N. 46 estate 2014

 

IN QUESTO NUMERO
I Testi Infedeli compiono un quarto di secolo alla fine di quest’anno! 

Dopo un piccolo brano introduttivo tratto da un discorso di una senatrice americana con interessanti considerazioni sull’idea di merito, ci sono una ricostruzione delle origini della storia di Cappuccetto rosso che i fratelli Grimm ci hanno raccontato, poi il ricordo di un grande campione cubano e, infine, due piccoli brani sulla globalizzazione.
Ci sono poi, come al solito, le poesie. Questa volta sono di tre autori di diversi paesi, ma con un filo conduttore comune: New York.

Di Garcìa Lorca e di una meno nota poetessa francese, Janine Baude, ho scelto una poesia che descrive l’impatto emotivo di questa città su due visitatori europei.

Il terzo poeta è Hart Crane che ha dedicato una parte della sua opera poetica a questa città; una delle poesie che ho scelto riflette questa scelta. New York è presente anche in Stefan Zweig (ritratto in copertina e del quale ho segnalato una biografia), che ha visitato New York tre volte, l’ultima come penultima tappa del suo lungo esilio, ogni volta lasciando le sue impressioni (il tema dell’impatto provocato da questa città su coloro che vi approdarono fuggendo dall’Europa negli anni Trenta è affascinante e spero di riprenderlo in uno dei futuri numeri).

Ci sono poi le consuete indicazioni sui libri da leggere, e, da questa volta, anche da non leggere. Prima quelli degli amici ormai fedelissimi di questa parte dei Testi Infedeli: Augusto Bianchi, Eva Cantarella, Sabino Cassese, Luciana Castellina, Gherardo Colombo, Joseph DiMento, Giulia Gavagnin, Marina Nespor, Pasquale Pasquino, Michele Salvati, Roberto Satolli, Armando Spataro. Poi, ci sono anche alcuni miei suggerimenti.
S.N.

A CHI SPETTA IL MERITO

Non conosco nessuno che sia divenuto ricco per suoi soli meriti.
Qualcuno ha costruito una fabbrica laggiù? È stato certamente in gamba. Ma per procurarsi le materie prime e commercializzare i suoi prodotti ha utilizzato strade, ponti, porti, beni pagati dalla collettività.
Ha poi fatto conoscere a tutto il mondo i suoi prodotti? È da apprezzare. Ma i servizi postali e la rete Internet sono stati realizzati e sono oggi mantenuti in funzione con i soldi di tutti.
Si è avvalso di manager capaci? Indubbiamente ha fatto scelte intelligenti, ma non dimentichiamo che l’istruzione dei suoi collaboratori è stata in gran parte a carico di tutti.
E poi, la sua attività produttiva si è svolta in sicurezza e tranquillità, ma solo perché ci sono polizia, vigili del fuoco e un sistema sanitario: un servizio pubblico che tutti contribuiscono a mantenere efficiente.
Certo, per fare quella fabbrica ci sono voluti sforzi, fatica, idee. Il successo ha premiato l’impegno profuso, bisogna riconoscerlo.
È giusto che chi l’ha realizzata trattenga una parte dei profitti. Ma, proprio per l’aiuto ricevuto da tutta la collettività, un’altra parte deve ridarla per mantenere quei servizi e quelle strutture di cui lui si è avvalso e per aiutare chi vuole seguire il suo esempio.

Da un discorso di Elisabeth Warren, docente di diritto commerciale alla Harvard Law School, durante la vittoriosa campagna per coprire nel 2013 il posto di senatore degli Stati Uniti per lo stato del Massachusetts, a lungo ricoperto da Ted Kennedy. Fighting Chance è la sua autobiografia (Metropolitan 2012). Ha promosso la costituzione di un organismo federale per tutelare i consumatori dalle speculazioni bancarie.

 

UNA POESIA DI GARCÌA LORCA

Aurora a New York

L’aurora di New York ha
quattro colonne di fango
e un uragano di nere colombe
che sguazzano nelle acque putride.

L’aurora di New York si lamenta
per gli scalinati smisurati
cercando negli angoli più bui
rimedi di angoscia disegnata.

L’aurora arriva: nessuno l’accoglie nella sua bocca.
A volte il denaro in sciami furiosi
trapassa e divora bambini abbandonati.

I primi che escono sentono sulle loro ossa
che non vi sarà paradiso né amori sfogliati;
sanno che vanno a un fango di numeri e di leggi,
a giochi senz’arte, a sudori senza frutto.

La luce è sepolta da catene e rumori
in una vergognosa sfida di scienza senza radici.
Nei sobborghi c’è gente che vacilla insonne
come appena uscita da un naufragio di sangue.

La poesia è in Poeta a New York, un diario in versi e disegni scritto tra il 1929 e il 1930, durante la permanenza di Lorca alla Columbia University. Il manoscritto era ritenuto perduto; è però riapparso nel 2003 in un’asta da Christie’s. Fu successivamente comprato dagli eredi di Lorca. Nel 2013 Laura García Lorca ha curato e organizzato alla New York Public Library la rassegna Lorca in New York, ove sono state esposte al pubblico le pagine ritrovate del manoscritto. Tra le persone invitate allo spettacolo inaugurale della mostra c’era la cantante Patti Smith che disse: “Dentro ci sono la bellezza e l’avarizia, le cose che lo terrorizzavano, quelle che l’ossessionavano, quelle che lo disgustavano. Ed è un vero libro americano. Un piccolo libro scritto da un poeta che in America sentì di potersi esprimere, regalandoci una visione unica e speciale di New York e di quegli anni. Dopo New York tornò in Spagna, tornò a Granada. Venne arrestato, portato su un campo e fucilato. Il corpo venne gettato in una fossa comune”.

LA STRANA STORIA DI CAPPUCCETTO ROSSO

La raccolta delle Kinder- und Hausmärchen dei fratelli Johann e Jakob Grimm, pubblicate poco più di 200 anni fa, nel 1812, è il libro tedesco più diffuso nel mondo, dopo la Bibbia nella traduzione di Martin Lutero. È una raccolta di fiabe popolari. L’intenzione dei fratelli Grimm, esponenti del movimento democratico in Germania, era quello di contribuire alla formazione di una identità, di una cultura e di una comune lingua tedesca (a questo fine è dedicata anche la loro grandiosa opera, il Deutsches Worterbuch in 33 volumi). In realtà, varie fiabe inserite nella raccolta non provengono dalla tradizione popolare tedesca.
È il caso di una delle fiabe più note, Rotkappchen, Cappuccetto Rosso. Infatti, i fratelli Grimm l’hanno trascritta, insieme ad altre, dai racconti di una loro amica e vicina, Jeannette Hassenpflug; costei però l’aveva appresa, da piccola, dalla madre, una ugonotta francese trasferitasi in Germania all’inizio del secolo XVII per sfuggire alle persecuzioni di Luigi XIV. Quindi, la raccolta potrebbe essere un insieme di tradizioni popolari orali non più solo tedesche, ma anche francesi.
Ma neppure questa conclusione è vera.
Perché nella Parigi degli ultimi anni del Seicento, dove viveva la madre di Jeannette prima di fuggire, la ricerca e la lettura di fiabe era divenuta un’attività letteraria in voga nei circoli intellettuali, a seguito della pubblicazione nel 1697 da parte di Charles Perrault di undici fiabe, raccolte dalla tradizione popolare ma ampiamente modificate e adattate per un pubblico adulto e colto. Il libro di Perrault. Histoires ou contes du temps passés, avec des moralités, noto in seguito con il sottotitolo: Contes de ma mère l’Oye, ottenne un grande successo, tanto che fu seguito, poco dopo, da una raccolta di fiabe in quattro volumi di Marie Cathérine d’Aulnoy, anch’esse rivolte a un pubblico colto e adulto.
Ebbene, nei Contes de ma mère l’Oye c’era, oltre ad altre fiabe assai note come Pollicino, Cenerentola e Barbablu (tutte riprese dai fratelli Grimm per via della loro amica Jeannette), anche Le petit Chaperon rouge. Qui la lesse la madre di Jeannette prima di abbandonare precipitosamente Parigi. Poi, per raccontarla alla figlia, ne adattò il testo, omettendo la parte della storia di Perrault in cui il lupo invita la bambina a spogliarsi prima di venire a letto con lui, e soprattutto ne addolcì il finale: mentre nel testo francese Cappuccetto rosso finiva divorata dal lupo, la piccola Jeannette sospirava di sollievo allorché sopraggiungeva il cacciatore che squartava il lupo dopo averlo ucciso e estraeva sana e salva la piccola, ancora viva (questa è la versione che conoscono anche i bambini di lingua inglese, allorché leggono la storia di Red Riding Hood).
Poi, per lo più utilizzando il testo dei fratelli Grimm, che non era né fiaba tedesca né fiaba popolare, o quello di Perrault, un racconto rielaborato per i sofisticati lettori francesi, sono proliferate centinaia di interpretazioni a partire dalla fine dell’Ottocento da parte di studiosi di tradizioni popolari e di folklore, di mitologia, di antropologia (tra cui Vladimir Propp).

La fiaba ha fatto soprattutto la felicità degli psicoanalisti (tra cui Freud, Hertz, Bettelheim e Fromm) che però, non essendosi curati di verificare l’origine della favola, hanno perso un truce – ma psicoanaliticamente eccitante – particolare presente nella maggior parte delle vere tradizioni popolari europee, omesso da Perrault e quindi anche dai fratelli Grimm: il cannibalico invito da parte del lupo alla bambina a mangiare gli avanzi della nonna appena divorata.

Per chi sia interessato alle ricerche psicoanalitiche su Cappuccetto rosso: Erich Fromm, Il linguaggio dimenticato, Garzanti, Milano, 1973; Bruno Bettelheim Il mondo incantato, Feltrinelli 2000; Vladimir Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Bollati Boringhieri 2006; e poi: Livia Bidoli, Da Cappuccetto Rosso a Cappuccetto Nero: psicoanalisi di una fiaba in www.progettobabele.it/rubriche/ cappucetto.php; Alida Cresti, Cappuccetto rosso ed Erich Fromm: il linguaggio ritrovato in www.ifefromm.it/rivista /2008-xx/4/memorie/ cappuccettorosso.php.
Recentemente è stato ritrovato in un monastero di Liegi un manoscritto risalente all’XI secolo dal titolo De puella a lupellis seruata: si narra di una fanciulla vestita di una tunica rossa battesimale che, errando per i boschi, incontra un lupo che la porta nella sua tana. È il più antico riferimento alla fiaba, la cui maggiore diffusione si colloca più tardi, tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento. In quegli anni, infatti divampò, soprattutto in Francia, la psicosi del licantropo: vi furono centinaia di casi di uomini accusati di aver ucciso e divorato dei bambini, trasformandosi in lupi (e spesso condannati). Un’accurata ricostruzione dei casi e dei processi più famosi è in Wilhelm Hertz, Der Werwolf, Beitrag zur Sagengeschichte, Stuttgart 1862, disponibile su googlebooks.

 

TRE POESIE DI HART CRANE

Le lettere d’amore di mia nonna

Non ci sono stelle stanotte
se non quelle dei nostri ricordi
eppur c’è tanto spazio c’è per la memoria
nella molle cintura della pioggia lieve.
C’ anche abbastanza spazio
per le lettera della madre di mia madre
rimaste per tanto tempo sepolte
in un angolo sotto il tetto
fradice e ingiallite
e ormai pronte a disfarsi come neve.
Su spazi così vasti
i passi debbono essere leggeri.
tutto è appeso a un invisibile capello bianco
e tremo come rami di betulla che si intrecciano nell’aria.

Io allora mi chiedo:
hai dita abbastanza lunghe per suonare
tasti che sono solo echi:
è così forte il silenzio
da riportare la musica alle origini
e poi di nuovo verso di te come se fosse per lei?
Si, vorrei portare la mia nonna per mano
in mezzo a cose che lei non capirebbe,

e così inciampo. E la pioggia continua a cadere sul tetto
con quel suono di risa leggere e caritatevoli.

Chaplinesque

Pronti ad accettare squallidi compromessi
Appagati da casuali consolazioni
Che il vento deposita
In tasche lise e troppo larghe.

Perché può ancora amare il mondo chi trova
Un gattino affamato sulla soglia e conosce
Per lui rifugi dalla violenza della strada
O del calore in un gomito sdrucito.

Staremo alla larga e fino al ghigno finale
Giocheremo con il destino di quel pollice inevitabile
Che lentamente strofina il suo indice grinzoso verso di noi
Fronteggiando lo sguardo ottuso con quale sorpresa
e quale innocenza!
Tuttavia questi fallimenti non sono menzogne
Più delle piroette di qualsiasi bastoncino flessibile;
giungere al nostro funerale non è certo un’impresa.
Possiamo eludere tutto, ma non il cuore:
che colpa abbiamo se il cuore continua a vivere.

La gara costringe a fare smorfie. Ma abbiamo visto
La luna trasformare in vicoli solitari
una coppa di risate in u bidone di vuota cenere
e fra tutti i suoni di gioia e ricerca
abbiamo sentito un gattino nell’oscurità.

 

Viaggi

Precisi, nella brina dopo mezzanotte,
infrangibili e solitari, lisci come gettati
insieme in una crudele lama solitaria
gli estuari della baia screziano l’orizzonte.

Come se troppo fragili o troppo chiari da toccare!
I cavi del nostro sonno così velocemente recisi
Pendono ora a brandelli dalle stelle presenti nella memoria.
Un sorriso ghiacciato senza traccia… Quali parole
Possono strangolare questa luna così muta? Perché noi
Siamo sommersi. Ora né grido né spada
Possono afferrare o sviare questo cuneo di marea,
lenta tirannia della luce lunare, luce amata
e mutata… “Non c’è nulla di simile al mondo” tu dici,
sapendo che non posso toccarti la mano e guardare
con te in quella voragine di cielo senza dio
dove nulla appare se non un bagliore di sabbie morte.
“…E mai riuscire a capire” No,
in tutto il vascello dei tuoi biondi capelli non ho sognato
nulla così senza identità come questa pirateria.
Ma ora,
ritrai la tua testa, sola e troppo alta
i tuoi occhi sono già nel pendio della schiuma che si spande;
il tuo respiro sigillato dagli spettri che non conosco
ritira la tua testa e dormi per il lungo viaggio verso casa.

Hart Crane, nato nell’Ohio nel 1899 in una ricca famiglia di industriali, cominciò a scrivere poesie al liceo. Trasferitosi prima di completare gli studi a New York, frequentò i circoli culturali del Greenwich Village. Tornato nell’Ohio, mentre lavorava nella fabbrica di dolciumi del padre intratteneva fitti rapporti epistolari con alcuni dei più importanti personaggi del mondo letterario dell’epoca, tra cui Sherwood Anderson, Allen Tate, Katherine Anne Porter e Jean Toomer e scrisse alcune tra le sue poesie più famose (tra le quali, le prime due qui riprodotte). Tornato a New York, pubblicò nel 1929 il suo primo libro, White Buildings (da cui ho tratto una delle sei poesie che compongono il poema Voyages) e lavorò intensamente ala sua opera più famosa, The Bridge, che doveva offrire, sulla scia di Walt Whitman, una sintesi mistica della missione degli Stati Uniti, materializzata nelle grandi innovazioni tecnologiche e nello sviluppo urbano di New York, esemplificato dal ponte di Brooklyn. Nel 1932 di ritorno dal Messico, dove inutilmente aveva cercato di scrivere un poema su Montezuma e la conquista spagnola, si uccise gettandosi in mare dalla nave. È oggi considerato uno dei più innovativi poeti americani della prima metà del secolo scorso. Per scritti e saggi critici sull’opera di Crane: www.poets.org/poet.php/prmPID/233.

TEOFILO STEVENSON: MEGLIO ROSSO CHE RICCO

“Che cos’è un milione in confronto all’amore di 8 milioni di cubani?”. Con questa frase, Teofilo Stevenson, uno dei più grandi pugili di tutti i tempi, rifiutò nel 1976 una somma di 5 milioni di dollari per passare al professionismo e combattere contro Cassius Clay\Muhammad Ali che due anni prima aveva sconfitto a Kinshasa George Foreman, dopo aver scontato la squalifica di tre anni inflittagli dalle autorità statunitensi per essersi rifiutato di partecipare alla guerra in Vietnam. A quell’epoca, il pugilato era ancora una miniera d’oro per pugili di valore. Ma, se avesse accettato, Teofilo avrebbe dovuto lasciare Cuba per sempre, poiché il pugilato professionistico era proibito fin dal 1962. Divenne così un eroe per tutti i cubani. A proposito di questa scelta, scrisse Sports Illustrated, una delle più importanti riviste statunitensi di sport: “Ha preferito essere rosso che ricco” (He’d Rather Be Red Than Rich).
Stevenson vinse per tre volte la medaglia d’oro olimpica nel pugilato (Monaco 1972, Montreal 1976, Mosca 1980), sempre nella stessa categoria dei pesi massimi. In precedenza, solo l’ungherese Làszlò Papp aveva vinto tre ori nel pugilato in tre diverse edizioni dei giochi olimpici (Papp divenne poi professionista, conquistò il titolo europeo dei pesi medi nel 1962, ma dovette anche lui rinunciare a disputare il match per il titolo mondiale, perché l’Ungheria, tardivamente, decise che il pugilato professionistico era contrario ai principi socialisti). Stevenson non poté conquistare la quarta medaglia d’oro nel 1984 a Los Angeles, realizzando un’impresa unica nella storia del pugilato olimpico, solo perché Cuba aderì al boicottaggio indetto dall’Unione sovietica e dagli altri paesi socialisti. Si aggiudicò per tre volte anche i campionati mondiali: nel 1974, all’Avana, nel 1978, a Belgrado, e nel 1986, a Reno, dove s’impone nella categoria superiore, quella dei supermassimi (oltre i 91 kg).
Allorché concluse la sua carriera nel 1988, aveva totalizzato 302 vittorie e 22 sconfitte.
È morto nel 2012 a sessant’anni. Il quotidiano del partito comunista cubano, Gramma, lo ha salutato con il titolo “Hasta siempre, campeòn”.

Su Teofilo Stevenson: Gianni Minà, Teofilo Stevenson: se 5 milioni di dollari non sono la felicità in Una vita da cronista: www.giannimina.it/; Kevin Mitchell, Teófilo Stevenson: the amateur boxer who chose Cuba over a million dollars in The Guardian, 13 June 2012.

 

UNA POESIA DI JANINE BAUDE

Le Chant de Manhattan

La neve trasforma la finestra. Il ponte di Brooklyn s’appesantisce. Gli uccelli raggruppati, in grappoli, si stagliano contro le fontane. Vi fu prima quell’attimo di silenzio – my heart is broken – poi la neve venne a cucire l’orizzonte.

La strada si faceva, un tempo, con bagagli e cesti verso la nave, fino a quel punto d’orizzonte laggiù, al confine tra parco e città. Qui, dove sono – now, broken – ricevevano un poco di cibo e consegnavano i loro stanchi corpi.

Migliaia di aironi alla finestra danzano. Cantate per piano e violoncello cucite sui vestiti, le cuffie calcate fino alle orecchie, queste donne vanno. Dove vanno da allora? L’isola annaspa ancora. Sui muri s’indovina l’odore. Una donna poi l’altra poi l’altra. A passare sotto le gonne è null’altro che la Storia.

Può far male. Pesanti calcinacci da trasportare. Guardate la città mentre si costruisce e si costruisce ancora. Le mani screpolate hanno scritto così tanto che trasudano le pietre. L’inchiostro si legge negli angoli, sui pilastri. La ferraglia corrosa dappertutto. Il sangue.

Forse questa coppia, sul ponte, ascolta. Volti fulgidi dei nuovi arrivati e degli amanti che indugiano mentre io mi affretto. Si allontana il bus. Prenderò il prossimo. Anche loro aspettavano questa occasione che non arriva. La luna sorveglia che i cavi reggano. La vita da qualche parte deve pur condurre. Ogni amante, ogni solitudine si coglie come gli uccelli – non attorno alle fontane – ma più in alto, senza sapere dove.

Si distendono le lunghe gambe fino all’oceano, le braccia verso il cielo. Un corpo, una città, una strana composizione totalmente immaginata dall’uomo bianco. Il Pellerossa gli vendette per ventiquattro dollari questo piccola penisola di fango, colline e fiume. Curiosa transazione sapendo che per un Indiano la terra non ci appartiene, è solo imprestata il tempo di una vita e così di generazione in generazione.

L’uomo nero, ben altra storia. Il vento s’insinua tra le torri, con fragore. Racconta: New York is black, New York is red, New York is yellow.

Questo più o meno accade quando si cammina nella città fino a perdere la propria anima. Ho le orecchie bruciate per via del rumore cagionato dal tempo, dalla Storia. –Nightmare – tutti sono fieri di questa città che non dorme mai.

Jeanine Baude, nata nel 1946, vive a Parigi. Collabora a numerose riviste letterarie francesi e europee. Dal soggiorno a New York tra il 2002 e il 2003 trae un libro di ricordi New York is New York, Éditions Tertium, 2006 e un libro di poesie dedicato alla città e alla sua storia, Le Chant de Manhattan, Seghers, 2006 (da cui è tratto il brano che è qui riprodotto). A seguito di un soggiorno a Buenos Aires nel 2008 pubblica Le Goût de Buenos Aires, Mercure de France, 2009.

GLOBALIZZAZIONE

I

L’abitante di una qualsiasi città europea può ordinare, sorseggiando a letto il tè o il caffè della mattina, qualsiasi prodotto del globo intero, in qualsiasi quantità desideri e confidare in una consegna sollecita, sull’uscio della propria casa; può con gli stessi mezzi e negli stessi tempi investire i propri risparmi nelle risorse naturali e in nuove iniziative commerciali o industriali in ogni angolo del mondo e condividerne gli eventuali frutti; può infine decidere di legare la sua fortuna a quella dei titoli emessi da Stati o municipalità in ogni continente.

II

La globalizzazione rende impossibile una guerra mondiale perché i paesi sono ormai troppo collegati economicamente finanziariamente e culturalmente, anche per lo sviluppo delle comunicazioni. La guerra non dà benefici economici agli Stati, troppo interdipendenti tra loro e vincolati da un’economia libera di scambio.

Entrambi i brani riguardano la globalizzazione. Ma non quella attuale, quella verificatasi a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo (della quale Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne costituisce una acuta anticipazione: l’impresa era da poco divenuta realizzabile, a seguito del completamento della tratta ferroviaria intercontinentale in America, del collegamento ferroviario da Bombay a Calcutta e dell’apertura del canale di Suez). Più specificatamente, i brani riguardano gli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale.

Il primo brano è tratto da Le conseguenze economiche della pace, un saggio scritto da John Maynard Keynes nel 1919. Il secondo è di Norman Angell, dal suo libro The Great Illusion del 1909: un bestseller tradotto in 25 lingue in cui si escludeva categoricamente che una guerra mondiale fosse possibile. Su Norman Angell (premio Nobel per la pace nel 1933) si veda Cornelia Navari, The Great Illusion Revisited: The International Theory Of Norman Angell in Review of International Studies 1989, 341.

 

LIBRI DA LEGGERE, DA NON LEGGERE E DA RILEGGERE

Ecco le indicazioni dei miei amici.

Giulio Napolitano (a cura di), Le avventure del giovane giurista. Guida alla ricerca nel diritto, Editoriale scientifica, 2014.
Una volta abbondavano i libri di consigli e precetti. Un esempio è il famoso “L’età preziosa. Precetti ed esempi offerti ai giovinetti” (1918) di Emilio De Marchi, uno scrittore ben noto, che consigliava, al ricco e al povero, come scrivere, come esercitare la memoria, come fare letture, come prendere note. Insomma un prontuario, scritto con molto garbo, di “igiene intellettuale”. Successivamente, questo tipo di letteratura è divenuto inconsueto, è prevalso il “fai da te”, il liberismo educativo. In controcorrente il volume, in veste grafica elegantissima, ideato e curato da Giulio Napolitano, al quale hanno collaborato otto professori di diritto (tra questi anche io, per cui dichiaro subito il mio conflitto di interessi). È un libro diviso in due parti, dedicate all’attività di ricerca e alla vita del ricercatore. Nella prima si espongono metodologie, e si danno consigli relativi alla scelta dei temi di ricerca, al metodo, allo stile di scrittura, al modo di fare le citazioni, ai prodotti della ricerca (libro,
articolo, nota a sentenza), alle letture consigliate, ai “lettori” ai quali sottoporre la propria ricerca, a come e dove pubblicare. Nella seconda parte, i consigli riguardano lo studio in biblioteca, l’apprendimento e uso delle lingue straniere, i rapporti con la comunità scientifica, il parlare in pubblico, nei convegni, la ricerca di gruppo, la preparazione dei concorsi universitari. Sia il giovane ricercatore che resta in Italia, sia quello che voglia fuggire all’estero, troveranno utilissimo, prezioso, questo libretto e lo leggeranno, ponendolo, poi, nello scaffale accanto al classico “Come si fa una tesi di laurea” di Umberto Eco.
Sabino Cassese

Erskine Caldwell, Tobacco Road, Open Road Media 2011 (anche su Kindle).
With language that is at times jarring, always stark and simple, Erskine Caldwell wrote in this short novel of a world that seems to some made for sensational B movies. But Tobacco Road is a an important and moving story about Georgia’s tobacco roads at the height of the Great Depression, a place and time that Caldwell knew first hand.
This is a disturbing and unforgettable novel that graphically presents life in poor rural America. It makes you incredulous, angry, shocked, and also immensely saddened. Tobacco Road tells the stories of the Lester family (Jeeter, Dude, Ellie May…..), white sharecroppers, too poor,
too defeated, too hungry to have human feelings. These are people who drive over their grandmothers as if they are closing a door; who won’t share their few turnips, the only remaining food of the people; who sell their children; whose last prayer is to be able to be buried in a pretty, “stylish” dress or in a box without rats.
Erskine’s novel was and is immensely controversial. To some it is pornographic (his work was prosecuted for obscenity); to others it is pulp fiction. Rather, it is an historically significant portrait of race, poverty, exploitation and inequality – a poem in prose – with memorable repeating phrases of a dying hope, wrenching and all too real. And its themes ring true today.
Joseph DiMento

Haim Baharier, La valigia quasi vuota, Garzanti 2014.
Il libro di un maestro – esponente di un affascinante mondo claudicante – dove Vita e Pensiero si intrecciano in modo straordinariamente lieve, nel ricordo di Monsieur Chouchani – leggi Sciusciani – Maestro dei Maestri, misterioso e geniale clochard apparso a Parigi negli anni 50 e poi svanito nel nulla. Un libro molto ben scritto, semplice e complesso, intessuto di ricordi – commoventi quelli dei sopravvissuti alla Shoa – che fanno riflettere e anche sorridere.
“Perché non riesci a fondare dentro di te la vita? Non hai un
buon motivo per vivere? Non ci riesci? E che cosa vuol dire fondare dentro di te la vita? Non vuol dire forse dare luce a quell’essere infinito che vive dentro di noi, elevarlo alla luce – è questo, no, vivere? Elevarlo alla nostra coscienza ma non riuscirci: quell’ospite che abbiamo dentro di noi, oppure quell’oste che ci ospita. Incamminati, verso la terra del dono. Voler vivere è dare spazio, luogo e tempo a quella scintilla che ospitiamo dentro di noi e di cui noi siamo ospiti.”
Un libro da cui trarre insegnamenti, domande e speranze.
Augusto Bianchi

Madeleine Thien, L’eco delle città vuote, 66th and 2nd, 2013.
“Fin dall’inizio ci vengono consegnate molte vite che conserviamo dentro di noi. Dal primo all’ultimo mattino lottiamo per portarle con noi fino alla fine”.
Mei, che a 11 anni lascia la Cambogia dilaniata dalla follia dei Khmer Rouge, è la protagonista di un libro scritto con linguaggio potente ed elegante da Madeleine Thien, 40 anni, canadese di origini orientali. Ci sono voluti 5 anni per scrivere la storia di due sopravvissuti che ad un certo punto della loro vita non resistono al senso di colpa e tornano in Cambogia per cercare parenti scomparsi e dar corpo a ricordi confusi: lo fa Mei, finita a Vancouver dove, grazie a genitori adottivi, è diventata Janie, brillante elettrofisiologa. E con lei lo fa il giapponese Hiroy, uno scienziato suo amico, per ritrovare il fratello medico. A Janie l’Angkar ha strappato 30 anni prima non solo i genitori, ma anche il fratellino Sopfham, diventato
bambino-soldato e torturatore prima di scomparire per sempre. Nell’aprile del 1975, quando gli uomini di Pol Pot entrano in Phnom Penh, “la città alla confluenza dei fiumi”, sembrano i vincitori di una guerra giusta. La verità era che volevano azzerare tutto, compresa la memoria delle vite precedenti: “Non appartieni a nessuno e nessuno ti appartiene – dice l’Angkar – l’attaccamento al mondo è un reato”. Due o tre milioni di morti, però, non furono sufficienti: nel gennaio del 1979 i vietnamiti li cacciarono da Phnom Penh ma per molti anni ancora, grazie all’ipocrisia dell’Occidente, furono i Khmer a rappresentare la Cambogia alle Nazioni Unite. Janie ritornerà al marito Navin e al figlio Kiri lasciati in Canada solo dopo essersi riappropriata di radici e identità. Fangosi campi di sterminio ed ossa sparse ovunque, ma anche amicizia e generosità popolano le pagine di questo intenso libro e così la storia di una donna e di un uomo si confonde con quella di un popolo, il sogno con la realtà, in un groviglio magico e inestricabile. “L’ultima immagine che ho della Cambogia è oscurità, è il suono di una quarantina di vagabondi muti, di preghiere silenziose. Ho chiuso gli occhi.. Voltati a guardare indietro un’ultima volta, ha detto mia madre”.
Armando Spataro

Murakami Haruki, Kafka sulla spiaggia, Einaudi 2008
Dire che è un brutto libro forse è troppo severo. L’ho scaricato in aeroporto, con un’attesa di quattro ore davanti a me, alla fine delle quali prevaleva l’irritazione, per lo stile che vorrebbe giocare sulla chiave dell’assurdo e dell’onirico (con l’esplicito riferimento a Kafka) ma risulta banalizzato in forme di favola senza profondità. Nonostante questo un ritmo c’è, e il tempo scorre rapido leggendo.
Insopportabili sono i lunghi passaggi didascalici, durante i quali un personaggio (il bibliotecario, in particolare) spiega con pedanteria e senza credibilità narrativa la musica di Schubert o il pensiero di Goethe o l’opera di qualche altro esponente della cultura occidentale, dai classici greci (il mito di Edipo è l’argomento del libro) sino ai giorni nostri. E’ difficile capire quanto queste stonature dipendano non tanto dalla traduzione, quanto dalla traslazione tra due culture così distanti. Non saprei neanche dire quanto la passione per la cultura occidentale in un autore giapponese sia genuina, o sia frutto di un calcolo: conquistare la benevolenza del pubblico europeo e americano, o solleticare il gusto dell’esotico nel pubblico orientale?
Intanto però l’ho letto di un fiato, come un fumetto, e alla fine il personaggio che parla con i gatti mi accompagnerà ancora per qualche tempo. Alcune pagine sono riuscite a entrare in risonanza con il filo dei miei pensieri, regalandomi anche momenti in cui il tempo si è fermato. Forse l’ho letto troppo in fretta, o forse è questo il difetto principale di come è stato scritto.
Roberto Satolli

Noam Chomsky, Richard Lewontin, Marc Hauser e altri, The mistery of language evolution in Frontiers in Psychology, 2014.
I tamarini, piccole scimmie dal ciuffo bianco, non sono geneticamente programmati per parlare: non si è sviluppata una lingua tamarina. Ma sono in grado di usare alcuni meccanismi che gli esseri umani usano per apprendere il linguaggio, in particolare per segmentare il flusso del parlato in parole, anche se naturalmente non li usano per apprendere una lingua. Nonostante ciò, i meccanismi di segmentazione della lingua parlata sono gli stessi. I risultati delle indagini su queste scimmie sono un esempio degli enormi progressi fatti negli ultimi anni nello studio delle capacità cognitive di alcuni animali, più simili a quelle degli esseri umani di quanto si pensasse un tempo: piccoli passi, ma importanti per affrontare il mistero dell’evoluzione del linguaggio e le ragioni per le quali questa capacità si è evoluta negli esseri umani ma non nelle scimmie, i loro parenti più stretti, con cui condividono 96% dei geni e in nessun altro essere animato. È un tema che è stato trascurato da questo articolo che, seppure fondamentale e scritto dai maggiori esperti mondiali del linguaggio, osserva soltanto che in nessun animale non-umano esistono capacità di comunicazione linguistica simili a quelle umane; che non è possibile dire nulla sulle proprietà in questo campo sul cervello degli esseri umani e degli altri animali in
base a fossili o altre evidenze archeologiche; infine che non possediamo conoscenze sufficienti sulla genetica del linguaggio. Tutto ciò al momento è vero, ma un cenno sugli studi recenti e sulle prospettive che essi offrono sarebbe stato benvenuto.
Marina Nespor

Elisa Rutolo, Ovunque. Proteggici, Edizioni nottetempo 2014
Una scrittura simile non l‘avete di certo mai incontrata: non è un dialetto, né un idioma straniero, né, tanto meno, una semplificazione infantile. Il linguaggio dell’autrice non ha ascendenti, né riferimento conosciuto: Da dove l’abbia tirato fuori lo sa iddio. E però è un rotolio di parole inusitate che ti acchiappa dall’inizio alla fine, segno che riflette una lingua che ognuno di noi ha dentro, anche se non l’ha mai usata. Per questo leggi il libro di un fiato, perché quelle parole danno un senso ai protagonisti, prima arcaici poi via via intrecciati con la modernità, in un intrico di relazioni e di personalità, che alla fine – ma proprio per via di questa lingua che ti penetra dentro ma non sapresti tradurre – compongono un mondo che ti sembra vicino. Insomma, questo libro bizzarro, il più innovativo e intrigante tra i finalisti per il premio Strega 2014, è sicuramente il libro di una grande, nuova scrittrice.
Luciana Castellina

Luciano Canfora, La Crisi dell’ utopia. Aristofane contro Platone, Laterza 2014.
Non fatevi spaventare dal sottotitolo. Il libro non parla solo del rapporto tra i due grandi autori, ma affronta argomenti molto più ampi, che ci toccano ancora. Partendo dall’ipotesi ( più che convincentemente dimostrata) che il nucleo centrale della “Repubblica” di Platone sia anteriore alla redazione delle “Donne a Parlamento di Aristofane, “ Canfora ne trae le conseguenze: le indiscutibili analogie tra le società (ambedue utopiche) descritte nelle due opere si spiegano pensando che “Le donne a Parlamento” fossero una feroce satira delle teorie utopistiche prospettate da Platone nel V libro della “Repubblica”. E da questa premessa trae le conseguenze: Platone aveva inizialmente creduto nel regime di Crizia, che aveva portato al disastroso governo dei Trenta Tiranni. Profondamente deluso dall’esperienza se ne era poi dissociato e aveva descritto nella Repubblica la sua città Ideale, la Kallipolis nella quale la proprietà privata era stata abolita e le donne erano state messe in comune: la città che Aristofane ridicolizza nella sua commedia. Ma Canfora non solo non si limita a questo scontro, né alla descrizione del clima sociale nel quale esso si svolse (i difficili primi decenni del V secolo a. C., al termine della guerra civile e dopo la restaurazione della democrazia). Al di là tutto questo si interroga, come dice il titolo, sul problema più generale della crisi delle utopie: cosa accade delle utopie quando, dopo aver ispirato dei regimi politici, questi si dimostrano fallimentari, sul piano della storia? Ha senso credere ancora nell’esistenza e nella possibilità di realizzare un modello ideale? Trasferendo la domanda nel presente, ha senso e che senso può avere credere ancora in un’utopia come quella comunista, dopo il suo fallimento storico? Non voglio anticipare le idee dell’autore.
Eva Cantarella

Giorgio Terruzzi, Suite 200. L’ultima notte di Ayrton Senna, 66th and 2nd, 2014.
Mi sento quasi in imbarazzo a proporre un libro dello stesso autore che avevo proposto l’ultima volta. Posso dire che non lo faccio perché lui mi paga, e infatti non mi paga, e non lo faccio nemmeno perché siamo amici, nonostante che siamo amici per davvero. Lo faccio perché Suite 200 è un libro molto molto bello. Giorgio conosceva bene Ayrton Senna (lo capirete dal libro), perché di mestiere fa il giornalista sportivo e perché è capace di intessere feconde relazioni umane, non per tornaconto ma per curiosità e per straordinaria disposizione verso gli altri esseri umani. All’editore che glielo ha proposto (che purtroppo non ero io, ahimé), prima ha detto di no, poi un sogno rivelatore gli ha fatto cambiare idea. Così ha aggiunto alle conoscenze che già aveva nuova documentazione, è andato a passare una notte nella Suite 200, nell’albergo di campagna dove Senna
aveva dormito prima della giornata fatale, si è immedesimato e ne è uscito un saggio-romanzo nel quale l’immaginazione non violenta mai la realtà.
Gherardo Colombo

Massimo Teodori, con Massimo Bordin, Complotto. Come i politici ci ingannano, Marsilio 2014.
David Bidussa, I purissimi. I nuovi vecchi italiani di Beppe Grillo, Feltrinelli 2014.
Il problema con le spiegazioni complottistiche è che talora i complotti ci sono veramente, anche se è spesso difficile accertarli. E che, anche quando ci sono e sono accertati, difficilmente costituiscono una spiegazione adeguata dell’evento o del passaggio storico che essi intendono spiegare. Come dice Richler citato in esergo: “il problema con i teorici della cospirazione è che se gli dai un dito di porcherie accertate, loro si prendono un braccio di fantasie”. Chi usa il complotto a fini di spiegazione deve prima dimostrare la sua esistenza e poi giustificare la sua importanza. E questo, soprattutto quando si vogliono spiegare eventi, passaggi, svolte significative nella storia di un Paese, è molto difficile farlo: quasi sempre quegli eventi, quei passaggi, quelle svolte possono essere spiegati in modo soddisfacente anche senza invocare la categoria del complotto. Senza dare un peso ingiustificato a poteri occulti, servizi deviati, mafie o massonerie varie, anche quando si
sono effettivamente agitati sullo sfondo. Senza rendere responsabili dei problemi denunciati trame oscure e legami inconfessabili tra politici meschini o servitori infedeli dello stato e servizi segreti di altri paesi o movimenti eversivi di estrema destra o estrema sinistra, anche quando queste trame e questi legami ci sono effettivamente stati. Questo è il messaggio principale del libro di Teodori, un politico e uno studioso assai qualificato a dare una testimonianza sul fenomeno.
Un rimprovero però glielo farei, ed è il sottotitolo del libro: “Come i politici ci ingannano”. Che i politici facciano ampio uso di teorie complottistiche, è vero e basta pensare a Berlusconi per non aver dubbi in proposito. Ma se è così conveniente gridare al complotto, ci dev’essere una gran massa di persone che è disposta a crederci, maggiore nel nostro paese che in altri paesi civili. Se c’è una tale offerta di spiegazioni complottistiche, ci dev’essere anche una forte domanda, e di questa il libro di Teodori non tratta. Ne tratta invece il libretto di David Bidussa appena pubblicato da Feltrinelli, che consiglierei di leggere insieme a quello di Teodori. Come si capisce dal titolo, esso ha un oggetto completamente diverso, cercando una spiegazione del successo di Grillo sia in ragioni storiche profonde (il carattere degli italiani), sia in meccanismi di psicologia sociale, in una predisposizione paranoide e semplificatoria non contrastata – nel rapido passaggio dal paese semi-analfabeta del dopoguerra alla cultura audio-visuale di oggi- da un’istruzione realistico-critica diffusa. Insomma, il complottiamo sarebbe un parente stretto del populismo: un capo populista è necessariamente un complottista. E dunque non di singoli complotti si tratta, come nel libro di Teodori, ma di cospirazionismo: tutta la politica istituzionale, l’intera democrazia rappresentativa, è complotto, un agitarsi con qualsiasi mezzo, lecito e illecito, per conquistare e conservare il potere. Se così è le istituzioni della democrazia rappresentativa vanno radicalmente cambiate: come?
Michele Salvati

Deborah Lipstadt, Il processo Eichmann, Einaudi, 2014.
Il libro racconta la storia di uno dei processi più celebri del secolo scorso. Il suo interesse, per chi conosce quella vicenda, sta soprattutto nel primo e nell’ultimo capitolo. Il libro si apre con il racconto delle straordinarie circostanze della scoperta di Eichmann in Argentina e della sua cattura, fino ad oggi poco note, almeno per quanto riguarda la realtà dei fatti ed i suoi singolari protagonisti.
L’ultima parte del volume discute le tesi un po’ mal comprese e un po’ male esposte da Hannah Arendt sulla “banalità del male”. Arendt nella sua analisi del processo ha una sua specifica agenda, diversa da quella dei giudici che si concentrano sulle responsabilità individuali dell’imputato, ma diversa anche da quella del pubblico ministero Hausner,
che vuole trasformare il processo ad Eichmann in una condanna più generale dello sterminio degli ebrei d’Europa, di cui egli sarebbe stato la mente. Arendt, ebrea tedesca assimilata, cresciuta nei templi accademici della cultura del suo paese e che scoprirà il suo essere ebrea con il nazismo, dinanzi ad Eichmann cercherà di capire come fosse stato possibile che i tedeschi si siano macchiati delle spaventose atrocità che hanno caratterizzato il massacro di milioni di persone inermi con cui avevano a lungo convissuto.
La “facilità” con cui si compie il male – che non ha nulla di banale – ci lascia oggi ancora storditi dinanzi ad un mistero fitto e nero che nemmeno la formula ambigua e le analisi di Arendt hanno potuto dissipare. Ed è perché non possiamo capirlo che il nostro destino è di ricordare.
Pasquale Pasquino

Vaclav Havel, La politica dell’uomo, Castelvecchi 2014.
Questo testo nasce nel 1984 come progetto di discorso da tenere all’Università di Tolosa. All’epoca Havel non era in possesso di passaporto e, pertanto, non poteva viaggiare. Lo scritto fu quindi letto il 14 maggio 1984 dal drammaturgo inglese Tom Stoppard. È emozionante leggere pensieri così attuali a trent’anni di distanza dalla stesura di questo lungo brano. Havel inizia il suo racconto con un pensiero, direi, proto-ambientalista. Ricorda quand’era ragazzo e vedeva una ciminiera che col suo fumo deturpava la campagna. Già da adolescente gli sembrava offensivo nei confronti della Natura che l’uomo fosse così presuntuoso e tracotante da inquinare l’ambiente che lo ospita per la vana aspirazione di dominarlo e modificarlo a suo piacimento. Di qui, l’invito vibrante a guardare dentro di sé, a non cedere al cieco positivismo scientifico che rende l’uomo convinto di poter soggiogare le forze della Natura e, in ultima analisi, a disumanizzarsi nel tentativo di rendere il mondo diverso da come è stato concepito. Questo eroe della democrazia mondiale offre un’analisi interessantissima su questa dis-umanizzazione quando qualifica quale estremo prodotto di questo processo il ‘burocrate’ tipo delle repubbliche socialiste dipingendone i tratti principali. E’ una figura inquietante che purtroppo ricorda da vicino il funzionario pubblico contemporaneo, privo di anima e votato al puro rispetto del protocollo. E’ probabilmente uno dei segnali del declino della nostra democrazia.
Giulia Gavagnin

E poi, ci sono anche le mie.

Patrice Gueniffey, Bonaparte (1769-1802), Gallimard 2013 (anche su Kindle).
Se volete esagerare, se volete sapere tutto, ma proprio tutto, su Napoleone, questo è il vostro libro. Anzi, il primo dei vostri libri, perché con queste 860 pagine si arriva solo al 1802, allorché viene proclamato Console a vita, preparandosi a vestire i panni di Imperatore. Dalla giovinezza in Corsica, ai rapporti con i genitori e con i fratelli, fino all’arrivo a Parigi, poi il primo (controverso) successo con l’assedio di Tolone e via via la campagna d’Italia, la campagna d’Egitto e, negli ultimi capitoli, la sua attività di legislatore. Nulla della sua vita vi sarà risparmiato; tuttavia, saltando qualche pagina, un libro che non si riesce ad abbandonare.

George Prochnik, The Impossible Exile: Stefan Zweig at the End of the World, Other Press, 2013 (anche su Kindle).
Il libro indaga sull’ultima parte della vita di Stefan Zweig, tra gli scrittori più famosi del suo tempo, autore di biografie lette da milioni di persone (a questo proposito: una delle più belle, e tra le meno note, è la biografia di Castellio e della sua lotta contro Calvino), pacifista, musicologo, collezionista di manoscritti, amico dei più importanti intellettuali europei. Fuggito tempestivamente dal nazismo, senza soffrire, come tantissimi altri, privazioni, stenti e senza essere costretto ad affannate ricerche di un visto (“una delle pochissime persone per le quali l’esilio non poneva problemi economici”), passa anni muovendosi dall’Inghilterra agli Stati Uniti e infine al Brasile dove viene affettuosamente accolto. Ma subisce nel frattempo quel processo di Entfremdung descritto da Kundera (nel saggio su Stravinsky ora raccolto ne I testamenti traditi): un senso di crescente estraneità, ma non nei confronti dei paesi nei quali vive, ma nei confronti del mondo che ha lasciato: “l’estraneità nella sua forma più dolorosa e stupefacente” osserva Kundera “non si manifesta nei confronti della donna appena conosciuta, ma nella donna che per lungo tempo è stata nostra”. In Brasile completa una delle sue opere più note, Il mondo di ieri, il suo ultimo, straordinario racconto, Novella degli scacchi; poi, nel febbraio del 1942 si uccide con la seconda moglie, al culmine della disperazione per la distruzione dell’Europa e il disfacimento della cultura tedesca, proprio quando gli osservatori più attenti avevano compreso che la Germania non aveva più possibilità di vincere la guerra.

Barbara Tuchman, The Guns of August, Random House 1962 (c’è un’edizione italiana pubblicata da Bompiani nel 1998, che risulta non disponibile).
Come era prevedibile, libri e saggi sulla prima Guerra mondiale e, in particolare, sul periodo immediatamente precedente, sulle cause e sulle fasi iniziali, stanno inondando il mercato. Tra questi, per una descrizione dettagliata dell’attentato di Sarajevo suggerisco il volume di Christopher Clark I sonnambuli: Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra (Laterza 2013). Il libro incomparabilmente più bello, è stato però scritto oltre 50 anni fa, non da uno storico, ma da una giornalista (che ha vinto il premio Pulitzer). Ricostruisce le varie strategie militari messe a punto dai paesi contendenti (Germania, Francia Inghilterra e Russia in primo luogo) e la loro attuazione nel corso del primo mese di guerra ad opera dei vari responsabili, tutti descritti con ironia e acume. In poche settimane d’agosto anni di progettazioni e elucubrazioni militari si sgretolano: Schlieffen non aveva neppure immaginato che il Belgio potesse opporre resistenza e che la Russia potesse mobilitare così in fretta, due fattori che fanno fallire il suo piano e la guerra lampo; i generali francesi non avevano considerato che la guerra offensiva di tipo napoleonico era impossibile di fronte alle superiori forze tedesche. A ciò si aggiungono gli errori di valutazione, le esitazioni e le incapacità dei vari comandanti in capo (di cui fanno le spese, come si sa, centinaia di migliaia di esseri umani). Il libro finisce quando, a seguito della battaglia della Marna, si arresta l’avanzata tedesca a pochi chilometri da Parigi e si cominciano a scavare le prime trincee. È qui il vero inizio della Grande guerra.

Bernhard Kellermann, Der Tunnel, Shurkampf 1995 (scaricabile da www.gutenberg.org/ebooks/44489).
Pubblicato nel 1913, oggi quasi dimenticato, è stato uno dei libri più venduti e più famosi della prima metà del secolo scorso; ha dato origine a quattro film, il primo nel 1915, gli altri tre tra il 1933 e il 1945 in tre diversi paesi (Francia, Germani e Inghilterra).
Ci sono in questo libro un sapore antico di tragedia greca, con l’immancabile punizione della hubris di chi vuole sfidare l’ordine naturale e insieme una visione dell’etica dell’innovazione tecnologica e dei suoi rischi che preannuncia una sensibilità che maturerà solo molti decenni dopo.
Mac Allan, il prometeico protagonista, decide, mentre la prima globalizzazione sta per infrangersi nelle trincee della prima guerra mondiale, di realizzare un’opera che sfida le conoscenze scientifiche e tecniche del tempo: un tunnel sul fondo dell’Oceano Atlantico che congiunge l’Europa agli Stati Uniti in un disegno di pace e di prosperità. Dopo aver superato le opposizioni di industriali, commercianti, politici e organizzazioni religiose e culturali di varie tendenze, Mac Allan riesce ad ottenere i finanziamenti necessari e l’opera ha inizio: un tracciato di 5000 km che parte dal Golfo di Biscaglia e giunge a sud di New York. Ben presto cominciano gli imprevisti di carattere tecnico, geologico, ambientale, e organizzativo. I ritardi si accumulano per incidenti e per i continui scioperi dei 180.000 lavoratori impiegati, i finanziamenti finiscono, le ostilità crescono, ma, alla fine, dopo quasi trent’anni, l’opera è compiuta. Ma è ormai superata e resta inutilizzata: gli aeroplani già solcano l’Atlantico in poche ore.

 

 

 

Questo quarantacinquesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 2014 in duecentoventi copie non numerate e fuori commercio da Grafiche Porpora srl di Cernusco sul Naviglio, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti la maggior parte dei testi, spesso rispettando – ma non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989.
Ringrazio per la revisione del testo Salvatore Giannella, Marina Nespor e Pasquale Pasquino.