonie vogliono liberarsi dal giogo inglese.

Non vuole accettare l’idea delle colonie americane indipendenti, né quello di condurre una guerra contro quella che considera la propria madrepatria.

Quando si rende conto della vanità dei propri sforzi, diventa rivoluzionario nel modo più estremo, e rifiuta qualsiasi compromesso. Un rivoluzionario riluttante.

Così, Franklin diviene l’americano più famoso in Europa nel Settecento, ed uno dei fondatori dell’America moderna.

La sua vita si dipana per tutto il secolo, densa di una attività impressionante di scrittore, di ricercatore, di uomo politico.

A 79 anni va per la prima volta in Francia, come ministro degli esteri di uno stato che ancora non c’è. Ottiene finanziamenti insperabili, promettendo che lo stato che non c’è sarebbe sorto, ricco e potente.

Un libro che non serve per inquadrare Franklin nel suo tempo, ma permette di inquadrare lati ed aspetti che rendono Franklin moderno e umano.