N. 10 inverno 1996

Una poesia di Bob Dylan

Chi ha ucciso Davey Moore?
Certo non io, dice l’arbitro, non guardate me.
È vero, avrei potuto fermare prima l’incontro,
e forse lo avrei salvato.
Ma pensate alle proteste degli spettatori,
avrebbero voluto avere indietro i loro soldi.
Mi spiace che sia morto,
ma dovevo tener conto degli altri,
delle istruzioni ricevute.
No, io non lo ho ucciso,
non ho niente da rimproverarmi.
Non noi, dicono gli spettatori,
è davvero un peccato che sia morto,
ma noi volevamo solo un match di pugilato,
non c’è niente di male in questo.
Non volevamo certo che lui morisse,
No, non lo abbiamo ucciso noi,
non abbiamo nulla da rimproverarci.
Non io, dice il suo manager
fumando il suo sigaro.
Che ne sapevo del difetto al cuore?
Io ho sempre pensato che stesse bene,
se era malato, avrebbe dovuto dirmelo.
Con tutto il tempo e i quattrini che ho investito
doveva dirmelo se non poteva fare a pugni.
No, io non lo ho ucciso,
non ho niente da rimproverarmi.
Non io, dice il bookmaker,
non sono io che lo ho colpito,
le mie mani non hanno mai picchiato nessuno,
sono contrario a ogni violenza.
Avevo anche scommesso su di lui, quella sera.
No, io non lo ho ucciso,
non ho niente da rimproverarmi.
Non io, dice il giornalista sportivo,
mentre scrive sul suo computer
che la boxe non va condannata,
che non è certo più pericolosa del rugby.
E scrive che fare a pugni non si può proibire,
è lo sport dei veri uomini,
degli uomini coraggiosi.
No, io non lo ho ucciso,
non ho niente da rimproverarmi.
Non io, dice il pugile che lo ha hanno abbattuto
Lo ho colpito, ma sono pagato per questo.
Non si dica omicidio, non si parli di uccidere,
è stato il destino, è stata la volontà di Dio.
Chi ha ucciso Davey Moore?

BOB DYLAN, Who killed Davey Moore?, da Song Book, Londra 1974.

Il nuovo mondo

Ulisse non salva dai Lotofagi, da Circe, dalle Sirene solo la sua possibilità di ritornare e il suo futuro. Salva la sua identità e la sua memoria.
Salva la possibilità di ricordare, l’impronta del passato e il progetto del futuro. È la possibilità di ricordare che permette di fare senza dimenticare, di diventare senza smettere di essere, di essere senza smettere di diventare.
Così, più o meno, scriveva Calvino nell’agosto del 1975.

Ma davvero deve essere letta in questo modo la storia di Ulisse?
Calvino trascura il fatto che il viaggio di Ulisse non è un viaggio di andata, un viaggio verso il futuro senza dimenticare il passato: è un viaggio di ritorno, obiettava Edoardo Sanguineti.
Il futuro di Ulisse è il suo passato: tutto ciò che di nuovo Ulisse incontra e tutti gli sforzi che compie sono solo per tornare al punto di partenza.
Questo ambiguo incrocio tra avventura e rinuncia, tra ricerca e paura della novità contrassegna un’opera che sta alla radice della nostra civiltà.
Ulisse vince le tentazioni e le lusinghe, si aggrappa alla sua memoria del passato, non per andare avanti, ma per tornare indietro.

Ulisse non salva dai Lotofagi, da Circe o dalle sirene il suo passato: perde il suo futuro, perde il nuovo per ritornare al vecchio. Ma allora Lotofagi, Circe e Sirene non rappresentano il rischio, il pericolo e il male, come a tutti noi hanno insegnato a scuola: sono occasioni perdute di rotta verso l’ignoto.

Fin dall’inizio della nostra educazione impariamo così che la rivoluzione e il cambiamento sono pericolose possibilità da accantonare.
Ulisse rifiuta queste occasioni non perché non ne comprende e non ne apprezza la novità, ma perché le considera ostacoli sulla strada del vecchio.
Il suo desiderio è tornare al punto di partenza, come se il tempo non fosse passato. La sua avventura si compie quando il cerchio si chiude.
Il futuro di Ulisse è la restaurazione, la sua saggezza è la ripetizione.
Questo significa che alla base della nostra civiltà e della nostra cultura sta la saga del ritorno, non la saga della scoperta.

Anche la scoperta del Nuovo Mondo non è altro che un infortunio sulla strada del vecchio: il progetto di Colombo, non diversamente da quello di Ulisse, era un viaggio circolare, un ritorno su sé stesso e sul proprio passato.
E questo è il modello di futuro che ha assorbito la nostra cultura. Per questo, chi vuole davvero cambiare, e non ritornare, è sempre vissuto come un corpo estraneo, come un pericolo.

Anche Dante, che a prima vista fa di Ulisse un eroe moderno, proiettato verso l’avventura, la scoperta, il cambiamento, riprendendo non l’eroe dell’Odissea, ma l’eroe del mito dell’Ultimo Viaggio, non fa in realtà altro che confermare il segno negativo della ricerca di un futuro diverso dal proprio passato. Ulisse infatti non torna dall’ultimo viaggio: va verso l’ignoto, ma l’ignoto non lo realizza, lo divora. Chi va verso l’ignoto, chi esce dal cerchio, chi cerca il futuro, chi cerca “vertute e conoscenza” è perduto.

S.N.

Tre scritti di Borges

Il principio

Due uomini stanno conversando.
Non sapremo mai i loro nomi, né sapremo il luogo e il tempo in cui la conversazione si è svolta
Forse in Africa, molto tempo fa.
Anche il tema del dialogo non ci è noto.
Talvolta, i due uomini sembrano alludere a miti o divinità nelle quali entrambi non credono davvero.
Le ragioni che adducono a sostegno delle loro tesi ci sembrerebbero oggi piene di errori e prive di logica.
Non polemizzano. Non vogliono né persuadere, né essere persuasi, non pensano né a vincere né a perdere.
Sono d’accordo su una sola cosa: la discussione che stanno facendo è una via per giungere a una verità.
Liberi da dio, dal mito, dalla metafora, dalla magia, per la prima volta due uomini cercano di pensare insieme.
Questa conversazione tra due sconosciuti è il fatto più importante della nostra storia.

Capodanno

La simbolica attenzione
con cui si sostituisce una cifra
con la cifra che segue,
l’inutile metafora
che per una sola volta all’anno convoca
l’attimo che muore e quello che sorge,
il compimento di un processo astronomico
di cui si ignorano le esatte caratteristiche
non sono sufficienti
a scavare nella magia di questa notte
e non sono sufficienti
per farci sentire quest’obbligo ricorrente
di attendere i dodici rintocchi.
La vera causa di questa attesa
è il sospetto dell’enigma del tempo, è lo stupore
che ogni capodanno si polarizza su un miracolo:
malgrado l’inesorabile scorrere del tempo,
qualcosa perdura in noi,
immobile.

Moby Dick

Nel 1851 Melville pubblicò Moby-Dick, il romanzo infinito che ha decretato la sua gloria. Pagina dopo pagina, il racconto si ingrandisce fino ad occupare la misura del cosmo. Dapprima il lettore può supporre che l’argomento del libro sia la miserabile esistenza degli arpionatori di balene; poi che sia la follia del capitano Achab e il suo inseguimento della Balena bianca che sfianca tutti gli oceani del pianeta; poi che sia la Balena bianca, simbolo dell’irraggiungibile meta dell’uomo. Infine, il lettore si rende conto che l’argomento del libro sono Achab e la Balena insieme. Presi isolatamente, sono due travolgenti personaggi di un libro che non ha eguali: sono entrambi il Male e sono entrambi il Bene, sono entrambi la Volontà, l’Ordine, la Violenza. Presi insieme, sono lo Specchio dell’Universo.
Per insinuare che il libro è un simbolo, Melville dichiara ostinatamente che non lo è: “Nessuno deve considerare Moby Dick come una allegoria”.
Tutti i critici preferiscono limitarsi a una interpretazione morale. Per esempio, Forster osserva che “il tema spirituale del Moby Dick è una battaglia contro il Male, prolungata con eccesso o in maniera erronea”. In questo modo, il simbolo viene reso comprensibile all’interno di una prospettiva religiosa, ma viene distrutto nella sua potenza. Perché la Balena forse suggerisce anche che il cosmo è intimamente malvagio, ma certo ne rappresenta la vastità, l’inumanità, la enigmatica stupidità, l’indifferenza quindi a qualsiasi valutazione morale.
È in quell’universo, che tutti gli altri scorgono addolcito dalla morale e dalla religione, che Achab riesce a penetrare, e in cui, attratto e respinto da Moby Dick, ma alla fine ad essa avvinghiato per l’eternità, gioca la sua vita e il suo destino, diventandone parte e attirando e trascinando tutti gli uomini dell’equipaggio, che abbandonano o dimenticano la loro morale, salvo – significativamente – Queequeg, l’uomo primitivo, che tutti considerano al di fuori della morale e della civiltà.
Queequeg è l’unico che fugge, che sceglie di morire prima del contatto finale tra Achab e Moby Dick, prima della rivelazione finale del segreto del cosmo.

JORGE LUIS BORGES, Capodanno è tratto da Fervor de Buenos Aires (1923); Il principio è tratto da Atlante (1984); Il brano su Moby Dick si trova all’interno di una prefazione al racconto Bartleby di H.Melville, pubblicato nel 1944.

Due blues di Enzenberger

I

Che qualcosa vada fatto e subito
lo sappiamo benissimo;
ma sappiamo benissimo anche
che è ancora troppo presto per farlo
o che è già troppo tardi per farlo.
E che comunque a noi va bene
e che comunque per noi tutto va avanti
e che nulla ha uno scopo preciso
e che tutto ha uno scopo
lo sappiamo benissimo.
Che noi siamo colpevoli
Che non possiamo farci niente
Che siamo colpevoli per non poterci fare niente
Che non dovremmo sentirci colpevoli
tutto questo, lo sappiamo benissimo
Che noi non possiamo aiutare nessuno
e che nessuno può aiutarci
questo lo sappiamo benissimo
Che noi siamo contro la repressione
e che le sigarette diventano sempre più care
questo lo sappiamo benissimo
Che non c’è in fondo niente di nuovo
e che la vita è bella
e che tutto è diverso da come viene detto
questo lo sappiamo benissimo
questo lo sappiamo benissimo
questo lo sappiamo benissimo
e sappiamo anche benissimo
di saperlo bene.

II

Non possiamo lamentarci.
Abbiamo molto da fare
Siamo sazi.
Mangiamo.
Cresce il prodotto sociale
Cresce il conto in banca.
Cresce l’Europa unita.
Cresciamo.
Le strade sono vuote.
La porta blindata è ben chiusa.
L’automobile è lavata.
La televisione è accesa.
Mangiamo il prodotto sociale
Mangiamo le unghie delle dita
Mangiamo il nostro passato
Mangiamo.
Non abbiamo nulla contro nessuno.
Non abbiamo nulla da dire.
Non abbiamo nulla da nascondere.
Abbiamo.

HANS MAGNUS ENZENSBERGER, Gedichte 1950-1985, Suhrkamp Francoforte 1986.

Il Diavolo

È assai pericolosa la tolleranza che c’è al giorno d’oggi in merito al lassismo di molti fedeli sull’esistenza del diavolo. Il diavolo è l’avamposto della fede cristiana in territorio nemico e quindi è il punto più vulnerabile; infatti coloro che si avviano a divenire miscredenti iniziano sempre col dubitare della sua esistenza.
Una persona, quando comincia a pensare che il diavolo non esiste, è su una strada pericolosa.
Quasi tutti, per esempio, sono ormai d’accordo nel negare al diavolo una precisa dimora. L’Inferno è per lo più considerato come una metafora dei tormenti di una cattiva coscienza, insuscettibile di localizzazione.
Tutto è ridotto ai rimorsi.
A furia di trattare così un personaggio che svolge un ruolo chiave nella storia dell’umanità e del cristianesimo, per forza si arriva a perdere la fede.
Una religione sta per estinguersi quando i suoi aderenti, invece di insistere orgogliosamente e dogmaticamente sui più ridicoli o incomprensibili articoli del credo che i loro antenati avevano accettato con audace e sottomessa esultanza, cominciano a interpretarne e ad attenuarne la portata. Infatti, non è tanto l’opinione del singolo individuo quanto quella di tutte le persone che lo circondano che crea quell’atmosfera di sicurezza grazie alla quale i dogmi più assurdi sono stati trasmessi di generazione in generazione.
Se nel tormentare un peccatore il diavolo gode anche solo la metà di quanto gode Dio, che prima si è preso la briga di creare l’uomo, e poi di inventare tutto un sistema di cavilli per giustificarsi di averlo consacrato al tormento eterno, la sua ricompensa deve essere considerevole.
Tiberio, Bonaparte o Castlereagh non hanno mai fissato una ricompensa per chi scopre o provoca le cospirazioni paragonabile a quella che Dio ha previsto per incentivare il Diavolo a tentare, tradire e accusare l’infelice umanità. Questi due personaggi hanno stipulato un accordo in base al quale il contraente più debole (il Diavolo) ha accettato di accollarsi tutto l’odio derivante dalle imprese comuni e permesso al contraente più forte di presentarsi come una persona per bene, a condizione di avere una partecipazione in quella che è la passione di entrambi, bruciare gli uomini per l’eternità.
Il lavoro sporco viene svolto dal Diavolo, in cambio di una parte del bottino.
Certo che indurre in tentazione l’umanità perché si meriti la dannazione eterna deve essere per Dio e per il diavolo un piacere fondato su quel gusto gratuito del tormento che raramente si osserva se non in tempi molto antichi. Molti dicono che a Dio non piaccia, ma questa è solo una scusa per salvare la faccia, perché Dio può decidere ogni cosa e non ha nessun bisogno di dannare qualcuno se non ne ha voglia.
Il Diavolo, tutto sommato, ha una scusa migliore, perché, essendo fatto da Dio, non può avere tendenze che non gli siano state originariamente impiantate dal suo creatore, né può avere più potere di quello che gli è stato assegnato da Dio. Sarebbe quindi altrettanto ingiusto lamentarsi con il Diavolo perché si comporta male quanto con un orologio perché non funziona bene: i difetti sono da imputare all’orologiaio in quest’ultimo caso, a Dio nel primo.
Un altro segno del lassismo che dilaga in merito al Diavolo riguarda la porzione di umanità che viene dannata. Una mia amica molto devota ritiene che i dannati siano circa diciannove su venti persone.
Infatti, oltre ai cristiani che commettono qualche grave peccato e non hanno l’accortezza di pentirsi in tempo (basta un momento prima di morire, secondo la migliore dottrina, quindi i dannati non dovrebbero essere molti) tutti i non cristiani, e anche tutti i cristiani che non appartengono alla setta giusta di cristiani dovrebbero essere dannati.
Questa dottrina però sembra essere stata definitivamente abbandonata: sembra infatti difficile pensare che un Papa possa incontrarsi in pubblico con un rabbino, sapendo che costui sarà preda del demonio con tutto il suo popolo. Ma se anche un rabbino, e magari un muezzin, possono salvarsi, si può poi ammettere che vada all’Inferno un cristiano della giusta setta, per qualche peccatuccio?
Anche sul numero dei Diavoli le idee si sono fatte poco chiare.
Sul fatto che i diavoli siano tanti, e che circolino per il mondo in squadre di sei o sette alla volta, concordano tutti gli esperti più antichi.
Per esempio, vi era un gran numero di Diavoli in Giudea al tempo di Gesù Cristo: quest’ultimo, trovandosi un giorno vicino a Gadara, cacciò una intera legione di Diavoli in un branco di maiali che, indispettiti, si buttarono in un lago e annegarono. Era un gruppo di suini di nobili sentimenti: dovendo vivere in stretta compagnia dei Diavoli, hanno preferito non vivere affatto. Non si sa invece che fine abbiano fatto i Diavoli: se siano tornati all’Inferno o siano invece rimasti in acqua è questione che l’Evangelista ha lasciato aperta a eterne congetture. Chi per certo ci ha rimesso sono stati i porcai, delle cui esigenze Gesù non tenne alcun conto.
Oggigiorno, però, si ritiene che i Diavoli circolino isolati e clandestinamente e che la loro attività sia oscura e difficile da individuare.
Nessuno pensa più di poter intercettare un intero gruppo di Diavoli, né tantomeno di inserirli in un branco di maiali: dubito che moderni porcai, se si fossero ritrovati con tutti i loro maiali annegati avrebbero trattato con analoga indulgenza chi ne avesse provocato la morte ficcandoci dentro un branco di Diavoli.

PERCY BYSSHE SHELLEY, On the Devil and Devils. Lo scritto è dell’autunno del 1819; non è stato inserito dalla moglie, Mary Godwin, nella prima raccolta delle sue opere di Shelley per timore delle reazioni in Inghilterra. In P.B.SHELLEY, Opere, Einaudi-Gallimard, Torino 1995.

Il gioco del possibile

Le opere del 16esimo secolo dedicate alla zoologia sono spesso illustrate con immagini di animali che popolano qualche sconosciuta zona della terra E si trova così la minuziosa descrizione dei cani con la tesa di pesce, di uomini con gambe di pollo, di donne con teste di serpente. Questi esseri, fino al sedicesimo secolo, sono appartenuti non al mondo dell’immaginazione, ma al mondo della realtà.
Molti asserivano di averli incontrati e ne offrivano una descrizione dettagliata. Questi mostri vivevano accostati agli animali che tutti potevano vedere e toccare quotidianamente. Erano dentro i limiti del possibile.
Anche trasformazioni e metamorfosi sono appartenuti al mondo della realtà e del possibile.
Centovent’anni dopo Darwin si resta convinti che la vita, se si è sviluppata in qualche posto dell’universo, debba aver riprodotto animali simili a quelli che ci sono sulla terra e debba necessariamente evolversi verso esseri che assomigliano agli uomini o al mondo terrestre.
Queste fantastiche creature, antiche e recenti, mostrano come la nostra cultura maneggia il possibile e ne traccia dei limiti. Gli uomini creano un dialogo continuo, e in continua trasformazione, tra ciò che potrebbe essere e ciò che è. Un sottile insieme di credenze, di conoscenze e d’immaginazione costruisce davanti ai nostri occhi l’immagine, in continuo movimento, del possibile.
È con questa immagine che noi confrontiamo i nostri desideri e le nostre paure; è con riferimento a questa immagine che noi modelliamo i nostri comportamenti. Molte attività umane, le arti, le scienze, la tecnica, la politica non sono altro che modi particolari, ciascuno con sue proprie regole, di giocare il gioco del possibile.
Da molti anni, molte accuse vengono rivolte agli scienziati.
Vengono accusati di essere senza cuore e senza coscienza, di non interessarsi al resto dell’umanità, di essere individui pericolosi che non esitano a forzare i limiti del possibile per scoprire mezzi di distruzione e a servirsene per aumentare il proprio prestigio personale o per perseguire il loro interesse.
Ma la proporzione di imbecilli e di malfattori è una costante, che si ritrova in qualsiasi segmento di una determinata popolazione, tra gli scienziati come tra gli agenti di assicurazione, tra gli scrittori come tra i contadini, tra i preti come tra gli uomini politici.
Però, tutte le catastrofi e i crimini della storia sono il prodotto più dell’imbecillità dei preti e degli uomini politici che dell’imbecillità degli scienziati.
Perché non è solo l’interesse personale che scatena catastrofi. È anche il dogmatismo. Niente è così pericoloso come la certezza di aver ragione. Niente ha provocato tanta distruzione e tante morti come l’ossessione di una verità considerata come assoluta. Quasi tutti i crimini della storia sono la conseguenza di qualche fanatismo. Molti massacri sono stati compiuti in nome della virtù, della vera religione, del vero Dio, del legittimo nazionalismo, della giusta ideologia, per combattere le false verità del nemico, per annientare Satana. Ben pochi massacri sono stati compiuti dagli scienziati in nome della vera scienza o per far trionfare una verità scientifica.
Non sono le idee della scienza che sviluppano o utilizzano le passioni, sono le passioni che, talvolta, utilizzano la scienza. La scienza non conduce al razzismo o all’odio. E l’odio che si appella alla scienza per giustificare il razzismo.

***

Più che come una continuità, vedo la mia vita come un susseguirsi di persone diverse, estranee l’una dall’altra.
Vedo dapprima il bambinetto coccolato e vezzeggiato da tutti che gioca da solo e si diverte a deformare le parole che impara.
Vedo poi l’adolescente vanitoso e ambizioso, un po’ incapace con le ragazze. Poi, lo studente di medicina che si prepara a una tranquilla vita di chirurgo. Sostituito, subito dopo, dal combattente delle Forze francesi libere spedito in Africa e il poveretto che torna a Parigi straziato dai colpi di granate.
Tutta una combriccola di personaggi che si avanza in fila indiana.
E faccio fatica a immaginare che tutte queste persone rispondano presente al nome di Francois Jacob.

FRANCOIS JACOB, Il primo brano è tratto da Le jeu des possibles, Parigi Fayard 1981; il secondo da La statue intérieure, Odile Jacob 1987.

Due poesie di Heinrich Heine

Una donna

Si volevano molto bene,
lei era una bricconcella, lui faceva il ladro.
Quando lui faceva qualche colpo,
lei si buttava sul letto e rideva.
Le giornate passavano felici e piacevoli,
la notte lei dormiva sul suo petto.
Quando vennero per portarlo in prigione,
lei corse alla finestra e rideva.
Lui le mando a dire: “Vieni a trovarmi,
ho tanta voglia di vederti,
ti chiamo e ti cerco, qui in prigione”
Lei scuoteva la testa e rideva.
Poi, alle sei del mattino lui è stato impiccato
e alle sette è stato sepolto;
già alle otto lei beveva del buon vino rosso e rideva.

Topi

Nel mondo ci sono topi affamati,
vanno in giro in cerca di cibo.
Vanno per miglia e miglia
senza mai sostare o perdere tempo: non li ferma né il vento né il maltempo.
Scalano le montagne,
attraversano i mari a nuoto.
Molti annegano o si rompono l’osso del collo
quelli che ce la fanno
lasciano i morti alle loro spalle.
Hanno grugni terrificanti
hanno la testa tutta rasata
rattescamente e radicalmente pelata.
La masnada dei ratti
non sa nulla di dio,
dei valori cristiani,
delle pensioni di anzianità
dell’europa unita.
Non battezza i propri nati,
si dice che mangi i propri nemici
ed anche i propri amici, quando ha fame.
Ciò che conquistano è di tutti,
tutto, pensate, viene tra tutti diviso.
Mangiano e si ingozzano,
non si preoccupano dell’immortalità dell’anima,
dello stato assistenziale,
della riforma della scuola.
Non hanno beni, non hanno denaro,
si augurano solo distruzione e saccheggi.
I ratti migratori, orribile!
Sono già nelle vicinanze
Avanzano, io già sento il loro fischio – sono legioni.
Il Presidente, il Senato, i Generali
scuotono la testa, non sanno che fare.
Non resta che scappare.
Mentre scappiamo, cittadini, correte alle armi,
Preti, suonate le vostre campane.
Sono in pericolo i costumi,
le tradizioni del nostro paese,
lo stato di diritto, lo stato sociale,
la proprietà.
Nessuno vi aiuta ormai,
non servono né campane,né preghiere, né meditate legislazioni,
né sacrifici comuni, né eurotasse,
né acrobatiche coalizioni.
Non si acchiappano i ratti coi sillogismi.
Son giunti. Eccoli qua.

HEINRICH HEINE, Samtliche Werke in vier Banden, Leipzig Philipp Reclam Verlag.

Crediti

Questo decimo volume di Testi Infedeli è stato stampato in 300 copie fuori commercio nel dicembre del 1996 da Marco Capodaglio nella tipografia Cinque Giornate srl.