N. 41 inverno 2011

IN QUESTO NUMERO

 

C’è all’inizio un mio pentimento, forse tardivo e forse inutile: ciò che pensavamo una volta è stato travolto dalla storia.

Poi, ci sono una rielaborazione di un passo di Berselli (tratto da una imperdibile raccolta dei suoi scritti), la abituale storia di un omicidio perpetrato ai danni di un pensatore che chiedeva tolleranza e libertà di religione e una raccolta di riflessioni su Steve Jobs.

Ci sono poesie di Paul Celan e di Josip Brodsky.

C’è poi, in costante aumento, la parte dedicata alle recensioni, questa volta ad opera di Kathleen Bachmann, Daniela Barsocchi, Augusto Bianchi, Sabino Cassese. Eva Cantarella, Luciana Castellina, Gherardo Colombo, Ada Lucia De Cesaris, Joseph DiMento, Giulia Gavagnin, Guido Martinotti, Stefano Nespor, Pasquale Pasquino, Lucrezia Reichlin, Roberto Satolli.

 

In copertina: Paul Celan (matite Winsor & Newton e carboncino su carta)

 

 

AUTODAFÉ

 

Poco tempo fa a una cena da amici mi è capitato di parlare di Fidel Castro. Insieme, abbiamo ricordato l’entusiasmo che la rivoluzione cubana aveva sollevato nei giovani e negli intellettuali di tutto il mondo e le speranze che essa, dopo aver liberato il paese da una crudele ultratrentennale dittatura, fosse l’inizio di un movimento di liberazione che si sarebbe esteso ai paesi dell’America latina oppressi da giunte militari sostenute dagli Stati Uniti.

In quegli anni lo slogan “Un bambino su tre nell’America Latina muore di fame. Nessuno è cubano” rifletteva gli enormi progressi compiuti in quel paese nell’istruzione e nella sanità e, nello stesso tempo, le miserabili condizioni di vita degli stati confinanti.

Ci sembrava incomprensibile che tutte quelle aspettative si fossero vanificate negli anni seguenti, fino a ridurre Cuba nelle disastrose condizioni di oggi: un paese impoverito, arretrato, con la gente privata di basilari diritti e con le città in rovina. Nel frattempo, Argentina, Brasile, Perù, proprio quei paesi per i quali Cuba avrebbe dovuto essere l’esempio, liberatisi dal giogo delle dittature, erano entrati nel grande percorso della globalizzazione e avevano conquistato livelli di benessere e di libertà civili inimmaginabili pochi decenni prima.

Drammaticamente, oggi lo slogan trionfale della Cuba di un tempo potrebbe essere rovesciato: in America Latina, se ci sono bambini affamati, è probabile che qualcuno sia cubano.

 

L’oppressione e la repressione del dissenso sono aumentate. In ottobre è morta Laura Pollàn, un’insegnante che, a seguito dell’arresto del marito e di altre 74 persone nel 2003, tutti poi condannati a decine di anni di carcere con accuse per lo più immaginarie, organizzò il movimento delle Damas en Blanco: mogli e figlie dei condannati si incontravano tutte le domeniche alla chiesa di Santa Rita di Miramar e poi camminavano in silenzio lungo tutta la Quinta Avenida. Per l’intervento della Chiesa cattolica cubana e del governo spagnolo, dopo qualche anno i 75 prigionieri furono liberati.

Eppure, nei confronti di Fidel Castro il mio atteggiamento, e quello di molti altri, è restato, se non più di simpatia, di tollerante disponibilità.

Bene, torniamo alla cena, cui partecipava anche una comune amica, più giovane di noi: non avendo memoria di quel primo periodo di entusiasmi, né della durezza dei conflitti indotti dalla guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma avendo ben presente tutto ciò che da allora era seguito, ci chiese, un po’ provocatoriamente: “come ci si poteva aspettare qualcosa di diverso da una dittatura?”.

L’osservazione ci ha lasciati perplessi e irritati: ci sembrava che si potesse criticare Fidel oggi, ma non quanto è riuscito a realizzare in passato.

E poi, anche da governi non democratici ci si può aspettare qualcosa di diverso da quel che è successo a Cuba. Deng ha preso il controllo della politica cinese e, pur mantenendo intatto il sistema non democratico

 

costruito da Mao, ha sviluppato una economia di tipo capitalistico che ha incrementato la ricchezza del paese dell’800% in 20 anni e ha offerto livelli di benessere insperabili qualche anno addietro. I cinesi oggi non sono liberi ma sono più ricchi.

Fidel invece non è riuscito a dare ai cubani né benessere, né giustizia, né diritti civili e neppure libertà.

Nell’osservazione c’è però del giusto.

Perché, per quanto meritevole sia lo sforzo compiuto dai governi cinesi per migliorare le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone, nessuno di noi apprezza il sistema politico che quello sforzo ha prodotto e le scelte repressive e lesive dei diritti fondamentali che nel corso degli anni sono state compiute. E allora, bisogna chiedersi come abbiamo potuto restare coinvolti in una infatuazione collettiva che ci aveva permesso di vedere con ammirazione chi, subito dopo la conquista del potere, aveva instaurato un sistema repressivo per molti aspetti non diverso dagli altri in Sudamerica. Non erano certo sufficiente giustificazione i goffi tentativi degli Stati Uniti di abbatterlo con invasioni e colpi di stato o di strangolarne l’economia con il blocco economico. Pur senza poter prevedere il futuro, il sostegno dato a Fidel era del tutto incompatibile con gli ideali per i quali ci eravamo sempre battuti di libertà, di giustizia, di uguaglianza, di tutela dei diritti umani. Per quel che mi riguarda è tempo di riconoscere l’errore compiuto.

s.n.

 

SETTE POESIE DI PAUL CELAN

 

Elogio della lontananza

 

Nella  fonte dei tuoi occhi

Intravedo  le reti dei pescatori del mare che non c’è

Nella fonte dei tuoi occhi

Vedo un mare che mantiene le sue promesse.

In questo mare io getto

Un cuore che per tanto tempo è rimasto tra la gente,

getto il mio vestito e lo scintillio di un giuramento.

Più nero del nero, io sono più nudo.

Rifiutando tutto sono fedele.

Io sono te quando sono me stesso.

Nella fonte dei tuoi occhi

Mi dissolvo e sogno di essere rapito.

Una rete si impiglia un’altra rete:

ci separiamo senza riuscire a slegarci.

 

 

Gli anni tra te e me

 

Di nuovo ti si increspano i capelli,

quando mi commuovo

con il verde dei tuoi occhi copri

gli spazi del nostro amore: un letto tra estate e autunno.

Beviamo quel che altri ha vendemmiato,

non ero io, non eri tu

Beviamo qualcosa di vuoto e di conclusivo.

 

Ci guardiamo negli specchi del mare profondo

Ci porgiamo più rapidamente il cibo:

la notte è la notte, comincia al mattino

e mi mette nel letto con te.

 

 

I tuoi capelli

 

La mano stanca piena di ore, e tu sei arrivata da me.

Io dissi:

i tuoi capelli non sono bruni.

Allora tu li hai alzati sulla bilancia del tempo,

sono stati più pesanti del mio corpo.

Loro vengono con le navi e caricano i tuoi capelli

Li offrono in vendita sul mercato del piacere

Tu mi sorridi, io piango.

Io piango. I tuoi capelli non sono bruni,

loro ti offrono l’acqua del mare, tu offri i tuoi riccioli

tu mi sussurri: loro hanno riempito il mondo con i miei capelli, io resto una fenditura nel tuo cuore.

Tu mi dici: fammi sentire le foglie dei tuoi anni: baciami.

Le foglie dei miei anni sono bruni, i tuoi capelli non lo sono.

 

Corona

 

Dalla mano mangia l’autunno la sua foglia: siamo amici.

Sgusciamo il tempo dalle noci

gli insegniamo a camminare.

 

Il tempo ritorna nel guscio.

Nello specchio è domenica,

nel sogno si dorme.

La bocca parla il vero.

Il mio occhio scende sulle forme della donna che amo

Ci guardiamo;

Le dico cose oscure;

Ci amiamo come papavero e memoria

Dormiamo abbracciati come il vino nelle conchiglie,

come dorme il mare nel raggio insanguinato della luna.

Stiamo abbracciati alla finestra, ci vedono dalla strada:

è tempo che si sappia!

È tempo che la pietra si adatti a fiorire

Che l’ansia faccia battere un cuore.

È tempo.

 

 

Bevemmo pioggia

 

Dormi, i miei occhi saranno aperti.

La pioggia ha colmato la brocca, noi l’abbiamo vuotata.

La notte farà nascere un cuore

e il cuore uno stelo sottile

Ma per mietere ed essere felici è troppo tardi.

Come sono bianchi i tuoi capelli, vento della notte!

Bianco è ciò che mi resta, bianco ciò che perdo.

Lei conta le ore, io conto gli anni.

Abbiamo bevuto pioggia.

Pioggia abbiamo bevuto.

 

Al di là

 

Filamenti di sole,

sopra la malinconia grigionera.

Un pensiero ad altezza d’albero

Si aggrappa al suono della luce: ci sono

Ancora canti che possono essere cantati

Al di là degli uomini.

 

 

Al figlio Eric

 

Ho tagliato bambù:

per te, figlio mio.

Ho vissuto.

Codesta capanna, che domani

Sarà altrove, ora regge.

Non diedi mano a costruirla: tu

non sai in quali

vasi io misi, anni addietro,

la sabbia che mi stava intorno.

La tua nasce libera

Libera rimane.

La canna, che prende piede qui, domani

s’innalzerà, ovunque

l’anima ti possa spingere,

fuori d’ogni vincolo.

 

Queste mie traduzioni rendono solo parzialmente il linguaggio di Celan, che torce e plasma il tedesco con
espressioni imprevedibili e dense di magia. Tranne l’ultima, sono tutte  poesie tratte dalle sue prime raccolte (in particolare da Mohn und Gedachtnis); avrei potuto pubblicarne molte di più, tanto ciascuna è diversa dall’altra e diversamente evocativa di immagini e di sogni. La raccolta delle poesie di Celan (ottima quella dei Meridiani con il testo a fronte e con un avvincente saggio introduttivo) merita di stare sul comodino per essere sfogliata nel corso del tempo.

Paul Antschel (Celan è lo pseudonimo) nacque nel 1920 da una famiglia ebrea di lingua tedesca a Czernovitz, in Bucovina (oggi territorio ucraino), la città descritta in molti suoi romanzi e racconti da Gregor von Rezzori. Dopo aver studiato medicina a Parigi, fece ritorno in patria poco prima dello scoppio della guerra. I genitori morirono in un campo di concentramento (la madre uccisa con un colpo di pistola perché ritenuta non più adatta al lavoro); Celan riusci dopo diciotto mesi di lavori forzati a fuggire. Nel 1945 si stabilì a Bucarest, ma si trasferì a Parigi nel 1948. La prima raccolta di poesie passò inosservata, ma il secondo libro, appunto Mohn und Gedachtnis, lo rese famoso. Nel frattempo tradusse in tedesco opere di Henry Michaux, René Char, Osip Mandelstam, Fernando Pessoa.  Nel 1959 fu nominato lettore di lingua tedesca presso l’’École Normal Superieure. Nel 1960 ricevette il più prestigioso premio letterario tedesco, il Georg Buchner Preis. Pur parlando e scrivendo correttamente in almeno sette lingue (rumeno, tedesco, ebraico, inglese, francese,
russo, italiano), Celan scelse di scrivere sempre le sue opere in lingua tedesca. Si uccise nel 1970 gettandosi nella Senna.

Poco prima, dedicò al figlio Eric una poesia, inserita nella raccolta Rosa di Nessuno. È l’ultima tra quelle qui pubblicate. Altre poesie di Celan sono sui TI dell’estate del 2001.

Su Celan, consiglio due libri: Chalfen Israel, Paul Celan: biografia della giovinezza, la Giuntina 2008; J.Felstiner, Paul Celan Poet, Survivor, Jew, Yale University Press 1995.

 

L’EGEMONIA DEGLI INFALLIBILI.

 

A nessuno dei miei amici è mai capitato di incontrare qualcuno che fosse un ammiratore di Baricco. Ma poi ogni romanzo di Baricco schizza inevitabilmente in cima alla lista dei libri più venduti. Allora, bisogna concludere che quelli che noi frequentiamo non sono un campione rappresentativo. Là fuori c’è un mondo sconosciuto, in cui si muove la gente vera, il pubblico autentico, quello che compra i libri di Baricco e anche di Pennac, che va al cinema a vedere Benigni (e si proclama ammirato per quella nefandezza, tipica dei tempi berlusconiani in cui siamo vissuti, che è La vita è bella), passa molti sabati pomeriggio agli outlet che ormai si espandono a macchia d’olio sul territorio per vestirsi come la moda impone e si fa piacere quello che passa il mercato.

Noi invece parliamo di cose e facciamo cose che interessano solo a noi. Non leggiamo un successo mondiale come il Codice da Vinci, non compriamo i bestseller di Camilleri, non guardiamo fiction e reality alla televisione, non abbiamo mai visto il Festival di Sanremo. Non frequentiamo neppure i ristoranti dove vanno i vip (e, sotto sotto, siamo convinti che i vip dovrebbero venire a vederci nelle trattorie dove andiamo abitualmente noi).

È così: là  fuori, in un mondo hobbesiano attraversato da conflitti e malvagità, ricco di inestesismi e di mitologie ignoranti, c’è un vasto pubblico cui piace la cacca. Noi non abbiamo nulla a che fare con quella
gente, ma, diligentemente, prendiamo atto della loro esistenza, con l’atteggiamento che le comunità evolute mostrano verso gli indigeni, gli anziani, le culture minori, le mentalità primitive. Usiamo quel sentimento di benevolenza che si  rivolge di solito ai parenti non troppo stretti, che si usa ai matrimoni e ai funerali: compiacenza volonterosa e distratta senza coinvolgimento.

Non è vero che il pubblico sia sempre cretino. Ci sono film, come l’indimenticabile Io ballo da sola di Bertolucci, o Pinocchio di Benigni oppure This is the place di Sorrentino (salvato a stento dalla magistrale quanto inutile interpretazione di Sean Penn) durante i quali sorgono in sala gemiti a ogni battuta demenziale prevista da sceneggiature e trame molto crudeli verso lo spettatore. Tuttavia, la gente tiene dentro di sé il disgusto per paura di avere frainteso un capolavoro. Per il vero, succedeva anche con Brecht, e gli infiniti drammi brechtiani che, somministrati nella particolare mediazione di Giorgio Strehler, sono stati inflitti a tutti i giovani italiani. Per non parlare delle torture inflitte dalle composizioni di Luigi Nono, nel segno della grande avanzata culturale delle masse,  agli adepti della musica moderna.

 

da Edmondo Berselli, Nei momenti di malumore, inserito nella raccolta degli scritti Quel gran pezzo dell’Italia. Tutte le opere 1995-2010, Mondadori, 2011.

 

RIFLESSIONI SU STEVE JOBS

 

I

Uno degli irrisolti interrogativi della rivoluzione industriale  è perché cominciò in Inghilterra e non altrove. Come per la caduta dell’Impero romano, molte spiegazioni, è noto, sono state offerte: in Gran Bretagna c’era molto carbone disponibile; c’era un sistema che proteggeva la proprietà intellettuale; il costo del lavoro era elevato e questo incoraggiava la ricerca di innovazioni.

Secondo un recente saggio di due economisti, Ralf Meisenzahl e Joel Mokyr, è contato soprattutto è stato il capitale umano: l’Inghilterra si è trovata ad avere un gruppo di ingegneri,  artigiani e imprenditori più preparati, più creativi, più intraprendenti che altri paesi. Ed è contato soprattutto quel gruppo di uomini che i due autori chiamano Tweakers: uomini che non inventano macchine e strumenti, ma li sanno mettere a punto, li perfezionano, li rendono produttivi ai massimi livelli possibili. Così, nel 1779, Samuel Crompton inventò la spinning mule, la macchina per filare che rese possibile la meccanizzazione della manifattura del cotone. Poi Henry Stones ebbe l’idea di aggiungere alla spinning mule delle rotelle di metallo; James Hargreaves inserì un meccanismo per evitare sbalzi nell’accelerazione e decelerazione della macchina; e poi William Kelly, John Kennedy e, soprattutto, Richard Roberts aggiunsero piccoli perfezionamenti,
aumentando la velocità e la precisione della filatrice. Furono questi tweakers a introdurre le microinvenzioni necessarie per rendere remunerative le grandi invenzioni. È questo continuo perfezionamento che, secondo Meisenzahl e Mokyr è fondamentale per il progresso ed ha permesso la rivoluzione industriale. James Watt ha inventato, è vero, la macchina a vapore, raddoppiando l’efficienza delle macchine disponibile in precedenza. Ma quando sono sopraggiunti i perfezionatori, l’efficienza delle macchine a vapore è quadruplicata.

Insomma, ci sono i visionari creativi che partono da una pagina tutta bianca e ricreano un mondo. Poi, ci sono i tweakers che prendono ciò che è stato fatto e lo portano a perfezione. Bene, Jobs era uno di questi: non era un creatore, prendeva le idee degli altri e le portava a perfezione.

II

Stay hungry, Stay foolish.

Questa frase suona come un lampo nel cielo senza stelle che vediamo ogni giorno.

Oggi questa stessa frase risuona in modo quasi ossessivo, tutti la scrivono, la pronunciano, la postano su Facebook. Anzi, nel social network questa è la frase più citata di sempre.

Nella sua semplicità ed immediatezza e nel dotto contesto nel quale è stata pronunciata, è la perfetta sintesi del discorso tenuto dal CEO di Apple a Stanford, quando annunciò la sua malattia di fronte a giovani che avevano ‘tutta la vita davanti’. Ma è anche un monito

 

che sembra essere stato pronunciato da una rockstar, la rockstar che, in effetti, Steve Jobs era diventato.

E’ una frase che fa sognare, perché nella sua semplicità disvela la verità dell’esistenza. Essere se stessi. Ma disvela anche l’altro, drammatico, lato della medaglia. Il percorso che porta alla scoperta e alla realizzazione di se stessi è spesso tortuoso e labirintico, non alla portata di tutti.

Tuttavia, al di là della forza contagiosa che promanava dal personaggio-Jobs (simpatico e di quella sinistra creativa che piace a tutti, l’antagonista del capitalista e arrogante Bill Gates), mi chiedo se davvero le invenzioni di costui abbiano migliorato la nostra vita, al di là della loro irresistibile estetica: Mac Book, IPhone, Ipad sono oggetti belli da vedere e da toccare.

Ma, siamo certi che l’utilizzo comune di questi strumenti non abbia sottratto anziché aver dato?

E’ come se all’umanità sia stato dato uno strumento seducente e veloce che però, di fatto, non riesce a gestire. Il tempo risparmiato grazie all’Ipad e all’Iphone è poi sprecato in mail inutili. Nell’asserita necessità di guardare un link, un attachment, un’immagine che poi, puntualmente, si rivela non necessaria. Per non parlare dell’Ipod che ha sancito, di fatto, la morte della musica rendendo vana la pubblicazione dei dischi e, con essa, la spinta del singolo artista a produrre buona musica.

III

Chiunque sia interessato alla musica, all’arte, al cinema e anche gli eroici ritorni sulla scena con ricche ricompense e alla possibilità di portare con sé molte

 

varianti di infinito nella propria tasca resterà attonito per la scomparsa di questa titanica presenza nella nostra vita. Abbiamo perso il nostro tecno impresario di sogni digitali. Vladimir Nabokov ha scritto in una sua lettera che, quando finiva un racconto, si sentiva come una casa dalla quale gli inquilini se ne erano andati portando via il piano a coda. Questo è quanto si sente perdendo Steve Jobs. Il piano a coda se ne è andato.

IV

 

Perché la sinistra è destinata a perdere in questo paese, e non solo in questo paese? Perché è popolata di persone che non hanno capito che la vera, e del resto, intuitiva, scelta di sinistra e di progresso è per l’innovazione, il cambiamento, la denazionalizzazione.

Perché non ha capito che schierarsi con il passato, con la tradizione, con le coltivazioni biologiche invece che con le biotecnologie, con i treni affollati invece che con l’Alta velocità, con conservare invece che cambiare significa solo privilegiare chi non vuole cambiare, non vuole innovare, non vuole cercare nuovi equilibri nei rapporti sociali e produttivi. La sinistra è ricerca di cambiamento, non freno all’innovazione. È scoperta, non rifiuto. E apertura al mondo, non chiusura nazionalistica. È sguardo verso il futuro, non avvinghiamento al passato. Soprattutto, è capacità di fare impresa, di innovare, di rischiare in una cornice di welfare di attutimento delle disuguaglianze e di protezione dei deboli, non difesa dell’esistente. Jobs ha
rappresentato innovazione e coraggio, così come il suo antagonista Bill Gates ha rappresentato l’aspetto sociale e protettivo del capitalismo. Il vero problema è che nessuno dei due piace a tutti quelli, estremisti e ben nutriti, che si annidano nelle nostre sinistre.

Il primo pezzo è tratto da Malcom Gladwell, The Tweakers. Il secondo è di Giulia Gavagnin. Il terzo di Nicholson Baker (pubblicato, insieme al primo, sul New Yorker del 17 ottobre 2011. Il quarto è di Serge Richter.

 

POESIE DI JOSIP BRODSKY

Uno Spicchio Di Luna Di Miele (1963)

Non dimenticare

come sgorga l’acqua tra le rocce,

e come è soffice l’aria d’autunno.

Intorno a noi  gabbiani gridano,

le barche guardano nel cielo,

le nubi si inseguono in alto

come uno stormo di anatre.

Possa nel tuo cuore

palpitare e risuonare

come un’ostrica

un frammento della nostra vita insieme

Possa sentirsi il fruscio delle conchiglie,

E possa la passione

aiutarti a capire

come la schiuma delle onde del mare,

per arrivare alla terra,

generi alte onde.

 

 

Da Quinto anniversario (4 giugno 1977)

 

Una stella cadente, che poi è un asteroide, subito

Cattura gli occhi che vagano nello spazio.

Guarda, guarda là dove non dovresti.

La stanno immobili cupe foreste

Il treno cerca di raggiungere la sua meta.

Che però non esiste.

 

Principio e fine allo sguardo là la vita nasconde.

È invisibile chi è morto

Ed anche chi è soltanto concepito.

Per gli uccelli dovrebbe essere diverso.

Però gli uccelli non sanno molto.

Là un pianoforte picchia sulle tue tempie al crepuscolo

Là la giacca appesa all’armadio è smangiucchiata dalle tarme.

Al mare sorride l’antica quercia delle favole.

 

 

Da elegie romane

 

Un pianoforte suona nell’intervallo del pasto.

Il silenzio del vicolo addormentato

si copre di bemolle

Come un pesce di scaglie

E l’intonaco scuro, gonfiando le branchie,

respira l’aria densa d’umidità dell’agosto;

nella profondità della gola riarsa,

briciola di refrigerio, come perla fredda,

rotola Orazio: Exegi monumentum.

Io non ho eretto opere in pietra, visibili fino alle nuvole.

Del mio avvenire ho appreso da libri, lettere e inchiostro.

Così ci si addormenta,

abbracciati  a una Leica,

per imprimere i sogni nella lente,

e riconoscere sé stessi in una foto,

per svegliarsi un una vita più lunga.

 

Due pensieri sulla vita

 

La vita è un gioco con molte regole ma senza arbitri. Per questo molti barano, pochi vincono e la maggior parte perde.

La vita è una battaglia non tra il male e il bene ma tra il male e il peggio.

Joseph Brodsky è nato a Leningrado (St. Petersburg) nel 1940. A 14 anni chiese di essere ammesso all’accademia navale; venne respinto in quanto ebreo. Nel 1955 iniziò a scrivere poesie  e traduzioni in russo – usando versioni polacche – di Donne, Proust, Kafka e Faulkner, e anche di Yellow Submarine dei Beatles. I sui scritti erano pubblicati su samizdat e sulla rivista clandestina Sintaksis. Quale parassita sociale (“pseudopoeta in calzoni di velluto”) fu dapprima internato in un manicomio per “paranoia riformista”, poi condannato nel 1964 a cinque anni di lavori forzati;  fu inviato ad Archangelsk dove fu adibito a tagliare legna. Fu liberato nel 1965 per le proteste di intellettuali suoi amici, tra cui Anna Akmatova e Dimitri Shostakovitch. Nel 1972, mandato in esilio, si trasferì a New York e divenne cittadino americano nel 1977. Insegnò in molte università americane, tra cui Columbia e Yale. In inglese scrisse saggi e divenne collaboratore abituale della New York Review of Books e della Partisan Review. Ha ricevuto il premio Nobel nel 1987. È morto nel 1996.

 

BREVE STORIA DI AONIO PALEARIO

Antonio della Paglia (che in seguito, come molti umanisti, modificò il suo nome in Aonio Paleario), nacque a Veroli, vicino a Frosinone, nel 1503. Studiò filosofia e teologia a Padova e a Siena; fu attratto dal pensiero di Erasmo e maturò un crescente interesse per le idee riformatrici. Dal 1536 visse tra Siena, Colle Val d’Elsa e Lucca, suscitando sospetti in esponenti della Chiesa locale; rispose con uno scritto, Pro se ipso, in cui esponeva le sue idee a difesa della libertà di coscienza. Nel 1546 fu chiamato a Lucca come professore di lettere greche e latine e fu in stretto contatto con i seguaci della Riforma. Da Lucca si trasferì a Milano. Qui nel 1559 fu denunciato all’Inquisizione, in quanto in una sua opera ora perduta avrebbe negato l’esistenza del Purgatorio; venne assolto per insufficienza di prove. Nuovamente denunciato otto anni dopo, rendendosi conto che la fuga sarebbe stata impossibile anche per le sue malferme condizioni di salute, dopo aver consegnato a Zwinger l’ultima sua opera, l’Actio in pontifices romanos che espone la sua completa adesione alle dottrine della Riforma, si reca a Roma e si presenta al Tribunale dell’Inquisizione. Subito incarcerato, per oltre due anni si rifiutò di ritrattare le sue idee, di abiurare e di indossare l’abito giallo obbligatorio per gli eretici. Nel corso dell’ultima udienza del processo, davanti a Pio V che presiedeva il Tribunale ribadì con fermezza le sue convinzioni. Condannato a morte, il 3 luglio del 1570 fu

 

prima impiccato e poi arso sul rogo eretto davanti a Castel Sant’Angelo.

Vale la pena di pensare per quali futili ragioni si poteva morire quando la il potere religioso aveva la possibilità di imporre le proprie idee.

Su Aonio Paleario: Alete Dal Canto, Un martire del libero pensiero, Bastogi Editrice italiana, 1995; Darrell Young, The Life and Times of Aonio Paleario or a History of the Italian Reformers in the 16th Century, consultabile online  in GeneralBooksClub.com

 

LIBRI DA LEGGERE

Aharon Appelfeld, Le garçon qui voulait dormir, Paris, Editions de l’Olivier, 2011.

Erwin, un giovane sopravvissuto al massacro degli ebrei in Bucovina arriva, protetto dal sonno, alla fine della guerra, sulle spiagge di Napoli. I sogni lo mantengono in contatto con la sua infanzia e con i genitori e tessono un filo sottile fra lui, salvato, e loro, sommersi nel gorgo. A Napoli inizia una nuova vita che lo trapianta dalla sua lingua e dalle sue radici europee verso l’utopia di Israele. La guerra, la malattia. E la conquista della lingua nuova.

Appelfeld, il più notevole degli scrittori israeliani della sua generazione, racconta in questo capolavoro il cammino di dolore e di pietà che va dalla morte alla vita (Pasquale Pasquino).

 

Luigi Buffarini Guidi, La lunga strada per Kathmandu (Quando gli Hippies migravano in Oriente), Gallino Editore, 2011.

Siamo alla fine degli anni sessanta. In America e in Europa una parte della giovane generazione – gli hippies o i figli dei fiori, come si chiamavano – è in rivolta contro la guerra del Vietnam e pretende una società più’ libera (cannabis compresa) e nuovi valori spirituali. A un certo

momento un flusso di giovani viandanti comincia a dirigersi verso Kathmandu, la remota capitale del Nepal, dove l’hashish e’ libero e la felicità possibile…

Buffarini racconta, con grande vivacità di immagini e

 

buon piglio narrativo, uno di questi viaggi sgangherati, da Milano a Kathmandu su un Ford Transit : una lenta peregrinazione attraverso la Turchia, l’Iran. L’Afghanistan, il Pakistan e l’India, tra incerti imprevedibili, difficoltà di ogni tipo, litigi, episodi esilaranti, tragedie.

Un volume che tuffa (o rituffa) il lettore in un mondo – scomparso per sempre – di gioiosa follia, dove era possibile affermare con grande serietà: “Bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante”. (Augusto Bianchi).

 

Amos OZ, Il monte del cattivo consiglio, Feltrinelli 2011.

Tre novelle, scritte tra il 1974 e il 1975, che raccontano, attraverso gli occhi di un bambino, il sentire comune, il fermento delle vite e l’atmosfera alla vigilia  della nascita dello Stato di Israele.

Le contraddizioni, le difficoltà, le novità e le aspettative che preludono ad un passaggio dirompente, comunicate attraverso  le vite dei personaggi di una famiglia, la crescita di un bambino, i mutamenti della vita di ogni giorno, i sentimenti, il paesaggio.  Si percepisce l’ansia della guerra in arrivo, ma nella vita della piccola famiglia, in ciò che circonda il signor Levi e nell’ esistenza del dottor Nussbaum e la sua malattia,  c’è speranza, nostalgia, malinconia ma anche curiosità e coraggio. Quel bambino ha la precisa percezione che stava accadendo qualcosa di rivoluzionario, ma che si
sarebbe trattato di un percorso lungo, che lo avrebbe accompagnato sino all’età matura e forse oltre (Ada Lucia De Cesaris).

 

Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza 2011.

Consumo e scempio del territorio, aria e acqua, scuola pubblica e università, informazione critica. I beni comuni sono l’oggetto di un libro che da un canto, per la scrittura appassionata accessibile a tutti, è – come il titolo segnala – un manifesto; dall’altro, date le competenze del suo autore, è un saggio nel quale sono confluiti oltre vent’anni di ricerca scientifica. Ugo Mattei, infatti (docente di Diritto civile all’Università di Torino e di International and Comparative Law presso lo Hastings College of the Law a San Francisco) ha dedicato i suoi studi al diritto di proprietà. In questo libro, con specifico riferimento ai beni comuni, ci spiega come essi non producano profitti se il diritto non li rende artificialmente capaci di farlo. I beni comuni infatti offrono servizi che vengono dati per scontati da chi ne trae beneficio, e il loro valore si misura soltanto in termini di sostituzione (quando questa è possibile) dopo che essi sono stati distrutti. La coscienza del valore dei beni comuni, dice Mattei, può essere creata solo sul fronte della domanda, grazie a specifici investimenti atti a fa nascere la consapevolezza del nostro rapporto con il contesto in cui essi producono i loro servizi. Quando gli italiani, per consentire alle grandi navi da trasporto di attraccare a Mogadiscio
distrussero la barriera corallina in Somalia, aprirono la via agli squali, facendo della spiaggia di Mogadiscio uno dei posti più pericolosi del mondo per la balneazione. Quanto costerebbe (e quali sarebbero le tecnologie capaci di) costruire artificialmente una simile barriera? Ma purtroppo non abbiamo solo esempi lontani. Al del là della perdita intollerabile e irreparabile di vite umane, quanto costerebbe ricostituire il patrimonio idrogeologico italiano? I beni comuni, conclude Mattei, vanno intesi come categoria politica capace di riconquistare spazi pubblici democratici, dove lottare per un progetto collettivo fondato non più sul profitto, ma sulla qualità dei rapporti (Eva Cantarella).

 

Tom Rachman, The Imperfectionists,  Random House, 2010.

Occasionally a novel comes close to being important and yet ends up being just enjoyable. The Imperfectionists revolves around a fictional English-language newspaper published in Rome.   At its best,   as one reviewer said,   it is a “modern day Dubliners”, touching sensitively on the fears,   jealousies, and  terrible hurts of the newspaper staff,   their friends and lovers  As a story about journalism moving from 1954 to the digital age it might be summarized by a comment made to  a writer of obituaries by his soon-to-die Austrian intellectual subject: “Claw your way to the bottom, did you?”. Sometimes overwritten,   The Imperfectionists  in most parts works  at some level  including in chapters that

 

are Hunter Thompson caricature.  This is a book for those  who love newspaper novels and newspapers and  those who delight in  hearing how foreigners view Italians (Joseph DiMento).

 

Carmen M. Reinhart- Kenneth S. Rogoff, This time is different. Eight centuries of Financial Folly, Princeton University Press 2009.

Questa volta è diverso. Questo è il provocante titolo di un libro che, sulla base di  un esame analitico, rigorosamente statistico e quantitativo delle crisi economiche degli ultimi ottocento anni, giunge a una conclusione: non importa quanto diversa sembra questa crisi finanziaria da quelle che la hanno preceduta, tutte le crisi hanno qualcosa in comune. Non c’è nulla, in questo settore, di straordinariamente nuovo o diverso:

rendersene conto può forse aiutare a prevenire in futuro nuove e ancor peggiori disastri economici.

Certamente, le crisi finanziarie non sono tutte uguali. Ci sono fallimenti di Stati sovrani che si verificano quando un governo non è più in grado di pagare i suoi debiti con l’estero o internamente. Ci sono crisi bancarie, come quella verificatesi alcuni anni fa, dove all’improvviso si scopre che molte delle maggiori banche non riescono a far fronte ai propri obblighi. Ci sono crisi monetarie, quali quelle che hanno colpito l’Asia o l’America latina negli anni Novanta dell’altro secolo, allorché la moneta si deprezza così rapidamente, da impedire allo Stato di far fronte a impegni contratti internazionalmente. Tutte

 

sono ripetutamente accadute nel corso dei secoli. Anzi, si può dire che è l’assenza di fallimenti o default statali nei primi anni di questo decennio che rappresenta una anomalia (Stefano Nespor).

Richard Yates, Revolutionary Road, Vintage, 2009; ed italiana Minimum fax 2009.

E’ un romanzo del 1961, che ho letto solo dopo aver visto il film di Sam Mendes, con Kate Winslet e Leonardo Di Caprio. L’opera di Richard Yates venne presto dimenticata, salvo essere inserita nel 2005 da Time nella lista dei 100 migliori romanzi in lingue inglese del secolo scorso.

La vicenda si svolge a dieci anni dalla fine della guerra, e rappresenta la consapevolezza che il “sogno americano”, e non solo quello, è privo di contenuto. La frase chiave, che avrebbe dovuto dare il titolo al romanzo (Yates ha sempre avuto difficoltà con i titoli, scegliendo spesso parole che non dicono nulla), è “the hopeless emptiness of everything in this country”. La pronuncia il protagonista, in preda all’entusiasmo per uno sconclusionato progetto di trasferirsi con la famiglia a Parigi, e la riprende un conoscente malato di mente, ricoverato in libera uscita, che chiosa: “It does take a certain amount of guts to see the emptiness, but it takes a whole hell of a lot more to see the hopelessness”. Li prenderà entrambe tragicamente sul serio la protagonista, lasciando i lettori a chiedersi chi sia, tra tutti, il vero matto.

Un’altra frase mi ha colpito, sempre del protagonista, che dice alla moglie in un momento in cui vorrebbe
convincerla che tutto va bene nel loro tran tran: “In fondo non c’è nulla di male nel possedere una televisione”. Siamo nel 1955, in Italia le prime trasmissioni sono iniziate da pochi mesi. Nessun intellettuale ha mai individuato in un nuovo media un pericolo assoluto, tranne che per la TV. Non è accaduto per la radio, per Internet, per il web 2.0 e per gli smartphone (Roberto Satolli).

 

Zachar Prilepin, Patologie, Voland 2010.

Zachar Prilepin è stato “homon”, militare nelle truppe speciali russe impegnate nella guerra di Cecenia, di cui in “Patologie” descrive con durezza estrema gli orrori. Oggi vive in campagna nei pressi di Nizny Novgorod, con quattro figli che non manda nemmeno a scuola. Preferisce crescano al solo contatto della natura. Del suo libro, che in patria ha avuto molto successo, dice:”E’ un atto d’amore per la vita”.

In Russia c’è oggi una leva di scrittori arrabbiati:    Erofeev, Sorokin, Limonov i più noti. Quest’ultimo, già esiliato ai tempi dell’URSS ma da tempo rientrato a Mosca, ha anche fondato un partito chiamato nazional bolscevico che Putin si è affrettato a sciogliere. Molti dei loro volumi sono stati tradotti  in Italia. Per capire la Russia di oggi vale la pena di leggerli (Luciana Castellina).

 

Michail Bulgakov, Cuore di cane, Feltrinelli, 2011.

Questo piccolo, grande capolavoro di ironia, di magia, intelligenza e critica sottile  ma evidente al sistema
sovietico, fu scritto da Bulgakov nel 1925 ma venne pubblicato in URSS solo nel 1987 ed è oggi ripubblicato in una nuova traduzione.  Un noto professore di Mosca deve la sua fama a spericolate operazioni che pratica su uomini e donne di una certa età per ringiovanirli sessualmente (e questo a riprova ulteriore dell’attualità del testo se ci spostiamo in Italia ai giorni nostri) ma la sua sete di sperimentazione lo porta molto oltre: trapianterà in un cane cervello e ghiandole seminali di un uomo appena morto . Non c’è bisogno di raccontare altro della trama  lasciando al lettore il piacere di scoprire, leggendolo, il prosieguo della storia, l’intelligenza, l’ironia, e perché no, la sua malinconia. Il volume contiene anche il racconto Uova fatali (Daniela Barsocchi).

 

Hazel Rowley, Franklin and Eleanor. An extraordinary marriage, Farrar Straus and Giroux New York 2010.

A proposito di privacy degli uomini politici.

Siamo abituati a un’America che scruta attraverso il buco della serratura i candidati a cariche elettive per scoprire se ci sono comportamenti non in linea con la morale ufficiale. Molte carriere si sono infrante sugli scoop di giornalisti che hanno rintracciato amanti clandestine, figli irregolari e così via. Non sempre era così. Una delle più celebri coppie del secolo scorso, Franklin Delano Roosevelt e la moglie Eleanor, hanno avuto una vita privata certamente inusuale. Pur
mantenendo un intenso rapporto affettivo, Franklin ha avuto varie amanti neppure troppo clandestine e Eleanor un intenso rapporto affettivo con una sua collaboratrice.

Tutto ciò non ha impedito agli americani di rieleggere FDR per quattro volte alla presidenza degli Stati Uniti, e di venerare Eleanor come una delle più grandi donne dell’epoca. L’autrice, specializzata nelle doppie biografie, dopo quella di Simone de Beauvoir e Sartre affronta la storia del rapporto tra  FDR e di Eleanor, attraverso i primi incontri, mantenendo sullo sfondo l’ affermazione politica di FDR nonostante il suo severo handicap causato dalla polio e poi gli anni della presidenza, del New Deal e della guerra. Si sofferma su questo rapporto non convenzionale basato su comprensione, libertà,  solidarietà, amici comuni. Ma ciò che emerge è anche la maturità del popolo americano indifferente ai fatti privati e alla limitazione fisica (Kathleen Bachmann).

 

Mario Praz, Il demone dell’analogia, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2002

E’ un libro vecchio, ma così dimenticato che vale la pena di ricordarlo. “Ah, il demone dell’analogia!”, lamenta Mario Praz, che  da fine letterato ci avverte dei rischi dell’impiego sconsiderato di questo potente strumento dell’intelletto: “non sarà il solo caso in cui una virtù, trasferita in un campo non pertinente, diventa un incomodo o un vizio, ma certo quello del demone dell’analogia è un esempio estremo di codesta estrema ambivalenza”. Praz paragona l’analogia ai pesci tropicali

 

che, squisiti se pescati in mare aperto, risultano velenosi se catturati pochi metri più in là, all’interno della laguna corallina. E ci insegna che “ il mondo del poeta è tutto un generarsi e decomporsi d’immagini sotto l’assillo del demone dell’analogia che crea e insieme distrugge”, ma se “una fata maligna dia invece il dubbio dono dell’associazione per analogia a un uomo che non sia un poeta, ne seguiranno i malintesi più strani per cui quel tapino si esporrà alle figure più imbarazzanti e ridicole”(ivi). Non si potrebbe dire meglio né trovare un migliore esempio dei rischi cui si espone chi non rispetta la specificità delle lingue e crede di fare scienza mentre sta solo facendo cattiva letteratura.

Certo, siamo tutti a rischio, l’analogia è veramente un demone insidioso, ma la disciplina del ricercatore scientifico dovrebbe essere sufficiente a mettere in guardia contro i cedimenti in questo senso, e fa specie che sia un letterato (vero) a doverlo insegnare a chi per mestiere questo demone dovrebbe aver esorcizzato nel corso della sua preparazione. Bersani, che è un velocista dell’analogia, lo possiamo catalogare tra i poeti, ma molti dei miei colleghi sociologi, soprattutto di quelli che si definiscono sociologi generali, ma che io penso siano il più delle volte solo sociologi generalisti, credono di fare i filosofi, ma sono solo dei letterati mancati e, secondo Praz, dei tapini (Guido Martinotti).

 

Eduard Limonov, Eddie-Baby ti amo, Salani 2005.
Eddie è ovviamente Eduard, l’autore. Il romanzo è un pezzo di vita vissuta negli anni 50, nella Russia ucraina

 

di Kruschov. Autobiografia e cielo grigio. Freddo e cemento. La consolazione è la vodka, che gli operai la chiamano ‘storcigrugno’, perché nessuno la manda giù senza fare smorfie. Nubi ghiacciate in cielo e senso di impotente rabbia nelle strade. Lo Zingaro spiega a Eddie perché, secondo lui, loro vivono nel clima ‘più merdoso della terra’. ‘Perché i nostri antenati slavi erano dei fottuti vigliacchi, e’ per questo che invece di conquistarsi coraggiosamente le terre calde intorno al Mediterraneo dove crescono i limoni, non hanno voluto combattere e sono scappati da infami tra queste nevi di merda’. La salvezza, Eddie, la trova proprio nei limoni. In un futuro da poeta laureato. Si iscrive ad un concorso di poesia nel giorno in cui tutta la sua gang viene arrestata. E’ la solita, bella storia del bravo ragazzo che nasce nel posto sbagliato ma che alla fine si salva. Anche a Char’kov é possible (Giulia Gavagnin).

 

Raniero La Valle, Quel nostro Novecento. Costituzione, Concilio, Sessantotto: le tre rivoluzioni interrotte, Ponte delle Grazie 2011.

È l’ultimo scritto di Raniero La Valle, figura di riferimento per tante persone che cercavano di capire qualche cosa del mondo (e di sé stesse) negli anni sessanta, settanta e anche dopo. Giornalista, scrittore, parlamentare molto indipendente, La Valle condensa in trentatré pagine (sono un discorso tenuto lo scorso febbraio), con grazia, dolcezza, leggerezza, la sua visione del secolo passato, di cui è stato per tanti aspetti protagonista. Superati i disastri del fascismo, della
guerra, della shoah, della bomba atomica, il 900 di La Valle è caratterizzato da tre eventi, la Costituzione, il Concilio, e il Sessantotto, rimasti tutti incompiuti, e che tuttavia possono essere lasciati alle nuove generazioni come “gli attrezzi e le speranze  che noi abbiamo avuto nel Novecento, sapendo però che saranno loro a decidere che cosa farne, e anche come dotarsi di attrezzi

nuovi”. Le trentatré pagine sono accompagnate da una serie di glosse, ciascuna delle quali un racconto di esperienze che coinvolgono la vita personale nella vita di tutti (Gherardo Colombo).

 

Edoardo Nesi, Storia della mia gente, Bompiani 2010.

L’anno scorso “Canale Mussolini” di Pennacchi, quest’anno “Storia della mia gente” di Nesi: quando lo Strega tornerà a premiare un pezzo di vera fiction? A me va bene così, perché storie di famiglia, ricostruzioni di contesti al confine con la social history, biografie o autobiografie mi piacciono di più della fiction. Ma è singolare questa sequenza: gli italiani non sanno più scrivere veri romanzi? Quanto all’aggancio alla persona e al contesto, ma soprattutto ai problemi economici e sociali di oggi, il libro di Nesi va ben oltre Pennacchi e può anche essere letto come un appassionato pamphlet protezionistico in difesa delle piccole imprese italiane – si tratta del distretto di Prato – travolte dalla globalizzazione: vi si può leggere un intero capitolo dedicato a criticare uno dei più noti fautori della globalizzazione, Francesco Giavazzi. Naturalmente non
va letto in questo modo. Oltretutto di Giavazzi e soci non critica le conclusioni, probabilmente inevitabili, ma l’atteggiamento di scarsa simpatia e comprensione per le fatiche della “sua gente”. A questa gente Nesi erige un monumento, straordinariamente evocativo e commovente (Michele Salvati).

 

Marguerite Yourcenar, Mémoires d’Hadrien, Gallimard, 1974

L’imperatore Adriano, alla fine della sua vita, guarda indietro e la ripercorre. Riflette sull’amore, la politica e la filosofia. E un romanzo storico, pubblicato nel 1951. Adriano, malato terminale, sa che la morte è vicina e cerca di trovare un filo tra i suoi ricordi per identificare l’essenza di se stesso come uomo privato e uomo pubblico. Questo percorso è solitario ed intimo, ma allo stesso tempo ne traspare la coscienza della sua missione pubblica. Adriano sa di avere un destino collettivo legato alla storia classica e al futuro di Roma. Un tema di grande importanza e attualità (Lucrezia Reichlin).

 

Françoise Waquet, Les enfants de Socrate. Filiation intellectuelle et transmission du savoir. XVIIe-XXIe siècle, Paris, Albin Michel, 2008.

L’autrice è una delle più grandi studiose delle tradizioni intellettuali e delle “sociétés savantes” tra 700 e i nostri giorni. Il libro è dedicato ai rapporti maestro – discepolo e ripercorre tutte le tradizioni, nelle diverse culture, in base alle quali vengono stabilite genealogie e filiazioni
intellettuali. È un libro dottissimo e di straordinario interesse, ma anche scritto in maniera affascinante, che conduce per mano il lettore nelle vicende della formazione dell’alta cultura in Europa nel corso di più di tre secoli. Il libro mostra, per così dire, i laboratori da cui derivano i grandi intellettuali, illustrando gli stili e le tradizioni: le lezioni inaugurali, gli studi in onore, le strategie dei discepoli, la fedeltà e i tradimenti, la fabbricazione delle “parentele scientifiche”, i modi di trasmissione del sapere, il modo di costruire una scuola, e tante altre cose quotidiane della vita della cultura. Gli esempi e le illustrazioni sono tratti dai più diversi rami del sapere. Un libro che è piacevole leggere e che permette di entrare nella fabbrica dei cervelli (Sabino Cassese).

 

 

Questo quarantunesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel dicembre del 2011 in duecento copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – ma non sempre integralmente – il pensiero dell’autore. Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.

I Testi Infedeli escono dal 1989. Ringrazio Salvatore Giannella, Marina Nespor, Pasquale Pasquino, Serge Richter e Giulia Gavagnin.