UN DIBATTITO SUI PAGM

L’articolo originale “A chi servono i prodotti agricoli geneticamente modificati?” è consultabile nella sezione Diritto dell’Ambiente.

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Stefano Nespor nel suo articolo sostiene una tesi non nuova: che i “prodotti agricoli geneticamente modificati” (Pagm) sarebbero utili non tanto per i Paesi ricchi, quanto per i Paesi e per le popolazioni più povere, e che dunque i loro oppositori, in primis gli ambientalisti, sarebbero su questa materia schierati con gli interessi più forti e garantiti (quelli dei consumatori e degli agricoltori del Nord) e contro gli interessi di chi soffre la fame. Tesi, ripeto, tutt’altro che nuova, visto che da sempre i sostenitori dei Pagm vanno ripetendo che essi contribuirebbero a vincere la fame e la malnutrizione.
Le argomentazioni di Nespor, però, non mi convincono, perché danno per scontata una verità tutta da dimostrare, quella appunto sull’utilità dei Pgam. Pure mettendo da parte una questione niente affatto secondaria – se la fame si combatta aumentando la produttività delle sementi o invece migliorando le condizioni economico-sociali dei consumatori e degli agricoltori “poveri” -, resta una domanda ineludibile: cos’hanno portato finora i Pagm?
Il 90 per cento di tutti i Pagm attualmente impiegati in agricoltura è fatto di piante modificate per due soli caratteri: soia round-up ready, più resistente ai diserbanti (72 per cento), e mais Bt, più resistente agli insetti (28 per cento). Dunque, la gran parte dei Pagm ha come effetto di consentire un maggiore impiego di erbicidi, non a caso prodotti in larghissima misura da quelle stesse multinazionali che commerciano soia mais geneticamente modificati. Come dire: la coltivazione di Pagm non fa diminuire automaticamente l’utilizzo di pesticidi.
Un’altra “verità” ben lontana dall’essere provata è che l’utilizzo di Pagm faccia crescere la produttività; su questo aspetto, i dati disponibili che mettono a confronto costi e produttività di sementi modificate e tradizionali presentano una realtà contraddittoria: per la soia resistente agli erbicidi il costo dei semi è più alto di oltre il 10 per cento, il costo dei trattamenti è più basso del 30 per cento, la produttività va da -12 per cento a +4 per cento; per il mais resistente agli insetti il costo dei semi va da +3 per cento a + 35 per cento, il costo dei trattamenti è più alto del 6 per cento, la produttività oscilla tra +3 e +6 per cento. Quanto poi a prodotti più recenti come il “gloden rice” con vitamina A, è bene sottolineare che secondo molti autorevoli medici e nutrizionisti, perché l’organismo umano assimili la vitamina A “siontetica” ha bisogno di vitamina A naturale. Il che significa, brutalmente, che il “gloden rice” fa bene ai bambini che già hanno vitamina A, cioè ai bambini già ben nutriti.
Allora: dove sta questa indiscutibile utilità dei Pagm per gli agricoltori e per i consumatori dei paesi poveri?
Un altro punto importante, che Nespor sembra non vedere, riguarda la differenza tra le ibridazioni tradizionali e i Pagm. E’ verissimo che da secoli, non solo dal Novecento, quasi tutti i prodotti agricoli sono il risultato di ibridazioni, però con una diversità piuttosto cruciale rispetto ai Pagm: in laboratorio si ottengono varietà a cui con nessuna ibridazione naturale si potrebbe mai giungere, nel senso che si possono “incrociare” tra loro specie non interfeconde (caso limite: la fragola modificata con un gene di un pesce artico). Questa non piccola differenza rende necessario applicare con grande rigore ai Pagm il “principio di precauzione”, affidando la ricerca su eventuali danni sanitari o ambientali non prevalentemente alle aziende del biotech ma a istituzioni pubbliche o comunque indipendenti.
C’è poi un argomento che Nespor trascura, e che invece ha un’importanza centrale discutendo di Pagm: l’attuale legislazione brevettuale fa sì che le poche grandi aziende che controllano il mercato del biotech dispongano, verso gli agricoltori che fanno uso di Pagm, di un potere enorme. L’agricoltura biotech limita di moltissimo l’autonomia degli agricoltori, quasi li trasforma in “dipendenti” delle varie Monsanto, senza contare che è in aperto contrasto con molti trattati internazionali – a cominciare dalla Convenzione di Rio de Janeiro sulla biodiversità – che sanciscono il diritto di ogni paese alla proprietà dei rispettivi giacimenti di biodiversità.
Infine. Non capisco da dove deduca Nespor la convinzione che i popoli poveri vogliono i Pagm, e che vi sia un sostanziale conflitto d’interessi tra i consumatori e gli agricoltori delle due sponde socio-economiche del mondo. L’agricoltura biotech, almeno per come è oggi, favorisce le colture intensive e penalizza la diversità agroalimentare. E proprio la diversità è uno straordinario fattore competitivo tanto per le economie agricole dei Paesi poveri quanto per quelle, per esempio europeo.
Il mondo agricolo europeo non è un monolite, comprende interessi non sempre omologhi: fino ad ora, le politiche agricole del vecchio continente hanno scoraggiato, è vero, l’uso di Pagm, ma hanno assecondato un sistema di sovvenzioni e protezioni commerciali che alimenta pratiche sistematiche di dumping; grazie alle sovvenzioni, che assorbono circa il 90 per cento del bilancio agricolo dell’Unione europea, molti prodotti vengono esportati nel Sud del mondo a prezzi addirittura inferiori ai costi di produzione, danneggiando tanto i paesi poveri che quel segmento crescente di agricoltura europea che punta sulla qualità. Forse, caro Nespor, Vandana Shiva esprime talvolta posizioni estreme, ma la sua idea che l’agricoltura dei paesi poveri possa svilupparsi solo valorizzando le proprie differenze non è così peregrina.
Queste brevi considerazioni convergono in un ragionamento più generale: io come molti ambientalisti crediamo che la ricerca transgenica debba andare avanti, che da essa possano venire in futuro applicazione davvero utili per la collettività. Ma pensiamo anche che ad oggi i Pagm servano solo agli interessi di chi li formula e commercializza. Bisogna cambiare le regole, bisogna rendere effettivo il diritto di ogni consumatore a riconoscere i Pagm dai prodotti tradizionali e di ogni agricoltore a non vedere i propri campi contaminati dalle colture transgeniche. E questo è un obiettivo assolutamente trasversale al Nord e al Sud del mondo.
26 giugno 2003
Roberto Della Seta
Coordinatore Segreteria Nazionale Legambiente
[apparso su Scienza – Esperienza]

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Le affermazioni contenute nella risposta di Della Seta al mio scritto non trovano – per quanto io abbia coscienziosamente indagato prima per scrivere l’articolo ed ora per rispondere – riscontro nella letteratura scientifica ed economica esistente in materia di PAGM.
Vediamole separatamente.

1. DS: “il 90 per cento di tutti i Pagm attualmente impiegati in agricoltura è fatto di piante modificate per due soli caratteri: soia round-up ready e mais BT”.
Non è chiaro se il dato riguardi l’estensione di aree utilizzata, o la quantità di prodotto. II dato è comunque di per sé poco significativo. Per esempio, l’area destinata alla coltivazione del riso negli Stati Uniti è assai ridotta rispetto a quella destinata a soia e mais, ma nello spazio di poco più di tre anni – tra il 1997 e il 2001 – ben il 77% di essa era stata convertita alla coltivazione di riso geneticamente modificato (si veda Mamane Annou, Michael Thomsen, Eric Wailes, Impacts Of Herbicide Resistant Rice Technology On Rice-Soybeans Rotation, in Agbioforum 4,2,2001).
In ogni caso, negli Stati Uniti nel 1998 – anno di maggiore estensione combinata delle coltivazione di soia RR e mais BT – le due colture indicate da DS arrivavano al 82% dei complessivi PAGM in uso (C.James, Global status of transgenic crops in 1998, ISAAA Briefs No. 8 Ithaca, NY). Oggi il dato è sensibilmente diverso perché l’impatto di PAGM nelle diverse colture sta rapidamente modificandosi, man mano che nuovi PAGM ottengono l’autorizzazione alla commercializzazione e all’immissione nell’ambiente.
In particolare, due colture di PAGM stanno espandendosi con grande rapidità: il riso e il cotone.
Per ciò che riguarda il riso, negli stati meridionali degli Stati Uniti (ove questa coltura è tradizionalmente praticata), sono stati piantati nel solo anno 2000 2,5 milioni di acri (circa 1.3 milioni di ettari) e sono stati prodotti 148 milioni di tonnellate di riso geneticamente modificato: già si è detto che si tratta del 77% dell’intera produzione di riso degli Stati Uniti (si veda lo scritto citato).
Il cotone geneticamente modificato (cotone RR) è passato in pochi anni a coprire dal 4% al 70% delle aree destinate a questa coltivazione (si vedano dati e statistiche comparative in Michele C. Marra, Philip G. Pardey, and Julian M. Alston, The Payoffs to Transgenic Field Crops: An Assessment of the Evidence, consultabile in www.agbioforum.org/v5n2/v5n2a02-marra.htm). Questa scelta è stata provocata dalla constatazione dei vantaggi competitivi offerti dal cotone RR rispetto non al cotone naturale – che non esiste più da centinaia di anni – ma alle varietà di cotone tradizionalmente utilizzate (si veda lo studio condotto nello stato della California di Marianne McGarry Wolf, John Gelke, Michelle Lindo, Philip Doub, and Brian Lohse, Production and Marketing Characteristics of Adopters and Nonadopters of Transgenic Cotton Varieties in California entrambi in Agbioforum 5,2,2002). Analogo successo ha ottenuto il cotone Bt in pochissimi anni in Sudafrica (si veda l’articolo di Yousouf Ismael – Richard Bennett – Stephen Morse, Benefits from Bt Cotton Use by Smallholder Farmers in South Africa, in Agbioforum 5,1,2002) e in Cina (si veda in proposito l’eccellente studio di C.E.Pray – J.Huang – F.Qiao, Impact of Bt cotton in China, in World Development, 2000, 29(5), 1-34). Ulteriori dati e statistiche sul cotone geneticamente modificato, sul suo uso a livello globale sono periodicamente pubblicati dall’associazione nazionale americana dei produttori di cotone, il National Cotton Council di Memphis (Tennessee).

2. DS: ”Dunque, la gran parte dei Pagm ha come effetto di consentire un maggiore impiego di erbicidi, non a caso prodotti in larghissima misura da quelle stesse multinazionali che commerciano soia mais geneticamente modificati. Come dire: la coltivazione di Pagm non fa diminuire automaticamente l’utilizzo di pesticidi”.
A sostegno della tesi che i PAGM hanno determinato un maggior impiego di pesticidi ho rinvenuto nella letteratura specializzata successiva al 1998 solo un articolo, che per di più adotta una formulazione dubitativa (si tratta di M.A.Altieri – P.Rosset, Ten Reasons Why Biotechnology Will Not Ensure Food Security, Protect The Environment, And Reduce Poverty In The Developing World in AGbioforum 2, 3\4,1999. I due autori affermano “ The integration of the seed and chemical industries appears destined <sottolineatura mia> to accelerate increases in per acre expenditures for seeds plus chemicals, delivering significantly lower returns to growers”; gli autori citano a sostegno di questa conclusione solo l’autore di un articolo non pubblicato, che non ho quindi potuto verificare).
Al contrario, tutte le ricerche sul campo compiute negli ultimi anni, e tutti i dati raccolti, offrono dati univoci e concordanti in senso opposto, e cioè che quasi tutti i PAGM permettono una consistente riduzione nell’uso di pesticidi.
Rinvio ancora al documentatissimo scritto di Marra e a tutti i dati e la letteratura ivi citata, gran parte della quale può essere consultata su Internet.
Assai documentato risulta anche uno studio – condotto con riferimento a soia RR e cotone Bt riportando dati separati per gli Stati Uniti e per il resto del mondo (J.Falck-Zepeda, – G.Traxler – R. Nelson, Surplus distribution from the introduction of a biotechnology innovation in American Journal of Agricultural Economics,n. 82, 2000, pagg., 360-369); esso evidenzia i consistenti benefici ottenuti dagli agricoltori americani nel 1996 e nel 1997 rispetto ai loro concorrenti nel resto del mondo proprio per effetto della riduzione dell’uso di pesticidi, e quindi della riduzione dei costi per l’acquisto degli stessi.
Altrettanto importante è uno studio del 1999, che partendo dai dati relativi alla diminuzione dell’impiego di pesticidi indotta dall’uso della soya RR, costruisce un modello agroeconomico mondiale per individuare gli effetti sulle varie economie e sulle varie agricolture di questo trend, con conclusioni non propriamente tranquillizzanti (G.Moschini – H.Lapan – A.Sobolevsky, Trading technology as well as final products: Roundup Ready soybeans and welfare effects in the soybean complex, in The Shape of the Coming Agricultural Biotechnology Transformation: Strategic Investment and Policy Approaches from an Economic Perspective. Proceedings of the Third Conference of the International Consortium on Agricultural Biotechnology Research, Rome, Italy, 1999).

3. DS: “Un’altra “verità” ben lontana dall’essere provata è che l’utilizzo di Pagm faccia crescere la produttività; su questo aspetto, i dati disponibili che mettono a confronto costi e produttività di sementi modificate e tradizionali presentano una realtà contraddittoria”.
Anche questa affermazione, forse giustificata fino al 1997 e quindi nei primi anni di introduzione a regime dei PAGM, per la insufficienza dei dati a disposizione e per l’incompleta elaborazione di modelli di riferimento e di analisi (che tengano conto, per esempio degli effetti meteorologici, delle ondate imprevedibili di parassiti, e così via), è ora priva di qualsiasi fondamento.
La ricerca più imponente e significativa al riguardo – condotta su 10 diversi PAGM – è stata curata dal National Center for Food and Agricultural Policy americano, ed è stata oggetto di un Rapporto pubblicato nel giugno 2002 (Leonard P. Gianessi – Cressida S. Silvers – Sujatha Sankula – Janet E. Carpenter, Plant Biotechnology: Current and Potential Impact For Improving Pest Management In U.S. Agriculture: An Analysis of 40 Case Studies. Tutto lo studio, e il sommario – denominato executive summary sono consultabili in www.ncfap.org/40CaseStudies/NCFAB%20Exec%20Sum.pdf).
Le conclusioni del Rapporto non lasciano dubbi: l’adozione dei PAGM negli Stati Uniti ha portato aumento di produttività, maggiori profitti per gli agricoltori, oltre che, come detto, una consistente riduzione dell’uso di pesticidi.
In particolare, nel 2001 le coltivazioni di otto PAGM (mais, cotone, canola, grano, soyabean, riso papaia e squash) hanno determinato una maggior produzione di 4 miliardi di pounds (mantengo questa unità di misura non mi è chiaro a quale tipo di pound lo scritto si riferisca), ridotto i costi di produzione di 1,2 miliardi di dollari e ridotto l’uso di pesticidi per un valore di 46 miliardi di pounds.
Il maggior guadagno in termini di produttività si è ottenuto proprio con il mais geneticamente ricombinato: ben 3,5 miliardi di pounds, seguito dal cotone Bt (185 milioni di pounds).
Il maggior risparmio in termini monetari è stato realizzato proprio con la soya RR (circa 1 miliardo di dollari); seguono il cotone (133 milioni di dollari) e il mais (58 milioni di dollari)
Sempre l’uso della soia modificata ha permesso la più consistente riduzione nell’uso di pesticidi: 6,2 milioni di pounds (per ulteriori dati concernenti la soia si veda in particolare lo scritto di L.Gianessi – J.Carpenter, Agricultural biotechnology: Benefits of transgenic soybeans, Washington, DC: National Center for Food and Agricultural Policy, 2000 consultabile in www.ncfap.org.
In conclusione, le affermazioni di DS sono infondate e senza riscontro. Ma soprattutto sono tesi che vanno contro il senso comune.
Infatti, perchè mai si sarebbero verificate crescite così imponenti e impetuose nell’uso dei PAGM se l’effetto è quello di spendere di più, inquinare di più e guadagnare di meno? Perché mai gli agricoltori americani e quelli degli altri paesi del mondo sono così irrestibilmente trascinati all’uso di PAGM? È credibile che siano tutti “dipendenti delle varie Monsanto” e marionette nelle loro mani?

4. “Un altro punto importante, che Nespor sembra non vedere, riguarda la differenza tra le ibridazioni tradizionali e i Pagm. E’ verissimo che da secoli, non solo dal Novecento, quasi tutti i prodotti agricoli sono il risultato di ibridazioni, però con una diversità piuttosto cruciale rispetto ai Pagm: in laboratorio si ottengono varietà a cui con nessuna ibridazione naturale si potrebbe mai giungere, nel senso che si possono “incrociare” tra loro specie non interfeconde”.
Su questo punto mi limito, per brevità, a riportare quello che ho scritto: “Vi è però una differenza tra varietà vegetali ottenute con incroci tradizionali e PAGM. Le pratiche tradizionali sono vincolate al rispetto dei limiti naturali sulla compatibilità delle specie…. Al contrario, le tecnologie che utilizzano il DNA ricombinante possono essere utilizzate per ottenere modificazioni genetiche che non sarebbe possibile ottenere avvalendosi di pratiche tradizionali, inserendo in specie o varietà vegetali geni estratti da batteri o altri organismi animali, e realizzare così organismi transgenici”.
Proprio per questo, la normativa internazionale, europea e statale prevede severi controlli e rigorosi test prima di permettere l’immissione dell’ambiente dei PAGM.
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Passiamo ora dalle questioni di fatto alle critiche sul contenuto valutativo del mio articolo. DS dichiara di non capire da dove io deduca “la convinzione che i popoli poveri vogliono i Pagm”.
Ma io non ho parlato delle convinzioni dei popoli poveri.
Ho semplicemente detto che l’attuale situazione di disequilibrio alimentare tra paesi ricchi – dove il problema è la sovrapproduzione di cibo e l’obesità – e paesi poveri – dove milioni di persone vivono in condizione di sottonutrizione – è destinata ad aggravarsi nei prossimi decenni con enormi e imprevedibili ripercussioni sull’assetto politico e socioeconomico mondiale e sull’ambiente globale.
Questo disequilibrio alimentare è difficilmente eliminabile spostando il cibo da dove c’è a dove non c’è, sia perché i costi sono enormi, sia perché, quando ciò si fa, la maggior parte del cibo inviato non arriva a chi ne ha bisogno, ma ai vari livelli di accaparratori internazionali e locali.
Sarebbe eliminabile creando le premesse per lo sviluppo di quei paesi, e cioè avviandoli verso la democrazia, la pace, sistemi di governo non corrotti, prevedibilità e sicurezza per gli investimenti.
Ma non credo che DS ritenga che ciò avverrà nel giro dei prossimi dieci o venti anni: anzi, l’Africa, dopo una fase promettente, sembra ripiombata nel consueto disastro provocato da governi dittatoriali e corrotti, sostenuti dalle multinazionali delle materie prime, dal petrolio ai diamanti (si vedano i casi di Costa d’Avorio e Zimbabwe, che si aggiungono a quelli consueti di Congo, Liberia, e così via).
Il trasferimento non di cibo o di istituzioni, ma di semi adatti per i terreni e il clima dei paesi poveri può essere una soluzione che consente a migliaia e migliaia di contadini che oggi vivono – e spesso muoiono – tra gli stenti imposti da una agricoltura tradizionale.
Per quanto riguarda Vandana Shiva e l’agricoltura tradizionale: vai, caro DS, a fare un giro in Niger o in Burkina Faso, o in Ciad o nel Benin, in zone desertiche dove la gente fa da sempre sforzi sovrumani per far crescere quattro verdure, o magari nel Bangla Desh dove la gente fa sforzi altrettanto sovrumani per produrre cibo tra paludi e alluvioni, e vedi se e quanto è peregrina l’idea che “l’agricoltura dei paesi poveri possa svilupparsi solo valorizzando le proprie differenze”.
La verità è che in tutti questi paesi già si pratica l’agricoltura strettamente tradizionale e ben poche sono le speranze di incrementare la produttività perché fertilizzanti, pesticidi e nitrogeni costano molto di più di semi organicamente modificati, e nessuno se li può permettere.
Così i suoli non fertilizzati vengono abbandonati all’erosione, alla ricerca di nuove aree da consumare velocemente e da buttare: questo è il prototipo non del rispetto dell’ambiente, ma dell’agricoltura ambientalmente insostenibile (si vedano in questo senso le osservazioni e le previsioni di uno dei più grandi studiosi dell’agricoltura moderna, T.Dyson, World food trends and prospects to 2025. Proceedings Naional Academy of Sciences, 96, 1999, pagg. 5929-5936).
Certo, l’obiettivo non è facile.
In parte, ma solo in parte, perché c’è un sistema di proprietà intellettuale esteso ai PAGM che impedisce la libera diffusione di queste colture. Ed è questo uno dei punti sui quali a livello internazionale andrebbe aperto il confronto.
Ma – volendo tralasciare ora il discorso sulle possibile modifiche di questo sistema – scopriamo che la produzione di PAGM non è affatto una tecnologia complessa che solo pochi paesi ricchi sono in grado di realizzare: è invece una tecnologia relativamente semplice che è nell’ambito delle capacità tecnologiche di molti paesi poveri, tra cui Cina, India, Brasile, Corea del Sud, Indonesia, Filippine (dove da anni opera con successo l’International Rice Research Institute – IRRI) e, in Africa, Egitto e Nigeria (dove con aiuti internazionali è da qualche anno in attività l’International Institute For Tropical Agriculture – IITA) (su tutte queste esperienze si veda Maarten J. Chrispeels Biotechnology and the Poor, in Plant Physiology, 2000, 124, pp. 3-6 consultabile in www.plantphysiol.org/cgi/content/full/124/1/3?view= full&pmid=10982415).
Un’ultima, più generale considerazione.
I paesi europei, ricchi, grassi e egoisti, avendo molto più cibo di quanto possono usare, non hanno alcun bisogno di innovazioni nell’agricoltura, né di PAGM che rischiano solo di compromettere una stabilità agricola raggiunta a forza di misure protezionistiche (in barba alla tanto conclamata globalizzazione, attuata solo dove serve ai paesi ricchi) e di sovvenzioni di ogni tipo (che consumano ogni anno la metà delle disponibilità finanziarie dell’Unione europea).
Dall’altra parte, c’è un mondo che cerca i mezzi e gli strumenti tecnologici e finanziari per affrontare i problemi posti da oltre 600 milioni di affamati (stime ONU), e sono problemi che provocano, e provocheranno ancor più, deterioramento e disastri ambientali di vasta portata: non dimentichiamo che fin dagli anni Ottanta il Rapporto Brundtland ha segnalato che “se l’ambiente distrutto provoca povertà, la povertà provoca distruzione dell’ambiente”.
I movimenti ambientalisti diffondono la preoccupazione per futuri, improbabilissimi pericoli che i PAGM potrebbero provocare alla salute e all’ambiente (dimenticando che da anni i PAGM sono coltivati in miloni di ettari di terreno “contaminato” e distribuiti ai consumatori senza che alcuna conseguenza certa si sia verificata alla salute o all’ambiente) e non dicono una sola parola in merito ad un governo dell’agricoltura che protegge i grassi paesi europei e produce fame e distruzione dell’ambiente nei paesi poveri.
Come ha detto il segretario generale della Fao Diouf aprendo l’ultima assemblea generale svoltasi a Roma, parlando dei movimenti antiglobalizzazione e antibiotecnologie: “Non è un loro problema”.

Stefano Nespor