N. 30 estate 2006

LA COPERTINA
Ragazzi africani a Bulungula
(Transkei, Sud Africa) di Stefano Nespor
Dipinto con colori a olio solubili in acqua
Winsor&Newton e matite, su tela

 

L’INDICE
In questo trentesimo volume dei Testi infedeli troverete
alcuni scritti sul tema dell’Europa e dei
suoi valori oggi (Europa oggi) e ieri (Storie di
famiglie e altre storie d’Europa e Aberratio ictus:
Lisbona 1755; quest’ultimo tocca anche uno dei
temi abituali, quello dell’eresia e degli eretici);
infine, Spagna 1807 – Iraq 2005 e Teoria e prassi
del terrorismo di stato toccano temi caratteristici
della storia europea, dalle Crociate in poi: quello
dell’esportazione della civiltà e della tecnologia
bellica. L’ultimo testo offre anche la possibilità di
riflettere sulle persone cui sono affidate le missioni
di pace internazionali nel nostro paese. Al tema dei
valori e dei consumi toccato in Europa oggi si
ricollega Un diamante è per sempre.
Ci sono, come al solito, molte poesie: di una
importante, e poco conosciuta in Italia, poetessa
argentina (Alejandra Pizarnik), di un poeta russo
morto giovanissimo qualche anno fa (Boris Ruzuj),
di una poetessa americana che ha legato le sue
poesie alla musica jazz (Ruth Weiss, con un ricordo,
nelle note biografiche, di altre due importanti
Ruth Weiss, che hanno avuto un destino singolarmente
analogo).
Il volume si chiude con un provocatorio invito di
Indro Montanelli.
Questo volume è dedicato anche all’Africa. C’è infatti,
oltre alla copertina, un appello ai lettori
riguardante una iniziativa in un piccolo villaggio
ugandese, Luweero. Inoltre, c’è anche un segnalibro
“sahariano” offerto da Spazi d’Avventura.

 

EUROPA OGGI
Scarpe Geox o Tods, cellulare Blackberry, il solito
Rolex da finestrino, la borsa di Prada, il vestito di
Armani, l’acqua di colonia Bulgari, la casa in
Sardegna proprio di fronte al mare, la settimana
alle Maldive e quella alle terme (con dieta rigidissima),
il televisore al plasma 60 pollici, il SUV per
portare i figli a scuola, il navigatore satellitare per
andare al supermercato.
La ricerca dell’individualità da parte dei proletari
dello spirito è continua ed insaziabile. Si tratta di
comporre in un pacchetto originale, magari con
piccole variazioni non usuali, tutti gli elementi
imposti dalle mode del consumo. Lo sforzo non ha
mai fine, e richiede un’attenzione sempre vigile: la
moda cambia di giorno in giorno e l’aspettativa di
vita del desiderio di oggetti di consumo è brevissima.
Il proletario dello spirito, man mano che crea il
suo pacchetto, si accorge che ciò che credeva unico
è in realtà già diffuso tra tutti quelli da cui vuole
distinguersi. La transitorietà e la novità hanno sostituito
la durata come valore: il fatto che un bene
sia di brevissima durata crea non insoddisfazione,
ma piacere, perché permette di cambiarlo velocemente
con un altro più aggiornato. Il valore del
bene è dato non tanto dai suoi pregi, quanto dai
suoi limiti.
Come per Sisifo, la creazione della individualità
finisce sempre per autodistruggersi e per creare un
pacchetto uguale a quello di tutti gli altri. Ma i proletari
dello spirito non si arrendono, continuano la
loro ricerca, sempre in bilico tra agognata individualità
e appiattimento nella massa.
Non possono arrendersi: un cedimento li
sposterebbe irrimediabilmente da instancabili produttori
di desideri inutilmente realizzati e quindi di
rifiuti, ad oggetti abbandonati nella discarica dove
i rifiuti si accumulano e minacciano, giorno dopo
giorno, di travolgerli.
All’altra estremità stanno i detriti della globalizzazione.
Sono fuggiti dai loro paesi dell’Africa,
dell’Asia e dell’America Latina dove le terre abitate
dai loro genitori sono state trasformate in
parchi naturali o campi da golf per i ricchi abitanti
dell’Occidente, dove le foreste sono vigilate da
guardie armate per conservare la biodiversità, dove
i campi un tempo coltivati si sono inariditi, dove
l’acqua ormai manca e i pozzi sono avvelenati per
l’inquinamento prodotto da scavi e trivellazioni
alla ricerca di petrolio e minerali per sostenere i
desideri dei proletari dello spirito, dove guerre e
guerriglie devastano le ultime possibilità di sopravvivenza.
Giungono nel mondo ricco, ma si arenano alla sua
periferia: in fabbriche abbandonate, in baracche
che ogni tanto bruciano, sui marciapiedi. Non consumano,
non hanno desideri salvo quello di sopravvivere
e, se possibile, di mandare qualche aiuto a
parenti rimasti a casa. Si può pensare che i proletari
dello spirito alla inutile ricerca di individualità e i
detriti della globalizzazione che non sono neppure
individui non potrebbero essere più diversi e più
lontani. Eppure, hanno un destino comune: per
scelta o per necessità sono tutti uguali, alla fine si
distinguono solo per il colore della pelle.
Su questi temi si veda ZYGMUNT BAUMAN,
Vita liquida, 2006, autore anche di Le sfide dell’etica,
Feltrinelli, 1997.

 

ABERRATIO ICTUS: LISBONA 1755
Lisbona, 1 novembre 1755, Giorno di Ognissanti.
Nella tarda mattinata una scossa di terremoto che dura
dieci minuti distrugge una delle città più ricche e
popolose d’Europa (con oltre 250.000 abitanti era la
quarta in ordine di grandezza, subito dopo Napoli).
È la prima catastrofe dell’Europa moderna. Ciò che
appassiona, unisce e divide tutta l’Europa non sono
però i temi oggi abituali del soccorso, della
ricostruzione, delle responsabilità politiche, ma
quello delle cause della catastrofe: si sviluppa tra
Francia, Inghilterra, Austria, Germania e Italia un
serrato confronto tra religione e illuminismo, tra
superstizioni e scienza, ma anche tra diversi orientamenti
religiosi.
In Francia, si accapigliano Voltaire e Rousseau. Il
primo scrive un Poeme sur le desastre de Lisbonne
riprendendo uno dei suoi temi abituali: non è vero
che tutto ciò che accade corrisponde al volere di
Dio e quindi è la migliore delle soluzioni possibili.
Gli risponde con una polemica lettera Rousseau,
secondo il quale la questione non è se tutto accade
per il meglio o meno: non erano stati Dio o la
Natura a addensare più di ventimila case in uno
spazio ristretto, ma gli uomini e i governi. Se gli
abitanti fossero stati più intelligentemente distribuiti
sulle superfici a disposizione, i danni
sarebbero stati di ben minore entità.
Per gli atei, la catastrofe rivela l’assenza di Dio: se
fosse esistito, non sarebbe dovuto intervenire per
salvare dalla distruzione una delle città più religiose
del mondo?
Per i religiosi, la catastrofe rivela invece la presenza
di Dio ed è un suo castigo: già San Filastrio,
vescovo di Brescia aveva avvertito nel IV secolo
che “è eresia pensare che il terremoto sia fatto non
dalla volontà e dall’indignazione di Dio, ma dalla
natura”. Ma: chi viene punito?
Per il movimento protestante europeo,
dall’Inghilterra alla Germania, la punizione divina
era diretta contro il fanatismo religioso dei portoghesi,
dei gesuiti e dell’Inquisizione. Per il giansenista
francese Laurent-Etienne Rondet (autore delle
Réflexions sur le Désastre de Lisbonne) Dio aveva
lanciato un avvertimento affinché l’Europa non
seguisse l’esempio di Spagna e Portogallo e tornasse
ad una maggiore tolleranza.
L’opinione della Chiesa cattolica e dei Gesuiti era,
invece, che Dio avesse inteso punire il comportamento
lussurioso e peccaminoso degli abitanti di
Lisbona.
Particolarmente attivo era il gesuita Gabriel
Malagrida. Nato in Italia, a Menaggio nel 1689
(nella chiesa parrocchiale è stato eretto nel 1887 un
monumento commemorativo), missionario per
molti anni in Brasile, era ritornato a Lisbona nel
1751.
Malagrida predicava: “Sappi o Lisbona, che il
distruttore delle nostre case, palazzi, chiese e
conventi, la causa della morte di tanta gente e
delle fiamme che hanno divorato così ricchi
tesori, sono i tuoi abominevoli peccati, e non
comete, stelle, vapori ed esalazioni, e simili
fenomeni naturali”.
Certo è che, se Malagrida aveva ragione, Dio
aveva, sia pur di poco, sbagliato mira: le lussuose
case dei ricchi erano state risparmiate, mentre
erano stati rasi al suolo i quartieri più poveri. Un
caso tipico di aberratio ictus.
Una conferma però delle tesi di Malagrida era
offerta da diecine di crocifissi miracolosamente
rimasti illesi tra le macerie, da immagini che
piangevano, da una statua della Madonna saltata in
un pozzo per recuperare delle offerte scomparse
durante il terremoto, da numerosi miracoli compiuti
da Sant’Antonio da Padova (portoghese di nascita)
per salvare gli abitanti di Lisbona.
Due stranieri, provenienti da un paese vicino a
Praga un tempo famoso per le sue miniere d’argento,
si erano permessi di dubitare dell’origine
soprannaturale della catastrofe e invitavano a cercare
tra le macerie i sopravvissuti e non i crocifissi.
Furono fatti a pezzi e bruciati da una folla incitata
da Malagrida a punire gli eretici osservando
che “è scandaloso pretendere che il terremoto sia
stato solo un evento naturale, perché se questo
fosse vero, non ci sarebbe bisogno di pentirsi e cercare
di evitare la collera di Dio…”.
In questa difficile situazione, il re Don José ebbe
una coraggiosa intuizione: affidò la gestione della
catastrofe al suo ministro Sebastiao José de
Carvalho y Mello.
Il futuro Marchese di Pombal, seguace dei principi
dell’Illuminismo appresi mentre era ambasciatore
in Gran Bretagna e in Austria, da tempo cercava di
modernizzare il Portogallo. “Seppellire i morti e
sfamare i vivi” è la celebre risposta che diede alla
richiesta del re su che cosa si sarebbe dovuto fare,
escludendo che si dovesse cominciare con il
ricostruire le chiese.
In pochi anni ricostruì Lisbona, suscitando l’ammirazione
di tutta Europa e superando gli enormi
ostacoli frapposti alla sua opera da Malagrida e da
coloro che lo ritenevano un inviato del demonio.
Poi, quando considerò concluso il suo compito,
Pombal regolò anche i conti con il suo principale
avversario. Con macabro umorismo, utilizzò le
stesse armi del nemico: accusò il gesuita Malagrida
di varie eresie (tra cui rapporti con il diavolo) e di
complotti con gli spiriti maligni contro il re.
Al termine del processo, il 21 settembre 1761, il
gesuita, ritenuto colpevole utilizzando le stesse
regole applicate dall’Inquisizione, fu strangolato e
poi bruciato, di notte, al chiarore delle fiaccole.
Grande fu lo sdegno della Chiesa cattolica: non
certo perché era stato ucciso un innocente utilizzando
regole processuali assurde, né perché era
stato bruciato un uomo, ma perché Malagrida non
era un eretico.
È vero. Come con il terremoto, ancora una volta, a
Lisbona Dio – utilizzando la mano del Marchese di
Pombal – aveva sbagliato obiettivo: un altro inquietante
caso di aberratio ictus. ◗
Sul terremoto di Lisbona: ROBERT K. REEVES, The
Lisbon earthquake of 1755: confrontation between the
church and the enlightenment in eighteenth-century
Portugal, in www.dickinson.edu/~quallsk/
thesis_reeves.doc; RITA GOLDBERG, Voltaire,
Rousseau, and the Lisbon Earthquake in
Eighteenth Century Life, 1989, pag.1-20. Sul
Marchese di Pombal la migliore biografia disponibile
è: KENNETH MAXWELL, Pombal:
Paradox of the Enlightenment, Cambridge
University Press, 1995. Sui terremoti in genere:
EMANUELA GUIDOBONI, I terremoti prima del
Mille in Italia e nell’area mediterranea, Storia
Archeologia Sismologia, ING-SGA Bologna 1989.
Su Gabriel Malagrida: PAUL MURY, Histoire de
Gabriel Malagrida, Parigi, 1884, tradotta in
tedesco nel 1890 e più recentemente in portoghese,
di cui è coautore CAMILO CASTELO BRANCO;
SILVIA GUZZETTI, Un italiano il primo santo
del Brasile?, in Jesus, n. 1/1992. In Brasile è stato
anche realizzato nel 2000 un film-documentario
sulla sua vita dal regista Renato Barbieri. Una
copia degli atti del processo, tradotta in olandese
dall’originale, si trova nella biblioteca pubblica di
Amsterdam.

 

SEI POESIE DI ALEJANDRA PIZARNIK

Innamorata
Questa lugubre mania di vivere
Questa burla nascosta di vivere
Ti ghermisce Alessandra, non negarlo
Oggi ti sei guardata nello specchio
Ed eri triste, eri sola
La luce splendeva l’aria cantava
Ma il tuo amore non era venuto
Gli manderai messaggi, sorriderai
Vibreranno le tue mani e così verrà
Il tuo amore così amato
Odi la folle sirena che se lo portò via
la barca con schizzi di schiuma
dove si spensero le risa
ricorda l’ultimo abbraccio
oh niente angosce
ridi tra le lacrime, piangi in mezzo a risate
ma chiudi le porte del tuo volto
perché poi non dicano
che quella donna innamorata eri proprio tu
ti crucciano i giorni
ti affliggono le notti
ti fa male la vita, tanto, tanto
disperata, ma dove vai?
Disperata, basta.

Da: L’albero di Diana
V
per un minuto di vita breve
unica a occhi aperti
per un minuto poter vedere
nel cervello piccoli fiori
che danzano come parole sulla bocca di un muto
VI
lei si spoglia nel paradiso
della sua memoria
lei non conosce il destino feroce
delle sue visioni
lei ha paura di non saper nominare
ciò che non esiste
VII
Salta con la camicia in fiamme da stella
a stella, da ombra in ombra. Muore di
morte lontana quella che ama il vento.
XI
ora
in quest’ora innocente
io e colei che fui ci sediamo
sulla soglia del mio sguardo

Alba
Mi spoglio sognando una notte solare
Sono rimasta distesa per giorni animali
Il vento e la pioggia mi hanno annientato
Come un fuoco, come una poesia
Scritta su un muro.

Soli e piogge
A chi ritorna in cerca del suo antico cercare
la notte si chiude come acqua su una pietra,
come aria su un uccello,
come si uniscono due corpi che si amano.
La parola e l’esilio:
copri con un canto la fessura,
sorgi nell’oscurità come un corpo che annega,
avvolgi con il canto la fessura, la fenditura,
la lacerazione.

La solitudine
La solitudine non è non poterla dire
Per non poterla abbracciare
Per non poterle dare un nome
Per non poterla rendere sinonimo di un paesaggio.
La solitudine è questa melodia frantumata delle
mie frasi.

Innamorata è tratta da La última inocencia, 1956;
Alba è tratta da Los trabajos y las noches, 1965;
L’arbol de Diana è del 1962. Soli e piogge e La
solitudine sono contenute nella raccolta
1970\1971.
Alejandra Pizarnik è nata a Buenos Aires il 29
aprile 1936 in una famiglia di emigranti
dall’Europa orientale. Ha studiato filosofia e lettere
e, più tardi, pittura. È vissuta tra il 1960 e il 1964 a
Parigi, dove ha frequentato Julio Cortazar e ha
tradotto Antonin Artaud, Henri Michaux, Aimé
Cesairé e Yves Bonnefoy. Tornata in Argentina, ha
pubblicato Los trabajos y las noches, Extracción
de la piedra de locura e El infierno musical e un
lavoro in prosa La condesa sangrienta. Muore Il 25
settembre del 1972, probabilmente suicida,
ingerendo una dose eccessiva di sonnifero. Si
vedano per maggiori informazioni due siti dedicati
alla poetessa: http://www.cibernetic.com/ALE/ e
http://pizarnik.iespana.es/

 

STORIA DI FAMIGLIA
E ALTRE STORIE D’EUROPA
Gustav Nespor era un medico radiologo nella
Marina austroungarica.
Lamentandosi con suo figlio di quanto fosse cambiata
l’Europa, gli raccontava durante la prima
guerra mondiale del tempo felice nel quale,
qualche decennio prima, avendo come unico documento
d’identità il tesserino universitario, partendo
da Praga era arrivato in Spagna passando dalla
Germania e dalla Francia.
Mio padre mi riferiva questo episodio con tristezza e
incredulità: per molti anni si era ritrovato in Italia
privo di documenti e impossibilitato a recarsi all’estero
se non con permessi speciali e temporanei, fino
all’ottenimento della cittadinanza italiana.
Quei tempi sono, da poco, tornati.
Racconta Navid Kermani, il filosofo e esperto di
islamismo tedesco, di aver digitato sul route planner
del suo portatile prima “Capo Nord” e poi
“Tarifa”, la città più a sud della Spagna. Il portatile
annuncia il risultato con delle bandierine: da Capo
Nord per 700 metri su una strada locale, poi due
volte a sinistra e dopo 280 metri immettersi sulla E
69. Dopo 5930,20 chilometri, dalla N5 spagnola si
svolta a sinistra sulla CN 340, che dopo 400 metri
diventa la Avenida Mirador de los Ríos. Seicento
metri e si entra a Tarifa.

La durata del viaggio è 7 giorni, 3 ore e 57 minuti.
Non sono segnalati controlli alla frontiera: 5931
chilometri, cinque passaggi di frontiera, ma nessun
controllo. Cinquant’anni fa, nessuno avrebbe
ritenuto possibile quello che sia oggi – e sia centocinquant’anni
fa – era naturale: un’Europa senza
frontiere.
Ricorda ancora Kermani che Stefan Zweig, nel
1932, l’anno prima della presa del potere da parte
di Hitler, vedeva con terrore la crescente potenza
delle forze nazionalistiche, “la forza dei piccoli
interessi dai pensieri brevi che combattono le
grandi idee, la violenza dell’egoismo contro lo
spirito della fraternizzazione”; constatava con
dolore che “l’isolamento tra Stato e Stato, in
Europa” era divenuto “più forte, più veemente,
più consapevole, più organizzato”. Zweig non era
certo il solo, in quel cruciale 1932, a riflettere sulle
condizioni d’Europa: di quell’anno è il Discorso
alla nazione europea di Benda che, pur negando
che una idea di Europa fosse mai esistita (del resto,
già Erodoto confessava di non sapere nulla sulle
origini di questo nome e di non essere in grado di
individuare con esattezza il territorio cui il nome si
applica), avvertiva l’esigenza di una unità europea;
in quello stesso anno vi sono, sul tema dell’Europa,
due convegni internazionali: a Parigi a cura
dell’Accademia diplomatica internazionale e a
Roma promosso dalla Fondazione Alessandro
Volta (ad entrambi partecipa attivamente Zweig; a
Roma, lo studioso di storia del diritto romano
Pietro Bonfante fece scalpore parlando della
necessità di una cittadinanza europea).
Zweig non si faceva certo illusioni sul rapporto di
forze allora esistente tra i particolarismi nazionali e
l’idea sopranazionale europea, tra l’odio e il
fanatismo e la visione di una varietà culturale e linguistica
all’interno di una comunità politica, e si
chiedeva angosciato: “Credo che sentiamo oggi,
tutti e ovunque, l’elettricità che si sviluppa dall’attrito
degli opposti. Sentiamo tutti, fin dentro i nostri
nervi, che nei prossimi anni una delle due tendenze
dovrà avere definitivamente il sopravvento. Quale
vincerà? L’Europa continuerà la propria autodistruzione
o saprà unirsi?». Conosciamo purtroppo
tutti la risposta a questa domanda. Pochi anni dopo,
Stefan Zweig dovette fuggire e stabilirsi, dopo varie
peripezie, in Brasile. Lì, pensando che quello Stato
europeo che aveva sempre sognato si stesse sì realizzando,
ma con la mostruosa mutazione del Reich
hitleriano, si uccise, proprio quando i segni premonitori
della sconfitta erano ormai evidenti agli occhi
degli esperti. Era il 23 febbraio 1942.
Oggi il sogno di Stefan Zweig “di questo ancora
inesistente Stato europeo, e di sentire come una
cosa sola, fraternamente, il nostro molteplice
mondo” è una realtà: Stefan Zweig alla fine ha
vinto.
Naturalmente Gustav Nespor non ha potuto
rivedere i tempi felici della sua infanzia: è morto
molto prima, nel 1932, nello stesso anno in cui
Zweig ribadiva la sua fede europea.
È morto a Kutna Hòra, nella piccola città non lontano
da Praga dove era nato e dove era ritornato
dopo la dissoluzione dell’Impero austroungarico e
la creazione del nuovo stato cecoslovacco (ora a
sua volta scomparso): una città adatta a chi ricordava
l’Europa senza frontiere: per molto tempo ne
era stata uno dei simboli.
Nel Medioevo, fino alla metà del XVI secolo,
infatti, la maggior parte delle monete d’argento circolanti
in tutta Europa erano coniate con il metallo
proveniente dalle ricchissime miniere collocate nei
pressi di quella città. Poi la scoperta dell’America
e il successivo afflusso in Europa di oro e argento
in enormi quantità a costi ridotti determinarono la
decadenza della città, non essendo più competitiva
l’estrazione dell’argento dalle miniere locali.
Di quel periodo restano molti monumenti di pregio
che segnano l’interscambio culturale europeo.
Il più importante è il Vlassky dvúr, cioè la Corte
progettata all’inizio del XIV come zecca e così
chiamata per la partecipazione di artisti e artigiani
italiani alla costruzione e di esperti toscani per le
norme di conio.
Oltre agli aspetti economici e artistici, c’è un aspetto
spirituale che segna la centralità europea di
Kutna Hòra: la chiesa dei monaci cistercensi di
Sedlec, costruita tutta con ossa umane provenienti
da ogni paese d’Europa.
La storia di Sedlec comincia nel 1278, allorché
Enrico, un monaco cistercense, parte per la
Palestina. Lì Enrico raccoglie una manciata di
terra, la riporta a Kutna Hòra in una piccola anfora
e la sparge sul terreno ove era collocato il minuscolo
cimitero della chiesa. In pochi anni, il cimitero
divenne uno dei posti più sacri e più trendy dell’epoca
per essere sepolti: molti si recavano lì a concludere
la loro vita, altri vi portavano i resti dei loro
cari. Nel 1318, vi erano le ossa di oltre 30.000
cadaveri, giunte da ogni parte d’Europa.
A un certo punto, la sepoltura fu sostituita dall’accumulazione
delle ossa sopra l’area benedetta.
Infine, nel 1511 – a quel punto vi erano ossa di
oltre 250.000 fedeli – un monaco ebbe l’idea di
utilizzarle per erigere una cappella, e poi un’intera
chiesa, in modo da fare posto per i nuovi continui
arrivi. Quella cappella è oggi uno dei più grandi
simboli della comune cittadinanza europea. ◗

NAVID KERMANI è nato nel 1967 a Siegen in
Germania, ha studiato islamismo filosofia e teatro.
Collabora alla Frankfurter Allgemeine Zeitung e
alla Suddeutsche Zeitung, ove è stato pubblicato il
15 ottobre 2005 lo scritto cui faccio riferimento,
poi riprodotto in Caffè Europa n.296 del 24 marzo
2006. Ha scritto Gott ist schön – Das ästhetische
Erleben des Koran, per il quale ha ricevuto il premio
Ernst Bloch; Iran – Die Revolution der Kinder
(Monaco 2001), dove descrive l’opposizione dei
giovani al regime khomeinista; inoltre, nel sito
web www.unabibliotecaperbagdad.org si parla del
libro curato da Navid su Nasr Hamid Abu Zayd,
Una vita per l’Islam, Il Mulino, 2004.


SPAGNA 1807 – IRAQ 2005

1807: L’esercito di Napoleone combatte contro i
ribelli spagnoli.
Frederic guardò il podere in rovina.
– A proposito di contadini, non ne abbiamo visti.
Sembra che la nostra presenza li abbia fatti fuggire
tutti.
– Non ti fidare, sono senz’altro vicini, in agguato,
ad aspettare che uno dei nostri resti isolato per acciuffarlo
e appenderlo a un albero. O armati di falci
e schioppi a ingrossare le file dell’esercito con cui
fra poco ci troveremo faccia a faccia. Ti hanno raccontato
di ieri?
– No, credo di no.
– Una delle nostre pattuglie si è avvicinata a una
casa colonica in cerca d’acqua. I proprietari hanno
detto che il pozzo era interrato, ma i soldati non si
sono fidati e hanno calato un secchio. Indovina che
cosa hanno tirato su? Una bandoliera da fante.
Allora uno si è calato con la corda e là sotto ha
trovato i corpi di tre dei nostri. A quei poveri
ragazzi avevano tagliato la gola nel sonno.
– E poi, che cosa è successo? Indagò Frederic rabbrividendo.
– Cos’è successo? Sono entrati in casa e hanno
ucciso tutti: il proprietario, la moglie, due figli già
grandi e una bambina di pochi anni. Poi hanno
appiccato il fuoco e sono andati via.
– Ben fatto!
– Anch’io la penso così. Non si deve avere pietà di
questi selvaggi.
Frederic annuì senza riserve. Ma, dopo qualche
istante, osservò
– Eppure si può dire che a loro modo difendano la
loro terra. Noi francesi siamo gli invasori.
De Bourmont attorcigliò un baffo, fuori di sé.
– Invasori? Perché, qui c’è forse qualcosa che valga
la pena di essere invaso?
– Abbiamo detronizzato il loro sovrano…
– Il loro sovrano? Un miserabile criminale, stupido
e crudele. Non aveva alcun diritto. E poi, noi portiamo
idee di progresso e di libertà che stanno scuotendo
il mondo. Portiamo un nuovo ordine.
Libereremo questi selvaggi dalle tenebre in cui
vivono, anche a costo di fucilarli tutti. ◗

Da ARTURO PÉREZ-REVERTE, L’ussaro,
Tropea 2006. Si vedano le interviste su “Il Mondo”
(12.2.1999) Tante storie, poche speranze, di
Gabriella Saba e su L’Unità (8.5.97), Un reporter
stanco di guerre: oggi scrivo best seller, di
Antonella Fiori

TRE POESIE DI BORIS RUZUJ
I
Strofino lo specchio con la mano
Dietro di me scorgo l’autunno.
Ed è inquieta la mia pace
La felicità non porta con sé felicità.
Sul terreno cadono le foglie,
ma a lungo prima volteggiano nell’aria.
È irragionevole cercare parole
Per raccontare questa tristezza.
Per l’ubriaco chiacchierone
Nel flauto suonava l’estate
Ora suona il silenzio
Per il poeta non più ubriaco.
Mi avvicino allo specchio
E così copro con la mia immagine tutta la tristezza
Ma nello stesso tempo
Sibila il vento alle mie spalle.
Tutto lo specchio è riempito dal giardino
Il volto del poeta scompare
Le foglie s’involano di nuovo
E poi cadono piroettando.

II
Non ho passeggiato nei tuoi sogni,
né sono apparso tra la folla.
Né mi sono mostrato nel cortile, dove cadeva
La pioggia – o meglio cominciava
A piovere (ma questo verso lo elimino
E non lo sostituisco con un altro),
mi eccitava credere, insensato,
che ti avrei incontrato presto,
ecco che mi apparivi in sogno
ed ero avvinto
da una dolce tenerezza, e intanto tu i capelli
mi sistemavi sulle tempie.
Quell’autunno perfino le poesie
Mi venivano belle
(ma mancava sempre qualcosa, un verso
O una rima – per essere davvero felice).

III
Portami lungo viali deserti
Parlami di cose senza importanza
Pronuncia, indistinto, un nome;
Piangono d’estate i fanali
Due lampioni piangono d’estate.
Cespugli di sorbo. Una panchina bagnata.
Mia amata, resta fino all’alba
con me, poi lasciami.
E io, rimasto come un’ombra velata
Ancora un po’ vagherò qui intorno.
Tutto ricorderò: la luce accecante, il buio sanguinoso,
io stesso sparirò fra cinque minuti.

Boris Ryzyi è nato a Celiabinsk nel 1974. Studia
geofisica e geoecologia, partecipa a spedizioni geologiche
nel nord della Russia. Comincia a scrivere
poesie dal 1990 su varie riviste letterarie. Nel 2000
escono due volumetti a cura del Fondo Puskin di
San Pietroburgo. Si uccide nel 2001 a
Ekaterinenburg. È tra i poeti più amati e venerati
della nuova generazione russa. Dopo la sua morte,
sono state pubblicate postume varie raccolte delle
sue poesie, apparse sulle varie riviste cui ha collaborato.
Tra queste, nel 2001 il volume иа
холоднощ ветру (Al vento freddo).
Alcune poesie sono state pubblicate da Mauro
Martini in La nuovissima poesia russa (Einaudi
2005).

TEORIA E PRASSI
DEL TERRORISMO DI STATO:
GLI SCRITTI DI GIULIO DOUHET

I
Abbiamo assistito nella prima guerra mondiale
all’introduzione negli usi di guerra di due armi
totalmente nuove, l’aereo e il veleno, la cui
influenza sulle guerre future sarà grandissima. Non
esito ad affermare che le forme di guerra sin qui
conosciute saranno sconvolte. Le due armi nuove si
integrano a vicenda.
La chimica riesca a fornire veleni di potenza terrificante
e di efficacia superiore ai più potenti esplosivi
e la batteriologica può fornirne ancora dei più
formidabili. Basti pensare qual forza di distruzione
verrebbe a possedere quella nazione i cui batteriologi
scoprissero il modo di propagare una mortale
epidemia nel paese avversario e contemporaneamente
un siero per immunizzare i propri combattenti.
L’arma aerea permette di portare il veleno chimico
e batteriologico in un punto qualunque del territorio
nemico disseminando su tutto il paese avversario
la morte e la distruzione.
Si immagini ciò che accadrebbe tra la popolazione
civile dei centri abitati quando si diffondesse la
notizia che i centri presi di mira vengono completamente
distrutti senza lasciare scampo ad alcuno. I
bersagli delle offese aeree dovranno quindi essere,
in genere, superfici di grandi estensione sui quali
esistano fabbricati normali, abitazioni, stabilimenti
e delle popolazioni civili.

II
Il campo di battaglia non può più venire limitato,
deve estendersi a tutto il territorio delle nazioni in
lotta. Non può esistere alcuna distinzione fra belligeranti
e non belligeranti perché tutti i cittadini,
ovunque si trovano possono venire colpiti direttamente
dal nemico. In nessun luogo deve essere permesso
di vivere e lavorare con sicurezza e tranquillità:
la banca sarà esposta come la trincea, su
tutto e su tutti incomberà il pericolo imminente. ◗

Il Generale Giulio Douhet, nato nel 1869, è morto
nel 1930 mentre coltivava le rose nel suo giardino.
Fu così privato del piacere di vedere una prima
applicazione delle sue teorie: la guerra aerea condotta
dall’Italia contro l’Etiopia, con ingente utilizzazione
di bombe all’iprite su obiettivi civili.
L’aspetto più degno di interesse è che
l’Aeronautica militare italiana – quella di Ustica, e
quella oggi incaricata delle varie missioni di pace
affidate al nostro Paese, per intenderci – considera
Douhet non un potenziale criminale e un teorico
del terrorismo, ma un geniale eroe, ed ha curato a
più riprese la pubblicazione dei suoi scritti.
In una raccolta di scritti inediti del 1951 (ristampata
nel 1972) a cura della Scuola di guerra aerea
Marco Ajmone-Cat scrive in stile telegrafico-militaresco:“
La mente del nostro Douhet ha precorso;
le sue affermazioni hanno previsto; la realtà ha
confermato”.
Nello stesso volume Antonio Monti ricorda: “Fu
destino di questa figura di uomo e di italiano camminare
lesto e dritto alla meta, mentre molti arrancavano
penosamente alle sue calcagna. Gli è che
egli rappresentava le virtù caratteristiche del
popolo italiano, le forze veramente sane di esso,
era l’interprete genuino del popolo concepito come
la grande riserva dell’umanità”.
Nel 1955 la Divisione formazione superiore
dell’Aeronautica militare ha pubblicato una nuova
edizione del Dominio dell’aria (ristampata nel
2002). Nella prefazione il generale Raffaelli
esprime “fierezza per questo genio italico che per
primo proiettò la luce della verità sui nuovi vasti
orizzonti”. Il volume, si precisa, viene fornito “ad
ogni Ufficiale dell’Aeronautica, nella certezza che
potrà trovarvi degli spunti interessanti per la sua
attività futura.. e potrà leggere delle pagine che
sono un esempio della genialità italiana ancora
oggi, in questo campo, riconosciuta e apprezzata”.

Si veda inoltre TULLIO SCOVAZZI, il terrorismo
di stato nell’opera di Giulio Doohet in rivista di
diritto internazionale 2005, dal quale ho tratto la
maggior parte del materiale utilizzato. Ricorda
Scovazzi che nel corso della guerra condotta da
Stati membri della NATO contro la ex Jugoslavia –
dal 24 marzo al 9 giugno 1999 – sono stati effettuate
10.484 incursioni aeree, sono state sganciate
23.614 bombe che hanno ucciso, quale effetto
collaterale, non meno di 500 civili: un tributo alla
memoria di Douhet.

DUE POESIE A RITMO DI JAZZ

Incidente
Nell’ottobre del 1938 fuggimmo da Vienna.
La pensione della mia nonna ungherese
Fu requisita da un ufficiale nazista.
Scappammo in fretta la notte, diretti al confine
svizzero.
Il confine era stato chiuso la notte prima.
Pioggia
Sentieri scivolosi
Ci arrampicammo per poter scivolare
Verso il villaggio oltre frontiera
Un altro tentativo
Siamo in venti disperati
Con guide a pagamento per attraversare il Reno
Una donna scivola nel fango
Ci sono sibili di spari sulle nostre teste
Sono soldati svizzeri
non vogliono davvero colpirci
Solo avvertirci
Andatevene, non prendiamo più nessuno.
Ma indietro come possiamo andare
Siamo in tre, senza soldi, alla stazione di
Innsbruck
Visibilmente non ariani
Che fare?
Ci aspettiamo in ogni momento una domanda
Invece arriva leggera una giovane donna
Sussurra seguitemi.
Non abbiamo niente da perdere.
La notte è piovosa,
le strade strette,
lei entra in un passaggio,
un raggio di luce
la seguiamo
avete fame? Ci disse,
vi faccio vedere il vostro letto.
Poi la luce passa attraverso le persiane
Quando ci chiama per la colazione.
Un uomo con occhi di sonno sta bevendo il caffè
Dove state andando?
A Vienna.
Ci mostra la direzione,
guardando prima che non ci sia nessuno.
Torniamo alla stazione.
Un ufficiale con le svastiche si avvicina
Vediamo la sua faccia,
è l’uomo con gli occhi di sonno,
finge di non conoscerci e prosegue.
A Vienna, troviamo i visti per New York,
forse facciamo ancora in tempo.
31 dicembre 1938, mezzanotte
È proprio l’ultimo momento.
Prendiamo un treno per l’Olanda.

La festa
La festa era al massimo
Chicago 1950
Ero appena tornata da New Orleans e altri posti
laggiù.
Vecchie facce
Facce sconosciute
Ci sei?
Si, sono qui.
Lui è là.
C’è anche lei?
Si parla di vita
Si parla di morte
Si parla di qualsiasi cosa.
Tu non sei Americana, che accento hai?
Si, Viennese.
Faccia giovane
Nera carbone,
Ma liscia e chiara,
Io me ne intendo.
Dice: Ho qualcuno a Vienna.
Parlavamo stando appollaiati
sulla spalliera di un divano
pieno di gente
c’erano piedi
c’erano teste
dappertutto.
È una donna?
È bianca o è una Nera?
È alta?
Molto, mi risponde.
Sa danzare?
Si, mi dice, e viene da Vienna anche lei.
Quanto abbiamo parlato e bevuto quella notte
In quel piccolo attico,
All’ultimo piano,
scala dopo scala.
Sono sicura che è lei.
Anch’io, mi risponde.
Sapeva fare il caffè e le uova al piatto.
Poi, il circo.
La guerra.
Non so più, non voglio sapere.
Faccio l’acrobata quando è necessario.
Basta.
Però, sempre la danza,
e ora,
sempre la danza.

Le poesie sono di Ruth Weiss.
Il primo pezzo è tratto da Single out, il secondo da
I always thought you black.
Nata nel 1928 a Berlino, Ruth Weiss si trasferisce
a Vienna dove studia fino alla avventurosa fuga
negli Stati Uniti con i genitori, raccontata (con
accompagnamento jazz) nel primo pezzo. La
famiglia si stabilisce a Chicago. Nel 1946 Ruth
comincia a viaggiare in Europa e negli Stati Uniti.
Nel 1948 scopre il jazz. Si stabilisce poi a San
Francisco dove entra in contatto con Jack Kerouac
e Neal Cassidy. A partire dal 1952 comincia a
creare poesia specificamente progettata per accompagnamento
di jazz.
Voglio qui ricordare anche due omonime della
poetessa-jazzista, accomunate da destini singolarmente
simili all’inizio della loro vita, e confuse alla
fine, per ciò che hanno scritto, da Amazon e IBS.
La prima, quasi coetanea (è del 1924), riesce a fuggire
dalla Germania nel 1936 e ad emigrare in
Sudafrica.
Nella sua autobiografia Wege im harten Gras,
Hammer 1994, racconta che la repressione e l’indifferenza
per la vita umana rendevano allora quel
paese non diverso da quello dal quale era fuggita.
Per il suo sostegno alle lotte contro il Governo
razzista sudafricano, è costretta ad emigrare nella
Rodesia del Sud, dove partecipa al conflitto per
l’indipendenza e alla nascita dello Zimbabwe. Vive
tra Germania, Inghilterra e Zambia. Ha scritto
anche il romanzo Der Judenweg, Mosse Verlag,
2004.
La seconda, più anziana (è nata nel 1908 a Vienna)
è vissuta in Cina per quasi settanta anni (dopo
esservi giunta nel 1933) ed è morta a Pechino nel
2006. Prende parte attiva alla rivoluzione cinese ed
è una attenta testimone dell’intera epoca maoista.
Ha ottenuto la cittadinanza cinese insieme a pochi
altri europei, Le sue memorie sono state pubblicate
nel libro Am Rande der Geschichte (ai Margini
della storia) Zeller Verlag, Osnabrück 1999). Su di
lei, si veda l’articolo di Renato Ferraro sul
Corriere della Sera (7.4.97), Gli irriducibili dell’hotel
delle illusioni. È l’Hotel dell’Amicizia di
Pechino, dove Ruth Weiss risiedeva insieme ad
altri europei sostenitori della rivoluzione cinese tra
cui il medico Hans Müller, la docente berlinese
Käthe Zhao, lo scrittore Israel Epstein, la fotografa
Eva Siao.

UN DIAMANTE È PER SEMPRE
È ora di cambiare: niente più funerali e cremazioni
tradizionali. Ci sono modi più personali e più intimi
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DALLA PARTE DELLA STREGA
Pochi giorni orsono mi fu chiesto quale messaggio
mi sarebbe piaciuto lanciare ai giovani che aspirano
a seguire le nostre orme.
Ho scelto questo “Quando si accendono i roghi,
mettiti sempre dalla parte della strega anche a costo
di salire sul rogo con lei”. Poi, c’è un altro messaggio
che più si concilia con la saggezza e la prudenza.
Ed è questo: “Se non vuoi padroni, scegliti
come tale il lettore. Parla solo con lui e per lui,
magari solo per litigarci, ma nella sua lingua.
È lui il solo padrone che può metterti al riparo dagli
altri: un giornalista che ha con sé i lettori diventa
intoccabile”. ◗
Da Oggi n.20 del 17 maggio 2000, in Venti dialoghi
sul giornalismo e sulla TV tra Indro Montanelli e
Paolo Occhipinti da Oggi 1993 – 2000.

25 EURO PER LUWEERO
In un paese a circa 73 chilometri di distanza da
Kampala, la capitale dell’Uganda, sulla strada che
porta a Gulu, c’è un dispensario-ospedale con una
ricettività di circa 100 posti letto suddivisi in tre
reparti: maternità, pediatria e AIDS\HIV.
Non c’era una diecina di anni fa (poco dopo l’ecatombe
verificatasi nel vicino Rwanda con la
complicità degli Stati europei), quando sono passato
da quei posti.
Oggi, l’ospedale serve un’area grande quanto la
Basilicata, e assiste circa 25.000 pazienti affetti da
AIDS\HIV.
Nell’ospedale lavorano circa dieci suore ugandesi,
coordinate da Suor Ernestina Akulu, che si è
laureata come fisioterapista in Italia e parla italiano.
Le suore fanno un lavoro inimmaginabile,
senza mezzi (manca anche un generatore elettrico),
né medicine, né aiuti di alcun tipo, come può
raccontarvi Raffaele Masto che lavora nella
redazione esteri di Radio Popolare ed ha girato
per lungo e per largo l’Africa (ha scritto, tra l’altro,
In Africa, Ritratto inedito di un continente
senza pace, Sperling Paperback 2003).
L’ospedale infatti non riceve sovvenzioni da
organizzazioni internazionali né dal Governo
ugandese, né da organizzazioni religiose, né dalla
Chiesa cattolica (neppure un briciolo dell’8 per
mille raccolto annualmente dai contribuenti italiani
finisce a Luweero).
C’è spesso anche, a Luweero, un fotografo italiano,
Piero Pomponi, che lavora per varie testate giornalistiche,
tra cui il New York Times (si veda il suo
sito www.pieropomponi.com). Piero si sta impegnando,
durante i suoi momenti liberi, nella ricerca
di fondi per creare a Luweero un vero e proprio
polo ospedaliero con tre reparti operatori, sotto la
supervisione del prof. Massimo Scerrati, Direttore
della Clinica di Neurochirurgia di Ancona.
Se qualcuno dei lettori vuole visitare l’Uganda (che
è un paese incantevole), Ernestina Akulu e Piero
Pomponi sono lieti di ospitarli nelle loro abitazioni:
non c’è luce elettrica né acqua corrente, ma si vive
bene lo stesso.
Io vorrei chiedere a tutti i lettori dei Testi Infedeli di
versare 25 euro per finanziare l’ospedale di
Luweero.
So che molti saranno sorpresi, vista l’indubbia connotazione
religiosa dell’ospedale. Ma suor
Ernestina e le sue collaboratrici stanno facendo
davvero un lavoro ineguagliabile. Inoltre, anche se
appartengono a un ordine devoto alla Madonna (ma
nessuno è perfetto), non hanno avuto visioni negli
ultimi tempi (come si è visto succede assai spesso
qui da noi), né sono state testimoni di apparizioni
divine: la Madonna appare incessantemente in Italia
e non ha tempo per Luweero.

Tutti i donatori riceveranno una foto firmata di
Piero Pomponi, di soggetto africano.
La somma deve essere versata sul mio conto corrente:
Banca Intesa, Agenzia 2115, c\c
000017830127 – ABI 03069, CAB 09483. Mi
incaricherò di trasmetterla a destinazione, di distribuire
le foto e di informare i donatori sugli
sviluppi dell’iniziativa. ◗

Questo trentesimo volume dei Testi Infedeli è stato
stampato nel giugno del 2006 in duecentocinquanta
copie non numerate e fuori commercio da
Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio,
Milano.
Come sempre, ho liberamente e infedelmente
tradotti e talvolta riscritti tutti i testi; spesso è stato
rispettato – non sempre integralmente – il pensiero
dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa
ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi
a partire dal 1992 possono essere letti nel sito
www.nespor.it, e non più sul sito
www.nespor.com ove erano inseriti in precedenza.
Il sito è curato e aggiornato con perizia e scrupolo
ineguagliabili da Stefano Rossi.
Ringrazio per i suggerimenti, i consigli e la collaborazione
Salvatore Giannella. Ringrazio inoltre
per l’assistenza Maria Inglisa, Marina Nespor,
Pasquale Pasquino, Raffaele Masto, Piero
Pomponi, Tullio Scovazzi e Federico Boezio.