N. 42 estate 2012

Sulla copertina

Davanti: un ritratto di D.H.Lawrence (matite Winsor & Newton su carta).

Dietro: una foto di Ivan Della Mea

 

IN QUESTO NUMERO

 

All’inizio c’è una riflessione sul razzismo attuale originata da un brano di Franco Fortini del 1967. C’è poi la storia dell’ascesa e della caduta di un personaggio della fine del XVI secolo, non dissimile da molti più recenti. C’è infine una rievocazione della bellezza e della vivibilità  delle città di una volta, quando le strade erano percorse non da auto ma da cavalli.

Come sempre, ci sono le poesie. Questa volta c’è una scelta di poesie di D.H.Lawrence insieme ai testi di due canzoni di Bob Dylan e di una canzone (in milanese con traduzione) di Ivan Della Mea.

Sempre più consistente è la parte dedicata ai libri da leggere cui da questa volta si aggiunge il settore dei libri da rileggere. Le indicazioni sono di Augusto Bianchi, Sabino Cassese, Eva Cantarella, Luciana Castellina, Gherardo Colombo, Joseph DiMento, Giulia Gavagnin, Guido Martinotti, Jacques Mehler, Marina Nespor, Stefano Nespor, Pasquale Pasquino, Roberto Satolli, Lina Sotis, Armando Spataro.

 

IL RAZZISMO DEI MODERNI

“Le forme più  recenti di odio per la differenza sono proprie di una società sottoposta a una pressione di tipo totalitario qual è la moderna società industriale. Si è determinata così la formazione di tante pseudo comunità fondate sulla conservazione di valori tradizionali volte a garantire dalla solitudine individuale. La divisione del lavoro e la differenziazione sociale ed economica hanno prodotto una moltiplicazione di classi e gruppi, di culture e di subculture, sicché cogliere la struttura dell’insieme è quasi impossibile. Così la moltiplicazione dei corpi intermedi, tanto esaltata dagli ideologi cattolici come garanzia contro il totalitarismo, cancella la lotta tra le classi ma crea la lotta di ogni sottogruppo contro ogni altro. L’egalitarismo formale diviene il brodo entro cui diminuiscono le forme di razzismo tradizionale ma si coltivano mille dinieghi di umanità del prossimo. Così le ideologie razziste o antisemita di tipo nazista o fascista scompaiono perché sono proprie di nazionalismi superati, mentre l’irrazionalismo dell’odio contro qualcuno o qualche gruppo né è la forma attuale. Quanto più la borghesia si è estesa e ha incluso larga parte della classe operaia, l’Uomo a Una Dimensione ha dovuto crearsi passioni, nazioni, devozioni, lealtà fittizie. L’antisemitismo sparisce moltiplicandosi”.

Così scriveva Franco Fortini nel 1967.

Sono parole oggi profeticamente attuali: colgono il declino del razzismo e dell’antisemitismo tradizionali, provocato non solo dalla scomparsa dei nazionalismi del Novecento ma anche dalla decadenza della religione dalla quale sono stati entrambi per secoli fomentati e legittimati; intravvedono il moltiplicarsi di pseudoidentità di carattere localistico e culturale (di cui la mitologia della Padania è l’esempio più fulgido e offre una tardiva conferma delle tesi dello storico inglese Eric J. Hobsbawn sul formarsi delle tradizioni come collante dei progetti politici).

Nello stesso tempo però, le parole di Fortini sono irrimediabilmente corrose dal tempo. Nello spazio di qualche decennio il razzismo moderno ha cambiato, in Italia, la sua pelle: non è più il prodotto del totalitarismo della società industriale (che, tuttavia, produceva non solo sottogruppi contrapposti, ma anche coesione e forti meccanismi di solidarietà, oggi scomparsi), ma l’effetto del dissolversi dei confini, degli spazi e delle certezze un tempo garantiti.

Il nuovo razzismo del nostro paese è così il prodotto di tre cause. Il risentimento provocato dallo svaporare nello spazio di pochi anni del sogno di divenire una piccola potenza mondiale e il ritrovarsi in un Paese ridotto dalla globalizzazione economica, dalla corruzione e dal malaffare a un ruolo di insignificante subalternità rispetto a Paesi emergenti. Poi, la globalizzazione culturale che ha imposto a un Paese, per il quale il mondo esterno (non europeo e non statunitense) era pressoché inesistente e conosciuto solo attraverso i villaggi vacanze di Valtur o i piccoli spazi neocoloniali come Malindi, il confronto con la diversità e il contatto con il nuovo e quindi con costumi, comportamenti, valori estranei a quelli appresi come assoluti e indiscutibili. Infine la paura primitiva delle dirompenti innovazioni tecnologiche nelle comunicazioni, nella medicina, nella biologia che hanno sostituito conoscenze e razionalità dove prima si era protetti dall’ignoranza, dalla superstizione e da credenze religiose. Ed è proprio la paura del confronto e della conoscenza, il terrore di perdere posizioni e spazi faticosamente acquisiti o lungamente sognati che crea il razzismo moderno di questo Paese. D’altro canto il razzismo – il timore per tutto ciò che è diverso e sconosciuto – fa parte della natura umana fin dai tempi più antichi essendone una componente quasi genetica, mentre è un prodotto della civiltà e della cultura la capacità di superarlo.

Il brano di Fortini è tratto con qualche modifica da I cani del Sinai, oggi inserito in Saggi ed Epigrammi a cura di Luca Lenzini, I Meridiani Mondadori. Il riferimento a Hobsbawn è al suo saggio The Invention of the Tradition, Cambridge University Press 1983). Su razzismo e natura umana resta ancor oggi fondamentale il saggio di Albert Memmi, Le racisme, Gallimard 1982.

s.n.

STORIA DELL’UOMO CHE PARLAVA CON GLI ANGELI

 In una locanda di Sobeslav, piccola città della Boemia tra Praga e Cesky Krumlov, fu arrestato il 3 maggio 1591, per ordine dell’imperatore Rodolfo II, l’alchimista, veggente, esperto di arti occulte e geniale impostore Edward Kelley (noto anche come Edward Talbot), per lungo tempo compagno d’avventure del matematico, geografo, astrologo ma soprattutto mago e alchimista  John Dee. Dal 1583 Kelley e Dee viaggiarono insieme attraverso l’Europa, spesso accompagnati dal nobile polacco Albert Lasky. Nel 1586 si stabilirono a Trebon, in Boemia, ottenendo la protezione del conte Vilem Rozmberk (conosciuto in Inghilterra come Lord Rosenberg). Qui il 19 dicembre 1586 Kelley realizzò la prima trasmutazione di un metallo in oro: “Sono un testimone oculare” affermò sir Edward Dyer, poeta e diplomatico inglese alla corte imperiale di Rodolfo II. “Ho visto Kelley mettere il metallo nel decantatore pieno di un liquido sconosciuto e, dopo essere stato riscaldato, l’ho visto aggiungere una piccola quantità di una polvere; poi l’ho visto mescolare il tutto con un cucchiaio di legno e, d’un tratto, il metallo è divenuto oro, comprovato da tutti i test che ho effettuato”. Kelley divenne noto in tutta Europa per la sua capacità di entrare in contatto con gli angeli parlando la lingua detta “enochiana” (sulla quale John Dee scrisse The Enochian Evocation) utilizzando una sfera di cristallo. Nel 1589 Kelley si trasferì a Praga (Dee fece ritorno poco dopo in Inghilterra) alla corte di Rodolfo II che lo insignì del titolo di baronetto (già in precedenza lo protesse allorché il Papa ordinò all’imperatore di inviare sotto scorta Dee e Kelley a Roma perché fossero interrogati dal Sant’Uffizio). Poco dopo, l’arresto e la lunga detenzione, durata oltre due anni, nel castello di Krivoklat (Purglitz in lingua tedesca). Ignote ne sono le ragioni. Probabilmente Rodolfo decise che Kelley era un impostore; oppure, come alcuni ritengono, sospettò che fosse una spia al servizio della regina di Inghilterra; oppure ancora, secondo altri, lo punì per aver ucciso in duello un nobile boemo. Fu liberato nell’ottobre del 1593 e riconquistò in breve i favori dell’Imperatore. Nel 1596 fu però nuovamente arrestato, probabilmente per debiti, e trasferito nel castello di Most, Brux in tedesco. Né il castello né la parte vecchia della città esistono più: il primo fu demolito dai cittadini di Most subito dopo la fine della Guerra dei trent’anni per evitare il concentrarsi di truppe e il conseguente pericolo di scontri militari nella città; la parte vecchia fu rasa al suolo nel 1960 dal regime comunista per sfruttare un giacimento di lignite sottostante. Durante questo secondo periodo di prigionia, Kelley scrisse il suo trattato di alchimia De lapide philosophorum, pubblicato ad Amburgo nel 1676, dove si dichiara un “martire della verità”.

Su Edward Kelley: Charles Nicholl, Traces Remain, Allen Lane – Penguin 2011 (di Nicholl ricordo anche una avvicente biografia di Christopher Marlowe; Louise Schleiner, Kelley, Sir Edward, Oxford Dictionary of National Biography, Oxford University Press, 2004. Su John Dee: Richard Deacon John Dee: Scientist, Geographer, Astrologer and Secret Agent to Elizabeth I, Frederick Muller, 1968; Charlotte Fell Smith, John Dee, Ibis Publisher 2004. In generale sulla magia nel Rinascimento restano fondamentali le opere di Frances Yates e, in particolare, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition (1964), tradotta da Laterza nel 1969. Molte opere letterarie hanno Kelley e Dee come protagonisti. Tra queste: Gustav Meyrink, Der Engel vom westlichen Fenster, 1927 (c’è una introvabile traduzione italiana del 1949); John Crowley, Aegypt 1987; Patricia Wrede Snow White and Rose Red, 1989; Peter Ackroyd, The House of Dr. Dee. Tra le opere teatrali la più famosa è The Alchemist di Ben Johnson; due sono apparse nel 2010: Rudolf II di Edward Einhorn e Burn Your Bookes di Richard Byrne. C’è anche la canzone degli Iron Maiden The Alchemist, inserita nella raccolta The Final Frontier del 2010.

DUE CANZONI DI BOB DYLAN

Lady lady lay

Stenditi, signora, stenditi sul mio letto d’ottone
Pensa a un qualunque colore
Io te lo mostrerò

Tu lo vedrai risplendere

Stenditi, signora, stenditi sul mio letto d’ottone
Resta, signora, resta, resta accanto a me
Fino allo spuntar del giorno fammi sorridere
I miei abiti sono sporchi ma le mie mani sono pulite
E tu sei la cosa migliore che io abbia mai visto

Resta, signora, resta, resta ancora un po’ accanto a me
Perché aspettare ancora
Perché aspettare ancora che arrivi colui che ami
quando ti sta vicino?

Stenditi, signora, stenditi sul mio letto d’ottone
Resta, signora, resta, resta mentre la notte è ancora all’inizio
Desidero vederti nella luce del mattino
Desidero abbracciarti nella notte
Resta, signora, resta, resta mentre la notte è ancora all’inizio.

 

Born in time

Nella notte solitaria
nella lampeggiante polvere di stelle

nella pallida luce azzurra
venivi verso di me in bianco e nero
Quando eravamo fatti di sogni,

Ansimavi lungo la strada sconnessa,

sentivi il mio cuore battere
nella torrida estate
laggiù dove siamo nati.

Non una notte di più, non un bacio di più,
Non questa volta, bimba, non più.
Ci vuole troppa volontà.
Abbiamo provato e riprovato, poi è finita.

Ma tu riceverai tutto ciò che meriti
tornando laggiù dove siamo nati

Eri neve, eri pioggia,
eri con un vestito a righe e con un vestito in tinta unita
Oh, le parole più vere
non sono state pronunciate, non sono state spezzate

Sulle colline misteriose,

nell’oscura ragnatela del destino.

Ma potrai trovare quello che resta di me,

tornando là dove siamo nati.

Biografia, dati, informazioni e testi delle canzoni di Bob Dylan in www.bobdylan.com, www.maggiesfarm.it e in www.ondarock.it/songwriter/bobdylan.htm.

OTTO POESIE DI D.H. LAWRENCE

 Verde

L’alba era verde come una mela

Il cielo era verde come vino sollevato al sole

La luna era un petalo dorato tra di noi.

Poi hai aperto gli occhi, e verdi

Risplendettero, verdi come fiori sbocciati

Per la prima volta, mai visti prima d’ora.

Prigioniero di sé stesso

 

Come una pianta diviene prigioniera del vaso

L’uomo diviene prigioniero di sé stesso

Rinchiuso nella sua limitata sensazione di coscienza.

E allora non sente  e non ama più,

non riesce a rallegrarsi o rattristarsi.

È prigioniero del suo vaso

e non può che lentamente spegnersi.

Solo se ritrova il suo vigore originario

Può far scoppiare il vaso

Svestirsi di quella sua sensazione di coscienza

Riaffondare le sue radici nella terra

Nella terra viva.

Rivoluzione

Sì, qualcuno cominci una rivoluzione

Non per avere potere

Ma per disfarsene per sempre.

Si, qualcuno cominci una rivoluzione

Non per mettere al potere le classi lavoratrici

Ma per abolirle per sempre

E finalmente avere un mondo di uomini.

Elefanti nel circo

Gli elefanti nel circo

Hanno ere di stanchezza intorno agli occhi

Ma si tengono ritti

E mostrano le loro enormi pance ai ragazzi stupiti.

Libertà

La vecchia storia della libertà:

Gli uomini si battono per la libertà,

la conquistano con dure battaglie

I loro figli, allevati nelle comodità,

la lasciano lentamente scivolare via

I nipoti sono di nuovo schiavi.

L’amore immaginario

Sempre

Al centro di me stesso

Brucia una piccola fiamma di collera,

nata da rapporti violati,

da invadenti, ancora bollenti, contatti d’amore.

Sempre

Negli occhi di quelli che mi amavano

Ho visto l’immagine di quel che davvero amavano,

pensavo di essere io

e mi sbagliavo.

Sempre

Era una simpatica scimmietta che mi assomigliava,

una mia caricatura.

Ora voglio, per sempre

Stare lontano da rapporti che creano immagini

che mi assomigliano.

Gente

Mi piace la gente

Se sta un po’ a distanza.

Mi piace veder passare e ripassare la gente

Che se ne va per la sua strada.

Specie se vedo viva la solitudine di chi passa.

Ma non voglio che nessuno si avvicini troppo,

Se mi lasciano solo

posso ancora avere un’illusione:

nel mondo c’è posto per tutti.

L’arcobaleno

Perfino l’arcobaleno ha un corpo

Fatto di gocce d’acqua

Ed è un’architettura di atomi scintillanti

Che sale, che sale

Ma non ci si può posare la mano,

no, e neppure la mente.

Le prime quattro poesie sono tratte da Collected Poems; Libertà da Pansies; quelle seguenti, postume, da Last Poems.
L’edizione completa di tutte le poesie è stata pubblicata da Wordsworth Editions nel 1994; è disponibile un’edizione per Kindle. C’è una precedente edizione italiana in due volumi, con testo a fronte, di Mondadori.

David Herbert Richards Lawrence (11 September 1885 – 2 March 1930) è stato scrittore, poeta, saggista, critico letterario e pittore. “Il più grande scrittore della nostra generazione”, secondo E.M.Forster. Nel marzo del 1912 incontrò Frieda von Richthofen; con lei avrebbe trascorso tutto il resto della sua vita, prima in Germania, durante la prima guerra mondiale in Inghilterra, dalla quale, alla fine della guerra, partì in volontario esilio, iniziando il suo “savage pilgrimage” tra Italia, Australia, Ceylon, Stati Uniti (dove partecipò a fondare una comunità utopistica vicino a Taos in New Mexico, dimorandovi per due anni), Messico e Francia (dove morì a Vance nel 1930), ritornando solo per brevi visite in Inghilterra.

Ha scritto Joyce Carol Oates: “È illuminante leggere la raccolta di poesie di Lawrence come se fossero una specie di diario dove tutti i testi formano una strana unità, una sorta di racconto autobiografico. L’intera raccolta è più avvolgente e più emozionante dei suoi racconti più belli. Tra la prima e l’ultima riga c’è davvero di tutto: bellezza, distruzione, il suo ego in uno stato di rapimento e in uno stato di nausea, lo scorrere del caos e del tempo”. Tutta la sua opera è una riflessione sugli effetti alienanti e disumanizzanti della modernità e dell’industrializzazione che reprimono la vitalità, la spontaneità e l’istinto.

COM’ERANO BELLE UNA VOLTA LE CITTÀ

Fin verso il 1820 nelle grandi città ci si muoveva a piedi. Solo a quell’epoca vennero introdotti i tram trainati da cavalli. Il nuovo servizio pubblico di trasporto ebbe un successo enorme e diede grande impulso all’economia: la possibilità di agevoli spostamenti favorì il sorgere di migliaia di nuovi posti di lavoro. Nel 1853 a New York i tram trasportavano oltre 130.000 persone al giorno; ciascuno impiegava non meno di undici cavalli.  Questo significa che nei grandi centri urbani erano necessarie diecine di migliaia di cavalli da traino: i cavalli erano non meno di 150.000  nel 1880 a New York.

L’innovazione non era quindi priva di problemi.

Per nutrirli, enormi distese di territorio in prossimità delle città vennero disboscate, altre, già destinate ad uso agricolo, vennero convertite in coltivazioni di fieno e avena, provocando col tempo gravi squilibri sull’approvvigionamento  delle popolazioni urbane.

Ma il problema più grave era costituito dagli escrementi equini: un normale cavallo da traino ne produceva giornalmente tra i 5 e i 12 chilogrammi di escrementi solidi al giorno e alcuni litri di escrementi liquidi: questo significa che sulle strade si depositavano non meno di un milione di chilogrammi di letame e 10.000 chilogrammi di urina al giorno. Molte città avevano predisposto apposite zone di raccolta dove il letame era accumulato in pile che raggiungevano i trenta metri, creando ovviamente conflitti con coloro che risiedevano nelle vicinanze (erano le prime “sindromi NIMBY” dell’età moderna). Nel 1894, il Times formulò la previsione che in cinquant’anni Londra sarebbe stata sommersa sotto tre metri di escrementi, mentre, a New York, sarebbero arrivati al terzo piano dei palazzi della Quinta strada. Vi era poi il problema dei cavalli che morivano (o, azzoppatisi, dovevano essere uccisi)  durante il traino delle carrozze ed erano abbandonati ai bordi delle strade dove si decomponevano finché non venivano portati via. In molte città fu istituito un apposito servizio per la rimozione dei cadaveri degli animali, con appositi veicoli e strumenti (analoghi a quelli usati attualmente per asportare le auto in sosta vietata): nel 1866 furono rimossi dalle strade di New York oltre 15.000 cadaveri.

Attraversare le strade era un’impresa non agevole: come ricorda Dickens in molte sue pagine su Londra, con la pioggia le strade diventavano acquitrini maleodoranti mentre con il caldo, il letame si seccava aderendo alle scarpe dei pedoni. Molti si guadagnavano da vivere trasportando donne e anziani da un lato all’altro delle strade (erano i crossing sweepers). L’attraversamento era anche pericoloso. A New York, nel 1901, 200 persone sono morte investite da cavalli o da carrozze trainate da cavalli, oltre ad alcune migliaia di feriti. Nel 2003, sono state vittime di incidenti d’auto 344 persone. Tenuto conto dell’aumento della popolazione, il tasso di incidenti per capita era allora del 75% più elevato.

Per limitare gli incidenti provocati dai cavalli all’inizio del XX secolo William Phelps Eno inventò le regole per la circolazione stradale tuttora in uso: i segnali di stop, le zebre, il semaforo e stabilì che si dovesse tenere la destra.

Infine, c’era il gravissimo problema igienico. Le città pullulavano di mosche che costituivano il vettore per molte malattie infettive, prima fra tutti il tifo. È stato stimato che esse causassero la morte di almeno 20.000 abitanti di New York all’anno. Nelle grandi città venivano periodicamente
lanciate numerose campagne per l’eliminazione delle “mosche da tifo”, una specie endemica nelle città, così chiamata dall’entomologo statunitense L. O. Howard, il quale ripeteva che l’unico modo per eliminare le mosche e il tifo era eliminare i cavalli. Ma sembrava impossibile, se non provocando un crollo dell’economia urbana. Si sbagliavano tutti, come sempre sbagliano coloro che pensano che non ci siano soluzioni a un problema ambientale se non si riesce a immaginarne una sulla base della tecnologia a disposizione.

Nessuno immaginava che l’obiettivo si sarebbe realizzato in brevissimo tempo prima con l’elettrificazione delle strade e l’introduzione di tram elettrici, poi con l’avvento dell’auto. In pochi decenni i cavalli scomparvero dalle strade e le città ritornarono a essere vivibili. Nel 1930 tutti ricordavano con terrore l’epoca in cui nelle città si era costretti a usare il cavallo.

Ho tratto i dati da: Eric Morris, From Horse Power to Horsepower in Access, primavera 2007; Lawrence H. Larsen, Nineteenth-Century Street Sanitation: A Study of Filth and Frustration in Wisconsin Magazine of History, vol. 52, 1969; Nigel Morgan, Infant Mortality, Flies and Horses in Later-Nineteenth-Century Towns: A Case Study of Preston in Continuity and Change, vol. 17, 2002; Joel A. Tarr, The Horse: Polluter of the City, in The Search for the Ultimate Sink: Urban Pollution in Historical Perspective, University of Akron Press, 1999.

BALLATA PER L’ARDIZZONE

M’han dit che incö la pulisia
a l’ha cupà un giuvin ne la via;
sarà stà, m’han dit, vers i sett ur
a un cumisi dei lauradur.
Giovanni Ardizzone l’era el so nom,
de mesté stüdent üniversitari,
comunista, amis dei proletari:
a l’han cupà visin al noster Domm.
E i giurnai de tüta la tera
diseven: Castro, Kennedy e Krusciòv;
e lü ‘l vusava: «Si alla pace e no alla guerra!»
e cun la pace in buca a l’è mort.
In via Grossi i pulé cui manganell,
vegnü da Padova, specialisà in dimustrasiun,
han tacà cunt i gipp un carusel
e cunt i röd han schiscià l’Ardissun.
A la gent gh’è andà inséma la vista,
per la mort del giuvin stüdent
e pien de rabia: «Pulé fascista –
vusaven – mascalsun e delinquent».
E i giurnai de l’ultima edisiun
a disen tücc: «Un giovane studente,
e incö una gran dimustrasiun,
è morto per fatale incidente,
è morto per fatale incidente,
è morto per fatale incidente».

M’hanno detto che oggi la polizia
ha ammazzato un giovane per la via;
sarà stato, m’han detto, verso le sette,
a un comizio di lavoratori.
Giovanni Ardizzone, era il suo nome,
di mestiere studente universitario,
comunista, amico dei proletari:
L’hanno ammazzato vicino al nostro Duomo.
E i giornali di tutta la terra
dicevano: Castro, Kennedy e Kruscev;
e lui gridava: Si alla pace e no alla guerra;
e con la pace in bocca è morto.
In via Grossi i poliziotti coi manganelli,
venuti da Padova specializzati in dimostrazioni,
hanno attaccato, con le jeep, un carosello
e con le ruote han schiacciato l’Ardizzone.
La gente ha cominciato a non vederci più
dalla rabbia per la morte del giovane studente
e, rabbiosa: Polizia Fascista – gridava,
mascalzoni, delinquenti!
I giornali dell’ultima edizione
dicono tutti: «Un giovane studente,
oggi, durante una grande manifestazione,
è morto per un fatale incidente,
è morto per un fatale incidente
è morto per un fatale incidente».

Cinquanta anni fa, il 27 ottobre 1962, Giovanni Ardizzone, uno studente universitario di 21 anni, fu ucciso dalla polizia mentre partecipava a una manifestazione per la pace durante la crisi dei missili. La canzone di Ivan Della Mea è del 1963.

LIBRI DA LEGGERE

Tonino Guerra, Polvere di sole, a cura di Salvatore Giannella, Bompiani, 2012

Alle 8,30 del 21 marzo nella casa di Tonino è entrato il silenzio”: con queste parole la moglie e il figlio hanno annunciato la scomparsa di Tonino Guerra, il grande poeta e sceneggiatore che ha fatto conoscere l’Italia nel mondo con capolavori come Amarcord. Poche ore prima aveva potuto tenere tra le mani il suo libro, Polvere di sole.

Il libro contiene 101 racconti per accendere l’umanità. E’ uno sguardo incontaminato sul mondo, un ennesimo invito a presidiare il “petrolio dell’Italia”: la bellezza contro l’oscurità dello spirito. Da poeta che non ha mai smesso di produrre storie e di colorare il mondo di bellissime immagini vive, Tonino ha scelto la Giornata mondiale della poesia per disfarsi del corpo. Con le parole inedite di Grazie Stella Elia TI vuole salutarlo.

Un altro Grande se n’è andato

ad abitare una Casa immensa,
dove non vi è tramonto, né sera, né notte,
ma un eterno mattino di sole.
Se n’è andato

presso quel Dio che pensava
fosse “dentro l’aria”,
Lui, che viveva nell’aria tersa della poesia.
Starà forse cercando, ancora,
la sua “infanzia”,
“l’infanzia del mondo”?
O l’avrà già trovata lì,
dove regnano sovrani il Bello e il Buono?

Starà proponendo agli angeli
nuovi progetti di pittura,
di poesia, di scultura e di cinema?
Già, non può essersi spento
il suo fuoco creativo,
la fiamma dell’arte che dentro gli ardeva,
spandendosi in spazi senza tempo…

Salvatore Giannella

Marina Mander, La prima vera bugia,  et al. edizioni 2011.

Una storia raccontata con un sorriso costante, che mette i brividi. Il protagonista é Luca, un bambino di una decina di anni, saggio e disarmante, divertente e ansiogeno. Un concentrato di solitudine e di angoscia, mitigato costantemente dall’innocenza e dall’ironia. Un libro scritto benissimo, che si legge d’un fiato …con il fiato sospeso.

Augusto Bianchi

Jirô Asada, Le cheminot, Editions Philippe Picquier, Arles 2002.

In un ospedale di una lontana periferia di Tokyo, sul mare, una giovane donna, Pai Ran, lascia al marito, in testamento, una lettera d’amore di struggente bellezza. La lettera è scritta

in un giapponese approssimativo e straordinariamente commovente dalla moglie, una cinese costretta a prostituirsi per vivere. Il marito, giapponese, lei non l’ha mai conosciuto. Si sono sposati per corrispondenza. Lui per danaro offertogli da un prosseneta, lei per poter lavorare nel paese straniero. Il marito, uscito di prigione, viene informato della morte di questa moglie mai incontrata e leggendo la sua lettera apprende, dopo morta, ad amarla.

I personaggi di questa breve storia, la morta e il vivo, che quella lettera tiene ormai legati, sono come figurine fragili e tragiche uscite da un film di Kurosawa.  La lettre d’amour è il secondo di due racconti brevi pubblicati nel volumetto di un grande scrittore giapponese ancora poco noto in Italia.

Pasquale Pasquino

Gabriele Dadati, Piccolo testamento, Laurana 2011.

E’ il racconto dell’elaborazione del lutto per la morte del proprio mentore, a seguito di una improvvisa ma inesorabile malattia. Narra della relazione tra l’autore, studente universitario, e uno scrittore-critico-saggista che progressivamente diventa il punto di riferimento anche per la personale maturazione verso l’età adulta. Percorre i rapporti affettivi con la famiglia di origine, le relazioni sentimentali con le persone e con le cose con inusuali capacità descrittive e introspettive, con attenzione quasi spasmodica alla precisione semantica in ragione della dichiarata consapevolezza dell’importanza del significato delle parole (purtroppo spesso dimenticata ai nostri giorni) per l’effettività della comunicazione.

Gherardo Colombo

Stefano Rodotà, Elogio del moralismo, Bari Laterza 2012, edizione Kindle.

Stiamo faticosamente uscendo da un buio tunnel istituzionale ed etico durato quasi venti anni durante i quali il senso dello stato e il rispetto della convivenza civile sono stati sbeffeggiati come inutile moralismo e la scorrettezza politica è stata rivendicata come scaltro meccanismo di confronto: è stato creato un deserto dove non c’è spazio per l’etica, dove si è
costruito un ceto politico che si è trasformato in una irresponsabile corporazione senza legittimazione pubblica e senza fiducia nei cittadini. È scomparsa la stessa idea della responsabilità politica di fronte al parlamento e di fronte agli elettori. Molti sostengono che è sempre stato così. Non è vero. Ciò che una volta si faceva sottobanco e pudicamente è divenuta in questi anni una gioiosa rivendicazione di libertà e irresponsabilità imprenditoriale. L’ottocentesco, guizotiano invito ad arricchirsi è stato reinterpretato come la libertà di saccheggio del patrimonio pubblico e delle istituzioni. Come è possibile? Come è possibile che questo paese, pur abituato ad ogni tipo di nefandezze istituzionali e a una insensibilità morale dovuta centinaia di anni di religione cattolica, sia scivolato così lontano da parametri accettabili di gestione di uno stato democratico? A questa domanda e alle molte altre cui questa domanda rinvia cerca di dare risposte Stefano Rodotà con questa raccolta di scritti.

Stefano Nespor

 Luciano Gallino, La lotta di classe, Bari Laterza 2012

E’ merito di non poco conto l’essere riuscito a fornire un’interpretazione intellettualmente rigorosa dell’attuale crisi mondiale attraverso un paradigma, quello della lotta di classe, considerato ormai desueto e privo di senso. Il sociologo Luciano Gallino ha riconosciuto nella globalizzazione la classe vincente, sempre più ricca, quella che pretende di nascondersi dietro la logica nebbiosa dei mercati ma che si identifica chiaramente nelle grandi banche e nelle corporation multinazionali del capitalismo finanziario e
la classe perdente, cioè la classe operaia o la classe media, sempre più povera. La classe vincente ha ridotto al suo servizio anche gli Stati ovunque proni a garantirne l’ascesa a scapito e danno dei perdenti. E in questo squarcio di storia, garantito dalla politica della destra e dai governi tecnici, resta solo la speranza che lo Stato sociale europeo abbia un risveglio utopico per uscire dalla crisi.

Guido Rossi

Daron Acemoglu – James Robinson, Why Nations Fail: the Origins of Power, Prosperity and Poverty, New York, Crown.

Montesquieu  ha collegato la prosperità dei Paesi al clima, Weber alla cultura (l’etica protestante), i due autori di questo libro, un economista e un professore di “government”, alle istituzioni. Secondo Acemoglu e Robinson istituzioni “inclusive” spiegano la prosperità di alcuni Paesi, mentre istituzioni che essi definiscono “extractive” permettono di comprendere l’arretratezza di altri. Sono “inclusive” le istituzioni che distribuiscono in modo eguale i diritti politici, garantiscono il diritto di proprietà e libertà del contratto, assicurano un sistema di regole eguali per tutti e alcuni servizi pubblici. Sono “extractive” istituzioni che, all’opposto, consentono a una ristretta “élite” di sottrarre ricchezza e lavoro alla società. Gli studi economici hanno a lungo ignorato lo Stato e le istituzioni. Quando li hanno considerati, l’hanno fatto per sottolineare che le strutture economiche determinano le sovrastrutture giuridiche. E’ interessante, ora, che questo importante volume rovesci questa conclusione, sostenendo che le trasformazioni politiche producono le trasformazioni
economiche e che istituzioni democratiche sono la causa del benessere economico. I due autori dimostrano la loro tesi con una grande varietà di esempi di carattere storico. Infatti – essi sostengono – se sono le istituzioni che contano e se le istituzioni sono prodotte, per accumulo o per rivoluzioni, dalla storia, occorre esaminare la storia di ogni Stato. Essi lo fanno andando dalle vicende della colonizzazione spagnola e di quella inglese alla “glorious revolution” inglese, alla storia della Corea e della Cina, a quella francese; vanno dallo studio della traiettoria politica ed economica dell’Egitto a quella dell’Inghilterra, con una analisi che non abbandona mai il piano scientifico ed è, allo stesso tempo, di agevole lettura.

Sabino Cassese

Roberto Escobar, Eroi della politica. Storie di re, capi e fondatori, Mulino 2011; Giulio Giorello, Il tradimento. In politica, in amore e non solo, Longanesi 2011.

Non mi è mai capitato di vedere pubblicati negli stessi giorni due libri così belli, su argomenti così simili, ma elaborati in modo così diverso e indipendente. E siccome queste non sono recensioni, ma segnalazioni, e appaiono a intervalli così lunghi, li segnalo tutti e due: nessuno dei due dev’essere perso, perché il divertimento e la riflessione, leggendoli, sono assicurati. Argomenti simili. In Escobar è l’eroismo, “la capacità eccezionale di..affrontare la complessità del mondo, e di trasformarlo”. E siccome la trasformazione è esercizio di potere, inevitabilmente si parla dei mezzi che a tale scopo possono essere usati, tra i quali la dissimulazione e il tradimento. Il tradimento è invece l’argomento centrale di Giorello, non solo in grandi storie di potere, ma in storie personali e private, seppur rese esemplari dalla grande arte: Otello e Jago, Don Giovanni. E le sovrapposizioni degli esempi non meravigliano: la più illuminante è quella di Giuseppe Flavio, il traditore della rivolta ebraica contro i romani, cui entrambi gli autori dedicano grande rilievo. Materiali di riflessione, dicevo, di una riflessione ininterrotta dai tempi mitici – al mito sono dedicate molte storie di eroismo in Escobar – all’antichità classica e fino ai nostri giorni: i dilemmi etico-politici ci cui si tratta sono degli universali umani percorsi infinite volte. Escobar e Giorello lo sanno e non c’è il loro alcuna pretesa di scioglierli, di riversarci addosso una difficile filosofia. C’è la pretesa, pienamente riuscita, di stimolare la riflessione raccontando e divertendo. C’è la voglia di raccontare storie, a volte storie notissime  ma rivoltate in modo originale, a volte storie meno note e curiose, aiutati anche dalle loro predilezioni narrative, il fumetto (e un po’ di logica) in Giorello, e ovviamente il cinema per Escobar. Insomma, il divertimento è assicurato.

Riserve e critiche? Poche, non gravi, ma ci sarebbero: questa però non è una recensione. Piuttosto una osservazione, su una voglia che è venuta crescendo, specie leggendo il libro di Giorello. Entrambi i libri trattano di personaggi e situazioni tratti dalla grande storia e dalla grande letteratura. Inevitabile in Escobar. Una scelta, felice, in Giorello. Ma sul suo argomento, sul “tradimento in politica, in amore e non solo”, quella scelta conduce a privilegiare grandi personaggi, grandi ed esemplari traditori. Letteratura: anche Jago, il più indifendibile tra costoro, è un gigante rispetto alla merda del tradimento mediocre, sistemico, neppure avvertito come tale, che vediamo intorno a noi, nella politica e nell’economia di ogni giorno, nei rapporti personali tra cui ci capita di vivere. Ma questo sarebbe un altro libro, un libro di sociologia e, temo, assai più noioso.

Michele Salvati

Timothy Snyder, Thinking the Twentieth Century, Penguin, 2012.

Il  libro parla di un secolo, ma ci racconta di un uomo, Tony Judt, colpito da un male mostruoso, con un nome anche più temibile, Sclerosi Laterale Amiotrofica, SLA, che attacca i neuroni del moto ed erode via via tutte le capacità del corpo fisico, lasciando  vivo un cervello sempre più prigioniero di una scatola insensibile, fino alla morte. E’ una condizione terribile che Tony Judt, uno dei maggiori intellettuali contemporanei, ha già descritto nella straziante e avvincente testimonianza (Lo chalet della memoria. Tessere di un Novecento privato, I Robinson 2011) Ma al di là delle emozioni umane, questa vicenda ci dice, a contrariis, qualcosa in un paese come il nostro infestato da “intellettuali pubblici” disposti a cianciare su tutto e dai loro imitatori della domenica. Infatti, come ci racconta la moglie Jennifer Homans  (in “Tony Judt: A Final Victory”, NYB, March 22, 2012), Tony Judt non voleva essere un “intellettuale pubblico”, ma solo un intellettuale impegnato: impegnato  a difendere alcuni valori fondamentali, la verità storica, l’eguaglianza, il rispetto  delle persone, poche cose così. Il libro è stato dettato con immane fatica da Judt e scritto dallo storico austriaco Timothy Snyder, autore di un altro capolavoro sul nostro tempo, Terre insanguinate (tr.it. Milano, 2011). Conclude Jennifer Homans “Tony’s text is dated July 5, 2010. He died on August 6”.

Guido Martinotti

Edmund De Waal (2011) Un’eredità di ambra e avorio. Torino, Bollati Boringhieri. Versione originale, The hare with amber eyes. A hidden inheritance. London, Chatto & Windus.

La lepre dagli occhi d’ambra è un netsuke, piccole miniature di avorio o legno inventate nel 17° secolo in Giappone per chiudere la piccola borsa che gli uomini portavano alla vita sul kimono. Questo è l’unico libro di un famoso ceramista inglese, discendente  della grande, potente, agiata e raffinata famiglia ebrea di origine ucraina degli Ephrussi. Attraverso una elegante descrizione della collezione di netsuke passata da una generazione all’altra della sua famiglia e ora pervenutagli, de Waal narra la storia degli Ephrussi. Da Odessa, a Parigi, a Vienna, a Tokyo a Londra. Il racconto è discreto, elegante, preciso e sottile – come quello delle sue ceramiche – lo stile non pretenzioso di un uomo che scrive perché sente il bisogno di raccontare la storia della sua eccezionale famiglia.

Marina Nespor

Lella Ravasi, L’amore è un ombra. Perché tutte le mamme possono essere terribili, Mondadori 2011.

Il libro è uno squarcio di luce in mezzo al temporale. Un temporale che si tramanda di madre in figlia. Sapere i perché di quel perpetuo diluvio dell’inconscio è l’unico modo per diradare le ombre, non estreme, dell’amore materno. Non abbiate paura, leggete. Conoscere il nostro potenziale terribile ci può aiutare. Però vi avverto non è lettura semplice perché in quelle mamme terribili ognuna ritrova qualcosa di se, della sua mamma, delle sue amiche, delle madri che ci circondano. Le storie estreme di infanticidio hanno spesso dei moventi quotidiani, che ci sembrano irrilevanti, se stiamo bene, ci possono sembrare macigni insuperabili se abbiamo perso noi stesse nelle ombra del materno. Lella Ravasi, psicanalista partecipe e mai giudicante, è in queste pagine una pietosa cronista dell’anima. Il libro è dedicato a tutte le donne che vogliono saperne di più.

Lina Sotis

È un libro difficile da catalogare. Lella Ravasi, psicoanalista junghiana, ci conduce, attraverso il racconto di una serie di storie vere, nel mondo difficile e oscuro del materno. Come ci preannunzia il sottotitolo del libro (“Perché tutte le mamme possono essere terribili”) sono storie difficili, strazianti, crudeli. Sono storie che tendiamo, forse cerchiamo di pensare che non ci riguardano,  tanto sono estranee, diverse, lontane (crediamo) da noi. Ma Lella Ravasi ci spiega  che non  è così: sono storie che ci  riguardano tutti “perché la madre terribile è un’ombra presente in tutte le mamme, anche in quelle ‘buone'”. E ci dice che “la sfida, e l’unico modo per uscirne, è accettare questa contraddizione. Averne la consapevolezza.”  I racconti si susseguono e si fanno leggere come un  romanzo:  sembra una frase fatta, ma è vera.  A volte,  di fronte ad alcuni  di essi è necessario staccare per riprendere fiato . Ma poi  si riprende la lettura, perché si vuole capire.

Eva Cantarella

 Ginevra Bompiani, La stazione termale, Sellerio 2012

Questo libro – non è un romanzo, è un racconto che  però lascia immaginare un romanzo e la sua forza sta proprio nel fatto che il lettore viene preso dalla necessità di immaginarsi il seguito. (Dispiace che finisca, che è sempre un buon segno). Quattro donne di età diversa, una solo bambina, capite, non solo descritte, con grande acume e finezza. Perché l’autrice ha una grande capacità di capire le donne, una qualità tanto più rara se si pensa che qui la storia raccontata non aiuta, perché non c’è contesto denso che dia loro luce, ma l’atmosfera rarefatta di una stazione termale. Dove uno crede di andare per curarsi il corpo, cedere alla seduzione di riportarlo alla giovinezza e invece capita che si soffermi sulla propria anima, a interrogarsi su chi si è. Le Terme, infondo, fanno bene per questo. Se ne esce comunque cambiati. Ginevra Bompiani è editrice, è lei che dirige la piccola ma prestigiosa Nottetempo. Ma francamente non si capisce perché impegni tanto del suo tempo a far scrivere gli altri anziché prenderselo tutto per scrivere lei. Poiché è una scrittrice straordinaria. Lo prova anche questo suo ultimo libro, scritto dopo un lungo intervallo rispetto ai precedenti (e però ora ripubblicati da Et.al :”L’attesa”; ”Lo spazio narrante”; L’età dell’argento”). Una storia curiosa, intrigante, densa di temi pesanti, trattati con infinita leggerezza.

Luciana Castellina

Giulio Sapelli, L’inverno di Monti. Il bisogno della politica, Guerini, Milano 2012,pp.80 €8,00.

(In)seguendo a poche settimane il volume di Giulio Tremonti (Uscita di sicurezza, Rizzoli, Milano 2012) anche Giulio Sapelli ripropone l’abbandono del capitalismo puro (ammesso che in questo paese ci sia ma stato) e invoca il ritorno all’impresa di stato e all’economia mista. Lo fa in un saggio dal titolo brillante, L’inverno di Monti. E lo fa alla grande dando fiato a tutte le sonorità del suo spenglerismo barocco, con un ritmo e una  potenza da Walhalla wagneriano. Poiché Sapelli è persona assai colta e può praticamente parlare in modo intelligente di tutto, o quasi, anche qui, invece di una arida analisi politico-economica ci fornisce un grande affresco, attingendo a piene mani dal meglio della cultura mondiale. Si comincia con Hegel e lo spirito assoluto (riga dieci) per terminare con T.S. Eliot e the darkness of God, ultima riga. Passando per Machiavelli, Engels, Helmut Schmidt, Rosario Romeo, Denis Mc Smith (p.12, ma si dovrebbe scrivere Mack Smith), Henry Kissinger, Palmiro Togliatti, Luigi La Bruna e non molti altri in verità, perché comunque Sapelli ha interiorizzato il sapere contemporaneo e, grazie al cielo, cita poco. La tesi principale è giocata sulla coppia nazione/internazionalizzazione che, più che per altre nazioni, caratterizzerebbe nei suoi intrecci la storia italiana (da p. 9 in poi). Tesi che non mi sembra molto originale e che può essere contestata, perché tutte le nazioni sono il prodotto di quella coppia di ambiti, dipende da come le due variabili, appunto, storicamente si intreccino: per il Regno Unito promuovono la dominazione del mondo, per la Polonia o i Balcani sono la dannazione eterna. Non un cenno alle conseguenze di una presenza internazionale nel cuore della nazione, per mezzo kmq attorno a San Pietro. Più interessante l’analisi  delle caratteristiche socioeconomiche italiane come opposte  e inconciliabili con quelle della egemonica Germania. L’idea più geniale del libro è però l’immagine di Monti in bicicletta che
non curva mai “così da non dovere mai muovere il busto” (p.43). Il punto centrale dell’opera è a p. 71-72: “ si riformino le banche, si esproprino i patrimoni delle Fondazioni Bancarie per trovare i denari per rifondare lo stato imprenditore e si riprenda la strada dell’economia mista”. Ci aveva già provato Giulio Tremonti.

Addendum. Per una vera esperienza intellettuale da leggere in parallelo con Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris (Laterza, Roma 2012).

Guido Martinotti

Javier Cercas, Soldati di Salamina, Guanda 2002.

E’ stato Antonio Tabucchi, mentre parlavamo di Anatomia di un istante, a suggerirmi questo splendido libro di Cercas. L’ho acquistato il giorno dopo ed ancora una volta la ricerca storica di Cercas mi ha affascinato, le ultime pagine mi hanno emozionato. Il perché è chiaro: è una ricerca che ruota attorno alle anime delle persone, più che ai fatti. Si parla della storia di Rafael Sánchez Mazas, scrittore e poeta, cofondatore forse presentabile della Falange. Ma è anche la storia della sua mancata fucilazione, all’inizio del ’39 e alla fine della guerra civile, quando i franchisti stanno per vincere e i miliziani repubblicani per perdere. É un miliziano, appunto, che nel pressi del santuario di Collell, vicino alla frontiera con la Francia, lo scopre nascosto nel bosco, lo guarda negli occhi, ma lo risparmia, voltandosi dall’altra parte. Cercas ritrova coloro che aiutarono Sánchez Mazas a nascondersi. Ma non gli basta: con un’ “originale” consigliera al fianco, Conchi, si lancia sulle labili tracce del mancato giustiziere. Proprio quando sembra arrendersi, si imbatte in Miralles: non è chiaro a lui ed ai lettori se si tratti effettivamente della persona che cercava, ma poteva esserlo, doveva esserlo, tanto ricca e coerente era la sua storia di combattente, cittadino di Stockton, l’immaginaria meta degli umili e dei falliti. Ed eccola la storia di quell’uomo, giunto al termine dei suoi anni, limpido, coraggioso e puro, innamorato del pasodoble, un “soldato solo che tiene alta la bandiera negata, che cammina in avanti, senza sapere dove stia andando, nè con chi né perché, senza che gliene importi tanto, purché sia in avanti, avanti, avanti, sempre avanti“. La storia di Sanchez Mazas, cosí, diventa quella di Miralles e del suo volto segnato dalle cicatrici: Cercas ne rimane affascinato e commosso. Come chi la legge attraverso le sue parole.

 

Alice Banfi, Sottovuoto (Romanzo psichiatrico), Stampa alternativa, 2012 e Tanto scappo lo stesso (Romanzo di una matta), Stampa alternativa , 2008.

Se ci ha messo quasi quattro anni Alice a scrivere la seconda parte della sua storia di matta, un motivo c’è. In Tanto scappo lo stesso aveva raccontato la sua esperienza di ricoveri a ripetizione dentro e fuori da una dozzina di reparti di psichiatria della penisola, nell’arco di diversi anni. Una descrizione asciutta, senza lacrime, ironica e persino amorevole di un inferno, dove i malati vengono legati al letto o chiusi in camerini di isolamento, con modalità che farebbero giustamente scandalo se venissero attuate su pericolosi criminali o sospetti terroristi: i racconti di Alice sono un’occasione unica di vedere ciò che è normalmente sottratto agli occhi dei comuni cittadini, compresi i parlamentari che si stanno dando da fare per allentare ancora le garanzie già insufficienti sui trattamenti coercitivi.  Ma ora, nel suo nuovo romanzo, ad Alice è toccato riappropriarsi anche della parte peggiore, quella in cui rischiava davvero di perdersi e divenire lei stessa, all’interno del sistema, una povera aguzzina di altri più deboli di lei, soprattutto nelle pagine dedicate a “Villa Crispina”, un vero e proprio manicomio, più carcere che ospedale, che sopravvive benissimo dentro l’organizzazione  psichiatrica attuale. Maria Grazia Giannicchedda dice nella prefazione che Alice probabilmente è la “prima testimone” del sistema nato dopo la fine dei manicomi e che questa è la chiave di lettura che ne coglie meglio la novità. E’ vero, ma non è tutto. La narrazione di Alice, senza recriminazioni e senza sconti, neppure verso se stessa, è forse un’operazione più complessa e di maggiore portata. Lo si può intuire dal fatto che, per compierla, l’autrice deve creare un suo linguaggio per descrivere persone e fenomeni per i quali la psichiatria ha elaborato un corposo dizionario, il famoso DSM ora alla quinta edizione, nel quale sono minuziosamente descritti sintomi e diagnosi. E l’invenzione di un linguaggio è sempre un’operazione squisitamente politica, destinata a spostare l’asse del potere.

Roberto Satolli

Julian Barnes, The Sense of an Ending, New York Knopf, 2011.

Tony, the middle-aged narrator of this novel, says he chose a dull, tidy, safe and not important life, an option that others, including his seemingly brilliant school roommate Adrian who later committed suicide, have eschewed. But as Tony muses: “when we are young, we invent different futures for ourselves; when we are old, we invent different pasts for others.”  Perhaps, as we are led to wonder when Tony wrenchingly confronts the progeny of those early school days, his history is flawed. This is a book with the makings of importance: a skilled writer with a proven record, describing a British life that many of us find fascinating and touching on life’s major questions.  Some of our expectations are rewarded in this winner of the Man Booker Prize.  The themes addressed are worthy of contemplation even if Barnes seems at times to be simply listing them: we are brought to ponder them nonetheless.   The writing is mostly lovely and engaging but in places, including when describing awkward sex, is unconvincing if not painful. Short novels can make significant statements; this one is a strong proposal for a better book…..A clever movie must be on the way.

Joseph DiMento

 

Carmen Callil, Bad Faith: A Story of Family and Fatherland, Londra Vintage 2007.

È la biografia di Louis Darquier de Pellepoix. Faceva inizialmente parte di un gruppo di estremisti di destra che prendeva di mira militanti di partiti di sinistra e ebrei. Quando Petain si accordò con Hitler e costituì la repubblica di Vichy, Darquier de Pellepoix assunse il compito di Commissario per gli affari ebraici e fu in questa veste responsabile dell’invio di migliaia di ebrei verso i campi di concentramento nazisti. Dopo la Guerra Louis Darquier de Pellepoix sfuggì ai processi promossi contro i collaborazionisti e a ogni punizione. Andò a vivere in Spagna dove morì negli anni Ottanta.  È la storia di un personaggio che racchiude in sé tutto il percorso dell’antisemitismo francese dello scorso secolo; è anche la storia di un vero e proprio mostro il cui aspetto principale del carattere era l’odio espresso in tutti i modi e in tutte le forme: verso i genitori, verso la propria famiglia, verso la figlia e verso tutto ciò che egli percepiva diverso e nemico.

Jacques Mehler

 

LIBRI DA RILEGGERE

Francis Scott Fitzgerald, The Great Gatsby, edizione per Kindle.

Le feste, le auto, i simboli della ricchezza e del potere, l’amoralità e il vuoto della società americana nei Roaringtwenties, avviata spensieratamente verso il collasso del 1929, visti da Scott Fitzgerald attraverso gli occhi di un suo doppio, Nick Carraway, narratore e partecipante a volte critico a volte ammirato degli eccessi di Gatsby. Questa è stata l’impressione che ho avuto la prima volta che ho letto il libro, molti anni fa, ed è l’impressione che vuole trasmettere il film con DiCaprio. L’acquisto di tutte le opere di Scott Fitzgerald su Kindle mi ha indotto a rileggere il libro qualche mese fa.  Pensavo di trovare una sorta di anticipazione della società italiana degli ultimi venti anni e della crisi di valori che la ha caratterizzata. Ebbene, ho trovato un libro diverso. Soprattutto, mi sono convinto che Scott Fitzgerald volesse scrivere un libro diverso. Voleva scrivere una grande storia d’amore. Certo, ci sono tutte quelle cose, ci sono feste banchetti e champagne, ma è tutta una spettacolare messa in scena organizzata da Jay Gatsby solo per riconquistare Daisy, la donna perduta molti anni prima e ora sposata con Tom, una specie di leghista padano in salsa newyorchese. Non ci riesce, e il suo ultimo gesto d’amore lo porta alla morte. Purtroppo Gatsby non aveva capito, come osserva il narratore nelle ultime pagine, che Daisy e il marito “distruggevano cose e essere viventi e poi si ritiravano nei loro soldi e nella loro sterminata indifferenza o quel che era ciò che li teneva insieme, e lasciavano che gli altri subissero le conseguenze dei loro comportamenti”.

s.n.

 

Carlo Michaelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi 1982.

Il dramma dell’esistenza è paragonabile ad un peso che pende da un gancio: non può che scendere e scenderebbe sino all’infinito se non trovasse – presto o tardi – una fine al suo precipitare verso il basso. Se in un solo attimo potesse fermarsi da sé e possedere l’infinito non sarebbe più un peso. Così l’essere umano non può per sua natura trovare pace, fermarsi e possedere l’infinito, perché la vita e’ tutta protesa verso il futuro, che e’ una mera proiezione, una aspirazione verso l’ignoto che impedisce il possesso pieno e presente della propria persona. La ricerca della persuasione, del possesso di sé nel presente si contrappone alla rettorica, che e’ la convenzione sociale del vivere guardando al domani. Ma le cose del tempo futuro sono un inutile palliativo all’incapacità di possedersi da sé e il tempo dedicato ad un  vivere socialmente accettabile allontana l’uomo dalla propria essenza, rendendo la vita un vuoto contenitore riempito da fatti altrui (ed altrove).

Giulia Gavagnin
 

 Questo quarantunesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel giugno del 2011 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Grafiche Porpora srl di Cernusco sul Naviglio, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – ma non sempre integralmente – il pensiero dell’autore. Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive. I Testi Infedeli escono dal 1989.

Ringrazio per i suggerimenti Salvatore Giannella, Marina Nespor, Pasquale Pasquino.