n. 47, inverno 2014

garcia marquez - ottobre 2014

Gabriel Garcia Marquez – ottobre 2014

IN COPERTINA: Gabriel Garcia Marquez, olio (Winsor & Newton) e matite su tela

 

IN QUESTO NUMERO

In apertura ci sono due pensieri di Tony Judt, il più acuto storico dell’Europa nel secondo dopoguerra. Seguono alcune considerazioni sull’idea di nazione e di straniero, tratte da un saggio di Richard Sennett dedicato al filosofo russo Alexandr Herzen: è un modo per tornare sul tema dell’esilio toccato nei volumi precedenti. C’e poi un brano di Thomas Paine su religione e rivelazione e, infine, la storia ancora misteriosa di una delle prime mappe del mondo (che sfiora anche il consueto tema dell’eresia). Poi, come al solito, le poesie. Questa volta ho scelto Joan Manuel Serrat, un cantautore catalano che compone per lo più in spagnolo; Heiner Muller, uno dei protagonisti della cultura tedesca prima e dopo la riunificazione; infine Gabriel Garcìa Marquez, con due poesie tratte dalla sua poco nota produzione poetica (una è considerata come il suo testamento).

Ci sono infine le consuete segnalazioni di libri da leggere e da non leggere di Eva Cantarella, Sabino Cassese, Luciana Castellina, Joseph DiMento, Giulia Gavagnin, Marina Nespor, Pasquale Pasquino, Michele Salvati e Roberto Satolli. E anche le mie. Si aggiungono Nicole Lebel e Fabio Lorenzoni.

Manca purtroppo la consueta segnalazione di Augusto Bianchi. Augusto è scomparso in ottobre. È stato un mio carissimo amico. Insieme abbiamo condiviso lavoro, progetti, scelte, iniziative (tra l’altro, abbiamo partecipato a fondare una rivista di diritto del lavoro, Lavoro80, che per molti anni ha dominato la scena milanese) e anche una casa in Toscana. Oltre a essere un avvocato di valore, Augusto ha scritto romanzi, racconti e pièces teatrali.

 

DUE PENSIERI SU COMUNISMO, CAPITALISMO E STATO

I

La caduta del comunismo nel 1989 ha provocato lo sfilacciamento delle dottrine che avevano tenuto faticosamente insieme la sinistra per tutto un secolo. La scomparsa improvvisa della variante moscovita del comunismo, per quanto perversa potesse esse- re, ha avuto un impatto devastante sui movimenti socialisti.Questo effetto è stata una peculiarità della sinistra. Se tutti i regimi conservatori e di destra dovessero implodere, macchiati dalla corruzione e dall’incompetenza che per lo più (ma con importanti eccezioni) li contraddistingue, l’ideologia conservatrice sopravviverebbe senza problemi: le ragioni per conservare l’esistente non verrebbero meno. Ma per la sinistra l’assenza di sviluppo di un’idea che progredisce nella storia lascia un irrimediabile spazio vuoto. Il conservatore può vivere senza idealismo e senza ideali; anzi, spesso vive meglio. Per la sinistra, è una catastrofe.

II

C’è solo una cosa peggiore dell’avere troppo Stato: è averne troppo poco. Con poco Stato, la gente ha a che fare con violenze, sopraffazioni, ingiustizie equivalenti a quelli di uno Stato autoritario; in più i treni non arrivano in orario. Poi, se ci si riflette, si capisce che la favola del Novecento “socialismo contro libertà” o “comunismo contro capitalismo” è fuorviante. Il capitalismo non è un sistema politico: è compatibile con dittature di destra (il Cile sotto Pinochet), dittature di sinistra (la Cina oggi), monarchie socialdemocratiche (la Svezia) e repubbliche plutocratiche (gli Stati Uniti). L’idea che le economie capitaliste prosperino solo in condizioni di libertà è meno scontata di quanto solitamente si pensi. Il comunismo invece è in grado di adattarsi a una serie di sistemi economici, rendendoli tutti economicamente meno efficienti. Ma questo fa capire che non c’è motivo di buttare a mare, insieme alla caduta del comunismo reale, qualsiasi progetto di pianificazione economica.

Da Tony Judt, Guasto è il mondo, Laterza 2012. Tony Judt (1948–2010) è stato uno dei maggiori specialisti della storia d’Europa dopo la seconda guerra mondiale: il suo Postwar. A History of Europe since 1945 è un classico sul tema. Nel 1995 ha fondato il Remarque Institute for the study of Europe at NYU. Già gravemente ammalato, ha scritto uno struggente e imperdibile libro di ricordi sulla propria giovinezza nella Londra del dopoguerra, The Memory Chalet. Ricordando la scarsità di cibo e il contingentamento di quegli anni in Inghilterra, Judt osserva che “l’austerità non era solo una condizione economica, ma un principio di etica pubblica” e prosegue: “anche se uno è allevato con cibo sgradevole da bambino, poi per quel cibo sente lo stesso nostalgia”.

 

DUE CANZONI DI JUAN MANUEL SERRAT

I fantasmi del Roxy

Vi ricordate, amici, che il Roxy

Era un cinema nella Piazza di Lesseps,

di quelli di terza visione

dove si proiettavano due film alla volta,

piene di amori impossibili

di passioni incontenibili e violente.

Banditi in cinemascope,

dame stupende e uomini superbi,

popolavano il Roxy quando si  spegnevano le luci.

Fu lì che Bogart giurò eterno amore a Laureen Bacall

guardandola fissa nei suoi occhi azzurri, e gli spettatori applaudirono entusiasti nella penombra del Roxy

quando lei disse di sì.

Io fui uno dei tanti che piansero

Quando annunciarono la sua demolizione.

Al suo posto hanno costruito

La Agenzia numero 13 del Banco centrale.

Ma lì dentro da un po’ di tempo

accadono cose che nessuno sa spiegarsi.

Una guardia notturna assicura che un transatlantico

Ha attraversato la hall

E sul ponte Fred Astaire e Ginger Rogers

ballavano insieme, proprio come una volta

Alcuni dicono che Clark Gable in persona

Facendo la fila allo sportello due

Con il suo sorriso ampio e beffardo

Si sia fatto una bella cassiera

E un funzionario di primo livello ha sorpreso  Glenn Ford

che nell’ufficio del direttore schiaffeggiava una bionda quasi nuda.

Così, non spaventatevi, amici, se aspettando l’autobus

lì davanti alla banca

vedete Gary Cooper che si mette a sparare.

Sono i fantasmi del Roxy

Che non trovano pace.

Gloria

Era vestita di tulle, la Gloria con occhi azzurri e penetranti

e con la boccuccia minuta e vermiglia sorrideva da una vetrina.

Le sue scarpette di vernice rossa scintillavano ai raggi del sole.

Pulita e graziosa. Sempre all’ultima moda.

Io andavo tutti i giorni a guardarla.

Perché  l’amavo,  questa  ragazza  di  cartapesta.

Non era come quelle donne

che mi hanno spolpato fino all’osso lasciandomi spesso senza un quattrino

e hanno distrutto tutte le mie illusioni

Lei mi aspettava sempre, nella sua vetrina;

mi vedeva, appena giravo l’angolo,

e, come un passerotto, mi pregava:

“liberami, liberami…

fuggiamo, viviamo la nostra storia d’amore”.

Così un giorno con una pietra ho rotto il vetro

e sono scappato con lei tra le mie braccia.

Il suo corpo tremava tutto mentre la abbracciavo.

Ci sorrideva la luna di marzo, io le parlavo del nostro futuro

lei piangeva in silenzio… ve lo giuro.

E tra le quattro mura della mia casa, le raccontai, stringendomela al petto,

Tutte le mie pene.

Tra le mie mani avevo tutto l’universo,

Trasformammo insieme il passato in un verso perduto dentro una poesia

E poi, sono arrivati,

Mi hanno trascinato di peso fuori dalla casa

E mi hanno chiuso dentro queste pareti bianche

Qui vengono a trovarmi i miei amici

Una volta al mese.

Joan Manuel Serrat è nato nel 1943 a Barcellona. È stato uno degli iniziatori della Nuova canzone catalana, un movimento di giovani che rivendicavano l’uso della lingua catalana sotto il regime franchista. Per questo fu a lungo bandito dalla televisione spagnola e le sue canzoni furono proibite dal regime. Nel 1971 esce Mediterráneo, il suo disco più noto. L’anno successivo pubblica un disco di canzoni su testi di Miguel Hernandez, uno dei grandi poeti della letteratura spagnola. Nel 1975 fugge in Messico, per sottrarsi a un ordine di arresto, ma ritorna un anno dopo, alla morte di Franco. Ha scritto canzoni su testi di Antonio Machado, Rafael Alberti, Salvat Papasseit e Mario Benedetti. Nel 1974 Gino Paoli gli ha dedicato un album dal titolo I semafori rossi non sono Dio. 

 

DUE BRANI SU NAZIONE, STRANIERO E ESILIO

I

Nel suo saggio “Vico e Herder” Isaiah Berlin osserva che l’idea di nazione aveva avuto inizio con uno scopo progressista, per affermare la dignità di tutte le differenze umane.

Per Herder infatti negli uomini ciò che conta di più sono non le uguaglianze, ma le differenze, poiché li fanno ciò che sono e li rendono sé stessi. È questa forse la prima audace affermazione che gli uomini sono figli della loro cultura. Berlin ricorda anche che in modo analogo Voltaire afferma che “è una terribile arroganza affermare che per essere felice  ognuno  dovrebbe  diventare  europeo”.  Pochi anni dopo, Kant osserva che gli uomini migliorano quando sono in grado di cogliere gli stimoli che provengono da chi è diverso da loro. Del resto, la rivoluzione francese aveva insegnato che non era necessario abitare a Parigi per credere nella libertà, nell’uguaglianza e nella fraternità.

La constatazione che in luoghi diversi popoli diversi scoprono modi diversi per perseguire la felicità avrebbe dovuto favorire in Europa la diffusione di un atteggiamento cosmopolita. Sono invece prevalsi nel corso dell’Ottocento la retorica del nazionalismo e il disprezzo per le culture diverse. Il territorio diventa quindi sinonimo di identità. L’origine di ciascuno diventa anche il suo destino.

II

Nel meditare sulla propria condizione di esiliato che non farà più ritorno ai suoi luoghi natali, Herzen comprende che l’idea di nazione rappresenta un doppio pericolo per l’identità: il pericolo di dimenticare chi si è e il pericolo di ricordare chi si è stati.

Nel primo caso, ci si trova in una situazione di svilimento determinata dal desiderio di assimilarsi, nel secondo si resta annientati dalla nostalgia.

Herzen giunge così alla conclusione che la patria non è un luogo fisico ma un bisogno che si sposta: la sua vita si svolge e si realizza in Inghilterra, ma la patria di cui sente il bisogno cambierà di paese in paese, da un luogo assolato a un luogo innevato, dal piccolo villaggio familiare non lontano da Mosca ai languidi caffè di Roma. Ovunque si sia, la patria è sempre altrove. Anche se, da ultimo, Herzen continuava a occuparsi delle vicende della Russia, confessa che “a poco a poco cominciai a capire che non avevo nessun posto dove andare e nessuna ragione per andare in qualche altro posto”.

Ciò che importa, per Herzen, è di evitare quel che Freud qualche anno più tardi avrebbe chiamato “il ritorno del rimosso”, un pericolo maggiore della nostalgia per il passato che incombe su coloro che non si impegnano a trasformare la parte di sé stessi che vive nella memoria. Chi è in esilio o è lontano dal proprio luogo natale deve sottoporre la memoria a una rifrazione, in modo da non essere afferrato dal passato e rivivere i torti e le tragedie che un tempo ha subito. Così, il consiglio di Herzen per lo straniero è di comportarsi nel paese in cui vive partecipando senza identificarsi. Solo così si può evitare l’impulso all’autosegregazione.

Al posto dell’antica formula per cui nulla che sia umano mi è estraneo, la pericolosa formula dell’identità moderna diviene quindi nulla che mi sia estraneo è reale.

Da Isaiah Berlin, Vico and Herder: Two studies in the History of Ideas, The Hogarth Press 1976; Richard Sennett, Lo straniero. Due saggi sull’esilio, Feltrinelli 2014. La traduzione italiana dell’autobiografia di Aleksandr Herzen è Il passato e i pensieri, Einaudi 1996.

 

TRE POESIE DI HEINER MULLER

 

I

Sopra un foglio con poesie fresche di macchina da scrivere

zampetta un (piccolo) insetto: ora mi diverte

dieci anni fa lo avrei ammazzato senza esitazione.

Che cosa è cambiato:

io o il mondo?

II

Passando davanti allo scaffale dei libri vedo il titolo

The green hills of Africa.

Per quanto saranno ancora verdi?

Stupidaggini. La mia reazione

non è nient’altro che

il desiderio di un mondo

o di un luogo che nulla abbia a che fare

con ciò di cui sono costretto

a scrivere, ma poi, costretto da chi?

III

Ultimamente quando voglio metter per iscritto

Una frase una poesia una saggia massima

La mia mano si ribella alla coazione di scrivere

Cui la mia testa vuole sottometterla.

La scrittura diventa illeggibile.

Solo la macchina da scrivere

Mi salva dall’abisso dal silenzio

Che sarà il protagonista del mio futuro.

Heiner Müller (1929 -1995) è considerato il più grande drammaturgo tedesco del Novecento dopo Bertolt Brecht. Passa la giovinezza nella Germania hitleriana. Nel 1951 si trasferisce nella DDR e ne segue le sorti con la sua produzione, dalle origini al tracollo. Riceve premi (tra cui Premio Heinrich Mann dell’Accademia delle Arti) per le sue prime opere teatrali, Lo stakanovista e Die Korrektur. Ma nel 1961 la messa in scena di Die Umsiedlerin oder Das Leben auf dem Lande viene sospesa dopo la prima rappresentazione e Muller è espulso dall’Unione degli scrittori. Sarà riammesso solo nel 1988. La sua autobiografia Guerra senza battaglie. Una vita sotto due dittature (Zandonai 2010) descrive la sua difficile e controversa vita in quel paese. Dopo la riunificazione è nominato direttore del Berliner Ensemble. Le sue opere teatrali trattano la realtà della vita nella DDR, ma assai note sono anche la rivisitazione in chiave moderna di tragedie greche antica (Filottete, Edipo Tiranno) e i drammi shakespeariani (Hamletmaschine, Macbeth). Le sue poesie sono state raccolte da Suhrkamp nel 2014: Warten auf der Gegenschräge: Gesammelte Gedichte. 

 

CONSIDERAZIONI SULLA RIVELAZIONE

Le principali religioni monoteiste del passato si sono affermate pretendendo di essere portatrici di una speciale missione su incarico di Dio, comunicata però solo a specifiche persone: gli Ebrei hanno così Mosè, i Cristiani Gesù, gli apostoli e i santi; i musulmani Maometto.  In tutti questi casi Dio non ha parlato e non si è rivolto a tutti gli esseri umani, come ci si sarebbe potuti attendere.

Ovviamente, nessuno può contestare il diritto di Dio di parlare con chi vuole e quindi di rivolgersi a una sola persona invece che a molte o a tutti; anche se quest’ultima soluzione sarebbe stata preferibile e avrebbe evitato guerre, massacri e persecuzioni compiute in nome della vera religione.

Ma, anche a prescindere da questa scelta che di per sé rende il tutto non facilmente credibile, se qualcosa viene rivelato a una sola persona, solo per questa persona è una rivelazione. Non lo è per tutti gli altri ai quali la persona prescelta riferisce la rivelazione, né tantomeno lo è per quelli che poi la riferiscono ad altri ancora. Per tutti, salvo il primo, è semplicemente il racconto di una rivelazione che si afferma avvenuta.

Così, quando Mosè disse che aveva ricevuto due tavole della legge direttamente da Dio, gli Ebrei non avevano alcun dovere di credergli, dato che i comandamenti di per sé non hanno alcuna evidenza divina: contengono alcuni regole etiche che qualsiasi legislatore avrebbe potuto stabilire senza interventi soprannaturali. Lo stesso vale per Maometto che racconta di aver ricevuto il Corano da un angelo, dopo che era stato scritto in cielo.

Diverso è il caso della religione cristiana. Tutto ciò che oggi possediamo è riferito di seconda o terza mano. Gesù non ha lasciato alcun scritto né alcuna traccia della propria esistenza. Quando poi si racconta che una donna denominata Maria afferma di aver avuto un figlio senza aver avuto alcun rapporto con un essere umano, ci si può credere o meno, tenendo conto che né Maria né il marito hanno lasciato una conferma di questa curiosa affermazione: abbiamo solo voci che riferiscono voci.

A ciò bisogna aggiungere che, a differenza delle altre, la religione cristiana è di particolare inaffidabilità. Non tanto per il concepimento divino di Gesù, dato che si tratta di un fatto riservato, comprensibilmente verificatosi senza testimoni, ma per la sua resurrezione e la sua ascesa al cielo. È questo un fenomeno che avrebbe dovuto avere numerosi spettatori e suscitare un vasto interesse a Gerusalemme, non diversamente da quel che accade ai giorni nostri per l’ascesa di una mongolfiera. Invece, solo i suoi amici più fidati – e nessun estraneo – sostengono di esserne stati testimoni.

Da Thomas Paine, The Age of Reason, in Works, 1790, Coyote Publishing Press

DUE POESIE DI GABRIEL GARCIA MARQUEZ

Capita che sfiori la vita

Capita che sfiori la vita di qualcuno, ti innamori

e decidi che la cosa più importante è toccarlo,

convivere con le sue malinconie e le sue inquietudini,

e poi arrivare a riconoscersi nello sguardo dell’altro,

sentire che non ne puoi più fare a meno…

e cosa importa se per avere tutto questo devi aspettare

cinquantatré anni sette mesi e undici giorni,

notti comprese.

Lettera di addio

Se per un istante Dio si dimenticherà che sono una marionetta di stoffa

e mi regalerà un poco di vita,

non direi tutto quello che penso,

ma penserei tutto quello che dico.

Darei valore alle cose non per quello che valgono,

ma per quello che significano.

Dormirei poco, sognerei di più,

sapendo che per ogni minuto che chiudiamo gli occhi

perdiamo sessanta secondi di luce.

Dipingerei con un sogno di Van Gogh sopra le stelle un poema di Benedetti

e una canzone di Serrat sarebbe la serenata che offrirei alla luna.

Innaffierei con le mie lacrime le rose, per sentire il dolore delle loro spine

e il carnoso bacio dei loro petali… Non lascerei passare un solo giorno

senza dire alle persone che amo che le amo.

Agli uomini spiegherei

quanto sbagliano a pensare

che smettono di innamorarsi quando invecchiano, senza capire

che invecchiano quando smettono di innamorarsi.

A un bambino darei le ali,

ma lascerei che imparasse a volare da solo.

Agli anziani insegnerei

che la morte non arriva con la vecchiaia

ma con la dimenticanza.

Tante cose ho imparato in questi anni.

Ho imparato che tutti amano vivere sulla cima della montagna,

senza sapere che la vera felicità

sta nel salire verso la cima.

Ho imparato che quando un neonato stringe con il suo piccolo pugno

il dito di suo padre, poi lo tiene stretto per sempre.

Ho imparato che un uomo

ha il diritto di guardarne un altro

dall’alto al basso solamente

quando deve aiutarlo ad alzarsi.

Gabriel José de la Concordia Garcia Marquez nasce nel 1927 ad Aracataca, in Colombia, primo di sedici figli. Il padre è farmacista. La madre è chiaroveggente. Nel 1947 si trasferisce a Bogotà per studiare legge e pubblica il suo primo racconto. Ben presto abbandona gli studi in giurisprudenza per dedicarsi al giornalismo, come reporter e poi come critico cinematografico. Nel 1954 si trasferisce prima a Roma, per studiare regia al Centro sperimentale di Cinematografia, poi a Parigi e a Londra. Nel 1958, si trasferisce a Cuba, diviene amico di Fidel Castro e lavora per l’agenzia cubana Prensa Latina, trasferendosi nel 1961 a New York. Nel 1964 si stabilisce in Messico. Nel 1967 esce Cent’anni di solitudine, che resta il suo capolavoro: tradotto il 37 lingue, vende oltre 60 milioni di copie. Nel 1982 riceve il premio Nobel per la letteratura. Muore il 17 Aprile 2014. La sua autobiografia, Vivir para contarla, con ampio spazio ai ricordi riguardanti la sua famiglia, è scaricabile su Kindle.

 

IL NUOVO MONDO

Tra il 1506 e il 1507 appaiono tre mappe del mondo che per la prima volta riportano i nuovi territori scoperti a seguito del viaggio di Colombo.

La prima, elaborata da Giovanni Matteo Contarini è pubblicata a Venezia (e si trova oggi al British Museum).

Nel 1507 è pubblicata a Roma una mappa disegnata da Johann Ruysch. Entrambe ritraggono il Nuovo Mondo come un ampio promontorio del continente asiatico. In quelli stessi anni appaiono però anche carte geografiche dell’Asia (non dell’intero mondo) che raffigurano l’America come un territorio separato da uno stretto tratto di mare.

Ben diversa da tutte queste è la terza mappa del mondo che appare nella seconda metà del 1507. È denominata  Universalis cosmographia secundum Ptholomaei traditionem et Americi Vespucii aliorumque lustrationes. La mappa è preceduta da una Cosmographiae Introductio. Ne sono autori due umanisti e geografi tedeschi: Martin Waldseemüller (Martinus Hylacomylus) e Matthias Ringmann. Il primo nasce nel 1470 vicino a Freiburg. Nel 1506 si trasferisce a Saint-Dié in Lorena, divenendo il cartografo – o, come lui preferiva essere chiamato, il cosmografo – di Renato II duca di Lorena. A Saint-Dié giunge nello stesso anno Matthias Ringmann (noto anche con lo pseudonimo di Philesius Vogesigena). Aveva appena pubblicato a Strasburgo, con il titolo De Ora Antarctica, una versione in latino del resoconto di Amerigo Vespucci a Lorenzo di Pier Francesco de’Medici del suo terzo viaggio, conosciuto come Mundus Novus. Waldseemüller e Ringmann   si mettono al lavoro insieme e in poco meno di un anno pubblicano una delle opere più rivoluzionarie nella storia del pensiero geografico e, secondo alcuni, della storia delle idee in generale. L’introduzione spiega infatti che il mondo è costituito non da tre parti ma da quattro: un nuovo continente era stato scoperto da Amerigo Vespucci e, in suo onore, Waldseemüller e Ringmann lo denominano America.

È la prima mappa che individua con chiarezza la vasta distesa d’acqua che isola il continente americano: l’Oceano Pacifico.

Solo che Waldseemuller e Ringmann non potevano saperlo: l’esistenza di questo Oceano diviene nota solo molti anni dopo, nel 1513, con il viaggio di Vasco Nunez de Balboa. Per di più, la mappa disegna una stretta penisola: sembra proprio essere la Florida, che però fu scoperta solo nel 1512 da Ponce de Leòn. Infine riporta con buona precisione la larghezza dell’America del Sud che sarà nota ancor più tardi. Nessuno ha finora chiarito come abbiano fatto i due autori ad anticipare scoperte di molti anni successive.

E ben comprensibile che l’opera creò subito scalpore. Ma già dopo pochi mesi  la mappa e l’introduzione divengono introvabili e in breve tempo tutti i 1000 esemplari, tiratura enorme per l’epoca, scompaiono dalla circolazione.

Molti, compreso lo stesso Matthias Ringmann, sospettano che qualcuno ne avesse fatto incetta e li avesse poi distrutti per impedirne la diffusione. Era un sospetto più che ragionevole. I governi europei stavano infatti lanciando proprio in quegli anni le loro spedizioni per occupare e rivendicare la sovranità su un mondo nuovo dalle dimensioni ancora sconosciute e con immense ricchezze di cui appropriarsi. Le conoscenze geografiche erano segreti gelosamente custoditi che la mappa di Waldseemüller rischiava di compromettere. Ma anche la Chiesa figurava tra i sospettati: chiunque introducesse modifiche all’assetto cosmografico tolemaico era ritenuto colpevole di eresia e i suoi scritti erano distrutti o bruciati. Ringmann, in una sua lettera del 1510 all’amico Jakob Wimpfeling, anch’egli allievo di Ludwig Dringenberg, il padre dell’umanesimo alsaziano, formula proprio quest’ultima ipotesi,  annuncia di avere già degli indizi concreti e si ripromette di svolgere indagini in proposito. Non ci riuscirà: morirà improvvisamente per cause sconosciute pochi mesi dopo, nel 1511, a soli 29 anni. Nessuno proseguirà le sue indagini.

Per molti secoli, l’opera  si riteneva perduta, salvo alcune copie assai approssimative. Poi, nel 1901 una carta originale è stata scoperta dal gesuita e storico della cartografia Joseph Fischer nella biblioteca del principe Johannes zu Waldburg-Wolfegg nel Wurttemberg, accuratamente celata, probabilmente per sottrarla alla distruzione, tra due testi della fine del XVI secolo. Nel 2001 è stata acquistata dal Governo degli Stati Uniti per 10 milioni di dollari ed è oggi custodita a Washington alla Libreria del Congresso.

Sull’argomento: Toby Lester, The Waldseemüller Map: Charting the New World, in Smithsonian Magazine   dicembre 2009; John W. Hessler, The Naming of America: Martin Waldseemuller’s 1507; World Map and the Cosmographiae Introductio, Giles 2008; Mark Monmonier, Coast Lines: How Mapmakers Frame the World and Chart Environmental Change, University of Chicago Press, 2008.

 

LIBRI DA LEGGERE O DA RILEGGERE

Ecco le indicazioni dei miei amici.

Paul Veyne, Et dans l’antiquité je ne m’ennuierai pas. Souvenirs, Paris, Albin Michel, 2014.

Libro  straordinario  di  uno  dei  più  grandi  storici dell’antichità, capace come pochi  di unire alla eccellenza scientifica la capacità di rivolgersi a un pubblico  colto, non necessariamente specialistico. Professore onorario di storia romana al Collège de France (dal quale – caso unico, credo –  ha dato le dimissioni: da non perdere le pagine deliziosamente ironiche sul suo arrivo al Collège e l’incontro con i mostri sacri dell’antichistica), Paul Veyne ripercorre la sua vita in quella che non è una tradizionale biografia. Sono ricordi, come li definisce, di una vita intensa, anticonformista,  di chi non si preoccupa degli altrui giudizi e rievoca momenti  tragici di una vita pienamente e liberamente vissuta, insieme a divertentissimi (a volte irriverenti) ritratti e aneddoti.

Eva Cantarella

 

Kate Atkinson, Life After Life, Transworld Digital 2013.

What if you could live again and again, until you got it right? The novel opens with Ursula Todd killing Hitler: she says with a gun leveled at his heart: Führer für Sie. It concludes [or doesn’t] after a war. In between Ursula dies again and again: “Darkness Fell” is how the chapters end, only to have the next begin with Ursula meeting another horrible  fate– beaten to death by an abusive husband, raped by someone else,  or born to die, immediately, without a breath. A tour de force for many this highly acclaimed new book by Kate Atkinson must be worth a try. For me it   disappointed and irritated. Fundamentally, it counters what fiction means by contracting with the reader to care (the first time, before realizing the conceit) and then tossing the story cared about. This is a too long novel with some parts engaging prose and much trite, unimportant, superficial, and stereotyping dialogue.

Joseph DiMento

 

Bertina Hendrichs, La giocatrice di scacchi. Einaudi 2006 (originariamente pubblicato in francese da un’autrice di madrelingua tedesca).

Pulendo una stanza, la cameriera di un albergo di Naxos, una isola delle Cicladi, fa cadere una pedina dalla scacchiera di due turisti e non sa dove rimetterla. Si incuriosisce così al gioco degli scacchi che diventa ben presto una passione travolgente. Come tutte le passioni travolgenti di una donna sposata, anche quella della cameriera diventa clandestina. Il marito si insospettisce e si ingelosisce, pensa sia un amante… E’ un romanzo breve che tiene col fiato sospeso.

Marina Nespor

 

Ernest Hemingway, Un’estate pericolosa, Mondadori 1999.

Ho letto questo libro per una pura coincidenza. Avevo invitato alcuni amici a inviarmi citazioni di grandi romanzi che li avessero particolarmente colpiti. Uno di questi mi ha fatto recapitare ‘Un’estate pericolosa’ proprio due giorni prima che partissi per Siviglia dove avevo già prenotato un biglietto per la corrida. Avevo letto distrattamente molti anni fa “Fiesta”. Il testamento hemingwaiano sul mondo delle corride, invece, complice anche il mio debutto come spettatrice, mi ha illuminata sul mondo della morte, della gestualità, della sfida e anche su alcune sfumature della Spagna franchista. Questo libro nasce da una richiesta di ‘Life’ che aveva invitato lo scrittore a un reportage sulla sfida ’mano a mano’ tra i due più grandi toreri dell’epoca, Luis Miguel Dominguin e Antonio Ordonez, quest’ultimo anche amico personale di Hemingway. A volte il testo è prolisso ma anche incredibilmente caustico e puntuale in alcune descrizioni, come quella dell’arrivo a Pamplona per la festa di San Firmin, dove lo scrittore raccomanda di non portare la moglie o la fidanzata, perché lì, molto probabilmente, ‘troverà un uomo migliore di voi’. Ciò che più di tutto colpisce con tratti di (macabra) poesia è, però, la celebrazione della tauromachia che trova il suo climax nella faena. In quell’attimo l’uomo diviene immortale come fosse in preda a un’estasi religiosa di berniniana memoria, che trascina con sé la folla nell’illusione che l’eroe (il torero) domini le forze della natura impersonate dalla veemenza taurina. Hemingway ci regala questa epifania poco prima della sua morte e ci fa capire, ancora una volta, che la vita è fatta di sangue, emozioni e colore rosso. Infatti dopo poco ha posto fine alla sua vita perché non tollerava di non essere  più in grado di sostenere quel rosso, come un toro morente sulla sabbia dell’arena.

Giulia Gavagnin

 

Kamel Daoud, Meursault, contre-enquête, Actes Sud, 2014.

Le frère de « l’Arabe » qu’a tué « l’Etranger » raconte le fait de son coté à lui. Le corps de Moussa, son ainé, misérable manœuvre sur le port d’Oran n’a jamais été retrouvé, donc il n’a pu être enterré. Le narrateur se recroqueville avec sa mère sur une pauvre vie que domine cette disparition. Jusqu’aujour où la débâcle qui a suivi les accords d’Evian en 1962, vingt ans plus tard, lui donne l’occasion de tuer à son tour un français en fuite. Arrêté, jugé, il est finalement relâché avec le reproche d’un meurtre qui n’a pas pris place dans la guerre de libération, seul cadre officiellement reconnu. Ce roman, très bien construit et écrit est l’occasion d’une description minutieuse de la vie de pauvres algériens: le rapport fusionnel à la mère, l’oisiveté sans fin malgré de bonnes études, la sexualité quasi-impossible, la misère pleine de rites inutiles, le rapport aux colons dont on se précipite pour squatter la maison lorsqu’ils fuient. Mais,  comme  Camus,  c’est  aussi  l’interrogation d’un ciel vide auquel s’ajoute la misère, l’intense solitude, l’absence de toute communication et de tout espoir. Avec une expérience, sinon une langue, totalement différente, la problématique du roman reprend celle de Camus et c’est une performance.

Nicole Lebel

 

Leonardo  Padura,  L’uomo  che  amava  i  cani, Marco Tropea, 2010.

Il 21 agosto 1940 Lev Davidovicˇ Bronštejn, più noto come Trotskij, venne assassinato nella sua casa a Coyoacán in Messico da un individuo che non rivelò né il suo vero nome né le reali motivazioni del suo delitto e trascorse 20 anni nelle carceri messicane prima di finire in Russia e poi a Cuba. Il romanzo dello scrittore cubano racconta tre storie vere che si inseguono nei capitoli dello pseudo-romanzo. Quella dell’esilio di Troskij dal Kazakhstan a Città del Messico, quella del sicario mandato da Stalin, il comunista catalano Ramon Mercader e quella dell’autore del libro, uno scrittore cubano che vive la condizione disperata della vita nell’isola dei Caraibi sotto il regime di Castro. Il libro racconta la discesa all’inferno e la morte di un’illusione affogata nel cinismo, nella miseria e nella paura. Padura non ha mai voluto lasciare Cuba; la versione originale del suo libro è stata pubblicata in spagnolo a Barcellona. Non sono in grado di dire se il libro sia in vendita a Cuba.

Pasquale Pasquino

 

Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo, La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa, Laterza, 2014.

Da qualche anno il processo palermitano sulla presunta trattativa tra Stato e mafia impegna il mondo dell’informazione e divide il Paese. La Corte d’Assise di Palermo sta giudicando esponenti di vertice di “Cosa nostra”, alcuni politici e pubblici ufficiali che, in concorso tra loro ed a partire dall’inizio del ‘92, avrebbero condizionato lo Stato, realizzando e minacciando stragi, per ottenere l’attenuazione del “carcere duro” e altri benefici per gli associati. Ma poiché il reato di trattativa non esiste, si procede per il delitto di violenza o minaccia ai danni di un Corpo politico per impedirne o turbarne l’attività (art. 338 c.p.). L’accusa appare persino ovvia per i boss mafiosi, non invece per gli uomini delle istituzioni imputati. Ne spiegano le ragioni uno storico (Lupo) ed un giurista (Fiandaca), con 65 pagine a testa, convergenti nelle conclusioni e di encomiabile chiarezza: la storia narra e interpreta fatti (magari anche con l’aiuto delle sentenze), ma ai magistrati tocca altro compito, quello di provare la responsabilità degli imputati per specifici reati e di punirli in presenza di prove sufficienti. Lupo ricostruisce omicidi e processi di mafia, spiegando di non credere alla trattativa perché gli anni dal ’93 in poi, dopo le stragi, videro una sostanziale sconfitta di Cosa Nostra, indebolita dagli arresti e ormai convinta “che quella strada non portava da nessuna parte”. Fiandaca precisa che oggetto del processo non è il giudizio etico, politico o di opportunità sul ben possibile cedimento al ricatto delle istituzioni, ma l’accusa di concorso tra mafiosi da un lato e politici o pubblici ufficiali dall’altro, sulla base del piano condiviso di “supportare Cosa Nostra nella realizzazione dei singoli attacchi volti a imporre la trattativa”. Secondo l’accusa, cioè, le istituzioni avrebbero ceduto non per evitare stragi e per timore di esse, ma per favorire l’azione della mafia. Lupo e Fiandaca hanno avuto il merito di mettere a fuoco gli interrogativi cui il processo deve dar risposta e gli equivoci in cui rischia di sfaldarsi: ci vuole coraggio a farlo in un’epoca in cui anche la capacità critica dello studioso soffoca dinanzi alla retorica e chi la esercita viene per ciò solo considerato nemico della verità e del bene comune.

Armando Spataro

 

Albert Camus, La peste, Gallimard, édition papier 1947; édition numérique 2010

Avevo preso in mano La peste di Albert Camus diverse settimane fa, quando cominciavo a rimuginare sull’epidemia di Ebola in Africa occidentale e di paura in occidente, e sentivo il bisogno di rileggere un testo che mi aveva colpito nell’adolescenza. Avevo trovato subito nelle prime pagine l’unica frase che ricordavo ancora nitidamente, quella in cui si descrive il passante notturno cui capita “de sentir sous son pied la masse élastique d’un cadavre en- core frais” (qui si tratta ancora di topi). Poi un’imprevedibile svolta delle cose mi ha portato a partire per la Sierra Leone. Ho raggiunto il contingente di italiani impegnato su quel fronte contro Ebola, e sto cercando di dare un contributo perché l’intervento sanitario sia impostato per quanto possibile con metodo scientifico. Nonostante l’alone di razionalità, se dovessi definire la mia decisione userei il termine “dada”, con tutto il suo carico di gratuità, disgusto e sberleffo. Una volta qui, nel campo di Goderich sulla costa a sud di Freetown, bellissima ma ora impercorribile, ho ripreso a leggere il libro nei momenti liberi e mi è facile riconoscere l’assurdo come condizione umana normale e inevitabile, mentre faccio fatica a sperare nella possibilità di superarlo con la solidarietà. Possiamo solo provarci.

Per alleggerire queste righe un po’ grevi, copio la frase, insensata ed elegantissima, che un personaggio del romanzo passa l’intera vita a riscrivere in infinite varianti, come incipit di un romanzo che non arriverà mai al secondo periodo: “Par une belle matinée du mois de mai, une élégante amazone parcourait, sur une superbe jument alezane, les allées fleuries du Bois de Boulogne”. Quattro bei decasillabi.

Roberto Satolli

 

Laura Barile legge Amelia Rosselli, Nottetempo 2014.

Quanto tempo è che non leggete poesie? Non credo di essere un’eccezione: finita la scuola, è difficile che capiti di riaprire un libro di versi. Un po’ perché non viene più in mente, un po’ anche, però, perché i poeti sono difficili e mentre in classe c’è il professore che ti aiuta ( almeno quando è bravo, io ne avevo uno bravissimo), in  età matura sei sola. E’ bellissimo perciò trovare un libro come quello di cui questa volta voglio parlarvi, perché mette insieme una poetessa fondamentale per la nostra epoca, Amalia Rosselli, e una straordinaria mano, quella di Laura Barile, che ti guida verso per verso, aprendoti la testa, stimolandoti la fantasia, raccontandoti, anche, quanto di storia è necessario sapere per capire: molto, in questo caso, perché Amalia è figlia di Carlo e nipote di Nello e il suo vissuto  è segnato dai luoghi delle fughe continue cui  è stata costretta, dall’isola dove è stata concepita, il confino di Lipari; dalla Francia; dall’America; alla fine dall’Italia. E delle lingue e culture di tutti questi paesi si sente la voce nel suo linguaggio. “Non perché eravamo dei cosmopoliti – spiega in un’intervista, a correzione di un aggettivo che aveva usato Pasolini scrivendo di lei – ma profughi, figli della seconda guerra mondiale”.

Il libro è curioso: nell’impaginazione il testo ruota, dipanandosi in orizzontale, per non interrompere i “righi” e non spezzare la sua particolarissima invenzione metrica. E il carattere tondo delle interpretazioni di Laura, si alterna con il corsivo dei versi di Amalia, quando serve, senza seguire una regola se non quella  funzionale ad accompagnarti nella lettura.

Luciana Castellina

 

Irvin D. Yalom, Le lacrime di Nietzsche, Neri Pozza, 2013.

Il dottor Breuer, affermato fisiologo viennese che conduceva una tranquilla vita borghese dedito alla professione medica dividendosi di mattina fra le visite domiciliari ai pazienti allettati e nel pomeriggio alle visite ambulatoriali nel suo studio privato, si è imbattuto un giorno in un giovane allievo straordinario e in un paziente non meno straordinario che ne hanno sconvolto le abitudini. L’allievo era Sigmund Freud, il paziente Friedrich Nietzsche.

Freud lo affascinava per le idee sconvolgenti che sfidavano la terapia medica più consolidata, Nietzsche lo stimolava per un’emicrania  incurabile, da cui lo stesso paziente sembrava non voler guarire. Il dottor Breuer sperimentò su Nietzsche un trattamento psicanalitico che non gli alleviò l’emicrania, ma riuscì a farlo piangere. Il romanzo di Irvin D. Yalom che si legge con il fiato sospeso racconta che fu il medico a finire per essere psicanalizzato dal riluttante paziente. Nemmeno Nietzsche guarì le nevrosi del suo dottore, ma le fece esplodere, da latenti che covavano sotto le abitudini della tranquilla vita viennese di fine secolo, tutta spesa nell’onesta professione medica.

Fabio Lorenzoni

 

Charles S. Maier, Leviathan 2.0. Inventing Modern Statehood, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, Mass., 2012,

Il grande storico di Harvard, ben noto in Italia almeno per la traduzione di due suoi libri, “La rifondazione dell’Europa borghese” e “Alla ricerca della stabilità”, traccia con grande maestria, in questo libro, la storia dell’ascesa e della trasformazione dello Stato dal 1850 al 1970, quando l’edificio statale comincia a decomporsi. Il libro abbraccia l’intero mondo e non è diviso per Stati, ma intreccia la narrazione storica intorno a fasi e a problemi, con frequenti riferimenti al periodo preparatorio.

Nel primo capitolo, che abbraccia anche il secolo XVIII, sono descritte le formazioni territoriali,  la “commodification” della campagna, la nascita dei mercati e le rivoluzioni. Nel secondo, centrato intorno al 1850, le trasformazioni tecnologiche, le guerre per la costituzione di unità nazionali, i rapporti con la Chiesa e le trasformazioni interne degli Stati. Il terzo riguarda la formazione della dottrina dello Stato, i partiti e l’espansione coloniale. L’ultimo la crisi della rappresentanza, le rivoluzioni, le guerre, fascismo, nazismo e comunismo.

In un momento storico, come quello attuale, nel quale emergono le debolezze di molti Stati, si segnalano Stati “falliti”, si cerca di superare la forma statale (ad esempio, in Europa), questa riflessione storico – comparata, estesa all’intero mondo, è una sorta di lettura d’obbligo per mettere in prospettiva e immaginare un possibile futuro degli Stati.

Sabino Cassese

 

E poi, ci sono anche le mie.

Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, I Meridiani Mondadori 2013

Il 3 settembre 1786 Goethe lascia Karlsbad con una sacca da viaggio e un passaporto falso e parte per l’Italia, allora forse più che mai un’espressione geografica. Aveva 36 anni ed era un personaggio assai noto soprattutto per I racconti del giovane Werther, un bestseller europeo. Il viaggio durerà quasi due anni. Molti lo riconducono al Grand tour, il viaggio in Italia che da un secolo nobili e ricchi borghesi del Nord Europa intraprendevano per completare la propria formazione culturale. Ma non è così. Sia perché il percorso è ben diverso da quello ormai istituzionale del Grand Tour: Goethe si ferma poche ore a Firenze, e, dopo molti mesi a Roma dove frequenta la colonia di ‘Deutsch-Romer”, tedeschi invaghiti della classicità riscoperta da Winckelmann, prosegue per Napoli e la Sicilia, meta ancora inusuale. Ma soprattutto ne è diverso il significato: per Goethe questo viaggio è un nuovo punto di partenza della sua vita: venendo in Italia, scrive, “bisogna nascere di nuovo e si deve guardare alle proprie antiche idee come alle proprie scarpe da bambino”. Ed è in questa prospettiva che deve essere letto il suo diario (composto in realtà molti anni dopo), seguendo il quale scopriamo l’Italia di quel tempo attraverso i multiformi interessi di Goethe – pittura, scultura, geologia, urbanistica, anatomia, botanica, e poi anche il folklore e i costumi locali.

Marguerite Duras, Le marin de Gibraltar, Gallimard 1952, ora nell’edizione completa delle opere pubblicata nelle Pléiade.

Con la leggera e avvolgente ripetitività dei dialoghi tipici della scrittura di Marguerite Duras, il romanzo racconta una storia a metà tra una moderna Odissea, senza però una Itaca come punto di arrivo e la versione moderna e arrangiata della leggenda dell’Olandese Volante.

È il racconto di un viaggio per mare destinato a non concludersi: è il viaggio di Anna, una ricca ereditiera che, a bordo di uno yacht, cerca un amante accolto a bordo e poco dopo perduto anni addietro – un marinaio poco raccomandabile, probabilmente responsabile di un omicidio – e del narratore, un francese insoddisfatto della vita condotta sino a quel momento raccolto da Anna come compagno di viaggio e di ricerca. È un viaggio che potrebbe essere simbolico – passato e futuro, spazio e tempo si intersecano – ma è saldamente agganciato a luoghi e realtà urbane dettagliatamente descritte: la costa vicino a La Spezia e poi la costa tirrenica, ma anche Shangai, Tangeri, Sete, Leopoldville. Anna racconta dei suoi passati incontri, per brevissimi periodi,  con il marinaio, ma sarà vero? Lentamente, il marinaio di Gibilterra trascolora in un obiettivo astratto e irraggiungibile che giustifica l’incessante viaggiare «e se mi fossi inventata tutto?» si chiede Anna a un certo punto. «Non cambia poi molto» risponde il suo compagno di viaggio. Ciò che conta, è il viaggio : “Per chi non ha fissa dimora e abituato a girare per il mondo, il fatto che il mondo sia rotondo e un grande vantaggio: se ci si allontana da un posto ci si avvicina a un altro”.

Il paradiso è per tutti: una rassegna di libri sul ritorno dall’Aldilà.

Non conosco nessuno che abbia compiuto un soggiorno nell’Aldilà e sia tornato tra noi. Non è un’esperienza frequente dalle nostre parti. È invece abbastanza comune negli Stati Uniti: è stata vissuta da oltre 15 milioni di persone, secondo un recente sondaggio. Di questi, non pochi hanno deciso di raccontare agli altri la loro esperienza. Comprensibilmente quindi quella che è stata denominata la Near-death experience – abbreviato NDE – o anche Life after Life  è un genere letterario che, soprattutto negli ultimi anni, ha riscosso un enorme successo (anche a seguito del declino delle abductions da parte di extraterrestri):  sono diecine e diecine i libri che, negli ultimi anni, riferiscono le esperienze di soggetti che, a seguito di incidenti o di malattie, sono stati per periodi più o meno lunghi nell’Aldilà e hanno fatto ritorno. Digitando NDE su Google, si ottengono oltre 11 milioni di risultati.

Il termine Near Death Experience è stato coniato molti anni fa da Raymond Moody jr, un medico che racconta le storie di alcuni suoi pazienti e poi di altri soggetti che ha intervistato (oltre un migliaio complessivamente, tutti ritornati dall’Aldilà): il libro Life after Life, pubblicato nel 1975 e ripubblicato nel 2001, ha totalizzato a oggi oltre 13 milioni di copie vendute. Tra gli iniziatori del genere, c’è poi Raised from the dead: True Stories of 400 Resurrection Miracles che l’autore,  Albert J. Hebert, scrive per dimostrare che “le moderne cronache dei ritorni dall’altro mondo dimostrano che il Paradiso è aperto a quasi tutti”. In epoca più recente, l’indiscusso leader della serie è Heaven is for real, che dal 2010, data della sua pubblicazione, ha venduto 4 milioni di copie. È  la storia raccontata dal padre di un  bambino di quattro anni, Colton Burpo che visita l’Aldilà durante una malattia e ritorna tra noi. Naturalmente vede Gesù e Maria e incontra anche Giovanni Battista e l’Arcangelo Gabriele, entrambi assai simpatici. Ma ci sono poi molti altri libri ricordati nella rassegna Robert Gottlieb in To Heaven and Back! sulla New York Review of Books del 23 ottobre 2014. Ecco un brevissimo florilegio.

Don Piper (90 minutes in Heaven) ritorna dall’Aldilà perché molti hanno pregato per lui chiedendone il ritorno. Christal Mc Vea (Waking up in Heaven) ritorna soddisfatta per aver incontrato Dio in persona (“non una celebrità o il presidente degli Stati Uniti, ma addirittura Dio in persona”). Betty Eadie (Embraced by the Light) racconta che, nel suo breve soggiorno nell’Aldilà, è stata tenuta da Dio tra le sue braccia e rammenta “il suo senso dell’humor, impareggiabile da chiunque sulla terra”. Mary Stephens Landoll (A Vision from Heaven) riferisce di aver visto suo marito, morto qualche anno prima, giocare a golf con Gesù.

Max Frisch, Biographie: ein Spiel, Suhrkamp 1969.

Il libro commentato da Joe DiMento mi ha ricordato una piéce teatrale che ho visto molti anni fa (nel 1970) in Germania. In Ein Spiel Frisch affronta uno dei temi che gli sono più cari, quello del senso e del valore sociale dell’identità personale e della possibilità di modificarla (è un tema trattato anche in molte altre opere: Meine Name sei Gantenbein, Biedermann und die Brandstifter e Andorra). Kurmann, un anziano ricercatore gravemente ammalato, da anni legato in modo insoddisfacente alla seconda moglie Antoinette, incontrata casualmente a una cena da amici, ottiene da un misterioso Registratore la possibilità di rigiocare la propria vita. E lui prova, mentre Antoinette guarda. Ma ogni tentativo risulta vano: pur ricominciando la propria vita sempre più in là nel tempo, si ritrova sempre allo stesso punto, a quella cena in cui incontra la sua futura moglie. Quando anche l’ultimo tentativo fallisce e il Registratore sta per chiudersi con la dimostrazione che la propria identità e il proprio destino non si cambiano, anche Antoinette chiede di provare. E, con l’ironia tipica di Frisch nel tratteggiare il diverso modo di confrontarsi con i rapporti personali degli uomini e delle donne, ci riesce al primo tentativo: rigioca la sua vita dalla cena ove ha incontrato Kurmann e se ne va appena la cena finisce, prima che Kurmann le rivolga la parola.

 

Questo quarantaseiesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel novembre del 2014 in duecentoventi copie non numerate e fuori commercio da Grafiche Porpora srl di Cernusco sul Naviglio, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti la maggior parte dei testi, spesso rispettando – ma non sempre integralmente – il pensiero dell’autore. Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.

I Testi Infedeli escono dal 1989. Ringrazio per la revisione del testo Salvatore Giannella, Marina Nespor e Pasquale Pasquino.