N. 43 inverno 2012

IN COPERTINA:

Ritratto di Philip Roth in occasione dell’uscita di Nemesis che sarà l’ultimo suo romanzo. Matite Derwent varie su carta.

IN QUESTO NUMERO

Ci sono due storie: quella di uno sconosciuto maratoneta italiano e quella di due inglesi deportati in Australia. Ci sono anche due brani di Edmondo Berselli.

Poi, le poesie, questa volta di Paul Reverdy e di Angelo Maria Ripellino.

C’è poi la parte dedicata ai libri da leggere. Questa volta le indicazioni sono di Augusto Bianchi, Eva Cantarella, Sabino Cassese, Luciana Castellina, Gherardo Colombo, Joseph DiMento, Giulia Gavagnin, Annelise Klein, Lucio Labianca, Guido Martinotti, Marina Nespor, Stefano Nespor, Pasquale Pasquino, Michele Salvati, Lina Sotis, Armando Spataro.

IL MARATONETA

Ai primi giochi olimpici dell’era moderna, quelli di Atene del 1896, avrebbero dovuto partecipare sette atleti italiani, riferisce La Gazzetta dello Sport del 10 aprile 1896. Tuttavia, a causa dell’incapacità organizzativa del comitato olimpico, l’Italia riuscì a presentare un unico partecipante ufficiale: il tiratore piemontese Giuseppe Rivabella.

Allora Carlo Airoldi pensò di andare a Atene da solo, presentarsi agli organizzatori dei Giochi, iscriversi alla maratona e arrivare al primo posto, incassando il premio di 25.000 lire che era stato messo in palio di nascosto dagli organizzatori, stante il carattere strettamente dilettantistico dei giochi. Airoldi aveva 26 anni. Era di Origgio, in provincia di Varese. Figlio di contadini, aveva lavorato come operaio di una fabbrica di cioccolato, poi, per guadagnarsi da vivere, si era dato a un nuovo sport, il ciclismo. Tra una gara e l’altra, si esibiva in spettacoli dove si faceva spaccare pietre sul torace o come mangiatore di fuoco.

Ma la sua vera passione era il podismo.

La sua prima affermazione risale al 22 luglio 1894: vinse la Lecco-Milano (50 chilometri) nel tempo di 4 ore e 22 minuti; vinse poi la Milano-Torino e la Zurigo-Baden. Nel settembre del 1895 partecipò alla gara che lo rese famoso: la Milano-Barcellona, una prova di corsa e marcia di 1.050 chilometri (suddivisa in 12 tappe), indetta dai “Pionieri della Pace” di Torino, alla quale parteciparono una trentina di concorrenti. Arrivò primo dopo 397 ore complessive di marcia.

Ebbe  soprattutto  vasta  risonanza  sui  quotidiani francesi e spagnoli il fatto che, giunto a qualche chilometro di distanza dal traguardo e accortosi che il suo rivale, il podista di Marsiglia Louis Ortègue, detto “la locomotiva umana”, era stremato e prossimo all’abbandono, se lo caricò sulle spalle e lo trasportò oltre il traguardo.

Così Airoldi si mise in marcia da Milano verso Atene il 28 febbraio 1896, con un piccolo contributo dell’Esposizione ciclistica milanese e del giornale La bicicletta. Aveva come bagaglio uno zaino con un cambio di camicia e un paio di pantaloni.

Coprì la distanza tra Milano e Atene, 1328 km., tutta a piedi, salvo un tratto che dovette percorrere via mare per evitare il transito per l’Albania, sconsigliato per ragioni di sicurezza. Toccò le città di Brescia, Verona, Vicenza, Treviso, Portogruaro, San Giorgio di Nogaro, Palmanova, Trieste, Basovizza, Kosina, Fiume, Senj, Karlobag, Zara, Sebenico, Spalato, Ragusa. Qui prese il traghetto e giunse a Corfù il 26 marzo, poi con un nuovo traghetto arrivò il giorno seguente a Patrasso. Due giorni dopo era a Corinto e il 31 marzo finalmente ad Atene. Camminò dai 45 ai 65 km al giorno. Della marcia solitaria di Airoldi parlarono i quotidiani di tutta Europa: era il testimonial ideale per i nuovi Giochi Olimpici.

Però, quando si presentò per iscriversi alla maratona, fu costretto ad ammettere che in corse precedenti aveva vinto premi in denaro. Fu così escluso per professionismo.

La prima maratona dell’era moderna fu vinta – come gli organizzatori desideravano – da un greco, Spyridon Louis.

Airoldi, amareggiato e deluso, fece ritorno a Milano e continuò la sua carriera di podista, partecipando a gare ufficiali e cimentandosi in imprese mirabolanti. Al Parco Trotter di Milano si cimentò in una gara contro Buffalo Bill: lui a piedi, Buffalo Bill a cavallo; si recò anche a Rio de Janeiro per sfidare Uranus, il cavallo più veloce del Brasile. Lasciate le gare, fece l’allenatore dei marciatori alla società Voluntas e poi seguì i ciclisti della Legnano, la squadra dove molto tempo dopo divennero famosi Bartali e Coppi. Morì il 10 giugno 1929.

Su Airoldi: Manuel Sgarella, La leggenda del maratoneta. A piedi da Milano ad Atene per vincere l’Olimpiade, Macchione, Varese 2005.

Carlo Airoldi è anche uno dei personaggi dell’opera lirica di Luca Belcastro, 1896 Pheidippides… corri ancora! premiata al concorso internazionale di composizione “Dimitris Mitropoulos World Opera Project 2001” di Atene.

CINQUE POESIE DI PIERRE REVERDY

Suono di campana

Tutto si è spento

Il vento passa cantando

gli alberi rabbrividiscono

Gli animali sono morti

Non c’è più nessuno

Guarda

Le stelle hanno smesso di brillare

La terra non gira più

Una testa si è inclinata

I capelli ramazzano la notte

L’ultimo campanile rimasto in piedi

Suona la mezzanotte.

La parte azzurra del cielo

Le panchine sono prigioniere

Delle dorate catene del muro

Prigioniere di giardini dove si nasconde il sole

Accanto alla foresta vergine

Accanto alla prateria sconfinata

Al ponte ritorto

che forma un angolo acuto.

L’involucro di nuvole si rompe

E tutti insieme bianchi uccelli s’alzano

Tappeto più verde dell’acqua e più dolce dell’erba,

Più amaro alla bocca e più gradito all’occhio

Gli alberi inginocchiati si bagnano

Serena è l’aria e carica di sonno

La luce si attenua

Il giorno perde i suoi petali

Più su, c’è di colpo la notte

Gli sguardi d’intesa,

E il tremolare delle stelle

I segni

Al di sopra dei tetti.

Colui che attende

E’ davvero l’autunno che ritorna si inizia a cantare

Ma nessuno più di me

ci tiene

io sarò l’ultimo.

Ma non sarà così triste

come avevano detto

questa pallida stagione.

Solo un po’ più di malinconia.

Il fumo interroga

Sarà lui oppure tu

a tesserne l’elogio

prima che arrivi il freddo

E io aspetto

L’ultima luce

che sale nella notte

Ma la terra discende

E non tutto è finito

Un’ala la sostiene

Per tutto questo tempo

In fin dei conti io verrò con te

A chiudere la porta

Se tira troppo vento.

Bell’occidente

Tra il dorso del libro e i fogli del vento

S’apre l’antro limpido

Ove ribolle la schiuma

Quando le rocce serrano i denti

Sulla lingua di sabbia

le schiere di bianchi fiocchi si abbattono

Sguardi dubbiosi fuggono lungo la nave

e fino all’orizzonte

E cessa ogni altro movimento

Là come altrove si regge la volta della stella d’oro

Senza l’aiuto di colonne o di catene

Ma i giorni sono un po’ più lunghi

Irradiati di blu come il sangue delle vene

Più lontano si prende un’altra direzione ancora

Ma sempre gli stessi ritornano

Verso la singolare collina

Dove il sentiero sale tortuoso

Fino alla roccia sanguinante su cui la luce si spegne

Nei mattatoi del ponente.

Addio

Cara Coco, qui c’è

il meglio di ciò che so fare e il meglio di me

Lo offro a te

con il mio cuore

prima di muovermi

verso la fine oscura del mio cammino

comunque vada

sappi che ti amo.

Ho tratto le poesie da varie antologie delle opere di Reverdy pubblicate in Francia e in Inghilterra. Non mi risultano opere tradotte in italiano, salvo La maggior parte del tempo, curata da Franco Cavallo per l’editore Guanda nel 1966, che non sono però riuscito a trovare. Pierre Reverdy, figlio di un viticoltore, nasce vicino a Narbonnes, nel sud della Francia. Giunge a Parigi nel 1910 dove vuole guadagnarsi da vivere scrivendo. Pubblica il suo primo volume di poesie nel 1915; raggiunge la notorietà nel 1924 con la sua seconda opera, Les épaves du ciel. Frequenta Apollinaire, Max Jacob, Picasso, Juan Gris, Modigliani, Breton, Tristan Tzara e Georges Braque e partecipa allo sviluppo del cubismo, del dadaismo e del surrealismo. Nel marzo del 1917 fonda con Apollinaire e altri la rivista letteraria Nord-Sud: ne sono pubblicati 16 numeri, fino all’ottobre del 1918. Nel 1921 inizia la sua relazione con Coco Chanel, che dura fino al 1926, allorché si converte al cattolicesimo, brucia tutti i suoi manoscritti e, di lì a poco, si ritira a vivere con la moglie vicino al convento benedettino di Solesmes dove resta fino alla morte nel 1960. Lì scrive, tra l’altro Sources du vent, Ferraille e Le Chant des morts (pubblicata nel 1948 con 125 incisioni di Picasso), oltre a due volumi di critica letteraria e aforismi: En vrac e Le livre de mon bord. Durante l’occupazione nazista, Reverdy abbandona il suo ritiro e si unisce alla Resistenza, partecipando a vari combattimenti. Muore nel 1960. Pochi giorni prima scrive la sua ultima poesia, dedicata a Coco Chanel (è anche l’ultima tra quelle qui pubblicate).

STORIA DI HENRY E SUSANNA CABLE

Nel gennaio del 1788 giunse in Australia una flotta di undici navi al comando del capitano Arthur Phillip (che sarà il primo Governatore del Nuovo Galles del Sud e il fondatore dell’insediamento che sarebbe poi divenuto la città di Sydney). Le navi trasportavano i primi deportati inglesi: 600 maschi e 180 donne. Su una di queste, la Alexander, c’erano Henry e Susannah Cable.

Susannah era stata condannata a morte all’età di tredici anni per aver sottratto due cucchiaini d’argento nella casa presso la quale lavorava come domestica. Erano condanne usuali all’epoca e si inserivano in una vasta opera di repressione verso le masse di poveri e vagabondi privati della terra e di mezzi di sussistenza dalle enclosures, l’opera di privatizzazione di terreni e boschi in precedenza comuni.

La sentenza fu poi commutata in 14 anni di carcere con deportazione nelle colonie americane. La deportazione fu però sospesa perché proprio in quel periodo le colonie americane stavano conquistando la loro indipendenza.

Mentre era detenuta nel carcere di Norwich in attesa di conoscere la sua sorte, Susannah conobbe un altro prigioniero, Henry Cable, di poco più anziano, detenuto anch’egli per furto: insieme al padre aveva rubato un coniglio a un allevatore. Anche Henry era stato condannato inizialmente all’impiccagione, come il padre, ma ebbe poi la condanna commutata nei consueti 14 anni di carcere in considerazione della sua tenera età: aveva poco più di 14 anni.

La sentenza di Henry non prevedeva la deportazione.

Henry e Susannah si innamorarono ed ebbero un figlio, Henry junior. Ai detenuti non era permesso sposarsi.

Divenuti  definitivamente  inutilizzabili  i  territori americani, fu prescelto come luogo per la deportazione l’Australia e lì furono reindirizzati tutti i condannati in attesa. Susannah fu separata da Henry (la cui richiesta di essere deportato insieme a Susannah fu rigettata) e inviata all’imbarco con il figlio. Il capitano si rifiutò però di imbarcare il piccolo Henry e ordinò che fosse riportato in prigione. Il vetturino che aveva trasportato i prigionieri, scandalizzato dalla decisione, si recò invece, con il figlio di Susannah in braccio, a Londra da Lord Sydney, che ricopriva allora importanti incarichi di governo. Lord Sydney si commosse e decise di prendersi cura della vicenda che presto divenne nota anche presso l’opinione pubblica. In poco tempo si organizzò un movimento con lo scopo di ottenere la riunione di Susannah a Henry e al figlio. Il movimento, sostenuto da Lord Sydney, era finanziato da un’anziana nobildonna, Lady Cadogan.

Le autorità si arresero e consentirono a Henry e Henry  junior  di  essere  deportati  con  Susannah. Lady Cadogan organizzò una colletta per raccogliere vestiti e altri generi di prima necessità e aggiunse una somma di 20 sterline, somma all’epoca ragguardevole, da utilizzare una volta sbarcati in Australia. La somma fu consegnata al capitano della nave, Duncan Sinclair.

Qui la storia potrebbe finire. E direbbe molto sia sulla severità della giustizia nell’Inghilterra della fine del XVIII secolo (non particolarmente diversa da altri paesi del continente) sia, e soprattutto, sul potere raggiunto già in quel periodo dalla pubblica opinione inglese, agevolato dai numerosi quotidiani diffusi nelle principali città.

La storia invece prosegue.

Dopo otto mesi di navigazione, Susannah e Henry giunsero a destinazione. E si racconta che il capitano Phillip, vestito in grande uniforme per l’occasione, per non sporcare le scarpe di raso chiese proprio a Henry di essere portato in spalla dalla nave alla sede del governo poco distante. Henry fu così il primo civile inglese a mettere piede in Australia.

Qui però Henry e Susannah scoprirono che soldi e vestiti erano spariti: così almeno affermò il capitano Sinclair, che probabilmente si era intascato la somma, ben sapendo che secondo il diritto inglese dell’epoca, i condannati al carcere e alla deportazione non avevano diritti, non potevano essere proprietari di beni e non potevano agire in giudizio contro un uomo libero. Ma il capitano Sinclair non aveva considerato che l’Australia era popolata da prigionieri sicché le regole della madrepatria dovevano adattarsi alla situazione locale, se non altro per preservare la pace e la sicurezza. Susannah e Henry – nel frattempo sposatisi – riuscirono a far accettare il loro ricorso: era la prima causa civile proposta in Australia. La giuria decise che le disposizioni vigenti in Inghilterra non si applicavano a coloro che erano deportati in Australia una volta che giungevano a destinazione. Il comandante Sinclair fu condannato a risarcire i Cable e versare la somma scomparsa.

I coniugi Cable vissero per molti anni a Sydney e non tornarono mai in patria: Henry morì a 82 anni, Susannah qualche anno prima di lui.

Sulla vicenda dei Cable: Daron Acemoglu-James Robinson, Why Nations Fail, Croen 2012 (recensito nei TI). La vicenda è anche oggetto di una delle ballate raccolte dal folk-singer Peter Bellamy, The Ballad of Henry and Susannah, inclusa anche nella sua opera The Transports

.La causa promossa dai Cable è: Cable v. Sinclair, Court of Civil Jurisdiction Proceedings, 1788-1814, State Records of New South Wales, 2/8147[1].

Sui primi deportati in Australia: Mollie Gillen The Founders of Australia – A Biographical Dictionary of the First Fleet, Library of Australian History, Sydney, 1989.

TRE POESIE DI ANGELO MARIA RIPELLINO

I

Guai a chi costruisce il suo mondo da solo. Devi associarti a una consorteria

di violinisti guerci, di furbi larifari,

di nani del Veronese, di aiuole militari,

di impiegati al catasto, di accòliti della Schickerìa.

E ballare con loro il verde allegro dello sfacelo,

le gighe del marciume inorpellato,

inchinarti dinanzi al volere del cielo.

Guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi,

guai a chi resta solo come un re disperato

fra i neri ceffi di lupi digrignanti.

II

Vorrei che tu fossi felice, vorrei

che tu non conoscessi il cane nero della sventura,

quando sarai uscito dal blu dell’infanzia.

Vorrei che tu non debba portare bazooka,

che tu non debba tremare nel folto di

un bombardamento,

che tu non debba pagare per le mie colpe

né vergognarti di me, del mio cicaleggio

e dei miei vani versi.

Vorrei che tu non fossi mai malata o triste

vorrei vivere nella tua voce e nei tuoi occhi,

anche quando mi avrai dimenticata.

III

Da questa spenta città minerale vi mando notizie e un fagottino di desideri.

L’uomo sprofonda nel fango, ma le oche si muovono in fretta

con passo sicuro e arrogante sulla superficie. Carezzare i miei libri la sera,

guardare i quadri di Klee,

perché non so ancora il finale di molte sue storie,

ripensare una sferica infanzia,

un maneggio di sogni,

cercare su un comodino deserto bugiarde conchiglie,

e udire la voce di Dio nei fili di pioggia,

che grondano come gli urlanti capelli dei Beatles.

La prima poesia è da Lo splendido violino verde; la seconda da Notizie dal diluvio (1968-69); la terza da Poesie prime e ultime. Angelo Maria Ripellino (Palermo 1923 – Roma 1978) è stato poeta, saggista, traduttore, docente universitario, critico teatrale. “Ha attraversato, con le movenze aggraziate di un saltimbanco, un’epoca controversa come quella a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del Novecento, senza mai perdere la propria eleganza e il proprio senso dell’equilibrio… Ci fece conoscere un mondo stravagante, popolato di ciarlatani e alchimisti, pagliacci e negromanti, registi e marionette. I versi che scrisse stridono con un suono simile a quello che i violinisti di Chagall ricavavano dai loro strumenti quando, ebbri di povertà, si perdevano tra le nuvole” (Pasquale Di Palmo, La magia dell’anima).

Tra i saggi, due opere sono imperdibili, entrambe pubblicate da Einaudi.

La prima, Praga Magica, del 1973, “narra dell’età di Rodolfo II, dei truffaldini alchimisti, del Quartiere Ebraico, del Golem, della taverne, delle strampalate figurette di beoni e spacconi che le frequentarono, dell’indole funeraria e maligna di certe sue fabbriche e strade, degli stranieri che vi si allogarono nel corso dei secoli, della letteratura tedesca che vi fiorì sullo scorcio dell’ impero austro-ungarico, e di Hasek e di Kafka, cerimonieri dell’ intero libro… degli infernali pagliacci della pittura di Tichy’, che esprimono a meraviglia la notturnalità senza scampo, il malumore di Praga”.

La seconda, uscita postuma nel 1978, Saggi in forma di ballate.Divagazioni su temi di letteratura russa, ceca e polacca, contiene ritratti di Cechov, Chlébnikov, Majakovskij, Pasternàk, Halas, Ròzanov e Bulgakov.

DUE BRANI DI EDMONDO BERSELLI

Il potere del gossip

Ci si ritrova, più o meno sempre gli stessi, deideologizzati e demoralizzati, sufficientemente cinici e quindi moderni. Il cicaleccio con lo spritz ha sostituito ogni altra ritualità. In altri tempi, poteva scapparci una discussione sulla politica economica e si stava attenti a non dire fesserie sulle percentuali, oppure sull’ultimo vincitore del Premio Strega, e si dovevano ricordare tutti gli altri candidati. Oggi, meglio il gossip.

La regola di base dovrebbe essere che la propensione al gossip è interclassista ed equamente distribuita nella società. Ma è davvero così? Oppure oggi in Italia il gossip è uno stile di vita, uno strumento di potere, una tecnica della vita pubblica che distingue una particolare categoria di persone?

Certamente, oggi il gossip rappresenta un nuovo paradigma sociale, dove il segno di distinzione consiste nel padroneggiare informazioni riservate. Il codice Cuccia fondato sul mutismo e il codice Andreotti fondato su un archivio minaccioso sono desueti. Chi detiene le informazioni più esclusive ha un solo modo per dimostrare il proprio potere: rivelarle. Così, la differenza di classe fra quello che conta e il semplice lettore del quotidiano è segnalata da un ritardo di quarantott’ore nella conoscenza delle chiacchiere più rilevanti. E poi, l’utilizzo delle notizie serve non tanto per dimostrare il potere di chi le diffonde, ma perché seduce. Se il gossip è lasciato cadere graziosamente da chi sa, si stabilisce subito una dipendenza gerarchica: è la dimostrazione che potere e conoscenza coincidono. La conseguenza dell’affermazione del gossip come stile di vita è che la vita pubblica è ridotta al presente. Quando c’era il passato, la personalità dei protagonisti era rappresentata da una stratificazione di decisioni, di soluzioni, di errori, di successi, di conquiste. Disintegrate le biografie nello spettacolo pubblico quotidiano, i tic del potere e dei cortigiani appaiono sulla scena senza veli: il gossip restituisce le persone nella loro immediata fisicità.

L’egemonia degli infallibili

A nessuno dei miei amici è mai capitato di incontrare qualcuno che fosse un ammiratore di Baricco. Ma poi ogni romanzo di Baricco schizza inevitabilmente in cima alla lista dei libri più venduti. Allora, bisogna concludere che quelli che noi frequentiamo non sono un campione rappresentativo. Là fuori c’è un mondo sconosciuto, in cui si muove la gente vera, il pubblico autentico, quello che compra i libri di Baricco e anche di Pennac, che va al cinema a vedere Benigni (e si proclama ammirato per quella nefandezza, tipica dei tempi berlusconiani in cui siamo vissuti, che è La vita è bella), passa molti sabati pomeriggio agli outlet che ormai si espandono a macchia d’olio sul territorio per vestirsi come la moda impone e si fa piacere quello che passa il mercato.

Noi invece parliamo di cose e facciamo cose che interessano solo a noi. Non leggiamo un successo mondiale come il Codice da Vinci, non compriamo i bestseller di Camilleri, non guardiamo fiction e reality alla televisione, non abbiamo mai visto il Festival di Sanremo. Non frequentiamo neppure i ristoranti dove vanno i vip (e, sotto sotto, siamo convinti che i vip dovrebbero venire a vederci nelle trattorie dove andiamo abitualmente noi).

È così: là fuori, in un mondo hobbesiano attraversato da conflitti e malvagità, ricco di inestetismi e di mitologie ignoranti, c’è un vasto pubblico cui piace la cacca. Noi non abbiamo nulla a che fare con quella gente, ma, diligentemente, prendiamo atto della loro esistenza, con l’atteggiamento che le comunità evolute mostrano verso gli indigeni, gli anziani, le culture minori, le mentalità primitive. Usiamo quel sentimento di benevolenza che si rivolge di solito ai parenti non troppo stretti, che si usa ai matrimoni e ai funerali: compiacenza volonterosa e distratta senza coinvolgimento. Non è vero che il pubblico sia sempre cretino. Ci sono film, come l’indimenticabile Io ballo da sola di Bertolucci, o Pinocchio di Benigni oppure This is the place di Sorrentino (salvato a stento dalla magistrale quanto inutile interpretazione di Sean Penn) durante i quali sorgono in sala gemiti a ogni battuta demenziale prevista da sceneggiature e trame molto crudeli verso lo spettatore. Tuttavia, la gente tiene dentro di sé il disgusto per paura di avere frainteso un capolavoro. Per il vero, succedeva anche con Brecht e gli infiniti drammi brechtiani che, somministrati nella particolare mediazione di Giorgio Strehler, sono stati inflitti a tutti i giovani italiani.

da Edmondo Berselli. Il primo brano è tratto da Post-italiani, il secondo da Venerati maestri; entrambe le opere sono nella raccolta degli scritti Quel gran pezzo dell’Italia. Tutte le opere 1995-2010, Mondadori, 2011.

LIBRI DA LEGGERE

Le recensioni dei miei amici

Alberto Varvaro, Prima lezione di filologia, Laterza, 2012.

Questo è un libro che dovrebbero leggere tutti, perché insegna alcuni doveri elementari che moltissimi dimenticano.

La filologia è la disciplina che mira a ricostruire e interpretare correttamente testi e documenti. Varvaro spiega che essa ha per scopo non solo di fissare l’edizione di un’opera (filologia testuale), ma anche di ricostruirne la storia e la critica e di analizzarne il contesto. Risponde a molte domande: come si è costituito un testo? quale ne è stato il processo di formazione? quali ne sono i “testimoni”? come si studiano varianti, errori, contaminazioni? Insomma, il bravo filologo sa rispondere alle classiche domande: chi? che cosa? quando? dove? come? perché?

L’autore del libro è un grande e noto filologo. Il libro, di lettura piacevolissima, insegna i criteri di un rigore che si va perdendo: quanti sono i giornalisti che controllano le fonti delle notizie ed evitano di presentarne una versione “romanzata”? Quanti gli studiosi che citano le opere che hanno effettivamente letto? Quanti i giudici che ricostruiscono correttamente la formazione dei precedenti giudiziari?

Sabino Cassese

Rabindranath Tagore, Lipika, Feltrinelli Editore 2008.

Dei racconti, o meglio note o appunti, scritti originariamente in bengali. Sono appunto piccoli scritti n cui il principale tema è un dolce rimpianto, ma anche una osservazione poetica del mondo vicino. Il vicolo è irresistibile. E’ un vicolo indiano, ma potrebbe essere uno ligure, o in altro posto europeo, anche se la pioggia, in Europa, è meno improvvisa. E la descrizione della perdita in Diciassette anni è intensamente poetica.

Marina Nespor

Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca, Sellerio, 2011.

È il resoconto di un’ esperienza  eccezionale. Nei quartieri di Napoli in cui regna il Sistema, nei quartieri di camorra, Carla Melazzini ha promosso e condotto Chance, un progetto teso a recuperare alla scuola ragazzi che l’avevano abbandonata e a portarli alla licenza media. Insieme ad altri insegnanti, educatori e genitori “sociali” ha coinvolto per undici anni tanti adolescenti e li ha spesso condotti a ottenere il diploma. Il testo racconta il cammino degli insegnanti, fatto di difficoltà, problemi, speranze, docce scozzesi, successi e tanto apprendimento (la disponibilità a mettersi in discussione è stata un ingrediente importante per la riuscita dell’esperimento) e racconta il percorso di liberazione dei ragazzi dalla ineluttabilità di una cultura di sopraffazione e di morte che ne soffoca la vita. Il libro è contemporaneamente saggio e narrazione, tanto coinvolgenti sono le storie che lo compongono. Mostra con chiarezza come l’educazione, quando la competenza e l’impegno la sorreggono, sia davvero il mezzo più efficace per incamminarsi verso relazioni umane armoniose e reciprocamente accoglienti.

Gherardo Colombo

Francesco Pratesi, Criminal Bank, Laboratorio Gutenberg, 2012.

Non pretende di essere un’opera letteraria – “Del poeta è il fin la meraviglia…”-: ciò che stupisce in questo piccolo libro non è lo stile, la potenza delle immagini, la profondità dell’introspezione. Stupisce la storia raccontata, vera anche se camuffata in forma romanzesca. E stupisce perché legge dall’interno, dal punto di vista di un protagonista, un fenomeno le cui ripercussioni economiche e politiche sono su tutti i giornali: la trasformazione di un’attività indispensabile a far funzionare l’economia – la finanza, il trasferimento del risparmio dai centri di formazione a quelli di impiego – in un’attività tossica, puramente speculativa. Romanzi e film americani hanno già trattato di questa trasformazione e dei moventi dei suoi protagonisti. Di nuovo e di utile ci sono due cose. La prima è la collocazione casereccia della vicenda: la banca d’affari in cui il protagonista lavora è londinese, ma gli affari si svolgono in Italia, i titoli rischiosi sono piazzati in imprese, banche e amministrazioni pubbliche del nostro paese. La seconda è l’intento didascalico del racconto, che appesantisce lo svolgimento, ma permette di comprendere come le banche piazzano titoli ad alto rischio. C’è addirittura un piccolo glossario di termini tecnici, ma buona parte del romanzo, dei colloqui e dei contrasti tra i suoi personaggi, è imbevuta di spiegazioni su come l’intera faccenda funziona. Certo, c’è greed e cinismo da parte delle banche d’affari e dei loro piazzisti. Ma, accanto all’ignoranza dei piccoli clienti, c’è avidità e corruzione nei grandi: la vicenda centrale del romanzo, una grossa operazione con un’ipotetica (?) regione Sicilia, è molto istruttiva: difficile pensare che una truffa di questo genere avrebbe potuto coinvolgere un’amministrazione pubblica svedese.

Michele Salvati

Irene Bignardi, Storie di cinema a Venezia, Marsilio 2012.

Venezia: chi non avrebbe voluto una storia d’amore nata e vissuta in questa città? Tutti, ovviamente. Non meraviglia quindi che il cinema l’abbia prescelta: i film girati sulla Laguna sono qualche centinaio. E però non si tratta solo di una location come accade per altre pur importantissime città del cuore – Parigi o Roma, per esempio. Perché Venezia – come ci avverte Irene Bignardi che ha raccolto 20 storie di pellicole che le sono legate – non è uno scenario, uno sfondo: è coprotagonista. E forse,proprio leggendo questo libro, ci si rende conto che potremo tranquillamente togliere il “co” e dire che la città è la prima donna. Con mano ironica e leggera Irene Bignardi ci fa condividere i segreti dei film veneziani, fino a scoprire che molti ponti e canali e palazzi dove abbiamo visto baciarsi innamorati gli attori più famosi del mondo, sono in realtà virtuali, ricostruiti negli studios più disparati: alla Titanus di Roma la passeggiata notturna della contessa Serpieri e del tenente Mahler, al Lussemburgo la scenografia del “Mercante di Venezia” di Robert Redford, sulle colline di Asolo e non sul Canal Grande il palazzo del “Mercante” di Orson Wells. ”Estetica di necessità”, è stata chiamata, il modo come far tornare i conti della produzione per eludere le troppo costose riprese dal vivo. Solo il famosissimo Sommertime di David Lynch, su cui generazioni hanno versato molte lacrime, è tutto vero. L’anno successivo alla sua uscita, il turismo a Venezia era già raddoppiato.

Luciana Castellina

Valeria Parrella, Antigone, Einaudi 2012.

Quanti  sono  gli  adattamenti  e  le  rivisitazioni dell’Antigone?  Eppure,  questa,  appena  uscita, riesce a sorprendere per l’originalità e l’attualità. Questa Antigone, infatti, rischia la vita contravvenendo a un divieto che non è – come nell’Antigone di Sofocle – quello di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice. La legge che questa Antigone infrange vieta di staccare i tubi che da tredici anni pompano aria nei polmoni di Polinice, tenendolo addormentato – dice Creonte (chiamato “il legislatore) – “nel sonno chimico dal quale nessuno per legge, la mia legge, può trarlo fuori.” E’ nel problema odierno delle regole in materia di accanimento terapeutico che questa Antigone fa rivivere il dilemma tragico sofocleo. E accanto al dramma del fine vita propone un altro, non meno attuale e non meno tragico problema: a differenza dell’Antigone sofoclea, questa Antigone non muore suicida, dopo essere stata condannata a morte. Viene condannata all’ergastolo: la pena – vale la pena ricordarlo – che Cesare Beccaria, ritenendola ancor più temibile della morte, proponeva di sostituire alla pena capitale per i (pochissimi) crimini per i quali riteneva che questa fosse ammissibile. E alla quale Antigone del duemila si sottrae suicidandosi.

Eva Cantarella

Alessandro Golinelli, L’amore semplicemente, Frassinelli, 2012.

Il libro  racconta il  disperato amore di due adolescenti  a Mauthausen nel 1944, lei una liceale, lui un diciassettenne prigioniero russo. Separati dalla violenza nazista, si cercano disperatamente tra terribili  pericoli e spaventose violenze, e nei loro fuggevoli incontri – fatti di sguardi e di pochi gesti muti – nutrono un amore più grande del male che li circonda. Passione, ingenuità, tenerezza formano un tessuto affettivo commovente grazie alla capacità di scrittura di Golinelli che dona a ogni pagina un spessore visivo appassionante. Una storia d’amore che fa trattenere il fiato e battere più forte il cuore. Un romanzo che non si può non leggere fino in fondo.

Augusto Bianchi

Raul Montanari, Il Cristo Zen, Indiana 2012.

Si legge per passare il tempo, per distrarsi, per identificarsi,  per approfondire,per sognare e per conoscere qualcosa di diverso. Qualcosa che ignoriamo. La lettura che mi piace di più in questi ultimi anni è quella dove imparo e che mi apre nuovi scenari della conoscenza. Prima dell’estate mi è capitato fra le mani un librino di Raul Montanari, edito da Indiana, la nuova casa editrice di Bernardino Sassoli. Sono stata attratta dal titolo, inquietante e promettente: Il Cristo Zen. L’autore confronta le due verità religiose, così primitive, così forti. Appare subito chiaro, dai primi confronti, che certe intuizioni dei maestri zen e dello stesso Buddha le ritroviamo nelle parole e nei comportamenti di Gesù. Come se il Nazareno, prima di parlare nel tempio di Gerusalemme, avesse ascoltato Siddartha che insegnava ai suoi cinque discepoli a Benares. Sono arrivata alla fine di quelle 135 pagine con la voglia di saperne di più. L’Unione Lettori mi ha aiutata e ho potuto presentare  Il Cristo Zen nella sala del Grechetto, rivolgendo le mie domande ad un sacerdote e un maestro Zen, davanti a una platea incantata e interessata. Non c’è stata una risposta precisa, però nessuno ha negato che il figlio di Giuseppe e Maria, prima di diventare figlio di Dio, abbia a lungo viaggiato.

Lina Sotis

Jaume Cabrè, Le voci del fiume, la Nuova Frontiera, 2007.

Jaume Cabrè, scrittore catalano non conosciuto in Italia quanto meriterebbe, scrive libri da quasi 40 anni fa. Ne ha impiegati sette per scrivere Le voci del fiume, “cominciando senza sapere dove sarebbe arrivato” e modellando i personaggi per strada. E’ un romanzo difficile da raccontare perché, tra narrazioni dirette e indirette e continue oscillazioni tra passato e presente, racchiude tante storie. Tre sono i protagonisti principali: Oriol Fontelles, un giovane maestro che nell’inverno del 1944 si trasferisce per lavoro a Torena, un paese sperduto tra i Pirenei vicino al quale scorre il fiume Panamo, testimone delle voci di chi è vissuto e morto vicino alle sue sponde; Elisenda Vilabrù, l’ambigua e potente nobildonna del posto con cui Fontelles intreccia una relazione dopo che la moglie, alla vigilia della nascita della figlia che lui mai conoscerà, lo abbandona per la sua contiguità ai franchisti locali; Tina Bros, una professoressa che sessant’anni dopo scopre a Torena, nella scuola dove Oriol insegnava, nascosti dietro una lavagna, i quaderni su cui il maestro aveva scritto la sua storia, sperando che la figlia sconosciuta potesse un giorno leggerla. Sarà così Tina Bros a svelare il segreto del tardivo riscatto di Oriol e delle circostanze della sua morte a trent’anni, celate per tanto tempo da quel “Caìdo por Dios y por Espana” inciso sulla lapide della sua tomba per volere dei franchisti. Cabrè racconta così la tolleranza della chiesa cattolica di fronte al franchismo, ma anche le storie, le passioni e i ricordi di quanti vivono o passano per Torena, un coro di voci e di anime che grida l’impossibilità di dimenticare il male e la difficoltà di perdonare anche dopo la morte. “Sai figlio? -dice Serrallac, l’artigiano di Torena, fabbricante di lapidi – I cimiteri dei paesini mi hanno sempre fatto pensare alle fotografie di famiglia: tutti si conoscono e tutti stanno fermi, uno accanto all’altro per sempre, ognuno con lo sguardo fisso sul proprio sogno. E con gli odi disorientati da tanta quiete”.

Armando Spataro

Luciana Castellina, Transiberiana, Nottetempo 2012.

Un libro che racconta, in modo disincantato e semplice, critico e nostalgico, un viaggio sulla Transiberiana soffermandosi sulle tappe che, di città in città, progressivamente allontanano da Mosca e si immergono  nell’enorme  estensione  della  Russia asiatica. È il racconto di un viaggio non solo nella realtà di un paese quasi sconosciuto, ma anche nella letteratura, nella politica, nella storia, nella sconosciuta modernità di molte città siberiane; poi, è anche un viaggio nei ricordi di una testimone attivamente e dolorosamente partecipe del disgregarsi dell’Unione sovietica e delle promesse della Rivoluzione d’ottobre.

Annelise Klein

William Gibson, Zero History, Viking 2011.

Con questo titolo allusivo, William Gibson, il geniale cantore del mondo delle piattaforme digitali e inventore del termine cyberpunk prosegue la Blue Ant trilogy iniziata con Pattern recognition (2003) che combina il mondo creativo e maniacale della moda, della pubblicità, dei designers e delle bands musicali, con il mondo maniacale delle grandi zaibatzu mondiali, con le loro limo blindate, gli eserciti privati della security e il mondo maniacale dei servizi segreti, dello spionaggio elettronico e del commercio delle armi, tutti legati dalle prospettive maniacali di fare quantità maniacali di denaro.

La storia gira attorno alla ricerca di una misteriosa disegnatrice di moda che produce capi introvabili di squisita fattura. Ben presto la storia si complica perché Bigend, il boss fisicamente e politicamente sovrumano della Blue Ant, l’agenzia tuttofare che si occupa dell’affare, inciampa in un traffico di armi mondiale mentre sta cercando a sua volta di ottenere una commessa militare per uniformi da squadre speciali firmate da famosi designers. Non aggiungo altro per non svelare troppo di una trama che riserva una sorpresa a ogni capitolo, se non a ogni pagina. Leggetelo: potrete imparare un sacco di cose interessanti e di irrelevant trivia, aggirandovi con il geniale Gibson, vero radar per le tendenze della contemporaneità, nel sottomondo dei negozietti tra Noho, Soho (quello originale, non quello South of Houston) e le bancarelle di Akihabara, dove una popolazione maniacale ricicla gli scarti materiali e umani di una maniacale economia mondiale del consumo, mescolando lowlife e high tech.

Guido Martinotti

Brady Udall,  The Miracle Life Of Edgar Mint, Norton 2012.

“If I could tell you only one thing about my life it would be this: When I was seven years old the mailman ran over my head.” So begins a remarkable, sometimes compelling and sometimes overly written American novel of Indians, Mormons [adulterous and otherwise] and “half breeds” [Edgar is half Apache and half white.]  The un self-consciously heroic young boy is saved from a likely endlessly hellish life by cantankerous hospital mates and an old Hermes   typewriter that   allows him to write his way out of his daily world. Udall’s first novel could have been only   horrifying with its graphic  descriptions of Edgar’s bullied life in an Indian school, its killings, and parents who disappear or drink themselves into forgetting their children. But as you wince, you also laugh and ultimately see a Dickens world [with a Ken Kesey touch] lead to an end that is quite different from the road to it. Edgar is admonished at one point, “Don’t go bad Edgar.” He both does and doesn’t.

Joseph DiMento

Vasilij Grossman, Il bene sia con voi!, Adelphi 2011.

‘Il bene’. C’è qualcosa di più grande, di più nobile e di più difficilmente definibile? Di questi tempi, poi, se ne fa un gran parlare, quasi che il male sia ovunque e per trovare il ‘bene’ abbiamo tutti bisogno della bussola. In nove racconti l’autore enumera altrettante situazioni ove il bene viene messo sotto la lente di ingrandimento. Ne esce una incrollabile fiducia nella bontà della natura umana, idea che a Machiavelli faceva venire il mal di pancia. Perché secondo Grossman il bene è la risorsa individuale che, se coltivata, garantisce la sopravvivenza dell’essere umano a se stesso, senza necessità di mediazioni sovrastrutturate: “la bontà autentica non conosce forma e formalità, non si cura di concretizzarsi nei riti, nelle immagini, non cerca la forza del dogma; sta dove c’è un cuore buono. Credo che il buon Dio dei cristiani celebri la sua vittoria anche nella bontà dei pagani, nello slancio di carità del non-credente, dell’ateo, nella benevolenza di un eterodosso”. E allora, è ‘buono’ il vecchio maestro (dall’omonimo racconto) che pur conscio dell’inevitabile massacro cui va incontro protegge i suoi fratelli ebrei perseguitati dai nazisti. Ed è ‘buono’ il compagno di studi un pò più stupido degli altri che però è capace di gesti d’amore che rendono più bella la vita a chi li riceve (‘Fosforo’). Infine c’è il viaggio in Armenia, appassionato resoconto di un grandissimo scrittore che si sentiva piccolo piccolo solo perché non riusciva ad avere il successo che sarebbe arrivato postumo. Era il 1961 quando pubblicò ‘Vita e Destino’, subito ritirato dal commercio: decisamente troppo presto per denunciare l’oppressione sovietica nel proprio paese.

Giulia Gavagnin

Salvatore Giannella, RiCostituiamoci. La Costituzione italiana e le sue tre anime, Castello Volante, 2012.

C’è  chi  l’aveva  data  per  dispersa:  “Eccezionale scoperta archeologica. Ritrovata la copia di un antico testo: La Costituzione italiana non era solo una leggenda”, titolava di recente l’inserto satirico di un noto quotidiano. Proprio alla Costituzione è dedicato questo e-book dal titolo che è anche un invito: “RiCostituiamoci”. In un momento di crisi economica internazionale e di profonde crisi istituzionali e politiche interne, la Costituzione italiana è più che mai attuale. Da ormai un ventennio aleggia nel nostro Paese un pensiero trasversale che considera la Costituzione come qualcosa di invecchiato, da ritoccare e aggiornare. Quel che è peggio, in certi ambienti si è insinuata l’idea che i valori che sono alla base dell’Italia non siano i valori di tutti, ma contengano posizioni estremizzate, “comuniste”, nel senso antistorico con cui questo termine è stato rozzamente impiegato negli ultimi anni. L’autore, attraverso interviste e parole raccolte dai Costituenti, ricostruisce il dibattito che ha portato alla stesura di un testo nato dall’accordo dei rappresentanti degli italiani usciti dalla devastazione della guerra e del fascismo. E mostra come la Costituzione sia la sintesi e l’unione di un paese in cui sono confluite tre anime: quella cattolica ricostruita dalla testimonianza di Tina Anselmi; quella comunista raccontata da Nilde Iotti; e quella liberale e repubblicana spiegata da Giovanni Ferrara. A completamento, il famoso discorso di Pietro Calamandrei sulla nostra “legge delle leggi”.

Lucio Labianca

Joseph Roth, Tarabas. Un ospite su questa terra, trad.it. Adelphi 1979.

È forse il più dostoievskiano dei romanzi di Joseph Roth. Lo studente rivoluzionario diventato crudele soldato assiste senza reagire a un pogrom provocato dai suoi uomini. E finisce per punirsi con un vagabondaggio di fame e miseria che lo conduce alla morte. La letteratura tragica e splendente dell’autore della Marcia di Radetzky raggiunge in questo romanzo di furori e di passioni uno dei punti più alti. Dalla sua terra di Galizia, la scrittura di Roth, fra le più straordinarie fra quelle della lingua di Goethe, fa emergere i sinistri bagliori di un secolo feroce.

Pasquale Pasquino

e le mie

Adrian Desmond James Moore, La sacra causa di Darwin. Lotta alla schiavitù e difesa dell’evoluzione, Cortina 2012.

Il disegno di Darwin sull’evoluzione e della selezione naturale dipende dalle osservazioni e dalle intuizioni provocate dal viaggio sul Beagle alle Galapagos, come vogliono le stereotipe biografie tradizionali cui siamo tutti abituati? Questo libro offre un’altra, avvincente spiegazione, che rintraccia, attraverso l’esame di lettere, appunti e scritti giovanili, una dimensione sconosciuta di Darwin: il suo grande, anche se, come era nella sua natura, schivo e non appariscente, impegno nel movimento per l’abolizione della schiavitù, un movimento cui appartenevano la moglie e molti suoi famigliari. Secondo gli autori di questo libro tradotto finalmente in italiano, è proprio dall’obiettivo di dimostrare, utilizzando anche i piccioni, la discendenza dell’uomo, nero o bianco che sia, da antenati comuni e quindi la stupidità delle teorie, assai diffuse, che volevano giustificare biologicamente la schiavitù con una inferiorità naturale dei neri, che Darwin intraprende le ricerche che poi lo porteranno a formulare, e a tenere nascoste per decenni, le teorie che hanno cambiato la storia del mondo. Il libro offre così, insieme a un inatteso panorama dell’effervescenza della società vittoriana, soprattutto nella sua componente femminile, una coinvolgente ricostruzione delle origini del percorso che ha portato Darwin a formulare le sue teorie.

 

UNA LETTERA DA KAMPALA

Alcuni anni fa, avevo chiesto per mezzo dei Testi Infedeli un aiuto ai lettori per finanziare un piccolo ospedale in Uganda ove sono assistite per lo più donne affette da HIV con i loro bambini. L’iniziativa, anche in quel caso promossa dal mio amico Piero Pomponi, un grande fotografo che ha la sua base a Kampala, ha avuto un successo al di là di ogni aspettativa: con il ricavato sono state assistite molte degenti e sono state rinnovare alcune attrezzature dell’ospedale. Ora, ho ricevuto questa lettera da Piero e ho pensato di tornare alla carica con i miei lettori vecchi e nuovi.

Potete versare le vostre offerte (basta poco, come spiega la lettera) sul conto bancario indicato nella pagina seguente, dando nel contempo avviso del versamento a Piero all’indirizzo pieropomponi@ yahoo.com che vi confermerà di aver ricevuto la somma. Nel prossimo fascicolo darò notizia degli sviluppi del progetto. Nel frattempo, guardate alcune stupende foto sul sito www.pieropomponi.net/).

Caro Stefano,

Insieme a un volontario ugandese, Jimmy Agaku, e a Suor Maria Goretti Kemirembe, ho organizzato il progetto MKATE na MAZIWA in swahili, “PANE E LATTE”. Tre volte alla settimana distribuiamo nelle baraccopoli intorno a Kampala (Makyndie, Kireka, Nakasero Market e Bombo road) pane e latte con nesquik ai bambini (qualche centinaio) che vivono per strada. molti affetti da HIV_AIDS. Finora ho sovvenzionato io con alcuni amici qui del posto l’intero progetto, ma ora ho bisogno di aiuto. Basta poco: con due euro riusciamo a comprare tre chili di pane, alcuni litri di latte e il nesquik.

A presto, Piero.

Nome beneficiario: Piero Pomponi

Causale “mkate na maziwa project “

Numero conto corrente bancario: 0141033380400

C/o  crane bank, ltd – kampala-uganda-(swift:

cranugkaxxx)

Account number: 9580200 00 Attraverso:

Deutsche Bank ag, Frankfurt\Main

Sort code:  500 700 10 swift: deutdeffxxx

Iban: de97 5007 0010 0958 0200 00

Questo quarantaduesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2012 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Grafiche Porpora srl di Segrate, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – ma non sempre integralmente – il pensiero dell’autore. Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive. I Testi Infedeli escono dal 1989. Ringrazio per i suggerimenti Salvatore Giannella, Marina Nespor, Pasquale Pasquino.