n. 47, inverno 2014

garcia marquez - ottobre 2014

Gabriel Garcia Marquez – ottobre 2014

IN COPERTINA: Gabriel Garcia Marquez, olio (Winsor & Newton) e matite su tela

 

IN QUESTO NUMERO

In apertura ci sono due pensieri di Tony Judt, il più acuto storico dell’Europa nel secondo dopoguerra. Seguono alcune considerazioni sull’idea di nazione e di straniero, tratte da un saggio di Richard Sennett dedicato al filosofo russo Alexandr Herzen: è un modo per tornare sul tema dell’esilio toccato nei volumi precedenti. C’e poi un brano di Thomas Paine su religione e rivelazione e, infine, la storia ancora misteriosa di una delle prime mappe del mondo (che sfiora anche il consueto tema dell’eresia). Poi, come al solito, le poesie. Questa volta ho scelto Joan Manuel Serrat, un cantautore catalano che compone per lo più in spagnolo; Heiner Muller, uno dei protagonisti della cultura tedesca prima e dopo la riunificazione; infine Gabriel Garcìa Marquez, con due poesie tratte dalla sua poco nota produzione poetica (una è considerata come il suo testamento).

Ci sono infine le consuete segnalazioni di libri da leggere e da non leggere di Eva Cantarella, Sabino Cassese, Luciana Castellina, Joseph DiMento, Giulia Gavagnin, Marina Nespor, Pasquale Pasquino, Michele Salvati e Roberto Satolli. E anche le mie. Si aggiungono Nicole Lebel e Fabio Lorenzoni.

Manca purtroppo la consueta segnalazione di Augusto Bianchi. Augusto è scomparso in ottobre. È stato un mio carissimo amico. Insieme abbiamo condiviso lavoro, progetti, scelte, iniziative (tra l’altro, abbiamo partecipato a fondare una rivista di diritto del lavoro, Lavoro80, che per molti anni ha dominato la scena milanese) e anche una casa in Toscana. Oltre a essere un avvocato di valore, Augusto ha scritto romanzi, racconti e pièces teatrali.

 

DUE PENSIERI SU COMUNISMO, CAPITALISMO E STATO

I

La caduta del comunismo nel 1989 ha provocato lo sfilacciamento delle dottrine che avevano tenuto faticosamente insieme la sinistra per tutto un secolo. La scomparsa improvvisa della variante moscovita del comunismo, per quanto perversa potesse esse- re, ha avuto un impatto devastante sui movimenti socialisti.Questo effetto è stata una peculiarità della sinistra. Se tutti i regimi conservatori e di destra dovessero implodere, macchiati dalla corruzione e dall’incompetenza che per lo più (ma con importanti eccezioni) li contraddistingue, l’ideologia conservatrice sopravviverebbe senza problemi: le ragioni per conservare l’esistente non verrebbero meno. Ma per la sinistra l’assenza di sviluppo di un’idea che progredisce nella storia lascia un irrimediabile spazio vuoto. Il conservatore può vivere senza idealismo e senza ideali; anzi, spesso vive meglio. Per la sinistra, è una catastrofe.

II

C’è solo una cosa peggiore dell’avere troppo Stato: è averne troppo poco. Con poco Stato, la gente ha a che fare con violenze, sopraffazioni, ingiustizie equivalenti a quelli di uno Stato autoritario; in più i treni non arrivano in orario. Poi, se ci si riflette, si capisce che la favola del Novecento “socialismo contro libertà” o “comunismo contro capitalismo” è fuorviante. Il capitalismo non è un sistema politico: è compatibile con dittature di destra (il Cile sotto Pinochet), dittature di sinistra (la Cina oggi), monarchie socialdemocratiche (la Svezia) e repubbliche plutocratiche (gli Stati Uniti). L’idea che le economie capitaliste prosperino solo in condizioni di libertà è meno scontata di quanto solitamente si pensi. Il comunismo invece è in grado di adattarsi a una serie di sistemi economici, rendendoli tutti economicamente meno efficienti. Ma questo fa capire che non c’è motivo di buttare a mare, insieme alla caduta del comunismo reale, qualsiasi progetto di pianificazione economica.

Da Tony Judt, Guasto è il mondo, Laterza 2012. Tony Judt (1948–2010) è stato uno dei maggiori specialisti della storia d’Europa dopo la seconda guerra mondiale: il suo Postwar. A History of Europe since 1945 è un classico sul tema. Nel 1995 ha fondato il Remarque Institute for the study of Europe at NYU. Già gravemente ammalato, ha scritto uno struggente e imperdibile libro di ricordi sulla propria giovinezza nella Londra del dopoguerra, The Memory Chalet. Ricordando la scarsità di cibo e il contingentamento di quegli anni in Inghilterra, Judt osserva che “l’austerità non era solo una condizione economica, ma un principio di etica pubblica” e prosegue: “anche se uno è allevato con cibo sgradevole da bambino, poi per quel cibo sente lo stesso nostalgia”.

 

DUE CANZONI DI JUAN MANUEL SERRAT

I fantasmi del Roxy

Vi ricordate, amici, che il Roxy

Era un cinema nella Piazza di Lesseps,

di quelli di terza visione

dove si proiettavano due film alla volta,

piene di amori impossibili

di passioni incontenibili e violente.

Banditi in cinemascope,

dame stupende e uomini superbi,

popolavano il Roxy quando si  spegnevano le luci.

Fu lì che Bogart giurò eterno amore a Laureen Bacall

guardandola fissa nei suoi occhi azzurri, e gli spettatori applaudirono entusiasti nella penombra del Roxy

quando lei disse di sì.

Io fui uno dei tanti che piansero

Quando annunciarono la sua demolizione.

Al suo posto hanno costruito

La Agenzia numero 13 del Banco centrale.

Ma lì dentro da un po’ di tempo

accadono cose che nessuno sa spiegarsi.

Una guardia notturna assicura che un transatlantico

Ha attraversato la hall

E sul ponte Fred Astaire e Ginger Rogers

ballavano insieme, proprio come una volta

Alcuni dicono che Clark Gable in persona

Facendo la fila allo sportello due

Con il suo sorriso ampio e beffardo

Si sia fatto una bella cassiera

E un funzionario di primo livello ha sorpreso  Glenn Ford

che nell’ufficio del direttore schiaffeggiava una bionda quasi nuda.

Così, non spaventatevi, amici, se aspettando l’autobus

lì davanti alla banca

vedete Gary Cooper che si mette a sparare.

Sono i fantasmi del Roxy

Che non trovano pace.

Gloria

Era vestita di tulle, la Gloria con occhi azzurri e penetranti

e con la boccuccia minuta e vermiglia sorrideva da una vetrina.

Le sue scarpette di vernice rossa scintillavano ai raggi del sole.

Pulita e graziosa. Sempre all’ultima moda.

Io andavo tutti i giorni a guardarla.

Perché  l’amavo,  questa  ragazza  di  cartapesta.

Non era come quelle donne

che mi hanno spolpato fino all’osso lasciandomi spesso senza un quattrino

e hanno distrutto tutte le mie illusioni

Lei mi aspettava sempre, nella sua vetrina;

mi vedeva, appena giravo l’angolo,

e, come un passerotto, mi pregava:

“liberami, liberami…

fuggiamo, viviamo la nostra storia d’amore”.

Così un giorno con una pietra ho rotto il vetro

e sono scappato con lei tra le mie braccia.

Il suo corpo tremava tutto mentre la abbracciavo.

Ci sorrideva la luna di marzo, io le parlavo del nostro futuro

lei piangeva in silenzio… ve lo giuro.

E tra le quattro mura della mia casa, le raccontai, stringendomela al petto,

Tutte le mie pene.

Tra le mie mani avevo tutto l’universo,

Trasformammo insieme il passato in un verso perduto dentro una poesia

E poi, sono arrivati,

Mi hanno trascinato di peso fuori dalla casa

E mi hanno chiuso dentro queste pareti bianche

Qui vengono a trovarmi i miei amici

Una volta al mese.

Joan Manuel Serrat è nato nel 1943 a Barcellona. È stato uno degli iniziatori della Nuova canzone catalana, un movimento di giovani che rivendicavano l’uso della lingua catalana sotto il regime franchista. Per questo fu a lungo bandito dalla televisione spagnola e le sue canzoni furono proibite dal regime. Nel 1971 esce Mediterráneo, il suo disco più noto. L’anno successivo pubblica un disco di canzoni su testi di Miguel Hernandez, uno dei grandi poeti della letteratura spagnola. Nel 1975 fugge in Messico, per sottrarsi a un ordine di arresto, ma ritorna un anno dopo, alla morte di Franco. Ha scritto canzoni su testi di Antonio Machado, Rafael Alberti, Salvat Papasseit e Mario Benedetti. Nel 1974 Gino Paoli gli ha dedicato un album dal titolo I semafori rossi non sono Dio. 

 

DUE BRANI SU NAZIONE, STRANIERO E ESILIO

I

Nel suo saggio “Vico e Herder” Isaiah Berlin osserva che l’idea di nazione aveva avuto inizio con uno scopo progressista, per affermare la dignità di tutte le differenze umane.

Per Herder infatti negli uomini ciò che conta di più sono non le uguaglianze, ma le differenze, poiché li fanno ciò che sono e li rendono sé stessi. È questa forse la prima audace affermazione che gli uomini sono figli della loro cultura. Berlin ricorda anche che in modo analogo Voltaire afferma che “è una terribile arroganza affermare che per essere felice  ognuno  dovrebbe  diventare  europeo”.  Pochi anni dopo, Kant osserva che gli uomini migliorano quando sono in grado di cogliere gli stimoli che provengono da chi è diverso da loro. Del resto, la rivoluzione francese aveva insegnato che non era necessario abitare a Parigi per credere nella libertà, nell’uguaglianza e nella fraternità.

La constatazione che in luoghi diversi popoli diversi scoprono modi diversi per perseguire la felicità avrebbe dovuto favorire in Europa la diffusione di un atteggiamento cosmopolita. Sono invece prevalsi nel corso dell’Ottocento la retorica del nazionalismo e il disprezzo per le culture diverse. Il territorio diventa quindi sinonimo di identità. L’origine di ciascuno diventa anche il suo destino.

II

Nel meditare sulla propria condizione di esiliato che non farà più ritorno ai suoi luoghi natali, Herzen comprende che l’idea di nazione rappresenta un doppio pericolo per l’identità: il pericolo di dimenticare chi si è e il pericolo di ricordare chi si è stati.

Nel primo caso, ci si trova in una situazione di svilimento determinata dal desiderio di assimilarsi, nel secondo si resta annientati dalla nostalgia.

Herzen giunge così alla conclusione che la patria non è un luogo fisico ma un bisogno che si sposta: la sua vita si svolge e si realizza in Inghilterra, ma la patria di cui sente il bisogno cambierà di paese in paese, da un luogo assolato a un luogo innevato, dal piccolo villaggio familiare non lontano da Mosca ai languidi caffè di Roma. Ovunque si sia, la patria è sempre altrove. Anche se, da ultimo, Herzen continuava a occuparsi delle vicende della Russia, confessa che “a poco a poco cominciai a capire che non avevo nessun posto dove andare e nessuna ragione per andare in qualche altro posto”.

Ciò che importa, per Herzen, è di evitare quel che Freud qualche anno più tardi avrebbe chiamato “il ritorno del rimosso”, un pericolo maggiore della nostalgia per il passato che incombe su coloro che non si impegnano a trasformare la parte di sé stessi che vive nella memoria. Chi è in esilio o è lontano dal proprio luogo natale deve sottoporre la memoria a una rifrazione, in modo da non essere afferrato dal passato e rivivere i torti e le tragedie che un tempo ha subito. Così, il consiglio di Herzen per lo straniero è di comportarsi nel paese in cui vive partecipando senza identificarsi. Solo così si può evitare l’impulso all’autosegregazione.

Al posto dell’antica formula per cui nulla che sia umano mi è estraneo, la pericolosa formula dell’identità moderna diviene quindi nulla che mi sia estraneo è reale.

Da Isaiah Berlin, Vico and Herder: Two studies in the History of Ideas, The Hogarth Press 1976; Richard Sennett, Lo straniero. Due saggi sull’esilio, Feltrinelli 2014. La traduzione italiana dell’autobiografia di Aleksandr Herzen è Il passato e i pensieri, Einaudi 1996.

 

TRE POESIE DI HEINER MULLER

 

I

Sopra un foglio con poesie fresche di macchina da scrivere

zampetta un (piccolo) insetto: ora mi diverte

dieci anni fa lo avrei ammazzato senza esitazione.

Che cosa è cambiato:

io o il mondo?

II

Passando davanti allo scaffale dei libri vedo il titolo

The green hills of Africa.

Per quanto saranno ancora verdi?

Stupidaggini. La mia reazione

non è nient’altro che

il desiderio di un mondo

o di un luogo che nulla abbia a che fare

con ciò di cui sono costretto

a scrivere, ma poi, costretto da chi?

III

Ultimamente quando voglio metter per iscritto

Una frase una poesia una saggia massima

La mia mano si ribella alla coazione di scrivere

Cui la mia testa vuole sottometterla.

La scrittura diventa illeggibile.

Solo la macchina da scrivere

Mi salva dall’abisso dal silenzio

Che sarà il protagonista del mio futuro.

Heiner Müller (1929 -1995) è considerato il più grande drammaturgo tedesco del Novecento dopo Bertolt Brecht. Passa la giovinezza nella Germania hitleriana. Nel 1951 si trasferisce nella DDR e ne segue le sorti con la sua produzione, dalle origini al tracollo. Riceve premi (tra cui Premio Heinrich Mann dell’Accademia delle Arti) per le sue prime opere teatrali, Lo stakanovista e Die Korrektur. Ma nel 1961 la messa in scena di Die Umsiedlerin oder Das Leben auf dem Lande viene sospesa dopo la prima rappresentazione e Muller è espulso dall’Unione degli scrittori. Sarà riammesso solo nel 1988. La sua autobiografia Guerra senza battaglie. Una vita sotto due dittature (Zandonai 2010) descrive la sua difficile e controversa vita in quel paese. Dopo la riunificazione è nominato direttore del Berliner Ensemble. Le sue opere teatrali trattano la realtà della vita nella DDR, ma assai note sono anche la rivisitazione in chiave moderna di tragedie greche antica (Filottete, Edipo Tiranno) e i drammi shakespeariani (Hamletmaschine, Macbeth). Le sue poesie sono state raccolte da Suhrkamp nel 2014: Warten auf der Gegenschräge: Gesammelte Gedichte. 

 

CONSIDERAZIONI SULLA RIVELAZIONE

Le principali religioni monoteiste del passato si sono affermate pretendendo di essere portatrici di una speciale missione su incarico di Dio, comunicata però solo a specifiche persone: gli Ebrei hanno così Mosè, i Cristiani Gesù, gli apostoli e i santi; i musulmani Maometto.  In tutti questi casi Dio non ha parlato e non si è rivolto a tutti gli esseri umani, come ci si sarebbe potuti attendere.

Ovviamente, nessuno può contestare il diritto di Dio di parlare con chi vuole e quindi di rivolgersi a una sola persona invece che a molte o a tutti; anche se quest’ultima soluzione sarebbe stata preferibile e avrebbe evitato guerre, massacri e persecuzioni compiute in nome della vera religione.

Ma, anche a prescindere da questa scelta che di per sé rende il tutto non facilmente credibile, se qualcosa viene rivelato a una sola persona, solo per questa persona è una rivelazione. Non lo è per tutti gli altri ai quali la persona prescelta riferisce la rivelazione, né tantomeno lo è per quelli che poi la riferiscono ad altri ancora. Per tutti, salvo il primo, è semplicemente il racconto di una rivelazione che si afferma avvenuta.

Così, quando Mosè disse che aveva ricevuto due tavole della legge direttamente da Dio, gli Ebrei non avevano alcun dovere di credergli, dato che i comandamenti di per sé non hanno alcuna evidenza divina: contengono alcuni regole etiche che qualsiasi legislatore avrebbe potuto stabilire senza interventi soprannaturali. Lo stesso vale per Maometto che racconta di aver ricevuto il Corano da un angelo, dopo che era stato scritto in cielo.

Diverso è il caso della religione cristiana. Tutto ciò che oggi possediamo è riferito di seconda o terza mano. Gesù non ha lasciato alcun scritto né alcuna traccia della propria esistenza. Quando poi si racconta che una donna denominata Maria afferma di aver avuto un figlio senza aver avuto alcun rapporto con un essere umano, ci si può credere o meno, tenendo conto che né Maria né il marito hanno lasciato una conferma di questa curiosa affermazione: abbiamo solo voci che riferiscono voci.

A ciò bisogna aggiungere che, a differenza delle altre, la religione cristiana è di particolare inaffidabilità. Non tanto per il concepimento divino di Gesù, dato che si tratta di un fatto riservato, comprensibilmente verificatosi senza testimoni, ma per la sua resurrezione e la sua ascesa al cielo. È questo un fenomeno che avrebbe dovuto avere numerosi spettatori e suscitare un vasto interesse a Gerusalemme, non diversamente da quel che accade ai giorni nostri per l’ascesa di una mongolfiera. Invece, solo i suoi amici più fidati – e nessun estraneo – sostengono di esserne stati testimoni.

Da Thomas Paine, The Age of Reason, in Works, 1790, Coyote Publishing Press

DUE POESIE DI GABRIEL GARCIA MARQUEZ

Capita che sfiori la vita

Capita che sfiori la vita di qualcuno, ti innamori

e decidi che la cosa più importante è toccarlo,

convivere con le sue malinconie e le sue inquietudini,

e poi arrivare a riconoscersi nello sguardo dell’altro,

sentire che non ne puoi più fare a meno…

e cosa importa se per avere tutto questo devi aspettare

cinquantatré anni sette mesi e undici giorni,

notti comprese.

Lettera di addio

Se per un istante Dio si dimenticherà che sono una marionetta di stoffa

e mi regalerà un poco di vita,

non direi tutto quello che penso,

ma penserei tutto quello che dico.

Darei valore alle cose non per quello che valgono,

ma per quello che significano.

Dormirei poco, sognerei di più,

sapendo che per ogni minuto che chiudiamo gli occhi

perdiamo sessanta secondi di luce.

Dipingerei con un sogno di Van Gogh sopra le stelle un poema di Benedetti

e una canzone di Serrat sarebbe la serenata che offrirei alla luna.

Innaffierei con le mie lacrime le rose, per sentire il dolore delle loro spine

e il carnoso bacio dei loro petali… Non lascerei passare un solo giorno

senza dire alle persone che amo che le amo.

Agli uomini spiegherei

quanto sbagliano a pensare

che smettono di innamorarsi quando invecchiano, senza capire

che invecchiano quando smettono di innamorarsi.

A un bambino darei le ali,

ma lascerei che imparasse a volare da solo.

Agli anziani insegnerei

che la morte non arriva con la vecchiaia

ma con la dimenticanza.

Tante cose ho imparato in questi anni.

Ho imparato che tutti amano vivere sulla cima della montagna,

senza sapere che la vera felicità

sta nel salire verso la cima.

Ho imparato che quando un neonato stringe con il suo piccolo pugno

il dito di suo padre, poi lo tiene stretto per sempre.

Ho imparato che un uomo

ha il diritto di guardarne un altro

dall’alto al basso solamente

quando deve aiutarlo ad alzarsi.

Gabriel José de la Concordia Garcia Marquez nasce nel 1927 ad Aracataca, in Colombia, primo di sedici figli. Il padre è farmacista. La madre è chiaroveggente. Nel 1947 si trasferisce a Bogotà per studiare legge e pubblica il suo primo racconto. Ben presto abbandona gli studi in giurisprudenza per dedicarsi al giornalismo, come reporter e poi come critico cinematografico. Nel 1954 si trasferisce prima a Roma, per studiare regia al Centro sperimentale di Cinematografia, poi a Parigi e a Londra. Nel 1958, si trasferisce a Cuba, diviene amico di Fidel Castro e lavora per l’agenzia cubana Prensa Latina, trasferendosi nel 1961 a New York. Nel 1964 si stabilisce in Messico. Nel 1967 esce Cent’anni di solitudine, che resta il suo capolavoro: tradotto il 37 lingue, vende oltre 60 milioni di copie. Nel 1982 riceve il premio Nobel per la letteratura. Muore il 17 Aprile 2014. La sua autobiografia, Vivir para contarla, con ampio spazio ai ricordi riguardanti la sua famiglia, è scaricabile su Kindle.

 

IL NUOVO MONDO

Tra il 1506 e il 1507 appaiono tre mappe del mondo che per la prima volta riportano i nuovi territori scoperti a seguito del viaggio di Colombo.

La prima, elaborata da Giovanni Matteo Contarini è pubblicata a Venezia (e si trova oggi al British Museum).

Nel 1507 è pubblicata a Roma una mappa disegnata da Johann Ruysch. Entrambe ritraggono il Nuovo Mondo come un ampio promontorio del continente asiatico. In quelli stessi anni appaiono però anche carte geografiche dell’Asia (non dell’intero mondo) che raffigurano l’America come un territorio separato da uno stretto tratto di mare.

Ben diversa da tutte queste è la terza mappa del mondo che appare nella seconda metà del 1507. È denominata  Universalis cosmographia secundum Ptholomaei traditionem et Americi Vespucii aliorumque lustrationes. La mappa è preceduta da una Cosmographiae Introductio. Ne sono autori due umanisti e geografi tedeschi: Martin Waldseemüller (Martinus Hylacomylus) e Matthias Ringmann. Il primo nasce nel 1470 vicino a Freiburg. Nel 1506 si trasferisce a Saint-Dié in Lorena, divenendo il cartografo – o, come lui preferiva essere chiamato, il cosmografo – di Renato II duca di Lorena. A Saint-Dié giunge nello stesso anno Matthias Ringmann (noto anche con lo pseudonimo di Philesius Vogesigena). Aveva appena pubblicato a Strasburgo, con il titolo De Ora Antarctica, una versione in latino del resoconto di Amerigo Vespucci a Lorenzo di Pier Francesco de’Medici del suo terzo viaggio, conosciuto come Mundus Novus. Waldseemüller e Ringmann   si mettono al lavoro insieme e in poco meno di un anno pubblicano una delle opere più rivoluzionarie nella storia del pensiero geografico e, secondo alcuni, della storia delle idee in generale. L’introduzione spiega infatti che il mondo è costituito non da tre parti ma da quattro: un nuovo continente era stato scoperto da Amerigo Vespucci e, in suo onore, Waldseemüller e Ringmann lo denominano America.

È la prima mappa che individua con chiarezza la vasta distesa d’acqua che isola il continente americano: l’Oceano Pacifico.

Solo che Waldseemuller e Ringmann non potevano saperlo: l’esistenza di questo Oceano diviene nota solo molti anni dopo, nel 1513, con il viaggio di Vasco Nunez de Balboa. Per di più, la mappa disegna una stretta penisola: sembra proprio essere la Florida, che però fu scoperta solo nel 1512 da Ponce de Leòn. Infine riporta con buona precisione la larghezza dell’America del Sud che sarà nota ancor più tardi. Nessuno ha finora chiarito come abbiano fatto i due autori ad anticipare scoperte di molti anni successive.

E ben comprensibile che l’opera creò subito scalpore. Ma già dopo pochi mesi  la mappa e l’introduzione divengono introvabili e in breve tempo tutti i 1000 esemplari, tiratura enorme per l’epoca, scompaiono dalla circolazione.

Molti, compreso lo stesso Matthias Ringmann, sospettano che qualcuno ne avesse fatto incetta e li avesse poi distrutti per impedirne la diffusione. Era un sospetto più che ragionevole. I governi europei stavano infatti lanciando proprio in quegli anni le loro spedizioni per occupare e rivendicare la sovranità su un mondo nuovo dalle dimensioni ancora sconosciute e con immense ricchezze di cui appropriarsi. Le conoscenze geografiche erano segreti gelosamente custoditi che la mappa di Waldseemüller rischiava di compromettere. Ma anche la Chiesa figurava tra i sospettati: chiunque introducesse modifiche all’assetto cosmografico tolemaico era ritenuto colpevole di eresia e i suoi scritti erano distrutti o bruciati. Ringmann, in una sua lettera del 1510 all’amico Jakob Wimpfeling, anch’egli allievo di Ludwig Dringenberg, il padre dell’umanesimo alsaziano, formula proprio quest’ultima ipotesi,  annuncia di avere già degli indizi concreti e si ripromette di svolgere indagini in proposito. Non ci riuscirà: morirà improvvisamente per cause sconosciute pochi mesi dopo, nel 1511, a soli 29 anni. Nessuno proseguirà le sue indagini.

Per molti secoli, l’opera  si riteneva perduta, salvo alcune copie assai approssimative. Poi, nel 1901 una carta originale è stata scoperta dal gesuita e storico della cartografia Joseph Fischer nella biblioteca del principe Johannes zu Waldburg-Wolfegg nel Wurttemberg, accuratamente celata, probabilmente per sottrarla alla distruzione, tra due testi della fine del XVI secolo. Nel 2001 è stata acquistata dal Governo degli Stati Uniti per 10 milioni di dollari ed è oggi custodita a Washington alla Libreria del Congresso.

Sull’argomento: Toby Lester, The Waldseemüller Map: Charting the New World, in Smithsonian Magazine   dicembre 2009; John W. Hessler, The Naming of America: Martin Waldseemuller’s 1507; World Map and the Cosmographiae Introductio, Giles 2008; Mark Monmonier, Coast Lines: How Mapmakers Frame the World and Chart Environmental Change, University of Chicago Press, 2008.

 

LIBRI DA LEGGERE O DA RILEGGERE

Ecco le indicazioni dei miei amici.

Paul Veyne, Et dans l’antiquité je ne m’ennuierai pas. Souvenirs, Paris, Albin Michel, 2014.

Libro  straordinario  di  uno  dei  più  grandi  storici dell’antichità, capace come pochi  di unire alla eccellenza scientifica la capacità di rivolgersi a un pubblico  colto, non necessariamente specialistico. Professore onorario di storia romana al Collège de France (dal quale – caso unico, credo –  ha dato le dimissioni: da non perdere le pagine deliziosamente ironiche sul suo arrivo al Collège e l’incontro con i mostri sacri dell’antichistica), Paul Veyne ripercorre la sua vita in quella che non è una tradizionale biografia. Sono ricordi, come li definisce, di una vita intensa, anticonformista,  di chi non si preoccupa degli altrui giudizi e rievoca momenti  tragici di una vita pienamente e liberamente vissuta, insieme a divertentissimi (a volte irriverenti) ritratti e aneddoti.

Eva Cantarella

 

Kate Atkinson, Life After Life, Transworld Digital 2013.

What if you could live again and again, until you got it right? The novel opens with Ursula Todd killing Hitler: she says with a gun leveled at his heart: Führer für Sie. It concludes [or doesn’t] after a war. In between Ursula dies again and again: “Darkness Fell” is how the chapters end, only to have the next begin with Ursula meeting another horrible  fate– beaten to death by an abusive husband, raped by someone else,  or born to die, immediately, without a breath. A tour de force for many this highly acclaimed new book by Kate Atkinson must be worth a try. For me it   disappointed and irritated. Fundamentally, it counters what fiction means by contracting with the reader to care (the first time, before realizing the conceit) and then tossing the story cared about. This is a too long novel with some parts engaging prose and much trite, unimportant, superficial, and stereotyping dialogue.

Joseph DiMento

 

Bertina Hendrichs, La giocatrice di scacchi. Einaudi 2006 (originariamente pubblicato in francese da un’autrice di madrelingua tedesca).

Pulendo una stanza, la cameriera di un albergo di Naxos, una isola delle Cicladi, fa cadere una pedina dalla scacchiera di due turisti e non sa dove rimetterla. Si incuriosisce così al gioco degli scacchi che diventa ben presto una passione travolgente. Come tutte le passioni travolgenti di una donna sposata, anche quella della cameriera diventa clandestina. Il marito si insospettisce e si ingelosisce, pensa sia un amante… E’ un romanzo breve che tiene col fiato sospeso.

Marina Nespor

 

Ernest Hemingway, Un’estate pericolosa, Mondadori 1999.

Ho letto questo libro per una pura coincidenza. Avevo invitato alcuni amici a inviarmi citazioni di grandi romanzi che li avessero particolarmente colpiti. Uno di questi mi ha fatto recapitare ‘Un’estate pericolosa’ proprio due giorni prima che partissi per Siviglia dove avevo già prenotato un biglietto per la corrida. Avevo letto distrattamente molti anni fa “Fiesta”. Il testamento hemingwaiano sul mondo delle corride, invece, complice anche il mio debutto come spettatrice, mi ha illuminata sul mondo della morte, della gestualità, della sfida e anche su alcune sfumature della Spagna franchista. Questo libro nasce da una richiesta di ‘Life’ che aveva invitato lo scrittore a un reportage sulla sfida ’mano a mano’ tra i due più grandi toreri dell’epoca, Luis Miguel Dominguin e Antonio Ordonez, quest’ultimo anche amico personale di Hemingway. A volte il testo è prolisso ma anche incredibilmente caustico e puntuale in alcune descrizioni, come quella dell’arrivo a Pamplona per la festa di San Firmin, dove lo scrittore raccomanda di non portare la moglie o la fidanzata, perché lì, molto probabilmente, ‘troverà un uomo migliore di voi’. Ciò che più di tutto colpisce con tratti di (macabra) poesia è, però, la celebrazione della tauromachia che trova il suo climax nella faena. In quell’attimo l’uomo diviene immortale come fosse in preda a un’estasi religiosa di berniniana memoria, che trascina con sé la folla nell’illusione che l’eroe (il torero) domini le forze della natura impersonate dalla veemenza taurina. Hemingway ci regala questa epifania poco prima della sua morte e ci fa capire, ancora una volta, che la vita è fatta di sangue, emozioni e colore rosso. Infatti dopo poco ha posto fine alla sua vita perché non tollerava di non essere  più in grado di sostenere quel rosso, come un toro morente sulla sabbia dell’arena.

Giulia Gavagnin

 

Kamel Daoud, Meursault, contre-enquête, Actes Sud, 2014.

Le frère de « l’Arabe » qu’a tué « l’Etranger » raconte le fait de son coté à lui. Le corps de Moussa, son ainé, misérable manœuvre sur le port d’Oran n’a jamais été retrouvé, donc il n’a pu être enterré. Le narrateur se recroqueville avec sa mère sur une pauvre vie que domine cette disparition. Jusqu’aujour où la débâcle qui a suivi les accords d’Evian en 1962, vingt ans plus tard, lui donne l’occasion de tuer à son tour un français en fuite. Arrêté, jugé, il est finalement relâché avec le reproche d’un meurtre qui n’a pas pris place dans la guerre de libération, seul cadre officiellement reconnu. Ce roman, très bien construit et écrit est l’occasion d’une description minutieuse de la vie de pauvres algériens: le rapport fusionnel à la mère, l’oisiveté sans fin malgré de bonnes études, la sexualité quasi-impossible, la misère pleine de rites inutiles, le rapport aux colons dont on se précipite pour squatter la maison lorsqu’ils fuient. Mais,  comme  Camus,  c’est  aussi  l’interrogation d’un ciel vide auquel s’ajoute la misère, l’intense solitude, l’absence de toute communication et de tout espoir. Avec une expérience, sinon une langue, totalement différente, la problématique du roman reprend celle de Camus et c’est une performance.

Nicole Lebel

 

Leonardo  Padura,  L’uomo  che  amava  i  cani, Marco Tropea, 2010.

Il 21 agosto 1940 Lev Davidovicˇ Bronštejn, più noto come Trotskij, venne assassinato nella sua casa a Coyoacán in Messico da un individuo che non rivelò né il suo vero nome né le reali motivazioni del suo delitto e trascorse 20 anni nelle carceri messicane prima di finire in Russia e poi a Cuba. Il romanzo dello scrittore cubano racconta tre storie vere che si inseguono nei capitoli dello pseudo-romanzo. Quella dell’esilio di Troskij dal Kazakhstan a Città del Messico, quella del sicario mandato da Stalin, il comunista catalano Ramon Mercader e quella dell’autore del libro, uno scrittore cubano che vive la condizione disperata della vita nell’isola dei Caraibi sotto il regime di Castro. Il libro racconta la discesa all’inferno e la morte di un’illusione affogata nel cinismo, nella miseria e nella paura. Padura non ha mai voluto lasciare Cuba; la versione originale del suo libro è stata pubblicata in spagnolo a Barcellona. Non sono in grado di dire se il libro sia in vendita a Cuba.

Pasquale Pasquino

 

Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo, La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa, Laterza, 2014.

Da qualche anno il processo palermitano sulla presunta trattativa tra Stato e mafia impegna il mondo dell’informazione e divide il Paese. La Corte d’Assise di Palermo sta giudicando esponenti di vertice di “Cosa nostra”, alcuni politici e pubblici ufficiali che, in concorso tra loro ed a partire dall’inizio del ‘92, avrebbero condizionato lo Stato, realizzando e minacciando stragi, per ottenere l’attenuazione del “carcere duro” e altri benefici per gli associati. Ma poiché il reato di trattativa non esiste, si procede per il delitto di violenza o minaccia ai danni di un Corpo politico per impedirne o turbarne l’attività (art. 338 c.p.). L’accusa appare persino ovvia per i boss mafiosi, non invece per gli uomini delle istituzioni imputati. Ne spiegano le ragioni uno storico (Lupo) ed un giurista (Fiandaca), con 65 pagine a testa, convergenti nelle conclusioni e di encomiabile chiarezza: la storia narra e interpreta fatti (magari anche con l’aiuto delle sentenze), ma ai magistrati tocca altro compito, quello di provare la responsabilità degli imputati per specifici reati e di punirli in presenza di prove sufficienti. Lupo ricostruisce omicidi e processi di mafia, spiegando di non credere alla trattativa perché gli anni dal ’93 in poi, dopo le stragi, videro una sostanziale sconfitta di Cosa Nostra, indebolita dagli arresti e ormai convinta “che quella strada non portava da nessuna parte”. Fiandaca precisa che oggetto del processo non è il giudizio etico, politico o di opportunità sul ben possibile cedimento al ricatto delle istituzioni, ma l’accusa di concorso tra mafiosi da un lato e politici o pubblici ufficiali dall’altro, sulla base del piano condiviso di “supportare Cosa Nostra nella realizzazione dei singoli attacchi volti a imporre la trattativa”. Secondo l’accusa, cioè, le istituzioni avrebbero ceduto non per evitare stragi e per timore di esse, ma per favorire l’azione della mafia. Lupo e Fiandaca hanno avuto il merito di mettere a fuoco gli interrogativi cui il processo deve dar risposta e gli equivoci in cui rischia di sfaldarsi: ci vuole coraggio a farlo in un’epoca in cui anche la capacità critica dello studioso soffoca dinanzi alla retorica e chi la esercita viene per ciò solo considerato nemico della verità e del bene comune.

Armando Spataro

 

Albert Camus, La peste, Gallimard, édition papier 1947; édition numérique 2010

Avevo preso in mano La peste di Albert Camus diverse settimane fa, quando cominciavo a rimuginare sull’epidemia di Ebola in Africa occidentale e di paura in occidente, e sentivo il bisogno di rileggere un testo che mi aveva colpito nell’adolescenza. Avevo trovato subito nelle prime pagine l’unica frase che ricordavo ancora nitidamente, quella in cui si descrive il passante notturno cui capita “de sentir sous son pied la masse élastique d’un cadavre en- core frais” (qui si tratta ancora di topi). Poi un’imprevedibile svolta delle cose mi ha portato a partire per la Sierra Leone. Ho raggiunto il contingente di italiani impegnato su quel fronte contro Ebola, e sto cercando di dare un contributo perché l’intervento sanitario sia impostato per quanto possibile con metodo scientifico. Nonostante l’alone di razionalità, se dovessi definire la mia decisione userei il termine “dada”, con tutto il suo carico di gratuità, disgusto e sberleffo. Una volta qui, nel campo di Goderich sulla costa a sud di Freetown, bellissima ma ora impercorribile, ho ripreso a leggere il libro nei momenti liberi e mi è facile riconoscere l’assurdo come condizione umana normale e inevitabile, mentre faccio fatica a sperare nella possibilità di superarlo con la solidarietà. Possiamo solo provarci.

Per alleggerire queste righe un po’ grevi, copio la frase, insensata ed elegantissima, che un personaggio del romanzo passa l’intera vita a riscrivere in infinite varianti, come incipit di un romanzo che non arriverà mai al secondo periodo: “Par une belle matinée du mois de mai, une élégante amazone parcourait, sur une superbe jument alezane, les allées fleuries du Bois de Boulogne”. Quattro bei decasillabi.

Roberto Satolli

 

Laura Barile legge Amelia Rosselli, Nottetempo 2014.

Quanto tempo è che non leggete poesie? Non credo di essere un’eccezione: finita la scuola, è difficile che capiti di riaprire un libro di versi. Un po’ perché non viene più in mente, un po’ anche, però, perché i poeti sono difficili e mentre in classe c’è il professore che ti aiuta ( almeno quando è bravo, io ne avevo uno bravissimo), in  età matura sei sola. E’ bellissimo perciò trovare un libro come quello di cui questa volta voglio parlarvi, perché mette insieme una poetessa fondamentale per la nostra epoca, Amalia Rosselli, e una straordinaria mano, quella di Laura Barile, che ti guida verso per verso, aprendoti la testa, stimolandoti la fantasia, raccontandoti, anche, quanto di storia è necessario sapere per capire: molto, in questo caso, perché Amalia è figlia di Carlo e nipote di Nello e il suo vissuto  è segnato dai luoghi delle fughe continue cui  è stata costretta, dall’isola dove è stata concepita, il confino di Lipari; dalla Francia; dall’America; alla fine dall’Italia. E delle lingue e culture di tutti questi paesi si sente la voce nel suo linguaggio. “Non perché eravamo dei cosmopoliti – spiega in un’intervista, a correzione di un aggettivo che aveva usato Pasolini scrivendo di lei – ma profughi, figli della seconda guerra mondiale”.

Il libro è curioso: nell’impaginazione il testo ruota, dipanandosi in orizzontale, per non interrompere i “righi” e non spezzare la sua particolarissima invenzione metrica. E il carattere tondo delle interpretazioni di Laura, si alterna con il corsivo dei versi di Amalia, quando serve, senza seguire una regola se non quella  funzionale ad accompagnarti nella lettura.

Luciana Castellina

 

Irvin D. Yalom, Le lacrime di Nietzsche, Neri Pozza, 2013.

Il dottor Breuer, affermato fisiologo viennese che conduceva una tranquilla vita borghese dedito alla professione medica dividendosi di mattina fra le visite domiciliari ai pazienti allettati e nel pomeriggio alle visite ambulatoriali nel suo studio privato, si è imbattuto un giorno in un giovane allievo straordinario e in un paziente non meno straordinario che ne hanno sconvolto le abitudini. L’allievo era Sigmund Freud, il paziente Friedrich Nietzsche.

Freud lo affascinava per le idee sconvolgenti che sfidavano la terapia medica più consolidata, Nietzsche lo stimolava per un’emicrania  incurabile, da cui lo stesso paziente sembrava non voler guarire. Il dottor Breuer sperimentò su Nietzsche un trattamento psicanalitico che non gli alleviò l’emicrania, ma riuscì a farlo piangere. Il romanzo di Irvin D. Yalom che si legge con il fiato sospeso racconta che fu il medico a finire per essere psicanalizzato dal riluttante paziente. Nemmeno Nietzsche guarì le nevrosi del suo dottore, ma le fece esplodere, da latenti che covavano sotto le abitudini della tranquilla vita viennese di fine secolo, tutta spesa nell’onesta professione medica.

Fabio Lorenzoni

 

Charles S. Maier, Leviathan 2.0. Inventing Modern Statehood, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, Mass., 2012,

Il grande storico di Harvard, ben noto in Italia almeno per la traduzione di due suoi libri, “La rifondazione dell’Europa borghese” e “Alla ricerca della stabilità”, traccia con grande maestria, in questo libro, la storia dell’ascesa e della trasformazione dello Stato dal 1850 al 1970, quando l’edificio statale comincia a decomporsi. Il libro abbraccia l’intero mondo e non è diviso per Stati, ma intreccia la narrazione storica intorno a fasi e a problemi, con frequenti riferimenti al periodo preparatorio.

Nel primo capitolo, che abbraccia anche il secolo XVIII, sono descritte le formazioni territoriali,  la “commodification” della campagna, la nascita dei mercati e le rivoluzioni. Nel secondo, centrato intorno al 1850, le trasformazioni tecnologiche, le guerre per la costituzione di unità nazionali, i rapporti con la Chiesa e le trasformazioni interne degli Stati. Il terzo riguarda la formazione della dottrina dello Stato, i partiti e l’espansione coloniale. L’ultimo la crisi della rappresentanza, le rivoluzioni, le guerre, fascismo, nazismo e comunismo.

In un momento storico, come quello attuale, nel quale emergono le debolezze di molti Stati, si segnalano Stati “falliti”, si cerca di superare la forma statale (ad esempio, in Europa), questa riflessione storico – comparata, estesa all’intero mondo, è una sorta di lettura d’obbligo per mettere in prospettiva e immaginare un possibile futuro degli Stati.

Sabino Cassese

 

E poi, ci sono anche le mie.

Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, I Meridiani Mondadori 2013

Il 3 settembre 1786 Goethe lascia Karlsbad con una sacca da viaggio e un passaporto falso e parte per l’Italia, allora forse più che mai un’espressione geografica. Aveva 36 anni ed era un personaggio assai noto soprattutto per I racconti del giovane Werther, un bestseller europeo. Il viaggio durerà quasi due anni. Molti lo riconducono al Grand tour, il viaggio in Italia che da un secolo nobili e ricchi borghesi del Nord Europa intraprendevano per completare la propria formazione culturale. Ma non è così. Sia perché il percorso è ben diverso da quello ormai istituzionale del Grand Tour: Goethe si ferma poche ore a Firenze, e, dopo molti mesi a Roma dove frequenta la colonia di ‘Deutsch-Romer”, tedeschi invaghiti della classicità riscoperta da Winckelmann, prosegue per Napoli e la Sicilia, meta ancora inusuale. Ma soprattutto ne è diverso il significato: per Goethe questo viaggio è un nuovo punto di partenza della sua vita: venendo in Italia, scrive, “bisogna nascere di nuovo e si deve guardare alle proprie antiche idee come alle proprie scarpe da bambino”. Ed è in questa prospettiva che deve essere letto il suo diario (composto in realtà molti anni dopo), seguendo il quale scopriamo l’Italia di quel tempo attraverso i multiformi interessi di Goethe – pittura, scultura, geologia, urbanistica, anatomia, botanica, e poi anche il folklore e i costumi locali.

Marguerite Duras, Le marin de Gibraltar, Gallimard 1952, ora nell’edizione completa delle opere pubblicata nelle Pléiade.

Con la leggera e avvolgente ripetitività dei dialoghi tipici della scrittura di Marguerite Duras, il romanzo racconta una storia a metà tra una moderna Odissea, senza però una Itaca come punto di arrivo e la versione moderna e arrangiata della leggenda dell’Olandese Volante.

È il racconto di un viaggio per mare destinato a non concludersi: è il viaggio di Anna, una ricca ereditiera che, a bordo di uno yacht, cerca un amante accolto a bordo e poco dopo perduto anni addietro – un marinaio poco raccomandabile, probabilmente responsabile di un omicidio – e del narratore, un francese insoddisfatto della vita condotta sino a quel momento raccolto da Anna come compagno di viaggio e di ricerca. È un viaggio che potrebbe essere simbolico – passato e futuro, spazio e tempo si intersecano – ma è saldamente agganciato a luoghi e realtà urbane dettagliatamente descritte: la costa vicino a La Spezia e poi la costa tirrenica, ma anche Shangai, Tangeri, Sete, Leopoldville. Anna racconta dei suoi passati incontri, per brevissimi periodi,  con il marinaio, ma sarà vero? Lentamente, il marinaio di Gibilterra trascolora in un obiettivo astratto e irraggiungibile che giustifica l’incessante viaggiare «e se mi fossi inventata tutto?» si chiede Anna a un certo punto. «Non cambia poi molto» risponde il suo compagno di viaggio. Ciò che conta, è il viaggio : “Per chi non ha fissa dimora e abituato a girare per il mondo, il fatto che il mondo sia rotondo e un grande vantaggio: se ci si allontana da un posto ci si avvicina a un altro”.

Il paradiso è per tutti: una rassegna di libri sul ritorno dall’Aldilà.

Non conosco nessuno che abbia compiuto un soggiorno nell’Aldilà e sia tornato tra noi. Non è un’esperienza frequente dalle nostre parti. È invece abbastanza comune negli Stati Uniti: è stata vissuta da oltre 15 milioni di persone, secondo un recente sondaggio. Di questi, non pochi hanno deciso di raccontare agli altri la loro esperienza. Comprensibilmente quindi quella che è stata denominata la Near-death experience – abbreviato NDE – o anche Life after Life  è un genere letterario che, soprattutto negli ultimi anni, ha riscosso un enorme successo (anche a seguito del declino delle abductions da parte di extraterrestri):  sono diecine e diecine i libri che, negli ultimi anni, riferiscono le esperienze di soggetti che, a seguito di incidenti o di malattie, sono stati per periodi più o meno lunghi nell’Aldilà e hanno fatto ritorno. Digitando NDE su Google, si ottengono oltre 11 milioni di risultati.

Il termine Near Death Experience è stato coniato molti anni fa da Raymond Moody jr, un medico che racconta le storie di alcuni suoi pazienti e poi di altri soggetti che ha intervistato (oltre un migliaio complessivamente, tutti ritornati dall’Aldilà): il libro Life after Life, pubblicato nel 1975 e ripubblicato nel 2001, ha totalizzato a oggi oltre 13 milioni di copie vendute. Tra gli iniziatori del genere, c’è poi Raised from the dead: True Stories of 400 Resurrection Miracles che l’autore,  Albert J. Hebert, scrive per dimostrare che “le moderne cronache dei ritorni dall’altro mondo dimostrano che il Paradiso è aperto a quasi tutti”. In epoca più recente, l’indiscusso leader della serie è Heaven is for real, che dal 2010, data della sua pubblicazione, ha venduto 4 milioni di copie. È  la storia raccontata dal padre di un  bambino di quattro anni, Colton Burpo che visita l’Aldilà durante una malattia e ritorna tra noi. Naturalmente vede Gesù e Maria e incontra anche Giovanni Battista e l’Arcangelo Gabriele, entrambi assai simpatici. Ma ci sono poi molti altri libri ricordati nella rassegna Robert Gottlieb in To Heaven and Back! sulla New York Review of Books del 23 ottobre 2014. Ecco un brevissimo florilegio.

Don Piper (90 minutes in Heaven) ritorna dall’Aldilà perché molti hanno pregato per lui chiedendone il ritorno. Christal Mc Vea (Waking up in Heaven) ritorna soddisfatta per aver incontrato Dio in persona (“non una celebrità o il presidente degli Stati Uniti, ma addirittura Dio in persona”). Betty Eadie (Embraced by the Light) racconta che, nel suo breve soggiorno nell’Aldilà, è stata tenuta da Dio tra le sue braccia e rammenta “il suo senso dell’humor, impareggiabile da chiunque sulla terra”. Mary Stephens Landoll (A Vision from Heaven) riferisce di aver visto suo marito, morto qualche anno prima, giocare a golf con Gesù.

Max Frisch, Biographie: ein Spiel, Suhrkamp 1969.

Il libro commentato da Joe DiMento mi ha ricordato una piéce teatrale che ho visto molti anni fa (nel 1970) in Germania. In Ein Spiel Frisch affronta uno dei temi che gli sono più cari, quello del senso e del valore sociale dell’identità personale e della possibilità di modificarla (è un tema trattato anche in molte altre opere: Meine Name sei Gantenbein, Biedermann und die Brandstifter e Andorra). Kurmann, un anziano ricercatore gravemente ammalato, da anni legato in modo insoddisfacente alla seconda moglie Antoinette, incontrata casualmente a una cena da amici, ottiene da un misterioso Registratore la possibilità di rigiocare la propria vita. E lui prova, mentre Antoinette guarda. Ma ogni tentativo risulta vano: pur ricominciando la propria vita sempre più in là nel tempo, si ritrova sempre allo stesso punto, a quella cena in cui incontra la sua futura moglie. Quando anche l’ultimo tentativo fallisce e il Registratore sta per chiudersi con la dimostrazione che la propria identità e il proprio destino non si cambiano, anche Antoinette chiede di provare. E, con l’ironia tipica di Frisch nel tratteggiare il diverso modo di confrontarsi con i rapporti personali degli uomini e delle donne, ci riesce al primo tentativo: rigioca la sua vita dalla cena ove ha incontrato Kurmann e se ne va appena la cena finisce, prima che Kurmann le rivolga la parola.

 

Questo quarantaseiesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel novembre del 2014 in duecentoventi copie non numerate e fuori commercio da Grafiche Porpora srl di Cernusco sul Naviglio, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti la maggior parte dei testi, spesso rispettando – ma non sempre integralmente – il pensiero dell’autore. Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.

I Testi Infedeli escono dal 1989. Ringrazio per la revisione del testo Salvatore Giannella, Marina Nespor e Pasquale Pasquino.

N. 46 estate 2014

 

IN QUESTO NUMERO
I Testi Infedeli compiono un quarto di secolo alla fine di quest’anno! 

Dopo un piccolo brano introduttivo tratto da un discorso di una senatrice americana con interessanti considerazioni sull’idea di merito, ci sono una ricostruzione delle origini della storia di Cappuccetto rosso che i fratelli Grimm ci hanno raccontato, poi il ricordo di un grande campione cubano e, infine, due piccoli brani sulla globalizzazione.
Ci sono poi, come al solito, le poesie. Questa volta sono di tre autori di diversi paesi, ma con un filo conduttore comune: New York.

Di Garcìa Lorca e di una meno nota poetessa francese, Janine Baude, ho scelto una poesia che descrive l’impatto emotivo di questa città su due visitatori europei.

Il terzo poeta è Hart Crane che ha dedicato una parte della sua opera poetica a questa città; una delle poesie che ho scelto riflette questa scelta. New York è presente anche in Stefan Zweig (ritratto in copertina e del quale ho segnalato una biografia), che ha visitato New York tre volte, l’ultima come penultima tappa del suo lungo esilio, ogni volta lasciando le sue impressioni (il tema dell’impatto provocato da questa città su coloro che vi approdarono fuggendo dall’Europa negli anni Trenta è affascinante e spero di riprenderlo in uno dei futuri numeri).

Ci sono poi le consuete indicazioni sui libri da leggere, e, da questa volta, anche da non leggere. Prima quelli degli amici ormai fedelissimi di questa parte dei Testi Infedeli: Augusto Bianchi, Eva Cantarella, Sabino Cassese, Luciana Castellina, Gherardo Colombo, Joseph DiMento, Giulia Gavagnin, Marina Nespor, Pasquale Pasquino, Michele Salvati, Roberto Satolli, Armando Spataro. Poi, ci sono anche alcuni miei suggerimenti.
S.N.

A CHI SPETTA IL MERITO

Non conosco nessuno che sia divenuto ricco per suoi soli meriti.
Qualcuno ha costruito una fabbrica laggiù? È stato certamente in gamba. Ma per procurarsi le materie prime e commercializzare i suoi prodotti ha utilizzato strade, ponti, porti, beni pagati dalla collettività.
Ha poi fatto conoscere a tutto il mondo i suoi prodotti? È da apprezzare. Ma i servizi postali e la rete Internet sono stati realizzati e sono oggi mantenuti in funzione con i soldi di tutti.
Si è avvalso di manager capaci? Indubbiamente ha fatto scelte intelligenti, ma non dimentichiamo che l’istruzione dei suoi collaboratori è stata in gran parte a carico di tutti.
E poi, la sua attività produttiva si è svolta in sicurezza e tranquillità, ma solo perché ci sono polizia, vigili del fuoco e un sistema sanitario: un servizio pubblico che tutti contribuiscono a mantenere efficiente.
Certo, per fare quella fabbrica ci sono voluti sforzi, fatica, idee. Il successo ha premiato l’impegno profuso, bisogna riconoscerlo.
È giusto che chi l’ha realizzata trattenga una parte dei profitti. Ma, proprio per l’aiuto ricevuto da tutta la collettività, un’altra parte deve ridarla per mantenere quei servizi e quelle strutture di cui lui si è avvalso e per aiutare chi vuole seguire il suo esempio.

Da un discorso di Elisabeth Warren, docente di diritto commerciale alla Harvard Law School, durante la vittoriosa campagna per coprire nel 2013 il posto di senatore degli Stati Uniti per lo stato del Massachusetts, a lungo ricoperto da Ted Kennedy. Fighting Chance è la sua autobiografia (Metropolitan 2012). Ha promosso la costituzione di un organismo federale per tutelare i consumatori dalle speculazioni bancarie.

 

UNA POESIA DI GARCÌA LORCA

Aurora a New York

L’aurora di New York ha
quattro colonne di fango
e un uragano di nere colombe
che sguazzano nelle acque putride.

L’aurora di New York si lamenta
per gli scalinati smisurati
cercando negli angoli più bui
rimedi di angoscia disegnata.

L’aurora arriva: nessuno l’accoglie nella sua bocca.
A volte il denaro in sciami furiosi
trapassa e divora bambini abbandonati.

I primi che escono sentono sulle loro ossa
che non vi sarà paradiso né amori sfogliati;
sanno che vanno a un fango di numeri e di leggi,
a giochi senz’arte, a sudori senza frutto.

La luce è sepolta da catene e rumori
in una vergognosa sfida di scienza senza radici.
Nei sobborghi c’è gente che vacilla insonne
come appena uscita da un naufragio di sangue.

La poesia è in Poeta a New York, un diario in versi e disegni scritto tra il 1929 e il 1930, durante la permanenza di Lorca alla Columbia University. Il manoscritto era ritenuto perduto; è però riapparso nel 2003 in un’asta da Christie’s. Fu successivamente comprato dagli eredi di Lorca. Nel 2013 Laura García Lorca ha curato e organizzato alla New York Public Library la rassegna Lorca in New York, ove sono state esposte al pubblico le pagine ritrovate del manoscritto. Tra le persone invitate allo spettacolo inaugurale della mostra c’era la cantante Patti Smith che disse: “Dentro ci sono la bellezza e l’avarizia, le cose che lo terrorizzavano, quelle che l’ossessionavano, quelle che lo disgustavano. Ed è un vero libro americano. Un piccolo libro scritto da un poeta che in America sentì di potersi esprimere, regalandoci una visione unica e speciale di New York e di quegli anni. Dopo New York tornò in Spagna, tornò a Granada. Venne arrestato, portato su un campo e fucilato. Il corpo venne gettato in una fossa comune”.

LA STRANA STORIA DI CAPPUCCETTO ROSSO

La raccolta delle Kinder- und Hausmärchen dei fratelli Johann e Jakob Grimm, pubblicate poco più di 200 anni fa, nel 1812, è il libro tedesco più diffuso nel mondo, dopo la Bibbia nella traduzione di Martin Lutero. È una raccolta di fiabe popolari. L’intenzione dei fratelli Grimm, esponenti del movimento democratico in Germania, era quello di contribuire alla formazione di una identità, di una cultura e di una comune lingua tedesca (a questo fine è dedicata anche la loro grandiosa opera, il Deutsches Worterbuch in 33 volumi). In realtà, varie fiabe inserite nella raccolta non provengono dalla tradizione popolare tedesca.
È il caso di una delle fiabe più note, Rotkappchen, Cappuccetto Rosso. Infatti, i fratelli Grimm l’hanno trascritta, insieme ad altre, dai racconti di una loro amica e vicina, Jeannette Hassenpflug; costei però l’aveva appresa, da piccola, dalla madre, una ugonotta francese trasferitasi in Germania all’inizio del secolo XVII per sfuggire alle persecuzioni di Luigi XIV. Quindi, la raccolta potrebbe essere un insieme di tradizioni popolari orali non più solo tedesche, ma anche francesi.
Ma neppure questa conclusione è vera.
Perché nella Parigi degli ultimi anni del Seicento, dove viveva la madre di Jeannette prima di fuggire, la ricerca e la lettura di fiabe era divenuta un’attività letteraria in voga nei circoli intellettuali, a seguito della pubblicazione nel 1697 da parte di Charles Perrault di undici fiabe, raccolte dalla tradizione popolare ma ampiamente modificate e adattate per un pubblico adulto e colto. Il libro di Perrault. Histoires ou contes du temps passés, avec des moralités, noto in seguito con il sottotitolo: Contes de ma mère l’Oye, ottenne un grande successo, tanto che fu seguito, poco dopo, da una raccolta di fiabe in quattro volumi di Marie Cathérine d’Aulnoy, anch’esse rivolte a un pubblico colto e adulto.
Ebbene, nei Contes de ma mère l’Oye c’era, oltre ad altre fiabe assai note come Pollicino, Cenerentola e Barbablu (tutte riprese dai fratelli Grimm per via della loro amica Jeannette), anche Le petit Chaperon rouge. Qui la lesse la madre di Jeannette prima di abbandonare precipitosamente Parigi. Poi, per raccontarla alla figlia, ne adattò il testo, omettendo la parte della storia di Perrault in cui il lupo invita la bambina a spogliarsi prima di venire a letto con lui, e soprattutto ne addolcì il finale: mentre nel testo francese Cappuccetto rosso finiva divorata dal lupo, la piccola Jeannette sospirava di sollievo allorché sopraggiungeva il cacciatore che squartava il lupo dopo averlo ucciso e estraeva sana e salva la piccola, ancora viva (questa è la versione che conoscono anche i bambini di lingua inglese, allorché leggono la storia di Red Riding Hood).
Poi, per lo più utilizzando il testo dei fratelli Grimm, che non era né fiaba tedesca né fiaba popolare, o quello di Perrault, un racconto rielaborato per i sofisticati lettori francesi, sono proliferate centinaia di interpretazioni a partire dalla fine dell’Ottocento da parte di studiosi di tradizioni popolari e di folklore, di mitologia, di antropologia (tra cui Vladimir Propp).

La fiaba ha fatto soprattutto la felicità degli psicoanalisti (tra cui Freud, Hertz, Bettelheim e Fromm) che però, non essendosi curati di verificare l’origine della favola, hanno perso un truce – ma psicoanaliticamente eccitante – particolare presente nella maggior parte delle vere tradizioni popolari europee, omesso da Perrault e quindi anche dai fratelli Grimm: il cannibalico invito da parte del lupo alla bambina a mangiare gli avanzi della nonna appena divorata.

Per chi sia interessato alle ricerche psicoanalitiche su Cappuccetto rosso: Erich Fromm, Il linguaggio dimenticato, Garzanti, Milano, 1973; Bruno Bettelheim Il mondo incantato, Feltrinelli 2000; Vladimir Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Bollati Boringhieri 2006; e poi: Livia Bidoli, Da Cappuccetto Rosso a Cappuccetto Nero: psicoanalisi di una fiaba in www.progettobabele.it/rubriche/ cappucetto.php; Alida Cresti, Cappuccetto rosso ed Erich Fromm: il linguaggio ritrovato in www.ifefromm.it/rivista /2008-xx/4/memorie/ cappuccettorosso.php.
Recentemente è stato ritrovato in un monastero di Liegi un manoscritto risalente all’XI secolo dal titolo De puella a lupellis seruata: si narra di una fanciulla vestita di una tunica rossa battesimale che, errando per i boschi, incontra un lupo che la porta nella sua tana. È il più antico riferimento alla fiaba, la cui maggiore diffusione si colloca più tardi, tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento. In quegli anni, infatti divampò, soprattutto in Francia, la psicosi del licantropo: vi furono centinaia di casi di uomini accusati di aver ucciso e divorato dei bambini, trasformandosi in lupi (e spesso condannati). Un’accurata ricostruzione dei casi e dei processi più famosi è in Wilhelm Hertz, Der Werwolf, Beitrag zur Sagengeschichte, Stuttgart 1862, disponibile su googlebooks.

 

TRE POESIE DI HART CRANE

Le lettere d’amore di mia nonna

Non ci sono stelle stanotte
se non quelle dei nostri ricordi
eppur c’è tanto spazio c’è per la memoria
nella molle cintura della pioggia lieve.
C’ anche abbastanza spazio
per le lettera della madre di mia madre
rimaste per tanto tempo sepolte
in un angolo sotto il tetto
fradice e ingiallite
e ormai pronte a disfarsi come neve.
Su spazi così vasti
i passi debbono essere leggeri.
tutto è appeso a un invisibile capello bianco
e tremo come rami di betulla che si intrecciano nell’aria.

Io allora mi chiedo:
hai dita abbastanza lunghe per suonare
tasti che sono solo echi:
è così forte il silenzio
da riportare la musica alle origini
e poi di nuovo verso di te come se fosse per lei?
Si, vorrei portare la mia nonna per mano
in mezzo a cose che lei non capirebbe,

e così inciampo. E la pioggia continua a cadere sul tetto
con quel suono di risa leggere e caritatevoli.

Chaplinesque

Pronti ad accettare squallidi compromessi
Appagati da casuali consolazioni
Che il vento deposita
In tasche lise e troppo larghe.

Perché può ancora amare il mondo chi trova
Un gattino affamato sulla soglia e conosce
Per lui rifugi dalla violenza della strada
O del calore in un gomito sdrucito.

Staremo alla larga e fino al ghigno finale
Giocheremo con il destino di quel pollice inevitabile
Che lentamente strofina il suo indice grinzoso verso di noi
Fronteggiando lo sguardo ottuso con quale sorpresa
e quale innocenza!
Tuttavia questi fallimenti non sono menzogne
Più delle piroette di qualsiasi bastoncino flessibile;
giungere al nostro funerale non è certo un’impresa.
Possiamo eludere tutto, ma non il cuore:
che colpa abbiamo se il cuore continua a vivere.

La gara costringe a fare smorfie. Ma abbiamo visto
La luna trasformare in vicoli solitari
una coppa di risate in u bidone di vuota cenere
e fra tutti i suoni di gioia e ricerca
abbiamo sentito un gattino nell’oscurità.

 

Viaggi

Precisi, nella brina dopo mezzanotte,
infrangibili e solitari, lisci come gettati
insieme in una crudele lama solitaria
gli estuari della baia screziano l’orizzonte.

Come se troppo fragili o troppo chiari da toccare!
I cavi del nostro sonno così velocemente recisi
Pendono ora a brandelli dalle stelle presenti nella memoria.
Un sorriso ghiacciato senza traccia… Quali parole
Possono strangolare questa luna così muta? Perché noi
Siamo sommersi. Ora né grido né spada
Possono afferrare o sviare questo cuneo di marea,
lenta tirannia della luce lunare, luce amata
e mutata… “Non c’è nulla di simile al mondo” tu dici,
sapendo che non posso toccarti la mano e guardare
con te in quella voragine di cielo senza dio
dove nulla appare se non un bagliore di sabbie morte.
“…E mai riuscire a capire” No,
in tutto il vascello dei tuoi biondi capelli non ho sognato
nulla così senza identità come questa pirateria.
Ma ora,
ritrai la tua testa, sola e troppo alta
i tuoi occhi sono già nel pendio della schiuma che si spande;
il tuo respiro sigillato dagli spettri che non conosco
ritira la tua testa e dormi per il lungo viaggio verso casa.

Hart Crane, nato nell’Ohio nel 1899 in una ricca famiglia di industriali, cominciò a scrivere poesie al liceo. Trasferitosi prima di completare gli studi a New York, frequentò i circoli culturali del Greenwich Village. Tornato nell’Ohio, mentre lavorava nella fabbrica di dolciumi del padre intratteneva fitti rapporti epistolari con alcuni dei più importanti personaggi del mondo letterario dell’epoca, tra cui Sherwood Anderson, Allen Tate, Katherine Anne Porter e Jean Toomer e scrisse alcune tra le sue poesie più famose (tra le quali, le prime due qui riprodotte). Tornato a New York, pubblicò nel 1929 il suo primo libro, White Buildings (da cui ho tratto una delle sei poesie che compongono il poema Voyages) e lavorò intensamente ala sua opera più famosa, The Bridge, che doveva offrire, sulla scia di Walt Whitman, una sintesi mistica della missione degli Stati Uniti, materializzata nelle grandi innovazioni tecnologiche e nello sviluppo urbano di New York, esemplificato dal ponte di Brooklyn. Nel 1932 di ritorno dal Messico, dove inutilmente aveva cercato di scrivere un poema su Montezuma e la conquista spagnola, si uccise gettandosi in mare dalla nave. È oggi considerato uno dei più innovativi poeti americani della prima metà del secolo scorso. Per scritti e saggi critici sull’opera di Crane: www.poets.org/poet.php/prmPID/233.

TEOFILO STEVENSON: MEGLIO ROSSO CHE RICCO

“Che cos’è un milione in confronto all’amore di 8 milioni di cubani?”. Con questa frase, Teofilo Stevenson, uno dei più grandi pugili di tutti i tempi, rifiutò nel 1976 una somma di 5 milioni di dollari per passare al professionismo e combattere contro Cassius Clay\Muhammad Ali che due anni prima aveva sconfitto a Kinshasa George Foreman, dopo aver scontato la squalifica di tre anni inflittagli dalle autorità statunitensi per essersi rifiutato di partecipare alla guerra in Vietnam. A quell’epoca, il pugilato era ancora una miniera d’oro per pugili di valore. Ma, se avesse accettato, Teofilo avrebbe dovuto lasciare Cuba per sempre, poiché il pugilato professionistico era proibito fin dal 1962. Divenne così un eroe per tutti i cubani. A proposito di questa scelta, scrisse Sports Illustrated, una delle più importanti riviste statunitensi di sport: “Ha preferito essere rosso che ricco” (He’d Rather Be Red Than Rich).
Stevenson vinse per tre volte la medaglia d’oro olimpica nel pugilato (Monaco 1972, Montreal 1976, Mosca 1980), sempre nella stessa categoria dei pesi massimi. In precedenza, solo l’ungherese Làszlò Papp aveva vinto tre ori nel pugilato in tre diverse edizioni dei giochi olimpici (Papp divenne poi professionista, conquistò il titolo europeo dei pesi medi nel 1962, ma dovette anche lui rinunciare a disputare il match per il titolo mondiale, perché l’Ungheria, tardivamente, decise che il pugilato professionistico era contrario ai principi socialisti). Stevenson non poté conquistare la quarta medaglia d’oro nel 1984 a Los Angeles, realizzando un’impresa unica nella storia del pugilato olimpico, solo perché Cuba aderì al boicottaggio indetto dall’Unione sovietica e dagli altri paesi socialisti. Si aggiudicò per tre volte anche i campionati mondiali: nel 1974, all’Avana, nel 1978, a Belgrado, e nel 1986, a Reno, dove s’impone nella categoria superiore, quella dei supermassimi (oltre i 91 kg).
Allorché concluse la sua carriera nel 1988, aveva totalizzato 302 vittorie e 22 sconfitte.
È morto nel 2012 a sessant’anni. Il quotidiano del partito comunista cubano, Gramma, lo ha salutato con il titolo “Hasta siempre, campeòn”.

Su Teofilo Stevenson: Gianni Minà, Teofilo Stevenson: se 5 milioni di dollari non sono la felicità in Una vita da cronista: www.giannimina.it/; Kevin Mitchell, Teófilo Stevenson: the amateur boxer who chose Cuba over a million dollars in The Guardian, 13 June 2012.

 

UNA POESIA DI JANINE BAUDE

Le Chant de Manhattan

La neve trasforma la finestra. Il ponte di Brooklyn s’appesantisce. Gli uccelli raggruppati, in grappoli, si stagliano contro le fontane. Vi fu prima quell’attimo di silenzio – my heart is broken – poi la neve venne a cucire l’orizzonte.

La strada si faceva, un tempo, con bagagli e cesti verso la nave, fino a quel punto d’orizzonte laggiù, al confine tra parco e città. Qui, dove sono – now, broken – ricevevano un poco di cibo e consegnavano i loro stanchi corpi.

Migliaia di aironi alla finestra danzano. Cantate per piano e violoncello cucite sui vestiti, le cuffie calcate fino alle orecchie, queste donne vanno. Dove vanno da allora? L’isola annaspa ancora. Sui muri s’indovina l’odore. Una donna poi l’altra poi l’altra. A passare sotto le gonne è null’altro che la Storia.

Può far male. Pesanti calcinacci da trasportare. Guardate la città mentre si costruisce e si costruisce ancora. Le mani screpolate hanno scritto così tanto che trasudano le pietre. L’inchiostro si legge negli angoli, sui pilastri. La ferraglia corrosa dappertutto. Il sangue.

Forse questa coppia, sul ponte, ascolta. Volti fulgidi dei nuovi arrivati e degli amanti che indugiano mentre io mi affretto. Si allontana il bus. Prenderò il prossimo. Anche loro aspettavano questa occasione che non arriva. La luna sorveglia che i cavi reggano. La vita da qualche parte deve pur condurre. Ogni amante, ogni solitudine si coglie come gli uccelli – non attorno alle fontane – ma più in alto, senza sapere dove.

Si distendono le lunghe gambe fino all’oceano, le braccia verso il cielo. Un corpo, una città, una strana composizione totalmente immaginata dall’uomo bianco. Il Pellerossa gli vendette per ventiquattro dollari questo piccola penisola di fango, colline e fiume. Curiosa transazione sapendo che per un Indiano la terra non ci appartiene, è solo imprestata il tempo di una vita e così di generazione in generazione.

L’uomo nero, ben altra storia. Il vento s’insinua tra le torri, con fragore. Racconta: New York is black, New York is red, New York is yellow.

Questo più o meno accade quando si cammina nella città fino a perdere la propria anima. Ho le orecchie bruciate per via del rumore cagionato dal tempo, dalla Storia. –Nightmare – tutti sono fieri di questa città che non dorme mai.

Jeanine Baude, nata nel 1946, vive a Parigi. Collabora a numerose riviste letterarie francesi e europee. Dal soggiorno a New York tra il 2002 e il 2003 trae un libro di ricordi New York is New York, Éditions Tertium, 2006 e un libro di poesie dedicato alla città e alla sua storia, Le Chant de Manhattan, Seghers, 2006 (da cui è tratto il brano che è qui riprodotto). A seguito di un soggiorno a Buenos Aires nel 2008 pubblica Le Goût de Buenos Aires, Mercure de France, 2009.

GLOBALIZZAZIONE

I

L’abitante di una qualsiasi città europea può ordinare, sorseggiando a letto il tè o il caffè della mattina, qualsiasi prodotto del globo intero, in qualsiasi quantità desideri e confidare in una consegna sollecita, sull’uscio della propria casa; può con gli stessi mezzi e negli stessi tempi investire i propri risparmi nelle risorse naturali e in nuove iniziative commerciali o industriali in ogni angolo del mondo e condividerne gli eventuali frutti; può infine decidere di legare la sua fortuna a quella dei titoli emessi da Stati o municipalità in ogni continente.

II

La globalizzazione rende impossibile una guerra mondiale perché i paesi sono ormai troppo collegati economicamente finanziariamente e culturalmente, anche per lo sviluppo delle comunicazioni. La guerra non dà benefici economici agli Stati, troppo interdipendenti tra loro e vincolati da un’economia libera di scambio.

Entrambi i brani riguardano la globalizzazione. Ma non quella attuale, quella verificatasi a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo (della quale Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne costituisce una acuta anticipazione: l’impresa era da poco divenuta realizzabile, a seguito del completamento della tratta ferroviaria intercontinentale in America, del collegamento ferroviario da Bombay a Calcutta e dell’apertura del canale di Suez). Più specificatamente, i brani riguardano gli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale.

Il primo brano è tratto da Le conseguenze economiche della pace, un saggio scritto da John Maynard Keynes nel 1919. Il secondo è di Norman Angell, dal suo libro The Great Illusion del 1909: un bestseller tradotto in 25 lingue in cui si escludeva categoricamente che una guerra mondiale fosse possibile. Su Norman Angell (premio Nobel per la pace nel 1933) si veda Cornelia Navari, The Great Illusion Revisited: The International Theory Of Norman Angell in Review of International Studies 1989, 341.

 

LIBRI DA LEGGERE, DA NON LEGGERE E DA RILEGGERE

Ecco le indicazioni dei miei amici.

Giulio Napolitano (a cura di), Le avventure del giovane giurista. Guida alla ricerca nel diritto, Editoriale scientifica, 2014.
Una volta abbondavano i libri di consigli e precetti. Un esempio è il famoso “L’età preziosa. Precetti ed esempi offerti ai giovinetti” (1918) di Emilio De Marchi, uno scrittore ben noto, che consigliava, al ricco e al povero, come scrivere, come esercitare la memoria, come fare letture, come prendere note. Insomma un prontuario, scritto con molto garbo, di “igiene intellettuale”. Successivamente, questo tipo di letteratura è divenuto inconsueto, è prevalso il “fai da te”, il liberismo educativo. In controcorrente il volume, in veste grafica elegantissima, ideato e curato da Giulio Napolitano, al quale hanno collaborato otto professori di diritto (tra questi anche io, per cui dichiaro subito il mio conflitto di interessi). È un libro diviso in due parti, dedicate all’attività di ricerca e alla vita del ricercatore. Nella prima si espongono metodologie, e si danno consigli relativi alla scelta dei temi di ricerca, al metodo, allo stile di scrittura, al modo di fare le citazioni, ai prodotti della ricerca (libro,
articolo, nota a sentenza), alle letture consigliate, ai “lettori” ai quali sottoporre la propria ricerca, a come e dove pubblicare. Nella seconda parte, i consigli riguardano lo studio in biblioteca, l’apprendimento e uso delle lingue straniere, i rapporti con la comunità scientifica, il parlare in pubblico, nei convegni, la ricerca di gruppo, la preparazione dei concorsi universitari. Sia il giovane ricercatore che resta in Italia, sia quello che voglia fuggire all’estero, troveranno utilissimo, prezioso, questo libretto e lo leggeranno, ponendolo, poi, nello scaffale accanto al classico “Come si fa una tesi di laurea” di Umberto Eco.
Sabino Cassese

Erskine Caldwell, Tobacco Road, Open Road Media 2011 (anche su Kindle).
With language that is at times jarring, always stark and simple, Erskine Caldwell wrote in this short novel of a world that seems to some made for sensational B movies. But Tobacco Road is a an important and moving story about Georgia’s tobacco roads at the height of the Great Depression, a place and time that Caldwell knew first hand.
This is a disturbing and unforgettable novel that graphically presents life in poor rural America. It makes you incredulous, angry, shocked, and also immensely saddened. Tobacco Road tells the stories of the Lester family (Jeeter, Dude, Ellie May…..), white sharecroppers, too poor,
too defeated, too hungry to have human feelings. These are people who drive over their grandmothers as if they are closing a door; who won’t share their few turnips, the only remaining food of the people; who sell their children; whose last prayer is to be able to be buried in a pretty, “stylish” dress or in a box without rats.
Erskine’s novel was and is immensely controversial. To some it is pornographic (his work was prosecuted for obscenity); to others it is pulp fiction. Rather, it is an historically significant portrait of race, poverty, exploitation and inequality – a poem in prose – with memorable repeating phrases of a dying hope, wrenching and all too real. And its themes ring true today.
Joseph DiMento

Haim Baharier, La valigia quasi vuota, Garzanti 2014.
Il libro di un maestro – esponente di un affascinante mondo claudicante – dove Vita e Pensiero si intrecciano in modo straordinariamente lieve, nel ricordo di Monsieur Chouchani – leggi Sciusciani – Maestro dei Maestri, misterioso e geniale clochard apparso a Parigi negli anni 50 e poi svanito nel nulla. Un libro molto ben scritto, semplice e complesso, intessuto di ricordi – commoventi quelli dei sopravvissuti alla Shoa – che fanno riflettere e anche sorridere.
“Perché non riesci a fondare dentro di te la vita? Non hai un
buon motivo per vivere? Non ci riesci? E che cosa vuol dire fondare dentro di te la vita? Non vuol dire forse dare luce a quell’essere infinito che vive dentro di noi, elevarlo alla luce – è questo, no, vivere? Elevarlo alla nostra coscienza ma non riuscirci: quell’ospite che abbiamo dentro di noi, oppure quell’oste che ci ospita. Incamminati, verso la terra del dono. Voler vivere è dare spazio, luogo e tempo a quella scintilla che ospitiamo dentro di noi e di cui noi siamo ospiti.”
Un libro da cui trarre insegnamenti, domande e speranze.
Augusto Bianchi

Madeleine Thien, L’eco delle città vuote, 66th and 2nd, 2013.
“Fin dall’inizio ci vengono consegnate molte vite che conserviamo dentro di noi. Dal primo all’ultimo mattino lottiamo per portarle con noi fino alla fine”.
Mei, che a 11 anni lascia la Cambogia dilaniata dalla follia dei Khmer Rouge, è la protagonista di un libro scritto con linguaggio potente ed elegante da Madeleine Thien, 40 anni, canadese di origini orientali. Ci sono voluti 5 anni per scrivere la storia di due sopravvissuti che ad un certo punto della loro vita non resistono al senso di colpa e tornano in Cambogia per cercare parenti scomparsi e dar corpo a ricordi confusi: lo fa Mei, finita a Vancouver dove, grazie a genitori adottivi, è diventata Janie, brillante elettrofisiologa. E con lei lo fa il giapponese Hiroy, uno scienziato suo amico, per ritrovare il fratello medico. A Janie l’Angkar ha strappato 30 anni prima non solo i genitori, ma anche il fratellino Sopfham, diventato
bambino-soldato e torturatore prima di scomparire per sempre. Nell’aprile del 1975, quando gli uomini di Pol Pot entrano in Phnom Penh, “la città alla confluenza dei fiumi”, sembrano i vincitori di una guerra giusta. La verità era che volevano azzerare tutto, compresa la memoria delle vite precedenti: “Non appartieni a nessuno e nessuno ti appartiene – dice l’Angkar – l’attaccamento al mondo è un reato”. Due o tre milioni di morti, però, non furono sufficienti: nel gennaio del 1979 i vietnamiti li cacciarono da Phnom Penh ma per molti anni ancora, grazie all’ipocrisia dell’Occidente, furono i Khmer a rappresentare la Cambogia alle Nazioni Unite. Janie ritornerà al marito Navin e al figlio Kiri lasciati in Canada solo dopo essersi riappropriata di radici e identità. Fangosi campi di sterminio ed ossa sparse ovunque, ma anche amicizia e generosità popolano le pagine di questo intenso libro e così la storia di una donna e di un uomo si confonde con quella di un popolo, il sogno con la realtà, in un groviglio magico e inestricabile. “L’ultima immagine che ho della Cambogia è oscurità, è il suono di una quarantina di vagabondi muti, di preghiere silenziose. Ho chiuso gli occhi.. Voltati a guardare indietro un’ultima volta, ha detto mia madre”.
Armando Spataro

Murakami Haruki, Kafka sulla spiaggia, Einaudi 2008
Dire che è un brutto libro forse è troppo severo. L’ho scaricato in aeroporto, con un’attesa di quattro ore davanti a me, alla fine delle quali prevaleva l’irritazione, per lo stile che vorrebbe giocare sulla chiave dell’assurdo e dell’onirico (con l’esplicito riferimento a Kafka) ma risulta banalizzato in forme di favola senza profondità. Nonostante questo un ritmo c’è, e il tempo scorre rapido leggendo.
Insopportabili sono i lunghi passaggi didascalici, durante i quali un personaggio (il bibliotecario, in particolare) spiega con pedanteria e senza credibilità narrativa la musica di Schubert o il pensiero di Goethe o l’opera di qualche altro esponente della cultura occidentale, dai classici greci (il mito di Edipo è l’argomento del libro) sino ai giorni nostri. E’ difficile capire quanto queste stonature dipendano non tanto dalla traduzione, quanto dalla traslazione tra due culture così distanti. Non saprei neanche dire quanto la passione per la cultura occidentale in un autore giapponese sia genuina, o sia frutto di un calcolo: conquistare la benevolenza del pubblico europeo e americano, o solleticare il gusto dell’esotico nel pubblico orientale?
Intanto però l’ho letto di un fiato, come un fumetto, e alla fine il personaggio che parla con i gatti mi accompagnerà ancora per qualche tempo. Alcune pagine sono riuscite a entrare in risonanza con il filo dei miei pensieri, regalandomi anche momenti in cui il tempo si è fermato. Forse l’ho letto troppo in fretta, o forse è questo il difetto principale di come è stato scritto.
Roberto Satolli

Noam Chomsky, Richard Lewontin, Marc Hauser e altri, The mistery of language evolution in Frontiers in Psychology, 2014.
I tamarini, piccole scimmie dal ciuffo bianco, non sono geneticamente programmati per parlare: non si è sviluppata una lingua tamarina. Ma sono in grado di usare alcuni meccanismi che gli esseri umani usano per apprendere il linguaggio, in particolare per segmentare il flusso del parlato in parole, anche se naturalmente non li usano per apprendere una lingua. Nonostante ciò, i meccanismi di segmentazione della lingua parlata sono gli stessi. I risultati delle indagini su queste scimmie sono un esempio degli enormi progressi fatti negli ultimi anni nello studio delle capacità cognitive di alcuni animali, più simili a quelle degli esseri umani di quanto si pensasse un tempo: piccoli passi, ma importanti per affrontare il mistero dell’evoluzione del linguaggio e le ragioni per le quali questa capacità si è evoluta negli esseri umani ma non nelle scimmie, i loro parenti più stretti, con cui condividono 96% dei geni e in nessun altro essere animato. È un tema che è stato trascurato da questo articolo che, seppure fondamentale e scritto dai maggiori esperti mondiali del linguaggio, osserva soltanto che in nessun animale non-umano esistono capacità di comunicazione linguistica simili a quelle umane; che non è possibile dire nulla sulle proprietà in questo campo sul cervello degli esseri umani e degli altri animali in
base a fossili o altre evidenze archeologiche; infine che non possediamo conoscenze sufficienti sulla genetica del linguaggio. Tutto ciò al momento è vero, ma un cenno sugli studi recenti e sulle prospettive che essi offrono sarebbe stato benvenuto.
Marina Nespor

Elisa Rutolo, Ovunque. Proteggici, Edizioni nottetempo 2014
Una scrittura simile non l‘avete di certo mai incontrata: non è un dialetto, né un idioma straniero, né, tanto meno, una semplificazione infantile. Il linguaggio dell’autrice non ha ascendenti, né riferimento conosciuto: Da dove l’abbia tirato fuori lo sa iddio. E però è un rotolio di parole inusitate che ti acchiappa dall’inizio alla fine, segno che riflette una lingua che ognuno di noi ha dentro, anche se non l’ha mai usata. Per questo leggi il libro di un fiato, perché quelle parole danno un senso ai protagonisti, prima arcaici poi via via intrecciati con la modernità, in un intrico di relazioni e di personalità, che alla fine – ma proprio per via di questa lingua che ti penetra dentro ma non sapresti tradurre – compongono un mondo che ti sembra vicino. Insomma, questo libro bizzarro, il più innovativo e intrigante tra i finalisti per il premio Strega 2014, è sicuramente il libro di una grande, nuova scrittrice.
Luciana Castellina

Luciano Canfora, La Crisi dell’ utopia. Aristofane contro Platone, Laterza 2014.
Non fatevi spaventare dal sottotitolo. Il libro non parla solo del rapporto tra i due grandi autori, ma affronta argomenti molto più ampi, che ci toccano ancora. Partendo dall’ipotesi ( più che convincentemente dimostrata) che il nucleo centrale della “Repubblica” di Platone sia anteriore alla redazione delle “Donne a Parlamento di Aristofane, “ Canfora ne trae le conseguenze: le indiscutibili analogie tra le società (ambedue utopiche) descritte nelle due opere si spiegano pensando che “Le donne a Parlamento” fossero una feroce satira delle teorie utopistiche prospettate da Platone nel V libro della “Repubblica”. E da questa premessa trae le conseguenze: Platone aveva inizialmente creduto nel regime di Crizia, che aveva portato al disastroso governo dei Trenta Tiranni. Profondamente deluso dall’esperienza se ne era poi dissociato e aveva descritto nella Repubblica la sua città Ideale, la Kallipolis nella quale la proprietà privata era stata abolita e le donne erano state messe in comune: la città che Aristofane ridicolizza nella sua commedia. Ma Canfora non solo non si limita a questo scontro, né alla descrizione del clima sociale nel quale esso si svolse (i difficili primi decenni del V secolo a. C., al termine della guerra civile e dopo la restaurazione della democrazia). Al di là tutto questo si interroga, come dice il titolo, sul problema più generale della crisi delle utopie: cosa accade delle utopie quando, dopo aver ispirato dei regimi politici, questi si dimostrano fallimentari, sul piano della storia? Ha senso credere ancora nell’esistenza e nella possibilità di realizzare un modello ideale? Trasferendo la domanda nel presente, ha senso e che senso può avere credere ancora in un’utopia come quella comunista, dopo il suo fallimento storico? Non voglio anticipare le idee dell’autore.
Eva Cantarella

Giorgio Terruzzi, Suite 200. L’ultima notte di Ayrton Senna, 66th and 2nd, 2014.
Mi sento quasi in imbarazzo a proporre un libro dello stesso autore che avevo proposto l’ultima volta. Posso dire che non lo faccio perché lui mi paga, e infatti non mi paga, e non lo faccio nemmeno perché siamo amici, nonostante che siamo amici per davvero. Lo faccio perché Suite 200 è un libro molto molto bello. Giorgio conosceva bene Ayrton Senna (lo capirete dal libro), perché di mestiere fa il giornalista sportivo e perché è capace di intessere feconde relazioni umane, non per tornaconto ma per curiosità e per straordinaria disposizione verso gli altri esseri umani. All’editore che glielo ha proposto (che purtroppo non ero io, ahimé), prima ha detto di no, poi un sogno rivelatore gli ha fatto cambiare idea. Così ha aggiunto alle conoscenze che già aveva nuova documentazione, è andato a passare una notte nella Suite 200, nell’albergo di campagna dove Senna
aveva dormito prima della giornata fatale, si è immedesimato e ne è uscito un saggio-romanzo nel quale l’immaginazione non violenta mai la realtà.
Gherardo Colombo

Massimo Teodori, con Massimo Bordin, Complotto. Come i politici ci ingannano, Marsilio 2014.
David Bidussa, I purissimi. I nuovi vecchi italiani di Beppe Grillo, Feltrinelli 2014.
Il problema con le spiegazioni complottistiche è che talora i complotti ci sono veramente, anche se è spesso difficile accertarli. E che, anche quando ci sono e sono accertati, difficilmente costituiscono una spiegazione adeguata dell’evento o del passaggio storico che essi intendono spiegare. Come dice Richler citato in esergo: “il problema con i teorici della cospirazione è che se gli dai un dito di porcherie accertate, loro si prendono un braccio di fantasie”. Chi usa il complotto a fini di spiegazione deve prima dimostrare la sua esistenza e poi giustificare la sua importanza. E questo, soprattutto quando si vogliono spiegare eventi, passaggi, svolte significative nella storia di un Paese, è molto difficile farlo: quasi sempre quegli eventi, quei passaggi, quelle svolte possono essere spiegati in modo soddisfacente anche senza invocare la categoria del complotto. Senza dare un peso ingiustificato a poteri occulti, servizi deviati, mafie o massonerie varie, anche quando si
sono effettivamente agitati sullo sfondo. Senza rendere responsabili dei problemi denunciati trame oscure e legami inconfessabili tra politici meschini o servitori infedeli dello stato e servizi segreti di altri paesi o movimenti eversivi di estrema destra o estrema sinistra, anche quando queste trame e questi legami ci sono effettivamente stati. Questo è il messaggio principale del libro di Teodori, un politico e uno studioso assai qualificato a dare una testimonianza sul fenomeno.
Un rimprovero però glielo farei, ed è il sottotitolo del libro: “Come i politici ci ingannano”. Che i politici facciano ampio uso di teorie complottistiche, è vero e basta pensare a Berlusconi per non aver dubbi in proposito. Ma se è così conveniente gridare al complotto, ci dev’essere una gran massa di persone che è disposta a crederci, maggiore nel nostro paese che in altri paesi civili. Se c’è una tale offerta di spiegazioni complottistiche, ci dev’essere anche una forte domanda, e di questa il libro di Teodori non tratta. Ne tratta invece il libretto di David Bidussa appena pubblicato da Feltrinelli, che consiglierei di leggere insieme a quello di Teodori. Come si capisce dal titolo, esso ha un oggetto completamente diverso, cercando una spiegazione del successo di Grillo sia in ragioni storiche profonde (il carattere degli italiani), sia in meccanismi di psicologia sociale, in una predisposizione paranoide e semplificatoria non contrastata – nel rapido passaggio dal paese semi-analfabeta del dopoguerra alla cultura audio-visuale di oggi- da un’istruzione realistico-critica diffusa. Insomma, il complottiamo sarebbe un parente stretto del populismo: un capo populista è necessariamente un complottista. E dunque non di singoli complotti si tratta, come nel libro di Teodori, ma di cospirazionismo: tutta la politica istituzionale, l’intera democrazia rappresentativa, è complotto, un agitarsi con qualsiasi mezzo, lecito e illecito, per conquistare e conservare il potere. Se così è le istituzioni della democrazia rappresentativa vanno radicalmente cambiate: come?
Michele Salvati

Deborah Lipstadt, Il processo Eichmann, Einaudi, 2014.
Il libro racconta la storia di uno dei processi più celebri del secolo scorso. Il suo interesse, per chi conosce quella vicenda, sta soprattutto nel primo e nell’ultimo capitolo. Il libro si apre con il racconto delle straordinarie circostanze della scoperta di Eichmann in Argentina e della sua cattura, fino ad oggi poco note, almeno per quanto riguarda la realtà dei fatti ed i suoi singolari protagonisti.
L’ultima parte del volume discute le tesi un po’ mal comprese e un po’ male esposte da Hannah Arendt sulla “banalità del male”. Arendt nella sua analisi del processo ha una sua specifica agenda, diversa da quella dei giudici che si concentrano sulle responsabilità individuali dell’imputato, ma diversa anche da quella del pubblico ministero Hausner,
che vuole trasformare il processo ad Eichmann in una condanna più generale dello sterminio degli ebrei d’Europa, di cui egli sarebbe stato la mente. Arendt, ebrea tedesca assimilata, cresciuta nei templi accademici della cultura del suo paese e che scoprirà il suo essere ebrea con il nazismo, dinanzi ad Eichmann cercherà di capire come fosse stato possibile che i tedeschi si siano macchiati delle spaventose atrocità che hanno caratterizzato il massacro di milioni di persone inermi con cui avevano a lungo convissuto.
La “facilità” con cui si compie il male – che non ha nulla di banale – ci lascia oggi ancora storditi dinanzi ad un mistero fitto e nero che nemmeno la formula ambigua e le analisi di Arendt hanno potuto dissipare. Ed è perché non possiamo capirlo che il nostro destino è di ricordare.
Pasquale Pasquino

Vaclav Havel, La politica dell’uomo, Castelvecchi 2014.
Questo testo nasce nel 1984 come progetto di discorso da tenere all’Università di Tolosa. All’epoca Havel non era in possesso di passaporto e, pertanto, non poteva viaggiare. Lo scritto fu quindi letto il 14 maggio 1984 dal drammaturgo inglese Tom Stoppard. È emozionante leggere pensieri così attuali a trent’anni di distanza dalla stesura di questo lungo brano. Havel inizia il suo racconto con un pensiero, direi, proto-ambientalista. Ricorda quand’era ragazzo e vedeva una ciminiera che col suo fumo deturpava la campagna. Già da adolescente gli sembrava offensivo nei confronti della Natura che l’uomo fosse così presuntuoso e tracotante da inquinare l’ambiente che lo ospita per la vana aspirazione di dominarlo e modificarlo a suo piacimento. Di qui, l’invito vibrante a guardare dentro di sé, a non cedere al cieco positivismo scientifico che rende l’uomo convinto di poter soggiogare le forze della Natura e, in ultima analisi, a disumanizzarsi nel tentativo di rendere il mondo diverso da come è stato concepito. Questo eroe della democrazia mondiale offre un’analisi interessantissima su questa dis-umanizzazione quando qualifica quale estremo prodotto di questo processo il ‘burocrate’ tipo delle repubbliche socialiste dipingendone i tratti principali. E’ una figura inquietante che purtroppo ricorda da vicino il funzionario pubblico contemporaneo, privo di anima e votato al puro rispetto del protocollo. E’ probabilmente uno dei segnali del declino della nostra democrazia.
Giulia Gavagnin

E poi, ci sono anche le mie.

Patrice Gueniffey, Bonaparte (1769-1802), Gallimard 2013 (anche su Kindle).
Se volete esagerare, se volete sapere tutto, ma proprio tutto, su Napoleone, questo è il vostro libro. Anzi, il primo dei vostri libri, perché con queste 860 pagine si arriva solo al 1802, allorché viene proclamato Console a vita, preparandosi a vestire i panni di Imperatore. Dalla giovinezza in Corsica, ai rapporti con i genitori e con i fratelli, fino all’arrivo a Parigi, poi il primo (controverso) successo con l’assedio di Tolone e via via la campagna d’Italia, la campagna d’Egitto e, negli ultimi capitoli, la sua attività di legislatore. Nulla della sua vita vi sarà risparmiato; tuttavia, saltando qualche pagina, un libro che non si riesce ad abbandonare.

George Prochnik, The Impossible Exile: Stefan Zweig at the End of the World, Other Press, 2013 (anche su Kindle).
Il libro indaga sull’ultima parte della vita di Stefan Zweig, tra gli scrittori più famosi del suo tempo, autore di biografie lette da milioni di persone (a questo proposito: una delle più belle, e tra le meno note, è la biografia di Castellio e della sua lotta contro Calvino), pacifista, musicologo, collezionista di manoscritti, amico dei più importanti intellettuali europei. Fuggito tempestivamente dal nazismo, senza soffrire, come tantissimi altri, privazioni, stenti e senza essere costretto ad affannate ricerche di un visto (“una delle pochissime persone per le quali l’esilio non poneva problemi economici”), passa anni muovendosi dall’Inghilterra agli Stati Uniti e infine al Brasile dove viene affettuosamente accolto. Ma subisce nel frattempo quel processo di Entfremdung descritto da Kundera (nel saggio su Stravinsky ora raccolto ne I testamenti traditi): un senso di crescente estraneità, ma non nei confronti dei paesi nei quali vive, ma nei confronti del mondo che ha lasciato: “l’estraneità nella sua forma più dolorosa e stupefacente” osserva Kundera “non si manifesta nei confronti della donna appena conosciuta, ma nella donna che per lungo tempo è stata nostra”. In Brasile completa una delle sue opere più note, Il mondo di ieri, il suo ultimo, straordinario racconto, Novella degli scacchi; poi, nel febbraio del 1942 si uccide con la seconda moglie, al culmine della disperazione per la distruzione dell’Europa e il disfacimento della cultura tedesca, proprio quando gli osservatori più attenti avevano compreso che la Germania non aveva più possibilità di vincere la guerra.

Barbara Tuchman, The Guns of August, Random House 1962 (c’è un’edizione italiana pubblicata da Bompiani nel 1998, che risulta non disponibile).
Come era prevedibile, libri e saggi sulla prima Guerra mondiale e, in particolare, sul periodo immediatamente precedente, sulle cause e sulle fasi iniziali, stanno inondando il mercato. Tra questi, per una descrizione dettagliata dell’attentato di Sarajevo suggerisco il volume di Christopher Clark I sonnambuli: Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra (Laterza 2013). Il libro incomparabilmente più bello, è stato però scritto oltre 50 anni fa, non da uno storico, ma da una giornalista (che ha vinto il premio Pulitzer). Ricostruisce le varie strategie militari messe a punto dai paesi contendenti (Germania, Francia Inghilterra e Russia in primo luogo) e la loro attuazione nel corso del primo mese di guerra ad opera dei vari responsabili, tutti descritti con ironia e acume. In poche settimane d’agosto anni di progettazioni e elucubrazioni militari si sgretolano: Schlieffen non aveva neppure immaginato che il Belgio potesse opporre resistenza e che la Russia potesse mobilitare così in fretta, due fattori che fanno fallire il suo piano e la guerra lampo; i generali francesi non avevano considerato che la guerra offensiva di tipo napoleonico era impossibile di fronte alle superiori forze tedesche. A ciò si aggiungono gli errori di valutazione, le esitazioni e le incapacità dei vari comandanti in capo (di cui fanno le spese, come si sa, centinaia di migliaia di esseri umani). Il libro finisce quando, a seguito della battaglia della Marna, si arresta l’avanzata tedesca a pochi chilometri da Parigi e si cominciano a scavare le prime trincee. È qui il vero inizio della Grande guerra.

Bernhard Kellermann, Der Tunnel, Shurkampf 1995 (scaricabile da www.gutenberg.org/ebooks/44489).
Pubblicato nel 1913, oggi quasi dimenticato, è stato uno dei libri più venduti e più famosi della prima metà del secolo scorso; ha dato origine a quattro film, il primo nel 1915, gli altri tre tra il 1933 e il 1945 in tre diversi paesi (Francia, Germani e Inghilterra).
Ci sono in questo libro un sapore antico di tragedia greca, con l’immancabile punizione della hubris di chi vuole sfidare l’ordine naturale e insieme una visione dell’etica dell’innovazione tecnologica e dei suoi rischi che preannuncia una sensibilità che maturerà solo molti decenni dopo.
Mac Allan, il prometeico protagonista, decide, mentre la prima globalizzazione sta per infrangersi nelle trincee della prima guerra mondiale, di realizzare un’opera che sfida le conoscenze scientifiche e tecniche del tempo: un tunnel sul fondo dell’Oceano Atlantico che congiunge l’Europa agli Stati Uniti in un disegno di pace e di prosperità. Dopo aver superato le opposizioni di industriali, commercianti, politici e organizzazioni religiose e culturali di varie tendenze, Mac Allan riesce ad ottenere i finanziamenti necessari e l’opera ha inizio: un tracciato di 5000 km che parte dal Golfo di Biscaglia e giunge a sud di New York. Ben presto cominciano gli imprevisti di carattere tecnico, geologico, ambientale, e organizzativo. I ritardi si accumulano per incidenti e per i continui scioperi dei 180.000 lavoratori impiegati, i finanziamenti finiscono, le ostilità crescono, ma, alla fine, dopo quasi trent’anni, l’opera è compiuta. Ma è ormai superata e resta inutilizzata: gli aeroplani già solcano l’Atlantico in poche ore.

 

 

 

Questo quarantacinquesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 2014 in duecentoventi copie non numerate e fuori commercio da Grafiche Porpora srl di Cernusco sul Naviglio, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti la maggior parte dei testi, spesso rispettando – ma non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989.
Ringrazio per la revisione del testo Salvatore Giannella, Marina Nespor e Pasquale Pasquino.

N. 45 inverno 2013

IN COPERTINA:

Giuseppe Verdi (nel bicentenario della nascita). Matite e acquerelli Winsor & Newton su carta

IN QUESTO NUMERO

Alcune considerazioni di Hanna Arendt (già in passato presente nei Testi infedeli) sul tema della violenza.

Un brano di Elias Canetti, con la descrizione di due personaggi, uno noto e uno ormai dimenticato, presenti in quella incubatrice culturale che è stata la Vienna degli anni Venti del secolo scorso.

Infine, la breve descrizione della vita di un personaggio ineguagliabile nella sua attività.

Poi c’è il consueto appuntamento con la poesia. Ci sono opere di due autrici provenienti dal mondo della ex- Jugoslavia (e l’eco di quel mondo scomparso si sente nei loro scritti) e alcune poesie di Yves Bonnefoy, da molti considerato il maggior poeta francese vivente.

Le segnalazioni dei libri da leggere o da rileggere sono anche questa volta di un gruppo da tempo sempre presente all’appuntamento: Augusto Bianchi, Eva Cantarella, Sabino Cassese, Luciana Castellina, Gherardo Colombo, Joseph DiMento, Giulia Gavagnin, Marina Nespor, Pasquale Pasquino, Michele Salvati, Roberto Satolli, Armando Spataro.

SULLA VIOLENZA

La violenza non è mai un fine, è sempre un mezzo. È quindi razionale se raggiunge i risultati che la giustificano. Ma il problema del rapporto tra i mezzi e il fine applicato all’azione umana è che il fine perseguito rischia sempre di essere travolto dai mezzi utilizzati. Accade poi assai spesso che i mezzi usati per raggiungere determinati fini assumono più duraturo rilievo che non i fini che ci si era proposti di raggiungere.

Inoltre, la violenza rimane ragionevole solo se si perseguono obiettivi limitati di breve periodo: infatti non si conoscono mai con ragionevole certezza, soprattutto nel lungo periodo, le conseguenze di ciò che si fa, anche perché nella violenza sono sempre racchiusi aspetti di arbitrarietà e di casualità.

Questo significa che con la violenza non si possono perseguire grandi cause, né tantomeno si mette in moto la storia o si promuovono rivoluzioni, come molti pensano.

La violenza può però servire per richiamare l’attenzione sulle ingiustizie e serve, spesso e paradossalmente, perché possa essere udita la voce della moderazione. Per questo, è un’arma più efficace in mano ai riformisti che non ai rivoluzionari.

Dell’inutilità della violenza per perseguire obiettivi rivoluzionari era del resto ben convinto Marx, secondo il quale solo le contraddizioni interne all’organizzazione sociale e lo sgretolarsi dei rapporti sociali su cui una società si fonda portavano verso una nuova società, il cui affermarsi poteva essere preceduto, ma mai causato, da movimenti violenti. Contrari ai suoi insegnamenti sono quindi gli slogan di una parte della retorica rivoluzionaria, quale il detto di Mao-Tse-Tung secondo cui il potere sorge sulla canna del fucile.

Da Hanna Arendt, Reflections on Violence. Il testo integrale è pubblicato sulla New York Review of Books del 27 febbraio 1969 è può essere letto in www.nybooks.com/50/Arendt.

TRE POESIE DI VOJKA SMILJANIC´– ĐIKIC´

La portinaia Vera e il vicino di Curzola

Credevamo che una volta diventati vecchi saremmo andati a Trebinje

Avremmo preso in affitto un’antica casa di pietra

E ogni mattina saremmo scesi a Dubrovnik

A sorseggiare vino e a misurare il tempo.

Verso sera saremmo poi tornati a casa stanchi della luce,

Avremmo acceso il fuoco e mangiato la focaccia nera.

Ma non ci sei più.

Da sola, a Trebinje non vado.

Anche se sono della loro stessa religione

direbbero che sono una straniera come la portinaia Vera a Belgrado:

quando venivano a cercare i miei genitori diceva sempre

Sono quei turchi del terzo piano.

Per questo ho deciso di invecchiare a Curzola.

Ho preso in affitto una vecchia casa, l’ho riempita di olio d’oliva

E piante aromatiche e ho piantato nove filari di fagioli.

Intorno vicini tranquilli, gli stessi d’estate e d’inverno

Il lieve profumo di legna bruciata

E di uva passita dalle vecchie cantine.

Tutto andava bene finché uno dei vicini non mi ha aspettato davanti a casa

Rosso in faccia, mi  ha detto:

Questa non è Bosnia Questa è terra croata.

Un tempo tutto era niente

Un tempo tutto era niente

e niente sarà di nuovo ma

cosa fare cosa costruire

con le mani e le parole e cosa lasciare

che i venti sparpaglino?

Ho smesso di scrivere

Ho completamente smesso di scrivere.

Ma vado sempre nei boschi, talvolta al mare

E in genere è con loro che parlo di poesia

È la cosa che mi piace di più

Perché della poesia è più facile parlare con i boschi e con il mare

Che con gli esperti, che in realtà sanno poco della poesia.

Ne conosco uno che sa tutto, ma vedo poco anche lui.

Quando lo vedo gli spiego piuttosto come si cucina il gallo al vino,

Mi sembra che anche a lui questo piaccia di più.

Ecco a cosa penso mentre passeggio

Tra i boschi e le acque Il bosco sì che è pura poesia E poi

I tetti di pietra delle case abbandonate piene di correnti d’aria

Che splendono al chiaro di luna e in lontananza il Mare

In quella casa di pietra sulla collina da cui si vede il mare

Sotto la luna piena ho visto la poesia

Ho toccato le sue spine. Potete chiudere forte gli occhi

E vedere chiaramente questa immagine la notte estiva

la luna piena,

il bianco chiarore, le case di pietra

le scaglie argentate dei tetti. E poi

lo stridere della civetta Vujka Vujka mi chiama.

La valle echeggia e risplende e muore il mare

Al chiaro di luna brillano i tetti e vegliano sulle poesie non scritte.

Così penso alla poesia Mentre passeggio tra i boschi e le acque

I testi sono tratti dalle raccolte Pepelnica (Le Ceneri, 1997), Prevo´denje mora (La traduzione del mare, 2004) e Druga zemlja (Un altro paese, 2000). La traduzione dal serbo è di Ginevra Pugliese. Un’ampia scelta di poesie è pubblicata su Fili d’aquilone n.31 del luglio 2013.

Vojka Smiljani´-Đikic´è nata a Varcar Vakuf (oggi Mrkonjicgrad) in Bosnia nel 1932. Dopo essersi laureata in romanistica all’Università di Belgrado si è trasferita a Sarajevo. Ha vissuto in Francia e a Londra, in Finlandia e in Algeria. Ha pubblicato cinque raccolte di poesie, ha curato un’antologia di poeti algerini e tradotto libri dal francese e dallo sloveno. È redattrice della rivista letteraria Quaderni di Sarajevo che esce dal 2001.

IL DOTTOR SONNE E ROBERT MUSIL

Il dottor Sonne

Arrivai un po’ in ritardo, tutti erano seduti a prendere il té. Avevo già incontrato alcuni degli invitati, di altri conoscevo il nome o le opere. Appartato e quasi nascosto nella penombra era seduto un uomo di cui conoscevo il viso da un anno e mezzo. Lo vedevo ogni pomeriggio al Café Museum barricato dietro ai giornali. Stava sempre solo e non parlava con nessuno. Solo raramente alzava gli occhi. Mi sorprendevo ad aspettare con ansia i rari istanti in cui quel viso si mostrava. Quando entravo cercavo di sedermi in modo da tenerlo sempre d’occhio; stavo seduto un’ora e più di fronte a lui aspettando i momenti in cui gli vedevo la faccia. Per un anno e mezzo lo vidi così e diventò un pezzo muto della mia vita. Adesso era lì in quella sala. Mi fu presentato: “Questo è il dottor Sonne”. Da allora, cominciai a frequentarlo e divenne per me un modello di vita e di conoscenza.
Che cosa mi affascinava nel dottor Sonne? Non parlava mai di sé. Nei suoi discorsi era assente ogni riferimento personale. Era qualcosa di eccezionale nella Vienna di quegli anni, dove ognuno straripava di compassione per sé stesso ed era gonfio della propria importanza: si viveva in piccoli gruppi perché ciascuno aveva bisogno dell’altro, discutendo di tutto e sopportando ogni discorso. Con il dottor Sonne però ci si sarebbe vergognati di parlare delle proprie vicende.
Escluse queste, con lui si poteva parlare di tutto e su qualsiasi cosa e il dottor Sonne rispondeva sempre in modo circostanziato e esauriente: di nessuna materia era uno specialista, ma era specialista di tutte le cose di cui l’ho sentito parlare. Ognuno dei suoi discorsi assomigliava a un saggio, meditato e estremamente vivo. Le parole di Sonne non abolivano o liquidavano nulla: il tema trattato, alla fine, era riordinato e illuminato. Egli apriva interi territori là dove prima c’erano solo punti oscuri; analizzava ogni argomento scomponendolo senza però fargli perdere la sua unità. Sceglieva le singole parti da esporre alla luce, le prelevava con cautela e, dopo aver finito, con la stessa cautela le riponeva al loro posto nel tutto. Quando aveva finito un argomento, ci si sentiva illuminati e appagati, era una pagina chiusa, qualcosa su cui non si tornava più perché non c’era più nulla da dire.
In quegli anni leggevo L’uomo senza qualità, di cui allora erano usciti i primi due volumi. Mi sembrava che nella letteratura contemporanea non ci fosse nulla paragonabile a quest’opera. Ebbene, a un certo punto mi accorsi che il dottor Sonne parlava come Musil scriveva: con la stessa chiarezza, la stessa precisione e la stessa trasparenza.

Robert Musil

Musil era sempre in armi, pronto alla difesa e all’attacco. Il suo atteggiamento era la sua sicurezza: si sarebbe potuto pensare a una corazza, ma era piuttosto un guscio. Ciò che frapponeva tra sé e il mondo non se l’era messo addosso, era cresciuto con lui.
Evitava le parole sentimentali, ogni frase di cortesia gli riusciva sospetta. Fra tutte le cose tracciava confini, come intorno a sé stesso. Diffidava delle fratellanze, delle effusioni e delle esagerazioni. Era un uomo allo stato solido e si teneva alla larga dai liquidi e dai gas. Alle conversazioni approssimative non prendeva mai parte e, se si trovava in mezzo ai chiacchieroni,dai quali a Vienna era impossibile sfuggire, si ritraeva nel suo guscio e restava muto. Si sottraeva sempre ai contatti indesiderati.
Se un ambiente non gli andava a genio, non diceva una parola. Per le vie tortuose provava disgusto. Ma non mirava affatto alla semplicità: il suo spirito era troppo ricco e troppo attivo e acuto per appagarsi del semplice.
Ascoltare i discorsi di Musil era un’esperienza tutta particolare. Non aveva nulla di manierato. Parlava in fretta ma senza mai essere precipitoso. Non nascondeva il suo disprezzo per l’ebbrezza dell’ispirazione, di cui si riempivano la bocca soprattutto gli espressionisti.
Conosceva il proprio valore e su questo punto non fu mai sfiorato da dubbi. I pochi che ne erano convinti secondo lui non ne erano abbastanza convinti. E si dispiaceva che, per sostenerne il valore, lo inserissero in una sorta di triade con Joyce e Broch. All’Ulisse opponeva un rifiuto categorico, mentre l’opera di Broch gli riusciva insopportabile: nella sua trilogia vedeva un tentativo di copiare il suo capolavoro. Su Broch non mi disse mai una parola di stima, pur conscio che Broch riconosceva apertamente il suo valore. Tra l’altro, quando Musil a seguito dell’inflazione perse tutti i suoi beni e si trovò in una situazione di grave indigenza, Broch partecipò attivamente a fondare una “società Musil” per versargli un contributo mensile in modo da permettergli di continuare a lavorare all’Uomo senza qualità.

da die Fackel im Ohr di Elias Canetti.

Elias Canetti nasce nel 1905 in Bulgaria a Rustchuk, oggi Ruse in una famiglia ebrea di origini spagnole. Le lingue parlate in famiglia erano, oltre al bulgaro, lo spagnolo e il tedesco che sarà la lingua utilizzata per tutte le sue opere. Dopo la morte del padre, insieme ai due fratelli segue la madre in diverse città d’Europa: Zurigo (tra il 1916 e il 1921), Francoforte e, infine, Vienna, dove si laurea in chimica. Qui sposa la scrittrice Veza Taubner-Calderòn, amica di Karl Kraus. A Vienna frequenta, tra gli altri, Musil, Broch, Merkel e Alban Berg. Del 1931 è il suo unico romanzo die Blendung (Autodafè), anticipazione allegorica del totalitarismo.

Nel 1938, dopo l’Anschluss, si stabilisce a Londra dove lavora all’opera sulla psicologia delle masse pubblicata nel 1960 con il titolo di Masse e potere. Nel 1971 torna a Zurigo dove muore nel 1994.

Tra il 1977 e il 1985 pubblica, in più volumi, la autobiografia del periodo tra il 1905 e il 1937 (Die gerettete Zunge, Die Fackel im Ohr, Das Augenspiel) che costituisce uno dei più importanti documenti sul periodo tra le due guerre. Riceve nel 1981 il premio Nobel per la letteratura.

TRE POESIE DI MAGDALENA SVETINA TERCˇON

Sola

Ogni giorno

danzo davanti a te mille danze, imito i chicchi

che i colombi mangiano, cerco di mostrarti

la mia storia.

Ogni giorno.

Ma so che non mi vedi.

Danza

Avviarsi leggermente incrociati scivolando stretti insieme,

sfiorando appena il sottobosco, è bello girare

come se fosse il corpo che ho prestato a qualcuno

condannato alla non gravità. Avviarsi lievemente incrociati con un canto uguale all’attesa che nasca una regola.

Tutto assomiglia tanto alla dimensione del nulla.

Una goccia di verità

Tutto quello che cercavo

nell’illusorio passato,

tutto quello che custodivo

nel cesto di vimini, tutto quello

che ho intessuto

nel ricamo della partenza,

se l’è preso una gocciolina di buio facendolo diventare una goccia di luce.

Magdalena Svetina Tercˇon è nata nel 1968 a Postojna. Nel 1996 si è laureata all’Università di Ljubljana. I testi sono tratti dalla raccolta Odtenki v medprostoru (Sfumature nello spazio intermedio) che ha vinto nel 2006 il “Premio letterario Prem”. Il libro è stato pubblicato in Italia nel 2007 con testo a fronte di Jolka Mili´c.

IL MAESTRO DEL DOPPIOGIOCO

Il doppiogioco indica l’attività di chi, infiltratosi in una organizzazione sovversiva, spionistica o criminale, o essendone già membro, fornisce informazioni a coloro che vogliono combatterla. Chi fa il doppio gioco, quindi, finge di svolgere la sua attività per una organizzazione ma in realtà la tradisce e passa informazioni e documenti a un’organizzazione nemica.

Si può fare il doppiogioco per lavoro, per un ideale, per costrizione o per soldi.

Impropriamente è stato talvolta incluso in questa categoria Evno Azef, del quale si occupò nel 1978, ai tempi del sequestro Moro, uno degli storici col-laboratori dei Testi infedeli, Salvatore Giannella, inviato dall’Europeo in Libano per indagare sui collegamenti tra terrorismo mediorientale e servizi segreti occidentali.

Azef con impareggiabile abilità riuscì in un’impresa che nessuno ha neppure immaginato di affrontare: un doppio doppiogioco, con una accorta combinazione di ideale e lucro.

La sua carriera inizia come militante rivoluzionario in Russia nel 1885; scoperto, fugge dopo poco tempo in Germania per evitare l’arresto. Qui è contattato dai servizi segreti zaristi, l’Okrana, e accetta di divenire un informatore in cambio di uno stipendio mensile.

Ritorna quindi nel 1899 in Russia, aderisce al partito social- rivoluzionario e, per l’abilità e la spregiudicatezza dimostrata nell’organizzare azioni di terrorismo, diviene in breve tempo membro del comitato centrale del partito. Così, con grande equanimità, per un compenso di 100 rubli al mese passa informazioni all’Okrana su attentati in corso di organizzazione, permettendo l’arresto di numerosi aderenti al suo partito; nello stesso tempo, fedele ai suoi ideali rivoluzionari, utilizza informazioni ottenute dalla polizia russa per organizzare numerosi attentati e eminenti personaggi del governo zarista. Per anni Azef è considerato il miglior agente segreto della migliore polizia segreta dell’epoca e nello stesso tempo uno dei più stimati rivoluzionari all’interno di un partito che era considerato il più irriducibile nemico del potere zarista.

Era fedele contemporaneamente al partito e alla polizia segreta e cercava di non fare torti a nessuno: se permetteva la cattura di un militante rivoluzionario, doveva ricevere in cambio la possibilità di porre in essere un attentato in cui l’importanza della vittima fosse di pari livello.

Così, in cambio delle informazioni che hanno permesso di arrestare Grigori Gershuni, il fondatore del partito e il terrorista più ricercato di Russia, Azef ottiene dall’Okrana indicazioni che permettono di condurre a termine l’attentato a Pleve, il ministro degli interno zarista, l’uomo più odiato dal Partito rivoluzionario. Pleve viene dilaniato da una bomba nel luglio del 1904.

Nel 1912 un poliziotto traditore convince il comitato centrale del partito che Azef era una spia. Azef riesce però a riparare in Germania dove muore nel 1918.

Da Anna Geifman, Entangled in Terror: The Azef Affair and the Russian Revolution, Wilmington 2000; Alex Butterworth, The World That Never Was. A True Story of Dreamers, Anarchists and Secret Agents, Vintage 2011.

TRE POESIE DI YVES BONNEFOY

Teatro di Douve

Al centro di un teatro, sulla scena illuminata dal mare

Douve si aggira su paesi di lenzuola;

scorre una calda acqua d’angoscia.

Qui forse tutto ricomincia, Douve. In un luogo, lontano, nelle tue dita che tengo tra le mani, risuona il risveglio dei fiumi.

Dei fari si spengono. Il vento si leva dalla tua gola. Non potremmo partecipare anche noi alla tempesta, Douve?

Alla gioia dei naufraghi?

Il giardino nero dell’infanzia, le donne di pietra, le fiamme sulla bocca,

il vetro del sole sul tuo viso. Le tue mani lasciano la cenere sui nostri corpi.

Douve, seni legati alle stelle, gambe lanciate verso il cielo.

In un istante, tutto si compie.

Una pietra

Ho sempre fame di quel luogo che per noi era uno specchio dei frutti curvi

nella sua acqua della sua luce che ci salvava e inciderò nella pietra

in ricordo del suo luccicare un cerchio,

quel fuoco deserto sopra il cielo è veloce.

come per un voto la pietra è chiusa che cosa cercavamo?

Forse nulla, una passione non è che un sogno.

Le sue mani non chiedono più.

E di chi amò un immagine

e lo sguardo la desidera ancora la voce rimane rotta

la parola è piena di cenere.

La Pioggia d’estate

Il più caro ma non il meno crudele di tutti i nostri ricordi.

La pioggia d’estate, improvvisa, breve.

Andavamo e sembrava un altro mondo,

le nostre bocche s’inebriavano dell’odore dell’erba.

Terra.

La stoffa della pioggia aderiva su di te. era come il seno

che un pittore avrebbe sognato.

E subito dopo il cielo ci consentiva

quell’oro che l’alchimia aveva tanto cercato

lo toccavamo, brillante, sui rami bassi

ne amavamo il gusto d’acqua, sulle nostre labbra.

e quando poi raccoglievamo i rami e le foglie cadute,

quel fumo la sera e poi improvviso, quel fuoco: era l’oro ancora.

Teatro di Douve è tratta da Du mouvement et de l’immobilité de Douve che raccoglie poesie scritte fino al 1949. La pioggia d’estate è tratta dalla rac-colta Les Planches courbes del 2001. Una pietra è tratta dalla raccolta La Vie errante del 1993. Ives Bonnefoy ha studiato matematica e filosofia a Poi-tiers e poi alla Sorbona. Dopo la guerra ha viaggiato tra Europa e Stati Uniti. Ha aderito per breve tempo al movimento surrealista. Ha raggiunto la notorietà nel 1953 con la raccolta poetica Du mouvement et de l’immobilité de Douve. Ha scritto saggi sulla poesia sulla storia dell’arte. È stato amico di Octavio Paz e di Paul Celan.

Ha tradotto Shakespeare, Donne, Keats, Yeats, Petrarca, Leopardi, Pascoli. È considerato il massimo poeta francese vivente, più volte candidato al Nobel per la letteratura.

In Italia sono state pubblicato diverse raccolte di poesie: Movimento e immobilità di Douve (1969), Ieri deserto regnante (1978), Pietra scritta (1985), Nell’insidia della soglia (1990), Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve (2001), Le assi curve (2007). Nel 2010 è stata pubblicata nei Meridiani Mondadori L’opera poetica a cura di Fabio Scotto.

LIBRI DA LEGGERE

Carlo Simi, Scrivere il silenzio, Castelvecchi, 2013.

Per chi è abituato a leggere su Kindle, questo oggetto rimanda a prima dei caratteri mobili. Sono gli appunti di Simi su “Wittgenstein e il problema del linguaggio”, tutti scritti a mano, con disegnini colorati, circolature, scritte verticali, frecce, triangoli e altri espedienti grafici che rendono ogni pagina un oggetto da contemplare ed esplorare attraverso percorsi non lineari di lettura e comprensione (per quanto si riesce). Simi parte da quello che definisce “il problema” di tutta la filosofia: come si possa intendere che essere e pensiero siano la stessa cosa, tauton, da Parmenide in poi. E approda a smentire l’autore del Tractatus proprio sul celebre “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, misterioso e disorientante, affermando che in realtà proprio di quello “si deve scrivere”. Come appunto ha fatto Wittgenstein: e noi abbiamo il dovere di leggerlo.

Roberto Satolli

Su Tong, La Berge, Gallimard 2012.

Con La Berge (il romanzo è stato pubblicato nel-la traduzione francese da Gallimard nel 2012) Su Tong, dopo Mogli e concubine, racconta un’altra tragica storia, questa volta sullo sfondo della rivoluzione culturale, per antifrasi. I personaggi della vicenda non sono però, come nella forma classica di questo genere letterario, eroi o principi coronati, ma figure della grandiosa commedia umana della Cina del secolo scorso.

Un padre e figlio, quello che è rimasto di una famiglia poverissima che si ritira a vivere su una chiatta del Fiume dei Passeri, con complessi e violenti rapporti fra di loro e con gli abitanti della terra ferma. L’eroina c’è, ma è morta da tempo. E la discendenza disputata da quella figura gloriosa è all’origine delle vicende e delle sventure che si narrano nel libro. Huixian la trovatella della flottiglia delle barche del fiume è il fiore di girasole che attraversa la storia di quella famiglia. Con il suo stile intenso e senza concessioni alla grazia letteraria, Su ci trasporta attraverso le passioni dure, le emozioni forti e le gioie effimere di una Cina ancora presente eppure già molto lontana.

Pasquale Pasquino

Rachel Kushner, The Flame Throwers, Brilliance 2013.

The Flame Throwers is the story of a young American women, Reno, first a motor cycle racer in Nevada, then a lost soul in New York City in the 1970s before the City became Disneyfied and Italian Americans filled their stereotype roles, then a passive lover, in New York and Italy. Her man was Sandro Valera, a rebellious Italian scion of an Italian tire and motorcycle empire, heir to a huge industrial fortune but contemptuous of it. Unfortunately for Reno as the story evolves he seems indifferent to almost everything in life including his lovers.

This is a novel that should be known: it is written with flashes of literary beauty. Kushner has been all but canonized in American literary circles. And much of it is about Italians. It combines romanticism and noir and historical allusion [The founder of the motorcycle company was a member of the Arditi before the company became a heartless multinational exploiting the poor in Brazil.]

The Flame Throwers works in those parts that take on big questions of the youth, labor and evolving feminists movements of the 60s and 70s and where Kushner beautifully and mischievously paints pictures of very colorful characters – including the aristocratic Italian matriarch in Como who does not even deign to actively ignore Reno when she visits the lake villa.

“The Feltrinelli bookstore…remained open. The clerks were handing out free copies of Mao’s Little Red Book, cheap plastic-coated copies like Gideon Bibles.”

Reno seems to have no capacity to personally evaluate what she was hearing from those around her. Either “Feltrinelli’s death was necessary and good” or “it was an act of stupidity a mix up of positive and negative leads.”

This is important material but the mix of fiction, myth, and history prevents Kushner from doing much with it.

Joseph DiMento

Andrew Sean Greer, La storia di un matrimonio, Adelphi 2008.

Una storia ambientata a San Francisco, che tiene con il fiato sospeso dalla prima all’ultima riga, e non solo per il susseguirsi dei colpi di scena. Una storia impastata di reticenza, caratterizzata dal non detto, che smarrisce e avvince il lettore. Una storia scritta con grandissima maestria, ricolma anche di richiami storici, che ben si inseriscono nel tessuto del romanzo: ogni capitolo e’ spiazzante e arricchente, e suscita domande anche su di noi, i nostri cari, i nostri amici. Un libro emozionante.

Augusto Bianchi

Bruce Chatwin (2013) L’alternativa nomade. Lettere 1948-1989, Adelphi 2013.

Il titolo originale è Under the sun. E’ una raccolta di lettere scritte da Bruce Chatwin a diversi amici, la cui pubblicazione è stata curata dalla moglie Eli-zabeth. Leggendo le lettere si rivivono alcune delle emozioni che si provano leggendo i suoi vari libri. La traduttrice della versione italiana ha scelto di in-titolare il libro come un suo capitolo, probabilmente il più suggestivo, appunto L’alternativa nomade. Il nomadismo è l’istinto al viaggio senza l’istinto al ritorno, presente invece in Chatwin, pur attratto profondamente dalla vita nomade. La sua irrequietezza è bene descritta: diversa dal nomadismo, appunto perché in questo manca l’istinto al ritorno, che lui aveva forte: una coazione a partire e a va-gare per mondi diversi e una coazione a tornare a casa: a molti accade di partire, di divenire irrequieti lontani da casa dopo un mese, di ritornare e, dopo due mesi, di trovare la vita insopportabile, e ripartire. Il libro descrive così l’esigenza di muoversi e quella di avere una base come caratteristiche gene-tiche dell’essere umano. E’ un libro per chi che ama Chatwin e il suo girovagare illuminato.

Marina Nespor

Eugenio Xammar, El huevo de la serpiente. Crònicas desde Alemania (1922-1924), Acantillado 2005.

C’era un tempo in cui un dollaro valeva 6.500 marchi tedeschi. Era il novembre del 1922. Avrebbe superato i 48.000 marchi nel gennaio del 1923. Siamo nel periodo dell’incontrollabile inflazione che segue la sconfitta nella prima guerra mondiale. Di questo periodo si occupano gli articoli raccolti in questo volume scritti tra il 1922 e il 1924 dal giornalista Eugenio Xammar, inviato in Germania per incarico di vari quotidiani spagnoli – anzi, catalani. Xammar, formatosi come funzionario della Società delle Nazioni a Ginevra, gira per il paese distrutto, visita la Ruhr occupata dai francesi, parla con la gente, con gli occupanti, con gli uomini politici (Hitler compreso, allora agli esordi e pressoché sconosciuto, ma puntualmente identificato come il possibile dittatore “decerebrato” della Baviera); soprattutto, descrive e analizza con grande lucidità il disastro economico, finanziario e politico successivo alla sconfitta della prima guerra mondiale, spiega le ragioni dell’inflazione e, come Keynes (e pochissimi altri), vede nell’imposizione di risarcimenti “il cui ammontare superava il valore della stessa Germania” le basi per un futuro ancor più disastroso conflitto mondiale.

Stefano Nespor

Giovanni Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio 2013.

Orsina è un eccellente storico di orientamento politico liberalconservatore: è a lui che dobbiamo l’interpretazione più profonda del berlusconismo sinora disponibile. Del berlusconismo come movimento politico la cui natura e il cui successo sono spiegabili solo scavando nella storia lunga del nostro paese, dall’Unità ad oggi: parafrasando Gobetti sul Fascismo, anche per il berlusconismo le ragioni stanno in una “autobiografia della Nazione”. Su Berlusconi come persona, come comunicatore, sulle ragioni del suo carisma, sui mezzi che è stato in grado di mobilitare, si è scritto moltissimo. Spesso però in modo poco utile, perché anche i commentatori più intelligenti di rado sono stati in grado di staccarsi dalle passioni, dall’avversione o dall’entusiasmo, che il fenomeno suscitava e continua a suscitare. Ma le ragioni del successo di Forza Italia non stanno solo, e neppure prevalentemente, negli aspetti personali di Berlusconi. Stanno nel messaggio politico che ha lanciato; stanno nell’immagine del paese che Berlusconi ha proposto agli italiani; stanno nella lunga storia che ha preceduto la discesa in campo di Berlusconi; stanno in un impasto contraddittorio –una emulsione, la definisce Orsina- tra liberalismo e populismo. E qui stanno anche le ragioni del suo fallimento, come l’autore, senza mezzi termini, conclude il suo libro. Questa è solo una segnalazione: una mia lunga recensione è stata pubblicata ne La Lettura, il domenicale del Corriere della Sera dell’11 agosto scorso, e ne riprendo l’augurio finale. Come in politica, anche nell’analisi storica è sbagliato cercare impossibili “pacificazioni”: le opinioni sono destinate a restare diverse e le analisi di Orsina susciteranno contrasti. L’importante è che questi contrasti e queste diversità si manifestino ad un livello intellettuale più alto dell’insulto, del sarcasmo, del moralismo e dell’antimoralismo cui ci hanno abituati gli scontri tra berlusconiani e antiberlusconiani. Prendere sul serio Orsina, tenersi al suo stesso livello, può avviare un confronto allo stesso tempo appassionante e utile. Ci può soccorrere nella lunga strada che dobbiamo percorrere verso una modernità civile.

Michele Salvati

Paolo Brusasco, Tesori rubati. Il saccheggio del patrimonio artistico nel medio Oriente, Bruno Mondadori 2013.

Un libro da non perdere. Scritto da un vero specialista, con un linguaggio accessibile anche ai profani, che racconta impietosamente I furti e il tragico saccheggio dell’ Iraq Museum di Bagdad, la lacuna delle missioni Unesco, le investigazioni degli Stati Uniti in un teatro di guerra che li vedeva copro-tagonisti del tragico misfatto. E poi il commercio internazionale delle opere d’arte, la distruzione di molti siti sumerici, babilonesi e assiri, la scomparsa di patrimoni che privano i popoli che la subiscono della loro storia e la loro identità. Tragedie che invitano inevitabilmente a pensare alle distruzioni che avvengono in altri contesti e per altre ragioni anche nel nostro paese, di cui lo sfacelo di Pompei può essere assunto a metafora.

Eva Cantarella

Tommaso Braccini, Indagine sull’Orco. Miti e storie del divoratore di bambini, il Mulino 2013.

Quante sono le favole che raccontano dell’ orco cattivo? A raccontarle sono le tradizioni popolari e la letteratura alta, in epoche e in paesi lontani tra loro. In un libro che racconta i vari “orchi”, a partire dagli etruschi per arrivare al Signore degli Anelli, Tommaso Braccini si pone un domanda: esiste un tratto che collega, nel tempo e nello spazio, i vari personaggi così caratterizzati? Un libro originale e interessante scritto da un antichista-antropologo, che apre prospettive sorprendenti anche sul rapporto tra noi e gli antichi: ad esempio, l’ esistenza, del tutto inaspettata, di un orco anche nella cultura di Roma antica.

Eva Cantarella

Claudio Fava, Mar del Plata, Add Editore 2013.

Mar del Plata è una città argentina situata sulla costa dell’oceano Atlantico, con quasi un milione di abitanti. Claudio Fava, scrittore, giornalista, sceneggiatore e politico coerente, vi ambienta una storia vera di rugby e desaparecidos nell’Argentina di Videla. La racconta Raoul, l’unico sopravvissuto di una squadra che, poco alla volta, perse i suoi giocatori fino ad essere annientata. Siamo nel ’78. Il primo a morire è Javier, ripescato dalle acque del Rio della Plata con le mani legate dietro la schiena. La domenica successiva i suoi compagni chiedono un minuto di silenzio prima della partita. Invece di minuti ne passano dieci. È una provocazione per gli sgherri di Videla che iniziano ad uccidere quei giovani uno alla volta: ma ci sono i ragazzini del vivaio che, dopo ogni morte, ne prendono il posto e quella squadra, suo malgrado, diventa un simbolo. Non erano combattenti quei ragazzi, c’era chi studiava, chi lavorava e per tutti il rugby era l’isola felice. Fino alla uccisione di Javier, che non li fermò e anzi ne scosse le anime: quei ragazzi per ogni compagno ucciso continuarono a sfidare il regime con lunghi minuti di silenzio fino all’ultimo match del campionato. E più duravano quei minuti, più la folla ne capiva il senso. E gli avversari pure, fino a scaraventare la palla ovale in tribuna, come fosse uno sputo, contro i militari attoniti. Quanto accadeva in Argentina – scrive Fava nella postfazione – non era troppo diverso dalle mattanze mafiose in Italia: “si moriva in Argentina come in Sicilia perché una banda di carogne regolava in questo modo i propri conti con i dissidenti”. Ma la dignità che quel popolo oppresso seppe opporre alla “carogne” di regime la puoi scoprire a tutte le latitudini ed in ogni tempo, perché ragazzi pronti a sfidare un desti-no già scritto li puoi trovare a Buenos Aires, come a Catania. Ecco perché questo libro, più che i fatti, narra “i pensieri e i gesti di quei ragazzi che scelsero di restare e di morire”. Perché alla fine poco importa se quei ragazzi fossero argentini o siciliani. “Importa come vissero. E come seppero dire di no” a quei “chianchieri” in divisa, passando la palla indietro per andare avanti tutti insieme.

Armando Spataro

Delio Cantimori – Gastone Manacorda, Amici per la storia. Lettere 1942 – 1966, a cura di Albertina Vittoria, Carocci, 2013.

Scambio epistolare durato un quarto di secolo tra due eminenti storici, uniti dagli interessi scientifici e dalla passione politica. Cantimori, nato nel 1904 e divenuto professore all’età di trentacinque anni, era più vecchio di un dodicennio di Manacorda, la cui carriera accademica, però, fu molto più lenta, essendo questi divenuto professore ordinario solo nel 1968. Per questo motivo, pur essendo quasi coetanei e molto amici, i rapporti tra i due furono quelli di maestro e allievo. L’epistolario è un genere particolare. Contiene dettagli insignificanti e particolari illuminanti. Rivela la vita interiore e i rapporti che si stabiliscono tra gli uomini. Svela le condizioni di vita, gli umori, le trame, i pensieri nascosti. Questo epistolario, in particolare, è importante per diversi motivi. Come testimonianza di una amicizia nata sulla base di comuni interessi storici e politici. Come cronaca dei riflessi della grande politica sulla storia intellettuale. Come analisi delle vicende di tre riviste, “Movimento operaio”, “Società” e “Il Contemporaneo”. Come registrazione dei rapporti universitari e di un “spaccato di vita” accademica. Dunque, cultura, politica, organizzazione della cultura, vita di partito, legami personali, grandi e piccole vicende si mescolano e fanno di questa raccolta, splendidamente curata da Albertina Vittoria e da lei introdotta con un lunghissimo saggio, una lettura molto interessante per com-prendere gli anni a cavallo della metà del secolo XX.

Sabino Cassese

Theodor Sturgeon, Cristalli Sognanti, Adelphi 1997.

Mi sono imbattuta in questo libretto un paio di mesi fa, aspettando il treno per Milano a Roma Termini. Ero con mio padre, grande appassionato di fantascienza, e l’ho accompagnato nella grande libreria della stazione a cercare vecchie e nuove sto-rie di draghi e di eroi. Sono rimasta colpita dal titolo del romanzo, non lo conoscevo: mio padre me l’ha regalato dicendomi che è stato un romanzo di culto arrivato al successo tramite passaparola. L’ho letto d’un fiato, avvinta dalla storia assurda di questo bambino ‘che fa cose cattive’, cacciato di casa dal patrigno che gli schiaccia le dita di una mano, si rifugia in un circo di nani e di mostri tenuto da una specie di Mangiafuoco che fa esperimenti di rigenerazione genetica con le piante e con gli esseri umani. Così fiabesco, così moderno: il bambino resta tale per otto anni, in realtà è un superuomo, a diciott’anni diventa un artista di rara bellezza, le ‘cose cattive’ appartenevano alla sua necessità di mangia-re formiche per assumere l’acido formico. Il padrone del circo è un uomo malvagio e alla fine diviene sodale del patrigno persecutore, che di mestiere fa il giudice ed è corrotto nell’animo (si sa, non a tutti gli americani piacevano i giudici). Dopo averlo letto posso dire che il pulp e l’assurdo di molti artisti americani di successo forse è nato qui.

Giulia Gavagnin

Ruben Gallo, Un edipo stalinista, Il Saggiatore 2013.

Non dovrei recensirlo, perché un pezzetto di questo libro l’ho scritto io; però si tratta soltanto della introduzione, che ho accettato di scrivere proprio perché ho trovato avvincente la vicenda narrata dall’autore, Ruben Gallo, giovane messicano docente all’Università di Princeton. Si tratta di un capitolo di un grosso volume accademico dedicato a “Freud in Messico” dove si narra di un giudice del luogo che, nei primi anni ’30, si innamora degli scritti di Freud e pensa di applicare la nuova teoria ai processi penali. Il primo che gli capita e gli sembra adatto, per via della difficoltà di capire l’imputato che declina generalità palesemente false, è quello sull’assassinio di Trozki. Da questo antefatto si snodano una infinità di intriganti connesse vicende, che toccano la guerra civile spagnola, il KGB e i suoi insospettabili ma probabili agenti, i legami con la psicanalisi, la cieca fedeltà agli ordini staliniani dei comunisti ortodossi, il rapporto drammatico fra una madre e un figlio – Ramon Mercader – che ne deriva. Tutta storia, non fiction.

Luciana Castellina

Questo quarantaquattresimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2013 in due-centoventi copie non numerate e fuori commercio da Grafiche Porpora srl di Cernusco sul Naviglio, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti la maggior parte dei testi, spesso rispettando – ma non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.

I Testi Infedeli escono dal 1989.

Ringrazio per la revisione del testo Salvatore Giannella e Marina Nespor.