N. 6 – 1994

Nuovi mercati

I mercanti hanno cominciato molto tempo fa, occupando sporadicamente la piazza centrale di qualche importante villaggio europeo; oggi, dopo circa otto secoli, hanno occupato il mondo intero.
Il mercato ha vinto; e il socialismo, invece di costituire l’inevitabile sbocco della storia dell’uomo, non è stato altro che l’ultimo serio tentativo, dopo il crollo del feudalesimo, per impedire che la sua mano invisibile racchiudesse tutti gli esseri umani dentro il suo palmo.
Così, solo negli ultimi tre o quattro anni, tre miliardi di individui, in Cina, in India, nel Sud-est Asia, nell’ex Unione Sovietica, sono entrati nell’economia di mercato, entusiasti e baldanzosi. Proprio come c’erano entrati molti altri, qualche tempo prima. E, proprio come è accaduto dalle nostre parti (ricordate la cupa, fangosa, vecchia Manchester del buon Engels?), un mondo sregolato e selvaggio li attende: giornate lavorative di dodici o quattordici ore al giorno, con compensi che non superano i 50 centesimi di dollaro all’ora (è quanto attualmente succede in gran parte dell’India e in Cina), giovinezze senza istruzione, malattie senza ospedali, vecchiaie senza pensioni.

Fatti loro, che c’importa, direbbe a questo punto certamente il leghista o il simpatizzante per la nostra Banda Bassotti governativa nell’improbabile ipotesi in cui legga casualmente queste righe. Inutile spiegare, a questi improbabili e sgraditi lettori, che in pochi decenni milioni di posti di lavoro verranno risucchiati dai paesi sviluppati, e dall’Italia, verso quei luoghi dove il lavoro costa meno, e gli investimenti rendono di più.

Questo porterà una drastica riduzione del numero dei cosiddetti immigrati extracomunitari, con indubbia esultanza dell’improbabile lettore leghista. E, ancora una volta sarebbe inutile frenare la sua esultanza, ricordandogli che molti lombardi sprovvisti di specializzazioni lavorative saranno costretti a emigrare verso i nuovi mercati, alla ricerca di occasioni di lavoro ormai inesistenti nell’Europa felice. Certo, questo scenario potrebbe essere evitato. Ma sarebbe necessario proporre e avviare oggi politiche di lungo periodo di istruzione e educazione superiore, di ricerca e di riorganizzazione del sistema produttivo, in modo che l’espansione del mercato divenga una opportunità e non una sciagura. Solo così si potrebbe oggi difendere il diritto al lavoro della prossima generazione.

Nulla di tutto ciò sarà fatto, naturalmente. Non ci sarà quindi sottratto il doloroso piacere di gustare questa nemesi della storia e di vedere duri discendenti di Bossi e Formentini affollare gli incroci delle strade coreane e thailandesi, immediatamente riconoscibili per la loro lattea pelle, nel tentativo di raggrannellare qualche soldino lavando i vetri delle automobili in transito o percorrere le calde spiagge malesi cercando di piazzare tipici prodotti italiani, come pizzi o vetri soffiati.

I Testi infedeli, dopo un breve intervallo, ritornano alla originaria impostazione autarchica. C’è quindi la consueta raccolta di testi che ho scelto nel corso dell’anno. Come sempre, i testi originari sono stati riprodotti in modo rigorosamente infedele, e sono stati liberamente adattati e manipolati, seppur cercando di rispettare quello che avrebbe dovuto o potuto essere il pensiero dell’autore. Gli autori indicati, poi, corrispondono quasi sempre agli autori effettivi. La mia ignoranza del polacco e del portoghese mi ha costretto ad avvalermi di traduzioni per i testi di Herbert e Saramago.

Ringrazio infine Cristina Morelli, Brenda Sandilans, Lorenza Zanuso e Augusto Bianchi per l’aiuto offertomi, senza il quale i Testi infedeli di quest’anno sarebbero stati diversi.

S.N.

Creazioni: una poesia di Jorge Rossetti 

Creazioni
Prima,
hanno provato con i protozoi.
Sono durati molto, è vero,
centinaia di milioni di anni,
ma, come mondo, non era davvero granché:
I protozoi rimanevano lì, nell’acqua,
si riproducevano, sempre uguali,
e basta.

Poi, hanno provato con i dinosauri.
E’ stato un passo avanti,
e forse avrebbero potuto farcela.
Lo ammetto: hanno avuto sfortuna,
e forse qualcuno in alto ha remato contro.
Però, alla fine, contano i risultati.

E il risultato è che anche i dinosauri
dopo qualche diecina di milioni di anni appena,
sono scomparsi.
Ho capito che avevano bisogno di aiuto,
e allora, ho detto, vi do una mano.
Ma loro, testardi, hanno voluto fare ancora da soli.
“L’incarico è stato dato a noi:
tu occupati dei tuoi mondi”.

E hanno voluto provare con l’uomo.
“Con l’uomo non ce la farete mai” ho detto subito
“Informatevi. Con l’uomo nessuno è mai riuscito
a fare qualcosa di buono”.
Non mi hanno neppure risposto.
E adesso, dopo qualche migliaio di anni soltanto,
sono di nuovo qui,
e mi chiedono aiuti e consigli:
si sono resi conto che c’e una ragione
se i miei mondi funzionano
e sono portati a esempio da tutti.

Ma che si può fare, ormai,
con un mondo conciato in quel modo?

Il destino del mondo

Tanto tempo fa eravamo moltissimi,
in ogni angolo di questo pianeta.
Eravamo i dominatori incontrastati della natura,
della terra, dell’acqua e dell’aria.

Eravamo i dominatori di tutte le altre specie di esseri viventi.
Eravamo i più adattabili
i più resistenti
i più abili
i più intelligenti.

Eravamo il punto più alto raggiunto dall’evoluzione
e probabilmente il suo punto finale.
Solo noi, tra tutti gli esseri,
avevamo l’anima,
perché Dio ci aveva fatto
a sua immagine e somiglianza.

Diventavamo sempre più numerosi.
A un certo punto, eravamo così tanti,
che tutti sono stati contenti
quando finalmente le nascite sono cominciate a calare:
ci sarebbe stato più spazio per ciascuno,
avevamo pensato.

Oggi, dopo molto molto tempo,
sono rimasto io solo,
credo,
su tutto il pianeta.
Non resterò a lungo: sono vecchio,
sento la morte che si avvicina.

Poi, il nulla.
Ma che senso potrà avere questo mondo
e tutto l’universo intorno,
senza noi dinosauri?

Da JORGE ROSSETTI, Creazioni, Ed. Sur, Bogotà 1993.

 

Quattro poesie di Zbigniew Herbert

Resoconti dal Paradiso

La vita quotidiana
In paradiso non è come qui,
lì la settimana lavorativa è di trenta ore
si lavora poco, e si lavora tutti

Ci sono ancora gli operai
e nelle periferie fumano i camini delle fabbriche,
gli stipendi sono mediamente più alti di qui
c’è la scala mobile bimestrale
c’è la pensione dopo trent’anni di lavoro,
gli ospedali sono tutti pubblici
e praticamente gratuiti,
i prezzi calano
soprattutto quelli dei beni superflui
come barche a vela,
videotelefoni portatili,
auto da deserto a quattro ruote motrici;
soprattutto, non ci sono ancora
Berlusconi, Fini, Bossi,
e, soprattutto, non ci sono Ferrara e Sgarbi.

Davvero, per il momento in paradiso si sta meglio di qui.
All’inizio, certo, le cose erano un po’ diverse
c’erano solo cerchi luminosi e cori,
puri suoni e pura luce
amplitudini volanti e astrazione dappertutto
ma poi la gente si è accorta che anche il corpo doveva
risorgere
e andare in paradiso
e qualcuno ha cominciato a portarsi dietro pezzi di carne,
mani, piedi, muscoli, tendini
e poi, pian piano, corpi interi.

Alla fine si è dovuto cedere.
Oggi solo pochissimi vedono Dio
solo quelli ancora fatti soltanto di pura anima
tutti gli altri però restano in contatto
ascoltando notiziari e bollettini,
andando nelle chiese una volta alla settimana
parlando con l’angelo custode,
anche se, un giorno, nessuno sa quando,
tutti potranno vederlo.

Per ora, comunque,
le sirene continuano a ululare dolcemente
e dalle fabbriche escono felici i proletari
gustando il loro panino con la bologna
e portando infagottate sotto il braccio
le loro ali.

Alle porte del paradiso

Dopo che tutte le stelle furono cadute
al termine dell’Apocalisse
si riunirono tutti su prati di ceneri
vigilati da angeli.

In verità non sembravano poi così tanti
come solitamente si pensa
contando anche quelli che devono ancora arrivare
dal lontano passato.

Poi, in fondo, verso la fine della valle
cominciano a levarsi delle grida:
è il grido delle madri a cui vengono tolti i figli,
degli amanti che vengono bruscamente separati,
delle famiglie che, appena riunite, vengono sciolte:
la Redenzione colpisce tutti singolarmente.

Gli angeli sono intransigenti ma umani
ma bisogna riconoscere che fanno un duro lavoro.
Una ragazza implora
nascondimi in un occhio, nel palmo della mano,
tra le braccia
non abbandonarmi adesso
che sono morta e ho bisogno di tenerezza
siamo sempre stati insieme.

Una vecchietta porta
i resti di un canarino
(gli animali erano tutti morti un po’ prima degli uomini)
era così caro – dice piangendo –
capiva tutto quello che dicevo
ma la sua voce si perde nel chiasso generale.

Un taglialegna, un vecchio omone ricurvo
si stringe l’ascia al petto
– per tutta la vita è stata mia
anche adesso sarà mia
mi ha dato da vivere là,
mi darà da vivere anche qui,
non la consegnerò –
Poi ci sono quelli
che a quanto sembra hanno obbedito agli ordini
se ne vanno in fila, nudi, a capo chino
ma nei pugni stretti nascondono
frammenti di lettere,nastri, ciocche di capelli
fotografie
credendo ingenuamente
che nessuno se ne accorgerà
e che riusciranno a tenerle
anche in presenza di Dio.

Caligola

In tutta Roma, non c’era un solo cittadino
degno di essere amato
e allora ho dovuto fare cittadino
Incitatus, il mio cavallo.

E’ stato l’unico cittadino di Roma
che si è sempre comportato bene.
Poi lo ho fatto senatore
e la prima volta che fece il suo ingresso in senato
il candore del suo pelo
riluceva tra tutti gli assassini coperti di porpora.

Incitatus non parlava né profferiva discorsi inutili
come tutti gli altri
era un vero stoico.
Amavo Incitatus a tal punto che un giorno decisi di
crocifiggerlo
ma la sua nobile anatomia non me lo consentì.

Accettò con indifferenza anche la carica di console
non era ambizioso,
esercitava il potere in modo perfetto
ossia, non faceva niente.

Non riuscii a convincerlo a stabilire relazioni d’amore
con la mia amata sposa Cesonia
così non nacque una generazione di Cesari-centauri;
anche per questo, credo, Roma cadde.

Decisi, a un certo punto, di nominarlo Dio,
ma il nono giorno prima delle calende di febbraio
Cornelio Sabino e altri sciocchi me lo impedirono.
Incitatus accolse con calma la notizia della mia morte
fu cacciato dal palazzo
e condannato all’esilio

ma, mi dicono, si comportò con dignità.
Morì senza lasciare discendenti
macellato grossolanamente dalle parti di Anzio.
Della sorte del cadavere
di Incitatus cittadino, senatore, console romano
Tacito non fa parola.

Il sasso

Il sasso è una creatura perfetta
sempre uguale a sé stessa;
è attento ai propri confini
ripieno di buon senso pietroso
con un odore che non suscita ricordi o desideri.

Provo un po’ di rimorso
quando lo tengo chiuso nella mano
e un falso calore gli invade il corpo;
ma i sassi non si lasciano addomesticare
e ci guarderanno fino alla fine
con uno sguardo calmo e freddo.

Da ZBIGNIEW HERBERT, Rapporto dalla città assediata, Adelphi 1993, traduzione dal polacco di Pietro Marchesani.

Il vento il muro e quattro passanti: un racconto di Wolfgang Borchert

C’erano il vento, un muro e quattro passanti.
Il vento è la prima e l’ultima sinfonia del mondo.
Alla fine, quando uomini, governi, musica, motori, guerre, pietre, strade e amore non esisteranno più, quando tutto sarà scomparso, resterà solo il vento. E allora, nelle sere di inverno, il vento continuerà a soffiare sulle gelide distese di neve, nelle sere d’estate continuerà a giocare con i cespugli e nelle sere di primavera a innamorarsi dei fiori, per sempre.

Il muro era antico e diroccato; una volta, aveva fatto parte di una casa. Ora, si ergeva vacillante nell’oscurità del cielo, umile, abbandonato e triste.
Giunse il vento e lo prese dolcemente tra le braccia. L’abbraccio del vento era caldo e delicato, e il muro emise, per la prima volta dopo tanto tempo, un sospiro di piacere.

Ti piace? gli chiese il vento.
Sì, mi piace molto, ma mi sento solo, non servo più a niente.
Ti senti solo perché gli uomini ti hanno dimenticato. Tu li hai sempre protetti, hai riscaldato le loro vite, i loro matrimoni, i loro amori, e loro si sono dimenticati di te. Non curarti più di loro, sono cattivi, fatti abbracciare da me, disse il vento, io ti starò sempre vicino.

Già, gli uomini mi hanno davvero dimenticato. Sono davvero ingrati, si lamentava il muro, facendo accarezzare dal vento tutta la sua superficie.
E allora, vendicati, gli suggerì all’improvviso il vento.

Che cosa vuoi dire? In che modo potrei vendicarmi, chiese il muro.
Un modo c’è: crolla, rispose voluttuosamente il vento. Ti faccio vedere. E, dicendo queste parole, scosse il muro un poco in avanti, facendo scricchiolare le sue ossa irrigidite. Il muro ebbe un brivido di piacere, e, sporgendosi in avanti, intravide, proprio sotto di sé, un gruppo di uomini che passavano in fretta, senza neppure accorgersi della sua tristezza. Si mise a tremare tutto, e domandò al vento: Davvero, io – potrei – crollare?

Ti piacerebbe? Certo che puoi, e, se vuoi, posso aiutarti, sussurrò il vento.
Dopo qualche minuto di silenzio, alla fine il muro si risolse, e con un sospiro disse: Sì, voglio provare, voglio crollare, aiutami tu!

Crolla allora, urlò il vento, afferrandolo con forza tra le sue braccia; e lo scosse, lo piegò, gli si strinse addosso con violenza, lo sollevò lievemente da terra; il vecchio muro si lasciò trascinare senza opporre resistenza, poi, a un tratto, perse l’equilibrio, cominciò a sgretolarsi e, alla fine, con un gemito, si ruppe, sporgendosi in avanti. La strada, sotto, brulicava di uomini ingrati, sleali e indifferenti, uomini per i quali era stato un muro fedele per tutta la vita.

Ma, quando li vide, così piccoli, operosi, diligenti, inutili, il muro dimenticò d’un tratto il suo rancore e il suo desiderio di vendetta: in fondo, era ancora affezionato a quelle piccole creature. E cercò all’ultimo momento di rimettersi in equilibrio.

Ma il vento se ne accorse e, con un’ultima vigorosa spinta, fece rovinare il muro con grande fracasso sulla strada.

Morirono quattro passanti: una donna anziana che, dopo il lavoro, era andata a comprare del cibo per il marito invalido, due bambini che giocavano sul marciapiede con le biglie, e un giovane, appena ritornato a casa dalla guerra.

Mandò un urlo di disperazione il vecchio muro morente e, ormai frantumato, chiese al vento con un ultimo sospiro: Perché me lo hai fatto fare? Tu sai che io volevo bene agli uomini.

Il vento rise, senza rispondere. Rise, perché sapeva che sarebbe finita così, o meglio, perché sapeva che come finivano quel muro e quei quattro uomini era del tutto indifferente. Rise anche perché era senza cuore, il vento. Però, pur essendo senza cuore, non si dimenticò del vecchio muro e dei quattro piccoli uomini ingrati sepolti sotto le macerie, e stette loro vicino per sempre con il suo sibilo invernale, con il suo canto primaverile, con le sue dolci carezze estive.

*Per comprendere il rapporto tra il vento e il muro bisogna tener presente che, in tedesco il muro è un sostantivo femminile (die Mauer), mentre il vento è un sostantivo maschile, come in italiano (der Wind).

Da WOLFGANG BORCHERT, Die traurigen Geranien und anderen Geschichten aus dem Nachlass, Rohwolt Verlag, 1962.
I racconti dell’intera raccolta sono stati scritti tra il 1946 e il 1947 e ne è pubblicata una scelta in traduzione italiana e con una introduzione di Roberto Rizzo da Guanda, Opere, Parma 1968.

Walter Benjamin: Il Giudizio Universale

C’è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Si vede un angelo che sembra stia allontanandosi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’Angelo della Storia ha questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove a noi appare una catena di eventi che conducono al momento presente, l’Angelo vede solo catastrofi, e l’accumularsi incessante di morti su morti, di rovine su rovine che si rovesciano ai suoi piedi. L’Angelo talvolta vorrebbe fermarsi, ricomporre il disastro, ridestare i morti; ma è sospinto da una tempesta che lo spinge avanti, verso il futuro, l’Angelo non può vedere il futuro, cui volge le spalle, ma solo il cumulo di rovine che sale verso il cielo.
La tempesta è ciò che noi, stando nella posizione dell’Angelo, chiamiamo progresso.

*

Per comprendere ciò che ci accade oggi, è necessario anticipare ciò che ci accadrà domani. Anticipare non significa predire, perché il futuro non è ineluttabilmente scritto nel presente. L’anticipazione è una sorta di profezia che denuncia l’ emergenza dell’attualità.
Questa è la conoscenza storica, che non può comprendere il senso che il passato può avere per noi, se non a condizione di avere coscienza dell’avvenire e di ciò che il presente significa per l’avvenire.

Reciprocamente, il presente ha senso solo in rapporto al passato, o, piuttosto, a questo o quel particolare passato che esso prolunga e che in esso si riproduce, e che noi riusciamo a percepire.

Perché il passato ci è trasmesso attraverso una tradizione che seleziona gli avvenimenti conservandone alcuni e tralasciandone altri. E’ la storia dei vincitori, che si trasmette con continuità di generazione in generazione. Per rimetterla in questione, è necessario rompere la continuità in un punto determinato e da quel punto gettare uno sguardo nuovo sul passato e salvare la storia dei vinti.

La dimensione politica della conoscenza del presente è indissociabile da una visione morale, da un senso di responsabilità verso un passato e un avvenire.

La storia non testimonia un movimento irreversibile di progresso; anzi, la fede nel carattere ineluttabile del progresso storico dimostra una incomprensione della vera natura della storia. La storia è il luogo, in ogni istante, di un conflitto sempre rinnovato tra la tendenza alla continuità e il sorgere, dall’infinità dei possibili, del nuovo.

L’esito di questa lotta tra continuità e rottura, tra ripetizione e rivoluzione è sempre incerto, anche se si contrappongono forze ineguali, perché l’inerzia, in virtù della quale si perpetua la continuità, non può essere rotta se non da qualcosa di radicalmente nuovo, da una rottura della temporalità prevedibile.

È un evento che può accadere in ogni istante, perché ogni istante del tempo fa apparire un nuovo stato del mondo: la differenza qualitativa di ogni istante, di ciascun frammento di tempo, porta sempre con sé un fattore di novità. Il vero storico agisce allora sforzandosi di comprendere e liberare il nuovo che ogni istante di passato contiene. Le sorti della storia si giocano quindi nel presente dello storico. All’opposto dell’idea marxista o dell’idea cristiana della fine della storia, che si basa su una concezione quantitativa e accumulativa del tempo storico, l’utopia sorge in ogni istante nel cuore del presente: è lì, e non alla fine dei tempi, che si svolge il giudizio universale: ogni attimo è l’attimo del giudizio finale sugli attimi che lo hanno preceduto

Da WALTER BENJAMIN, Passagen-Werk, Suhrkamp Franfurt\Main, 1982; traduzione italiana: Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi Torino 1962 e da STEPHANE MOSÈS, La storia e il suo angelo, Anabasi, Milano1993.

José Saramago: Rivelazione

Chiese Gesù a Dio: Sto aspettando che tu mi dica quanta morte e quanta sofferenza costerà la Tua vittoria sugli altri falsi dei, con quante morti si pagheranno le lotte che, nel tuo nome e nel mio, gli uomini che crederanno in noi scateneranno.
Davvero vuoi saperlo? – disse Dio.

Davvero – rispose Gesù.

Ebbene, ci sarà una chiesa che tu fonderai, questa chiesa si diffonderà nel mondo, oltre i confini che tu ora conosci, e si chiamerà cattolica perché sarà universale. Ma questo non eviterà discordie e dissensi.

Ma gli uomini saranno più felici? – lo interruppe Gesù

Più felici non direi; avranno una speranza di felicità, la felicità di vivere nel cielo dove io vivo eternamente, la speranza di vivere per sempre con me.

Tutto qui? – chiese Gesù.

Ti pare poco, vivere per sempre con me? – rispose irritato Dio.

La speranza di vivere per sempre con te – corresse Gesù – per questa speranza, gli uomini moriranno.

Moriranno per me e per te, ma ricorda che gli uomini sono sempre morti per gli dei, persino per dei falsi e menzogneri. Che male c’è se ora muoiono per un dio vero?

E allora, vuoi dirmi quante morti costerà la tua vittoria sui falsi dei? – chiese ancora Gesù.

Ebbene, la chiesa che tu fonderai dovrà essere scavata nella carne, le sue fondamenta saranno un cemento di rinunce, lacrime, dolori, torture, di morti, tutte quelle che puoi immaginare, e anche quelle che non riesci neppure a immaginare.

Finalmente parli chiaro – disse Gesù.

Cominciamo da quelli che conosci. il pescatore Simone sarà crocifisso come te, ma a testa in giù, Andrea su una croce a forma di x, Giacomo sarà decapitato. Poi, tra i tuoi amici, ci sono un certo Bartolomeo che sarà scuoiato vivo, un Tommaso, ammazzato a colpi di lancia, un altro Simone, segato a metà, un altro Giacomo, lapidato, un Mattia, decollato; poi sarà una storia interminabile di ferro e sangue, di fuoco e ceneri, di sofferenze e lacrime.

Racconta, voglio sapere – disse Gesù.

Dio allora cominciò in ordine alfabetico: Adalberto di Praga, ucciso con uno spuntone a sette punte, Adriano, ucciso a martellate sopra un’incudine, Afra di Strasburgo, bruciata viva, Agapito di Preneste, morto sul rogo appeso per i piedi, Agata di Sicilia, morta con i seni recisi, Agricola di Bologna, trafitto dai chiodi, Alfegio di Canterbury, bastonato con un osso di bue, Anastasio di Salona, impiccato e decapitato, Ansano di Siena, eviscerato, Antonino di Pamiers, squartato, Apollinare di Ravenna, ucciso a mazzate, Apollonia di Alessandria…. vuoi che continui?

Sì, continua.

Dio continuò, ma, finita la lettera d, cominciò ad abbreviare il più possibile: Elifio di Rampillon, segata la calotta cranica, Emanuele, trafitto da chiodi (con un chiodo da un orecchio all’altro), Emerita, bruciata, Emilio di Trevi, decapitato, Erasmo di Gaeta, dismembrato, e così, dopo alcune ore, arrivò a Wilgefortis,crocifissa.

È tutto? disse Gesù.

No, questi sono solo i martiri. Ci sono poi tutti quelli che perdono la vita non con il martirio, ma con la rinuncia, quelli che nessuno vuole uccidere e che, allora, corrono incontro alla morte, castigandosi per il corpo che ho dato loro, e senza il quale non saprebbero dove ficcare l’anima: rinchiusi in celle e monasteri, ritirati in grotte e caverne come bestie, arrampicati in cima a colonne. Si chiameranno con nomi diversi: agostiniani, benedettini, bernardini, certosini, gilbertini, e così via.

Hai finito? chiese ancora Gesù.

No. Ci saranno poi massacri, carneficine, stragi, crociate: milioni di persone che credono in me e in te saranno uccise. In aggiunta, saranno uccise milioni di persone che non credono in me e in te da quelli che ci credono. Poi, ci sarà l’Inquisizione, e ti dico subito che cos’è: moriranno diecine di migliaia di uomini e soprattutto di donne uccise da coloro che rappresenteranno me e te sulla terra. La terra si riempirà di urli di dolore, il fumo degli arsi vivi offuscherà il sole, il loro grasso sfrigolerà sulle braci, e tutto avverrà per me e per te.

Perché continui ad associarmi a te? Io non faccio che quello che tu vuoi. Io non voglio tutte queste morti: Padre, allontana questo calice da me – disse Gesù.

No: che tu lo beva è la condizione per il mio potere, per il mio piacere, e per la tua gloria.

Non voglio questa gloria.

Ma io voglio il potere e il piacere. Sei costretto a farti crocifiggere, e a ricevere la tua gloria.

Allora il Diavolo, che aveva assistito silenziosamente a tutta la conversazione, disse: Bisogna proprio essere Dio per amare tanto il potere, il piacere e il sangue.

Da JOSÉ SARAMAGO, O Evangelho segundo Jesus Cristo, Editorial Caminho, Lisbona 1991; traduzione italiana dal portoghese di Rita Destì, Il vangelo secondo Gesù, Bompiani Milano 1993.

 

Quattro poesie di Wendy Cope

Definizione del problema

Non ti posso perdonare.
Eppure, non riesco a trattenermi dall’amare
ciò che pensavo che tu fossi prima di conoscerti.

Perdite

Il giorno in cui se ne andò fu terribile;
la sera, sembrò un inferno.
Il problema era la sua assenza,
o il fatto che si fosse portato via anche il
cavatappi?

Poema sul gatto

Il mio gatto è morto;
ho deciso di non farne una tragedia.

La fine del mondo

Presto una grande esplosione
eliminerà ogni traccia di vita su questo pianeta,
compresi quelli che non capiscono
l’importanza della mia poesia.
Gli sta bene.

Da WENDY COPE, Serious Concerns, Faber & Faber, Londra 1992.

Due poesie di Valery Larbaud: Mormorii della coscienza

Il dono di se stesso

Mi offro a tutti, senza esserne richiesto.
Come una ricompensa prima ancora di essere meritata;
Ma posso farlo solo perché c’è qualcosa dentro di me
qualcosa di infinitamente arido
qualcosa senza eco,
ma qualcosa che vede e che sente;
qualcosa con una sua vita propria
che però vive anche tutta la mia vita e ascolta, impassibile,
il mormorio della mia coscienza.
E’ un qualcosa fatto di niente,
insensibile alle mie sofferenze
che non piange quando piango,
che non ride quando rido,
che non si indigna se mi comporto male
e non si addolora quando il mio cuore si rattrista;
resta sempre immobile e non da consigli,
ma dice sempre: sono qui, indifferente a tutto.
Potrebbe essere qualcosa di vuoto come è il vuoto,
così grande che non riescono a riempirlo
il bene e il male messi insieme.
L’odio muore soffocato,
e il più grande amore non penetra mai.
Dunque, potete prendere tutto da me.
Non certo quello che si legge,
né quello che io dico,
ma quello che si percepisce senza che io lo voglia:
prendete, prendete: non avrete nulla.
Dovunque io vada,
incontro sempre
fuori di me
dentro di me
il vuoto.

Sonora Palace Hotel

Quante volte ho pensato a quelle lacrime,
le lacrime del supremo Inca dell’impero ignorato
per così tanto tempo, sugli altopiani ai bordi lontani
del Pacifico – quelle lacrime, quelle povere lacrime
nei grandi occhi rossi che supplicavano Pizzarro e
Almagro.
Ho pensato a quelle lacrime allorché da bambino,
mi soffermavo
a lungo, in un triste museo di Lima
davanti a quel quadro storico, ufficiale, terrificante.
Si vedono le donne dell’Inca, distrutte dal dolore,
che chiedono di essere uccise con lui e lì,
circondato da preti, croci e ceri accesi,
Atahualpa, disteso sulla garrota
con il suo torso bruno denudato, e il viso dimagrito
di profilo
mentre i conquistadores pregano al suo fianco,
pii e feroci.
E’ uno dei molti strani crimini della storia,
prodotti dalla maestà della legge e dallo splendore
della chiesa,
crimini così prodigiosi e orrendi
che non si può credere che non continuino
eternamente
in qualche posto, al di là del mondo visibile.
E forse anche in quel quadro rivivono
sempre lo stesso dolore, le stesse preghiere, le
stesse lacrime.
E forse, in questo stesso momento
in cui sono solo e scrivo
in una stanza del Sonora Palace Hotel
in qualche posto in questo albergo,
in una camera sfolgorante di luce elettrica
silenziosamente questa stessa terribile scena
si compie esattamente
come, quattrocento anni fa, a Caxamarca.
– Che a nessun avventore capiti di sbagliare stanza!

Da VALERY LARBAUD, Poèmes par un riche amateur ou Oeuvres francaises de M.Barnabooth, in Oeuvres complètes, Gallimard Pleiade 1955.

Considerazioni di Theodor Adorno: Ricordi, menzogne e altro

Ricordi

L’idea che i ricordi siano l’unico possesso che nessuno può toglierci appartiene all’armamentario di chi ricerca un impotente conforto sentimentale, e vuol far credere agli altri che il suo ripiegamento nell’interiorità e la sua rinuncia all’affermazione costituiscano la sua improbabile realizzazione.

In realtà, la rivendicazione del valore della costituzione di un archivio di se stesso comporta un implicito sequestro del proprio patrimonio di esperienze, che viene congelato e trasformato in una proprietà delimitata e immobilizzata: una specie di insignificante arredo della propria anima. Proprio quando divengono davvero un oggetto di proprietà, e quando sono ritenuti definitivamente come tali, i ricordi sbiadiscono come tappeti delicati esposti alla luce del sole.

I ricordi, invece, non si sistemano in cassetti: in essi infatti, se sono veri ricordi, il passato si intreccia continuamente e ineluttabilmente con il presente. E nessuno ne può disporre, né può programmare le imprevedibili modalità con le quali essi si intrecciano con il presente. Nessun ricordo è indifferente al futuro di chi lo possiede: nessun passato è garantito dalla maledizione e dalla torbida fiumana del presente.

Frutta nana

Ai poveri è la disciplina altrui che impedisce di pensare; ai ricchi, la propria.

Primo e unico principio dell’etica sessuale: l’accusatore ha sempre torto.

La pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento.

Menzogne

La menzogna non è mai immorale, quando trasmette l’indegnità di un assetto sociale o di un insieme di rapporti personali che costringono a mentire per sopravvivere, con l’alternativa tra ripetere ossessivamente che il vero valore è quello della sincerità, e cioè del passivo, torpido adeguamento alla realtà, oppure affrontare lo sforzo di organizzare la ribellione di sé contro tutti.

La fragile nobiltà della menzogna è quindi quella di esprimere la ribellione alle imposizioni sociali, confessando nel contempo la debolezza di non aver la forza di abbatterle.

Non tutte le menzogne, naturalmente, sono uguali.
Solo coloro che condividono l’indegnità dell’assetto sociale e l’immoralità dei rapporti personali che l’assetto sociale impone riescono a mentire con abilità e spudoratezza.

Essi usano la moralità della menzogna per conservare o acquisire posizioni di privilegio sfruttando le pieghe tenebrose di quei rapporti sociali, dei quali la menzogna dovrebbe mettere a nudo l’indegnità.

In questo caso la menzogna diventa davvero immoralità, perché ha perso la sua nobile funzione di ingannare: chi mente non vuole ingannare nessuno, prima di tutto perché – come tutti coloro che cercano il consenso – gli è indifferente che cosa la gente pensi, e poi perché sa che comunque, qualsiasi cosa dica, tutti lo credono.

Solo gli individui più sensibili all’indegnità dalla quale sono circondati invece mentono maldestramente.

E, in questo caso, la menzogna maldestra denota una profonda moralità verso l’altro: il desiderio di segnalare e di trasmettere, con l’offerta di essere scoperta e svergognata, la vacuità dell’imposizione sociale, e quindi, insieme, il desiderio di partecipazione al di fuori di questa imposizione.

In questo caso, la menzogna va alla ricerca della verità, e la verità può spesso essere percepita solo attraverso la menzogna.
In questo senso, la menzogna è potente strumento di moralità quotidiana.

Da THEODOR WIESENGRUND ADORNO, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschadigten Leben, Suhrkampf Verlag, Francoforte 1951. L’edizione italiana è nei Saggi Einaudi, 1954, con traduzione di Renato Solmi.

Crediti

Questo settimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato in 300 esemplari fuori commercio nel 1994, come sempre da Rolando Motta, nella tipografia Bianca & Volta di Trucazzano.