N. 39 inverno 2010

IN QUESTO NUMERO

Oltre al breve pezzo introduttivo dedicato all’attualità (ma sono parole di oltre sessanta anni fa), c’è prima di tutto un ricordo di Claudia che ci ha lasciato nell’agosto di quest’anno, con la quale ho percorso una parte della mia vita: piccoli momenti tratti dai tanti viaggi che abbiamo fatto insieme. Poi una biografia minima dedicata a un eretico che molti considerano il primo martire della libertà di stampa; un  brano con considerazioni suggerite da una tragedia di Sofocle e un libro di Stefan Zweig; un ricordo su un episodio di molti anni fa in Puglia e un brano di un teorico del possibilismo scientifico.

Ci sono poi, come al solito, molte poesie: di Inge Muller,  un’autrice troppo a lungo dimenticata e di due poeti italiani, Giorgio Mannacio (già noto ai lettori dei Testi Infedeli) e Gilberto Centi; e anche due poesie in forma di canzoni che mi sembra abbiamo qualcosa di indefinito in comune, di Francesco Guccini e dei Pearl Jam.

Infine, la parte dedicata ai libri che i lettori dei Testi infedeli suggeriscono di leggere.


LA VIA DELLA RESURREZIONE

Voi mettete oggi in prima linea le necessità materiali. È comprensibile, tenuto conto del disastro che abbiamo lasciato alle spalle. Eppure, lasciate che io metta in prima linea il lato morale. È lì la premessa di ogni resurrezione.

Abbiamo bisogno di una lunga e tenace educazione civile che ci liberi di un triste passato e che dia agli italiano il senso civico della serietà morale.

Dal discorso rivolto per radio al popolo italiano il 23 giugno 1945 da Ferruccio Parri, capo del Governo dal 21 giugno  al 10 dicembre 1945. X

 

FRAMMENTI DI VIAGGIO CON CLAUDIA

(1971-1980)

Una Gilera 125 sotto la pioggia sulle strade della Scozia e dell’Irlanda

Lo sbarco nella notte e la salita a Santorini

In moto sugli argini del Po e le anguille a Comacchio

I giorni sul treno in India

L’arrivo a Rameshwaran, città senza luce elettrica costruita sulla sabbia e poi il traghetto dall’India a Ceylon

La notte degli elefanti di Candy

La vecchia signora inglese di Madras che odiava gli indiani

La sosta a Delhi, a casa di Roberto con Nicoletta

Il viaggio in autobus da Katmandu alle falde dell’Annapurna

Il tramonto su una spiaggia di Oaxaca

La notte di un 20 dicembre nei sacchi a pelo su un carro al lato di una strada nello Yucatan

Il natale a Merida e l’incontro con una ragazza americana con un piccolo bambino

Il campeggio a Tikal vicino alle piramidi Maya

Il viaggio da Milano a Creta per salvare il condannato a morte dai colonnelli greci (che non voleva essere salvato).

I campeggi in Nuova Scozia e in Labrador

La discesa nel Grand Canyon

Il reduce dal Vietnam a Orono nel Maine che mangiava purée di patate fatto con latte in polvere e patate liofilizzate ricevute come sussidio ai veterani

Il trekking ai confini della Birmania

Pulau Perenthian in Malesia e il ragazzo che pescava pesci per gli acquari americani.

Half Moon Bay e le balene

Il grand hotel Olofson a Port-au-Prince e la maga di Haiti

I giorni sulla spiaggia a Giamaica.

La sosta per tre giorni, capodanno compreso, sulla strada in Bassa California, al confine tra Messico e Stati Uniti, per il crollo della strada.

E poi, qualche anno dopo, con Ben:

Il giro in barca a New Orleans

La vacanza a Maui.

 

UNA BIOGRAFIA MINIMA

Étienne Dolet nasce a Orléans nel 1509. Studia prima a Parigi, poi a Padova. Nel 1530 è segretario dell’ambasciatore di Francia presso la repubblica di Venezia. Tornato in Francia, compone opere poetiche  e si dedica alla traduzione di testi latini. È affascinato dalla scrittura di Cicerone: ne imita lo stile nell’opera Dialogus de imitatione Ciceroniana e lo difende polemizzando con Erasmo. Nel 1538 fonda una tipografia dove stampa opere di amici (Cottereau, Claude Fontaine, Marot), trattati di medicina, autori latini (Virgilio, Svetonio e l’amato Cicerone), ma anche molti libri di argomento religioso, tra cui una traduzione della Bibbia in francese ad opera di Pietro Robert, un protestante di Ginevra noto come Olivetano.

Nel corso di una perquisizione vengono trovati nella tipografia molti libri proibiti di Calvino e opuscoli di Melantone e di Savonarola. È arrestato nel 1542 con l’accusa di eresia ed è liberato dopo oltre un anno di prigionia. Si rifugia in Piemonte ma, inspiegabilmente, decide di tornare in Francia dove è nuovamente arrestato e trasferito a Parigi. Qui nell’agosto del  1546 è torturato, strangolato e bruciato a Place Maubert (luogo destinato al supplizio dei condannati per eresia). Nel 1889 fu eretta una statua in suo onore – abbattuta nel 1944 dai tedeschi – per ricordare uno dei primi martiri della libertà di stampa.

Dolet compone durante la prigionia il noto pentametro: Non dolet ipse Dolet, sed pia turba dolet. Scrive di lui Richard Copley Christie: non aveva scritto nulla che contestasse l’autorità della Chiesa e non era certamente un simpatizzante di Lutero o di
Calvino; non desiderava altro che essere lasciato  in pace a coltivare i suoi studi e a pubblicare i suoi autori latini.  Purtroppo, è vissuto in un tempo che non consentiva tutto ciò.

Cinquant’anni prima, quando ancora la Chiesa non aveva deciso che qualsiasi forma di progresso era un gesto sovversivo della sua autorità, Dolet sarebbe stato considerato uno dei rinnovatori della letteratura francese e avrebbe potuto diventare un ambasciatore, o forse addirittura un cardinale.

La biografia di Richard Copley Christie Étienne Dolet. The Martyr of the Renaissance. 1508-1546: A Biography, pubblicata nel 1889 a Londra da Macmillan, è stata recentemente ripubblicata in copia anastatica da Elibron Classics. Una raccolta delle poesie è stata pubblicata nel 2009 a Ginevra da Droz: Etienne Dolet: Carmina (1538) a cura di Catherine Langlois-Pézeret.

 

CINQUE POESIE DI INGE MULLER

Quando ci incontrammo

Quando ci incontrammo
In una strada laterale dei nostri percorsi
Sentivi paura della vita
Sentivo paura della morte
Vedemmo il cielo rosso
Avvolgerci soffice come una coperta di lana
E ci riscaldammo per un attimo.

L’attimo durò sette estati. Quando levammo gli occhi
Il tempo era già trascorso.

Amore dopo Auschwitz

Era amore

Quando venni da te

Perché dovevo

Era amore quando ti lasciai

Perché sapevo.

L’antica vergogna è falsa vergogna.

Qui non fu d’aiuto alcun dio né alcuna compagnia

E andai.

Guardai me e te

E guardai gli altri

E non bastava ancora

Qui non fu d’aiuto alcuna separazione.

 

Il mio amore

 

Lei, sempre integra

Mi ha dilaniato

Mi ha dato dei nomi

I nomi li ho dimenticati.

 

Gioia

 

Quello che io penso prima che sia pensato

Quello che io faccio prima che sia fatto

La mano nella sabbia

Forgiando un pensiero senza senso

Via da una strada verso l’altra

Cielo tra terra e terra.

 

Li ho visti: Uomini

 

Senza Dio. Abbandonati

E silenziosi.

Esserlo non lo sarò più.

È molto

Se si ricordano.

E niente letteratura.

Inge Müller è nata a Berlino il 13 marzo 1925. Nel 1955 sposa Heiner Müller, uno degli intellettuali più in vista nella DDR (la Germania comunista). Insieme scrivono drammi radiofonici e pièces teatrali e insieme ricevono nel 1959 il Premio Heinrich Mann, il massimo riconoscimento letterario della DDR.

Inge Muller, dopo vari falliti tentativi, si uccide il 1° giugno 1966. Solo nel 1976 alcune sue poesie sono pubblicate in PoesieAlbum, la rivista che per molti anni fu il punto di riferimento più importante dei giovani poeti della DDR. Nel 1985, a vent’anni dalla sua scomparsa, esce, a cura di Richard Pietrass, la raccolta Wenn ich schon sterben muss. Ci sono due biografie di Inge Muller: Ines Geipel, Dann fiel auf einmal der Himmel um, Henschel Verlag 2002 e Sonja Hilzinger, Das Leben fängt heute an, Aufbau Verlag 2005.

LA QUINDICESIMA MINIATURA

In Sternstunden der Menschheit. Zwölf historische Miniaturen Stefan Zweig descrive i momenti che considera decisivi nella storia del mondo. Compaiono così Vasco Nuñez de Balboa, il sultano Murad, Rouget de Lisle, il generale Grouchy, Johann August Suter, Cyrus W. Field, il capitano Scott ed altri ancora, tutti personaggi – noti o sconosciuti – che, per ragioni diverse, e spesso in maniera casuale, hanno mutato la storia dell’umanità.

C’è però un momento altrettanto decisivo, che precede di molto tempo quelli considerati da Zweig. Se ne occupa Sofocle nella tragedia Filottete.

È il decimo anno della guerra di Troia.

Una profezia rivela che i Greci non vinceranno e Troia non cadrà senza la presenza di Filottete, abbandonato sull’isola di Lemno a tradimento dieci anni prima, ferito e sofferente, con il suo arco sacro regalatogli da Eracle.

Neottolemo, il giovane figlio di Achille, si reca così con Odisseo a Lemno per convincere Filottete a farsi portare a Troia con l’arco sacro e, garantendogli falsamente di essere venuto per riportarlo in patria,  riesce a farsi consegnare l’arco. A questo punto, è costretto a rivelargli la verità.

FILOTTETE: Che intendi fare di me?

NEOTTOLEMO: Salvarti da quest’isola e andare con te a saccheggiare Troia.

F.: Me infelice, mi hai tradito. Perché lo hai fatto? Ridammi l’arco.

N.: Non è possibile: giustizia e convenienza mi inducono ad obbedire a chi ha il potere.

Inizia così il lungo lamento di Filottete che insulta, supplica, blandisce, alterna rimproveri, contumelie e
tentativi di persuasione: Filottete non vuole andare a Troia ad aiutare quelli che lo hanno abbandonato, vuole restare sulla sua isola deserta, continuare la sua vita nascosto e ignorato da tutti, fuori dal mondo con il suo arco, senza il quale la sua sopravvivenza è impossibile.

Ed eccoci al momento decisivo.

Filottete è interrotto da marinai che hanno accompagnato Neottolemo ed a lui si rivolgono:

Coro: Che facciamo? Signore, devi prendere una decisione, se portare a termine il nostro compito o ascoltare le parole di Filottete.

N.: Mi è venuta una pietà terribile per lui

F.: Abbi pietà, ragazzo, non far sì che la gente d’ora in poi ti disprezzi per avermi tradito.

N.: Che devo fare? Non fossi mai venuto qui.

F.: Tu non sei malvagio, hai solo imparato a comportarti male da cattivi maestri. Ribellati, ridammi l’arco e vattene.

N.: Che facciamo, compagni?

Dobbiamo immaginare che a questo punto Neottolemo si avvicini esitante a Filottete, accennando forse un movimento per restituirgli l’arco.

In questo breve istante, le sorti di tutto il mondo che conosciamo e la nostra stessa presente esistenza restano in bilico.

Dai pochi secondi che seguono, lì, nella grotta dell’isola di Lemno, non dipende solo la sorte della guerra di Troia.

Dall’esito di questo primo scontro tra Occidente e Oriente dipende il destino della Grecia e  il luogo dove si svilupperà la storia futura: se Neottolemo restituisce l’arco e Troia non cade, neppure Roma, l’impero romano e il potere della chiesa sull’Europa
per molti secoli verranno ad esistenza. Noi tutti oggi forse parleremmo un dialetto anatolico.

Sofocle ci mostra che la storia futura del mondo dipende non da grandi disegni divini o dalla potenza politica e militare dei popoli che si scontrano, ma da

scelte casuali, affidate a personaggi insignificanti, irresponsabili e spesso crudeli.

Qui, la scelta è affidata a un giovane combattuto tra pietà e comprensione e il rispetto degli ordini ricevuti. Prevarrà un vecchio malato, sofferente, ferito e abbandonato, ma dotato di una straordinaria forza morale, oppure un personaggio ancora non comparso sulla scena, meschino e furfantesco (Odisseo), che agisce sicuro di essere l’espressione della volontà divina sicché tutto deve essergli permesso (prototipo di personaggi che i secoli seguenti ci hanno abituato a conoscere)?

Non lo sapremo mai. L’entrata in scena di Odisseo mentre Neottolemo è ancora incerto, e poi dello stesso Eracle fanno sì che Filottete parta per Troia con il suo arco sacro.

Troia cadrà, e il mondo sarà quello che conosciamo.

 

Il libro di Stefan Zweig Sternstunden der Menschheit. Zwölf historische Miniaturen è pubblicato postumo nel 1943 (nel febbraio del 1942 Zweig, fuggito dall’Austria a seguito dell’avvento del nazismo, e rifugiatosi in Brasile, si era suicidato a Petropolis con la moglie, ritenendo ormai ineluttabile la vittoria di Hitler, pochi mesi prima che se ne delineasse, invece, la inevitabile  disfatta). Cinque miniature erano già state pubblicate nel 1927 a Berlino. Altre due, aggiunte in una edizione inglese del 1940, hanno portato il totale
delle storie a 14. La traduzione italiana, con il titolo Momenti fatali, è pubblicata nel 2008 da Adelphi.

Il Filottete può essere letto con testo a fronte nell’edizione della Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori 2003 con traduzione di Giovanni Cerri e una affascinante introduzione di Pietro Pucci. X

 

DUE POESIE DI GIORGIO MANNACIO

Il peso delle piume

 

Impara a vivere con le ombre.

Sono creature

Anomale della luce, congetture

Sui confini dell’esistenza.

La loro inconsistenza è una catena

Tenace, anello

Tra memoria e progetto

Non è il respiro che ne dissolve

Il silenzioso, gentile aspetto

Ma una amara, invincibile nostalgia.

Così senza fare alcun cenno

Volano via.

 

Moonrise

 

La leggerezza

Di una carta velina variegata

Solleva in aria – l’aria è senza vento –

Il cerchio di una luna stralunata.

Oceani e mari senza movimento

Abbiamo finto per la passione

Di uno sguardo distratto e assorto

Che vuole dare senso a una visione.

Ogni viaggio è un ritorno

Sul riflesso innocente della luce

Indietro nella memoria dell’origine

Che all’estasi del vuoto ci conduce.

 

Da La periferia dell’impero, Edizioni del leone 2010.

 

Giorgio Mannacio, nato in Calabria vive a Milano, dove è stato giudice fino al 2004. Ha scritto numerose raccolte di poesie tra cui Comete e altri animali (1987), Preparativi contro tempi migliori (Aleph 1993) e Visita agli antenati (Philobiblon 2006). Alcune sue poesie sono state pubblicate nei Testi infedeli dell’inverno del 2006. X

 

POSSIBILISMO SCIENTIFICO

Quando arriviamo ai confini di tutto ciò che sappiamo ed abbiamo appreso con le scoperte scientifiche degli ultimi 400 anni, scorgiamo territori inesplorati. Lì c’è anche la spiegazione del mistero della nostra strana esistenza: la materia nera, le multiple dimensioni spaziali e temporali, il rapporto tra massa e energia.

Può darsi che, prima o poi tutto sarà chiarito. Ma può anche essere che ci siano spazi sottratti per sempre alla nostra possibilità di conoscenza.

Tutto ciò dovrebbe suggerire a uno scienziato di astenersi da conclusioni definitive. La complessità di questo universo impone di mantenere aperte tutte le possibilità: si può propendere per una spiegazione sull’origine e lo scopo dell’universo piuttosto che un’altra, ma bisogna sempre riconoscere che sussiste un margine di incertezza.

Sulla base di queste considerazioni, io non posso considerarmi un ateo.

D’altro canto, non aderisco certamente ad alcuna religione tradizionale, trattandosi di costruzioni realizzate da uomini del passato che riflettono i pregiudizi, il razzismo, l’ignoranza e spesso la follia dei loro creatori.

I libri sacri di queste religioni sono stati scritti da persone che nulla sapevano del DNA, delle galassie, della teoria dell’informazione, dell’elettricità, del big bang. Gli autori dei libri sacri non immaginavano neppure l’esistenza di altre culture  e di altri territori oltre a quelli, ristretti, in cui vivevano.

Così, sappiamo troppo poco per aderire pienamente all’ateismo e sappiamo troppo per aderire a una
qualsiasi religione. Per questo, io sono un possibilista scientifico. Il possibilista scientifico non preclude alcuna possibilità che non sia dimostrata falsa e non combatte nessuna idea se sia apparentemente infondata, ma esplora attivamente tutte le nuove possibilità offerte dal progresso scientifico. Ovviamente,  possibilismo non  significa accettare qualsiasi teoria, anche assurda. Noi sappiamo già molto non solo sul cosmo e le molecole, ma anche sulla capacità umana di fabbricare storie fantastiche, di creare memorie inventate.

In ogni generazione, la gente pensa di possedere tutti gli strumenti necessari per spiegare l’universo.

Ogni generazione si è finora sbagliata.

Per questo io suggerisco meno pretese di certezza e più capacità di esplorare lo spazio delle possibilità.

 

Da David Eagleman, Why I am a possibilian, in New Scientist settembre 2010. Eagleman è un neuroscienziato, insegna a Houston, Texas. Ha scritto Sum, Forty tales from the afterlife, 2009 dove sono brevemente descritte 40 possibilità di quel che può succedere dopo la morte. X

 

L’ATTESA

 

Vivevo con parecchi sogni e pretese al mio paese.

Decisi di partire un giorno – in mezzo al vento.

Innumerevoli soste. Anni di viaggio.

Arrivammo che il treno s’era arrugginito.

C’era il tramonto

scendemmo in mezzo a un mare di farfalle.

quando si fece notte poggiammo le valigie

e sedemmo aspettando.

voci incontrollate davano il Corteo vicino

alcune a un giorno di distanza,

altre a una settimana.

Tra un falso allarme e l’altro si passò l’estate.

A metà autunno il Corteo s’intravide in lontananza.

Poco dopo natale raggiunse la pianura

dove stavamo assiepati aspettando.

In testa marciava uno che ci assomigliava.

 

Da Gilberto Centi (L’Aquila 1947 – L’Aquila 2000). La poesia è tratta da Duemila Settecento Parole; è pubblicata in  Foglio degli eremiti settembre 2010 (a cura di Salvatore Jemma e Roberto Roversi). X

 

LA SCUOLA DELLA FIRMA

Un giorno il dottor Lamura mi chiamò nel suo studio, circondato da librerie colme di volumi, in occasione della visita di uno dei suoi più cari amici, il giornalista e scrittore Anacleto Lupo, a lungo capo della redazione foggiana della Gazzetta del Mezzogiorno.  Qui mi raccontò la storia del molfettese Gaetano Salvemini e della  “scuola della firma”.

Erano gli anni della ricostruzione politica, economica e sociale: l’Italia sembrava in cammino verso un nuovo domani, un cammino segnato da lotte e da sanguinosi scontri. Il mondo dei braccianti del Sud era tra i settori sociali più in fermento. Si gridava “Braccianti di tutto il Sud unitevi” e contro i latifondisti: “La terra a chi la lavora”. Le campagne in tumulto, cominciarono le prime occupazioni abusive delle terre e violenti scontri con la polizia.

Il ritorno nel 1949 di Salvemini nel Tavoliere dall’esilio americano coincise con quel periodo ricco di speranza.

Racconta Anacleto Lupo: “Il mio incontro con Salvemini avvenne a Cerignola, nella sede della Cgil, dove si insegnava ai braccianti, quasi tutti analfabeti, a scrivere il proprio nome e cognome per firmare il contratto di assegnazione della terra. Così assistetti alla sfilata dei braccianti che, con le matite in pugno, strette come se fossero palette, provavano e riprovavano a scrivere il proprio nome e cognome, tracciando adagio lettera dopo lettera. Certe ‘a’ e certe ‘o’ schiacciate, che sembravano, come essi stessi dicevano, ‘p’immadori e patane’ (pomodori e patate) e le ‘m’ con le zampe addossate ‘cun’e ppecure’.

Durante una sosta Salvemini chiese: “E ora, da
 quando avete imparato a firmare, vi sentite più sicuri?”. Ci fu un coro di sì e una pioggia di applausi.

Tornato il silenzio, Salvemini riprese: “Si tratta, però, di un piccolissimo passo avanti, sulla strada lunga, dura, faticosa del vostro riscatto dopo un secolare abbandono. Si tratta di voltar pagina, occorre unione. Cambierete il vostro destino solo se starete tutti insieme. Ora, dopo la scuola della firma, dovete continuare a istruirvi, perché i potenti hanno sempre puntato sulla vostra ignoranza. E questo lo sapeva benissimo il vostro compaesano, oggi segretario generale della Cgil. Egli da bracciante diventò deputato e fu la prima voce dei lavoratori della terra a farsi sentire nel Parlamento della Repubblica italiana. Mi riferisco, voi lo avete capito, a Peppino Di Vittorio”.

 

L’11 novembre 1910 nasceva a Trinitapoli Domenico Lamura, destinato a diventare il medico-scrittore del Tavoliere pugliese (tra le sue opere: Terra salda, Adamo e la terra, Lamento per Aldo Moro e altre poesie). Salvatore Giannella per il centenario della nascita di Lamura ha curato il libro  Scrivere storie è seminare il futuro (Compostudio, Cernusco sul Naviglio) da cui è tratto questo brano. X

 

DIETRO AL BANCO: DUE POESIE

I

La ragazza dietro al banco mescolava
birra chiara e Seven-up,
e il sorriso da fossette e denti
era da pubblicità,
come i visi alle pareti
di quel piccolo autogrill,
mentre i sogni miei segreti
li rombavano via i TIR.

Bella, d’una sua bellezza acerba,
bionda senza averne l’aria,
quasi triste, come i fiori e l’erba
di scarpata ferroviaria
il silenzio era scalfito
solo dalle mie chimere,
che tracciavo con un dito
dentro ai cerchi del bicchiere.

Basso il sole all’orizzonte
colorava la vetrina
e stampava lampi e impronte
sulla pompa da benzina
lei specchiò alla soda-fountain
quel suo viso da bambina
ed io sentivo un’infelicità vicina.

Vergognandomi, ma solo un poco appena,
misi un disco nel juke-box

per sentirmi quasi in una scena

di un film vecchio della Fox,
ma per non gettarle in faccia

 

qualche inutile cliché
picchiettavo un indù in latta
di una scatola di the.

Ma nel gioco avrei dovuto dirle: “Senti,
senti io ti vorrei parlare…”,
poi prendendo la sua mano sopra al banco:
“Non so come cominciare,
non la vedi, non la tocchi
oggi la malinconia,
non lasciamo che trabocchi:
vieni, andiamo, andiamo via.”

Terminò in un cigolio
il mio disco d’atmosfera,
si sentì uno sgocciolio
in quell’aria al neon e pesa,
sovrastò l’acciottolio
quella mia frase sospesa,
ed io…
ma poi arrivò una coppia di sorpresa.

E in un attimo, ma come accade spesso,
cambiò il volto d’ogni cosa,
cancellarono di colpo ogni riflesso
le tendine in nylon rosa,
mi chiamò la strada bianca,
“Quant’è?” chiesi, e la pagai,
le lasciai un nickel di mancia,
presi il resto e me ne andai.

 

II

 

Mi pare di riconoscere il tuo volto
familiare, ma non riesco a collocarlo
Non riesco a trovare il filo del pensiero

Che illumini chi sei
Il passato mi travolge
Tutti questi cambiamenti che sono avvenuti,

vorrei aver visto il posto
ma nessuno mi ci ha mai portato
Sentimenti e pensieri svaniscono nel nulla…

Giuro che riconosco il tuo respiro
I ricordi si sollevano piano
di me, tu non ti ricorderai di certo,

non sono più come prima
è dura quando rimani sola
Sono cambiata restando sempre uguale
La piccola città impone il mio destino
Forse è proprio quello che nessuno vorrebbe vedere…

Voglio solo urlare… “Ciao…
mio dio, è passato tanto tempo, non avrei mai sognato che tu saresti tornato
ma ora eccoti qui, ed eccomi qui…”

Sentimenti e pensieri svaniscono nel nulla…

 

La prima poesia, Autogrill, è di Francesco Guccini; la seconda è dei Pearl Jam, un gruppo musicale rock (secondo gli esperti, la loro musica appartiene al genere grunge-alternative rock) formatosi nel 1990 a Seattle. X


LIBRI DA LEGGERE

José Saramago, Caino, Feltrinelli, 2010.

In questa rilettura dell’Antico Testamento Caino, storicamente conosciuto come la pecora nera dell’umanità, diventa un personaggio umano e un po’ picaresco, in grado di tener testa alla volubilità di un dio capriccioso e irresponsabile nei confronti delle creature da lui stesso create. La mortificazione di fronte al rifiuto dei suoi doni  si tramuta in vendetta  sul fratello Abele.

Attraverso gli occhi di Caino  si snodano tutti gli eventi biblici salienti, dalla cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, al sacrificio di Isacco, dalla costruzione della torre di Babele, alle prove inflitte alla fede del povero Giobbe, dalla distruzione di Sodoma (e dei suoi innocenti bambini)  al tragico epilogo della storia dell’arca di Noè. Nessuno dei personaggi del racconto è migliore o peggiore degli altri.  In un crescendo di reciproche incomprensioni si assiste ad una potente e allegorica messa in scena. Sul palcoscenico  della vita, umani e divini si illudono di agire secondo le stesse regole.

Né vincitori né vinti:  un inaspettato colpo di scena  conclude l’ultimo meraviglioso viaggio in cui ci ha accompagnato Josè Saramago, anche se, come amava ricordare lui stesso “Il viaggio non finisce, solo i viaggiatori finiscono”.

 

Robert Byron, La via per l’Oxiana, Adelphi 2000.

E’ il diario di un viaggio che l’Autore, un esperto di arte bizantina, compie nel 1933, all’età di 27 anni, partendo da Venezia,  attraverso Cipro, Gerusalemme,

Bagdad,  la Persia e l’Afganistan. L’Oxiana è la terra a sud del fiume Oxus (oggi Amu Darya), che all’epoca
segnava il confine tra l’Afganistan e la Russia.Il testo contiene riflessioni di carattere storico e di costume, ma soprattutto si sofferma con spirito critico ed originale sullo studio e descrizione dei monumenti, sulla loro architettura e l’uso dei colori.

Il libro è preceduto da una prefazione di Bruce Chatwin che ha portato il libro di Byron con sé in ogni viaggio dall’età di quindici anni.

 

David Owen, Green Metropolis, Egea 2010 (con una prefazione di Guido Martinotti).

Per molti ambientalisti le grandi città sono fonte di inquinamento e di degrado ambientale: solo la vita nelle campagne o nelle piccole città è una soluzione ambientalmente corretta per un futuro di sviluppo sostenibile. In questa prospettiva New York è, nel mondo occidentale, l’emblema del male, la mostruosità ambientale per eccellenza.

Il  libro di Owen ribalta questo luogo comune e dimostra la falsità di idee frutto di una retorica dell’antiurbanesimo che si sviluppa dalla prima metà del XIX secolo, allorché le concentrazioni urbane sono luoghi malsani e fonte di epidemie, privi di fognature, di luce elettrica e di strade asfaltate.

L’Autore dimostra che, contrariamente all’opinione diffusa, le città, e specificatamente le città a maggior densità di popolazione, offrono la migliore soluzione abitativa dal punto di vista ecologico e ambientale. Questo perché le grandi concentrazioni urbane (delle quali New York è il massimo esempio), sono non il frutto di convenzioni ambientali e di sforzi per ridurre l’impatto ecologico dell’uomo sul pianeta, ma la conseguenza del lento accumularsi di sistemi sempre più efficienti di uso del territorio, dell’energia e delle
 risorse naturali. Certo, è un’efficienza di cui gli abitanti delle grandi città non si rendono pienamente conto.

Un volume che dovrebbe indurre a riflettere sul concetto e sulle pratiche di sviluppo sostenibile su molti luoghi comuni stratificati nelle ideologie ambientaliste e conservazioniste.

Daniel Mendelsohn, Gli scomparsi,  Neri Pozza, 2007.

L’Olocausto è una sterminata foresta di cui si conoscono pochi alberi. La massa dei sommersi cancella nel numero i pochi che si sono salvati. Un giorno a New York un giovane studioso di lettere classiche decide di mettersi alla ricerca di una parte della sua famiglia rimasta in Europa e inghiottita nel gorgo senza lasciar tracce. Quando, dove ed in quali circostanze sono morti Shmiel, il macellaio di Bolechow, uno stethl della Galizia, sua moglie e le sue quattro figlie? Daniel Mendelsohn si mette alla ricerca degli scomparsi per risuscitare nella memoria i frammenti di vita e gli ultimi giorni di questi parenti perduti. Sollecita ed interroga i sopravvissuti sparsi per i continenti, vecchi i cui ricordi si incrociano e si confondono. Ma alla fine verrà condotto, con l’aiuto degli abitanti del posto, fino al buio nascondiglio dove  il macellaio Shmiel aveva cercato invano di sfuggire ai suoi carnefici. Nulla in questa storia o quasi è frutto di fantasia, ma di una diversa qualità umana: l’ostinazione.

 

Sofi Oksanen, La purga, Guanda 2010.

Il romanzo è un cult in Finlandia. Ambientato in Estonia nel 1992, tratta della storia di Alide e Zara, due storie parallele che traggono origine da una tragedia familiare accaduta nei primi anni
dell’occupazione sovietica all’epoca delle purghe staliniane e della resistenza dei partigiani estoni.

Joe Bageant, La Bibbia e il fucile. Cronache dall’America profonda, Mondadori 2010 (ediz. inglese su Kindle).

Un libro per gli entusiasti delle libertà americane, per coloro che credono nel mito della società senza classi che consente a tutti di emergere e che vorrebbero che l’Italia divenisse come gli Stati Uniti.

L’Autore, giornalista del New Yorker, torna dopo molti anni nei luoghi ove ha passato la giovinezza, una zona di povertà, ignoranza e sottosviluppo, senza scuole decenti senza ospedali affidabili.  Qui domina la distorta ideologia della responsabilità personale che nasconde quella che secondo Bageant dovrebbe essere vera e propria lotta di classe: se uno è indebitato, disoccupato, malato senza alcuna forma di assicurazione, deve arrangiarsi ed essere responsabile

del proprio destino, non deve aspettarsi aiuto o sussidi pubblici. L’Autore ritrova gli amici di un tempo, molti dei quali lavorano saltuariamente per pochi dollari all’ora, senza nessuna possibilità di progresso economico e sociale. Ma, e questo è l’aspetto del quale Bageant cerca di offrire una spiegazione, tutti votano Repubblicano, vanno, quando possono, a caccia, e cercano spiegazioni del loro destino in calvinistiche interpretazioni della Bibbia.

Philip Roth, Indignazione, Einaudi 2009 (ediz.inglese su Kindle).

Uno dei più bei racconti lunghi di Roth. Durante la Guerra di Corea il figlio di un macellaio kosher di Newark lascia la famiglia per andare a studiare in un campus dell’Ohio. Lì tra brillanti risultati, amici veri o presunti, un insegnante bigotto e repressivo, è proiettato in un altro mondo, in un’altra America. Una affascinante ragazza piena di problemi lo trascina in un rapporto controverso di libertà e di colpa, mentre il giovane Marcus tenta di difendere la sua autonomia, la sua visione del mondo, il suo rigore, facendo spesso prevalere l’indignazione sul buon senso, fino alla tragica conclusione.

A. Cardinale, A. Verdelli, Il cristianesimo: da culto proibito a religione dell’impero romano. La nascita del potere della chiesa nel IV secolo d.C, Aracne editrice.

Per i discepoli, Gesù era il Figlio di Dio fatto uomo, ma per tutti gli altri ebrei era un personaggio scomodo con obiettivi piuttosto concreti in fatto di potere politico. In ogni caso, quando venne crocifisso come un criminale, i suoi fedeli non erano più di un migliaio.

Poi, nel 313 d.c., quando fu emanato l’editto di Costantino, i cristiani non superavano il 10% della popolazione dell’impero romano. Dopo pochi decenni, alla fine del IV secolo, i cristiani ne costituivano la grande maggioranza ed occupavano posizioni di rilievo in ambito amministrativo, politico e militare.

Cosa indusse Costantino a scommettere sulla minoranza cristiana? Come riuscì un gruppo, per quanto coeso e battagliero, a raggiungere in meno di settant’anni una posizione di egemonia e poi di assoluto predominio? Perché i cristiani, dimenticando le persecuzioni subite, cominciarono a perseguitare eretici, ebrei e pagani?

Il volume si propone di effettuare una ricognizione sull’evoluzione dei rapporti tra chiesa e impero romano nel IV secolo, attraverso l’esame della legislazione, delle dinamiche sociali, dei costumi, delle liturgie, dell’ideologia e della cultura del tempo.

Al lettore la valutazione di quanto ancora oggi tali equilibri continuino a pesare nei rapporti tra Chiesa e Stato.

 Hans M.Enzensberger, Hammerstein o dell’ostinazione, Einaudi, 2010.

Il generale Kurt von Hammerstein, uno Junker prussiano che amava la caccia, fu il capo dello stato maggiore della Reichswehr alla fine della Repubblica di Weimar. Si dimise da quella posizione poco dopo l’arrivo di Hitler alla cancelleria ritirandosi a vita privata. Il libro di Enzensberger racconta la storia sua e della sua famiglia, ostile al nazismo. Le figlie, legate all’intellighenzia ebraica tedesca di sinistra, saranno spie contro il Terzo Reich per il potere sovietico, i figli complotteranno contro il Fuhrer nell’attentato organizzato da Klaus von Stauffenberg nel luglio del 44. In una serie di ammirabili dialoghi  con i morti, l’autore fa rivivere una Germania sommersa che senza avere una precisa coscienza politica seppe mantenere un filo ininterrotto con l’imperativo kantiano della dignità e del coraggio.

 Mohsin Hamid, Il fondamentalista riluttante, Einaudi, 2007 (l’edizione inglese è reperibile su Kindle).

L’Autore, del quale è già stato pubblicato in Italia nel 2002 Nero pakistano, racconta il lungo monologo di Changez, un giovane del Pakistan, rivolto a un americano incontrato – casualmente, ma resta non risolto il dubbio se l’incontro sia davvero casuale – a Lahore: in un inglese perfetto, Changez racconta all’ascoltatore, sempre più in ansia, ma incapace di
sottrarsi all’avvolgente aggressione verbale,  di essere stato inviato dalla famiglia a studiare a Princeton, di essere stato assunto poi a New York da una importante società di consulenza; racconta del suo immediato successo, del suo inimmaginabile stipendio, del suo infelice innamoramento con una giovane newyorkese, di come è stato avvolto e travolto dal sogno americano. Poi, l’11 settembre l’attentato alle Torri gemelle gli cambia improvvisamente la vita.

Quando apprende la notizia, sorride. Poi, di accorge che tutti lo guardano con sospetto, talvolta con odio.

Quando torna in Pakistan, si accorge di come è cambiato e se ne vergogna. Non torna più. Si lascia crescere la barba, raccoglie giovani a cui spiega come sono fatti gli Stati Uniti con toni sempre più aspri  Un lungo monologo di un pakistano ad un americano incontrato casualmente a Lahore. L’americano ascolta il lungo monologo di Changez, senza mai profferire parola, fino alla improvvisa, ambigua conclusione.

 Ford Madox Ford, Parade’s End, Penguin Classics 2001.

Con questo romanzo, pubblicato in quattro parti tra il 1924 e il 1928, Ford avrebbe voluto essere lo storico del suo paese, l’Inghilterra, al sopraggiungere della prima guerra mondiale.

L’opera è in effetti una riflessione su una società che si sta esaurendo, rappresentata dal protagonista, Christopher Tietjens, un brillante esponente dei Tory, proveniente da una ricca famiglia di proprietari terrieri  che, lavorando per il governo, si rende conto della decadenza del sistema dal quale proviene. Il libro costituisce anche una lettura preziosa per la scrittura e

e l’uso della lingua inglese e per la descrizione delle modalità – sgradevoli ma sempre divertenti – con le quali gli Inglesi si trattano l’un l’altro a seconda della
provenienza di classe, lamentandosi poi delle condizioni in cui versa la loro organizzazione sociale.

Ford Madox Ford è autore di un altro capolavoro, The Good Soldier, considerato tra le più importanti opere della letteratura inglese dell’altro secolo.

 Armando Spataro, Ne valeva la pena, Laterza 2010.

La storia di questo paese negli ultimi trent’anni vista da un protagonista della lotta al terrorismo, alla mafia, ai poteri deviati dello Stato. Non c’è pretesa di oggettività, ma ci sono la partecipazione, la convinzione, gli affetti e le (quasi sempre giustificate) antipatie di chi ha vissuto con coraggio e con determinazione molti episodi che hanno segnato la vita di tutti noi.

Alberto Cavallari, La fuga di Tolstoj , Skira 2010.

Nello spazio di soli quattro giorni, quanto durò la fuga di Tolstoj, e di un centinaio di pagine di piccolo formato l’autore ci da un quadro esaustivo del grande scrittore e del suo pensiero. Personalità complessa e contraddittoria, Tolstoj amava la moglie Sof’ja e ne era disgustato, amava i figli e li considerava peccati, voleva la povertà ma viveva con servi e cavalli. “Era stato un grande sognatore, un grande creatore, un uomo selvatico, un apostolo, un ideologo irrequieto: ma nello stesso tempo un puntuale impiegato della propria avventura umana”: ogni mattina gli stessi gesti, gli stessi riti, le stesse cavalcate, le stesse ricopiature su i taccuini.

Il libro prende avvio dalla decisione presa da Tolstoj durante la notte del 28 ottobre del 1910, di fuggire dalla sua casa e dal rapporto con la moglie, un rapporto di odio e amore così simile a quella musica straziante di “Sonata a Kreutzer” in cui violino e pianoforte non possono suonare da soli e tuttavia, in
un continuo conflitto, si inseguono si scontrano e tornano nella calma. Ed è su un treno che Tolstoj fugge, uno di quei treni che lui non aveva mai amato e che erano stati testimoni di tragedie nella sua opera letteraria. In questo caso invece il treno lo affascina, lo affascina il paesaggio, il pensiero che si sta dirigendo al sud dove “persino nelle giornate d’inverno il sole può essere arancione”. L’importante è fuggire e fare tutto il possibile per non essere ritrovato. E poi lo affascina il grande valigione che ha portato con sé: gli ricorda i suoi viaggi, “i momenti magici della sua vita e che ora contiene la sua vita futura”. Una vita futura che non ci sarà perché alla fermata di Astapovo il medico che lo accompagnava si accorse che le sue condizioni di salute erano decisamente peggiorate. Il capostazione offre una stanza e qui, ancora una volta l’opera letteraria di Tolstoj e la sua vita si intrecciano, si intrecciano i destini: il suo, quello di Levin di Anna Karenina e di Nikolaj. Il viaggio sta giungendo al suo termine e Tolstoj che si sta avvicinando alla morte è sereno e detta alla figlia Saša la sua concezione di Dio. Emblematiche quelle che furono probabilmente le sue ultime parole: “Scappare, bisogna scappare”.

Il libro é corredato da un apparato iconografico che contiene fotografie di Tolstoj e della sua famiglia.

 

Le recensioni sono di Daniela Barsocchi, Augusto Bianchi,  Rossella Cardinale, Joseph DiMento, Milena Mottalini, Pasquale Pasquino e Stefano Nespor.

Questo trentanovesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel novembre del 2009 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano. Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore. Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive. I Testi Infedeli escono dal 1989. I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.stefano.nespor.it, curato e aggiornato da Stefano Rossi.

Ringrazio coloro che hanno collaborato alla sezione dedicata ai libri da leggere e inoltre Salvatore Giannella, Marina Nespor, Pasquale Pasquino e Milli Virgilio per i suggerimenti e per la revisione.